Lenin e la filosofia

Louis Althusser

 


Questo breve, ma importante documento, raccoglie il testo della comunicazione presentata dal filosofo francese Louis Althusser il 24 febbraio 1968 a Parigi alla Société Française de Philosophie.
Si ringrazia Gennaro Cosentino per la trascrizione.


 

 

Mi sia consentito ringraziare la vostra Società per l’onore che mi ha fatto, invitandomi a presentarle quella che essa chiama, da quando esiste, e continuerà probabilmente a chiamare ancora a lungo, con un termine di disarmante nostalgia: una comunicazione1.


I.


A buon diritto uno scienziato presenta una comunicazione davanti a una società scientifica. Una comunicazione e una discussione non possono essere che scientifiche. Ma allora, una comunicazione filosofica e una discussione filosofica?

Comunicazione filosofica. Un’espressione che avrebbe certamente fatto ridere Lenin, di quel riso pieno e aperto dal quale i pescatori di Capri riconoscevano che era uno della loro stessa razza e parte. Era giusto sessant’anni fa, nel 1908. Lenin stava allora a Capri, in compagnia di Gorki, di cui apprezzava la generosità e ammirava l’ingegno, ma che trattava tuttavia da rivoluzionario piccolo-borghese. Gorki l’aveva invitato a Capri per discutere di filosofia con un gruppetto d’intellettuali bolscevichi di cui condivideva le tesi, gli Otzovisti. 1908: era l’indomani della prima Rivoluzione d’Ottobre, quella del 1905, il riflusso e la repressione del movimento operaio, lo smarrimento fra gli «intellettuali», anche fra gli stessi intellettuali bolscevichi. Buona parte di quest’ultimi aveva formato un gruppo, conosciuto nella storia con il nome di Otzovisti.

Politicamente gli otzovisti erano estremisti, per misure radicali: ritiro (otzovat’) dei rappresentanti dalla Duma, rifiuto di tutte le forme legali d’azione, passaggio immediato all’azione violenta. Ma queste affermazioni estremiste mascheravano posizioni teoriche di destra. Gli Otzovisti si erano lasciati conquistare da una filosofia alla moda, o da una moda filosofica, l’«empiriocriticismo», di cui il celebre fisico austriaco Ernst Mach aveva rinnovato la forma. Questa filosofia da fisico e da fisiologo (Mach non era l’ultimo venuto: egli ha lasciato un nome nella storia delle scienze) non era senza affinità con altre filosofie elaborate da scienziati, come quella di Poincarè, e da storici delle scienze, quali Duhem e Rey.

Sono fenomeni che incominciamo a conoscere. Quando certe scienze subiscono importanti rivolgimenti (come allora la matematica e la fisica), si trovano sempre dei filosofi di professione per affermare che la «crisi della scienza», o della matematica, o della fisica, è aperta. Affermazioni del genere sulla bocca di filosofi rientrano, direi quasi, nella norma: giacchè un’intera categoria di filosofi passa il suo tempo a predire, ossia a spiare l’agonia delle scienze, per somministrare loro l’estrema unzione della filosofia, ad majorem gloria Dei. Ma ciò che è più strano è che si trovano contemporaneamente degli scienziati – per parlare di crisi delle scienze e per scoprirsi all’improvviso straordinarie vocazioni filosofiche – che pensano di trasformarsi subitaneamente in filosofi, mentre non hanno mai smesso di praticare della filosofia, e che credono di proferire importanti rivelazioni, mentre non fanno altro che ripetere banalità e luoghi comuni appartenenti a quella che la filosofia deve pur riconoscere come la propria storia.

Noi filosofi, che siamo comunque del mestiere, saremmo propensi a pensare che, in quanto a «crisi», questi scienziati vengono colti, in occasione della crescita di una scienza che essi scambiano invece per la sua conversione, da una crisi filosofica vistosa, nello stesso senso in cui si dice di un bambino che sta passando una «crisi di febbre». La loro filosofia spontanea, quotidiana, diventa semplicemente visibile anche ai loro occhi.

L’empiriocriticismo di Mach con tutti i suoi sottoprodotti bogdanoviano, lunaciarskiano, bazaroviano, ecc., rappresentava appunto una crisi filosofica del genere. Sono fatti cronici. Per dare un’idea contemporanea della cosa diremo che, fatte le debite proporzioni, la filosofia che alcuni biologi, gentisti, linguisti, ecc., stanno costruendo oggi sull’«informazione» è una piccola «crisi» filosofica di questo tipo, nella fattispecie, euforica.

Ebbene, la cosa più interessante in queste crisi filosofiche di uomini di scienza, è che filosoficamente sono sempre orientate in un unico e medesimo senso: riprendono, rimodernandoli, vecchi temi empiristi o formalisti, ossia idealisti: hanno perciò sempre come avversario il materialismo.

Gli otzovisti erano dunque empiriocriticisti ma, essendo marxisti (in quanto bolscevichi), dicevano che il marxismo doveva sbarazzarsi di quella metafisica precritica che era il «materialismo dialettico» e doveva, per diventare il marxismo del XX secolo, darsi finalmente la filosofia che gli era sempre mancata, appunto quella filosofia idealista, vagamente neokantiana, rielaborata e sottoscritta dagli scienziati, che era l’empiriocriticismo. Alcuni bolscevichi del gruppo volevano persino integrare al marxismo i valori umani «genuini» della religione, e si definivano a questo scopo «Costruttori di Dio». Ma lasciamo perdere.

L’intenzione di Gorki era dunque d’invitare Lenin a discutere di filosofia con il gruppo dei filosofi otzovisti. Lenin pose le sue condizioni: caro Alexei Maximovitch, verrò molto volentieri da voi, ma rifiuto qualsiasi discussione filosofica.

Era evidentemente un atteggiamento tattico: poiché l’essenziale era l’unità politica tra i bolscevichi emigrati, non bisognava dividerli con una discussione filosofica. In questa tattica però, possiamo scorgere assai più di una tattica, quella che vorrei chiamare una «pratica» della filosofia, e la coscienza di ciò che praticare la filosofia vuole dire; la coscienza insomma di questo fatto brutale, primario: che la filosofia divide. Se la scienza unisce, e unisce senza dividere, la filosofia divide, e non può unire che dividendo. Si capisce allora il riso di Lenin: non esiste comunicazione filosofica, non esiste discussione filosofica.

Oggi qui non voglio altro che commentare questo riso, il quale vale da solo una tesi.

Una tesi che spero ci condurrà in qualche posto.

E mi conduce subito a pormi la domanda che non può non venirmi posta: se nessuna comunicazione filosofica è possibile, che discorso potrò dunque tenere? E’ evidentemente un discorso davanti a dei filosofi. Ma come l’abito non fa il monaco, così non sono gli auditori che fanno il discorso. Il mio discorso non sarà dunque filosofico.

Sarà tuttavia, per ragioni inevitabili che dipendono dal punto della storia teorica in cui ci troviamo, un discorso nella filosofia. Ma questo discorso nella filosofia non sarà necessariamente un discorso di filosofia. Sarà, o almeno vorrebbe essere, un discorso sulla filosofia. Questo significa che la vostra società ha prevenuto i miei desideri invitandomi a presentarvi una comunicazione.

Ciò che tenterò di dire potrebbe infatti meritare questo titolo se, come spero, potessi comunicarvi qualcosa sulla filosofia, qualche elemento rudimentale insomma, per l’idea di una teoria della filosofia. Teoria: qualcosa che anticipa in un certo modo su una scienza.

E appunto così vi chiedo di intendere il mio titolo: Lenin e la filosofia. Non la filosofia di Lenin, bensì Lenin sulla filosofia. Ciò che noi dobbiamo a Lenin infatti, e che, pur non essendo del tutto senza precedenti forse, è però senza prezzo, è l’averci dato di che incominciare a potere tenere un certo tipo di discorso, un discorso che anticipa su ciò che sarà forse un giorno una teoria non filosofica della filosofia.



II.



Se tale è davvero il maggior merito di Lenin nei confronti del nostro discorso presente, possiamo forse incominciare col regolare rapidamente una vecchia questione pendente tra la filosofia universitaria, ivi compresa la filosofia universitaria francese, e Lenin. Siccome sono anch’io universitario e insegno filosofia, faccio parte di quegli «intenditori» cui si rivolge Lenin con quel che segue.

A quanto mi risulta, se si eccettua Henri Lefebvre che gli ha dedicato un’opera pregevolissima, la filosofia universitaria francese non si è degnata di interessarsi di un uomo che ha diretto la più grande rivoluzione politica della Storia moderna e che inoltre ha lungamente e coscienziosamente analizzato in Materialismo ed empiriocriticismo, le opere dei nostri compatrioti, Poincaré, Duhem e Rey, per non citarne altri.

Chiedo venia a coloro tra i nostri maestri che potrei avere dimenticato, ma non mi sembra di distinguere nel mezzo secolo appena trascorso, al di fuori degli articoli di filosofi o di uomini di scienza comunisti, altro che poche pagine su Lenin: di Sartre su Les Temps Modernes del 1946 (Materialismo e rivoluzione), di Merleau-Ponty (nelle Avventure della dialettica) e di Ricoeur (in un articolo su Esprit).

Ricoeur parla con rispetto di Stato e rivoluzione, ma non mi sembra abbia trattato della «filosofia» di Lenin. Sartre dice che la filosofia materialista di Engels e di Lenin è «impensabile», nel senso di un Unding, un pensiero che non può essere verificato dal semplice pensiero, perché è una metafisica naturalista, precritica, prekantiana e prehegeliana – ma le riconosce generosamente la funzione di un «mito» platonico che aiuta i proletari a essere rivoluzionari. Merleau-Ponty se ne libera con una sola parola: la filosofia di Lenin è un «espediente».

Rischierei sicuramente di agire in modo inopportuno se intraprendessi, sia pure con il maggiore tatto possibile, il processo alla tradizione filosofica francese da centocinquant’anni a questa parte, poiché il silenzio di cui la filosofia francese ha ricoperto questo passato vale bene qualsiasi processo aperto. Questa tradizione deve offrire uno spettacolo ben difficile da sopportare se nessun filosofo francese conosciuto si è arrischiato a scriverne fino a oggi la storia.

Ci vuole in effetti un certo coraggio per dire che la filosofia francese, da Maine de Biran e Cousin a Bergson e Brunschvig, attraverso Ravaisson, Hamelin, Lachelier e Boutroux, non può essere salvata, davanti alla propria storia se non da quei pochi grandi uomini contro cui si è accanita, come Comte o Durkheim, o che ha seppellito nell’oblio come Cournot e Couturat; se non da alcuni coscienziosi storici della filosofia, storici delle scienze ed epistemologi che hanno lavorato pazientemente e in silenzio a formare coloro cui la nostra filosofia deve in parte, da trent’anni in qua, la sua rinascita: tra quest’ultimi, che tutti conosciamo, mi sia consentito citare soltanto gli scomparsi, Cavaillès e Bachelard2.

D’altronde questa filosofia universitaria francese, da centocinquant’anni profondamente religiosa, spiritualista e reazionaria, poi, nel migliore dei casi, conservatrice, e sul tardi liberale e «personalista», questa filosofia che si è permessa il lusso di ignorare Hegel, Marx e Freud, questa filosofia universitaria che non si è messa seriamente a leggere Kant, poi Hegel e Husserl, a scoprire l’esistenza di Frege e Russel se non da qualche decina d’anni e a volte anche meno, perché mai si sarebbe interessata di quel bolscevico, di quel rivoluzionario, di quel politico che è Lenin?

Oltre alle ragioni di classe che gravano pesantemente sulle sue tradizioni propriamente filosofiche, oltre alla condanna espressa dalle sue menti più «aperte» contro «l’impensabile pensiero filosofico precritico di Lenin», la filosofia francese di cui siamo eredi ha vissuto nella convinzione di non avere certamente nulla da imparare di filosofico, né da un politico né dalla politica. Tanto è vero che soltanto di recente alcuni filosofi universitari francesi si sono messi a studiare i grandi teorici della filosofia politica, Machiavelli, Spinoza, Hobbes, Grotius, Locke e anche Rousseau, il «nostro» Rousseau. Non più di trent’anni fa, questi autori era abbandonati a letterati e a giuristi, come avanzi.

Bisogna riconoscere che in fondo la filosofia universitaria francese non si è affatto ingannata nel suo rifiuto radicale ad avere qualcosa da imparare dai politici e dalla politica, e quindi anche da Lenin. Tutto ciò che ha relazione con la politica può essere mortale alla filosofia, perché essa ne vive.

Certo non si può dire che Lenin non abbia ripagato, e in larga misura, la filosofia universitaria, se mai questa l’ha letto. Ascoltiamolo in Materialismo ed empiriocriticismo, ove ricorda Dietzgen, quel famoso proletario tedesco di cui Marx ed Engels dicono che aveva «per conto suo», da autodidatta, e perché proletario militante, scoperto il «materialismo dialettico»:

«I professori di filosofia sono, Dietzgen, dei “servi diplomati”, i cui discorsi sui “beni ideali” abbrutiscono il popolo con l’aiuto di un idealismo pieno di affettazione. “Come il diavolo è il contrario del buon Dio, il materialista lo è dell’universitario clericale”. La teoria materialistica della conoscenza è “un’arma universale contro la fede religiosa”, e non soltanto contro “la religione ordinaria, autentica, familiare a tutti, dei curati, ma anche contro la religione elevata, professorale, degli idealisti annebbiati”. All’equivoco degli universitari liberi pensatori, Dietzgen avrebbe preferito volentieri “l’onestà religiosa”: qua almeno “c’è un sistema”, ci sono degli uomini completi che non separano la teoria dalla pratica. Per i signori professori “la filosofia non è una scienza, bensì un mezzo di difesa contro la socialdemocrazia”.

“Professori e ordinari, tutti coloro che si dicono filosofi, cadono, più o meno, malgrado la loro libertà di pensiero, nei pregiudizi, nella mistica… Nei riguardi della socialdemocrazia tutti costoro non formano che una massa reazionaria. Occorre, per seguire il buon cammino senza lasciarsi smontare dalle assurdità religiose o filosofiche, studiare la più falsa delle vie false (den Holzweg der Holzwege), la filosofia”» (Materialismo ed Empiriocriticismo, p. 270)3.

E’ un testo inesorabile, ma che sa anche distinguere tra «liberi pensatori» e «uomini completi», anche religiosi, i quali hanno un «sistema» non soltanto speculativo ma iscritto nella loro pratica. E’ anche un testo lucido: non a caso si chiude con queste sorprendenti parole di Dietzgen, citate da Lenin: noi abbiamo bisogno di seguire una via giusta; ora, per seguire una via giusta bisogna studiare la filosofia che è «la più falsa delle vie false», ossia delle vie che non portano in nessun posto (den Holzweg der Holzwege). Il che significa propriamente che non può esserci una via giusta (dobbiamo intendere: nelle scienze, ma innanzi tutto nella politica) senza uno studio, e oltre questo senza una teoria della filosofia come falsa via, ossia come via che non porta in nessun posto.

Ecco probabilmente la ragione ultima, oltre tutte quelle che abbiamo citate prima, per cui Lenin è insopportabile alla filosofia universitaria e, per non fare torto a nessuno, alla grande maggioranza dei filosofi, se non a tutti i filosofi, universitari o no. Ci è o ci è stato, una volta o l’altra, filosoficamente insopportabile a tutti (parlo evidentemente anche di me). Insopportabile perché in fondo, nonostante tutto quello che possono raccontare sul carattere precritico della sua filosofia, sull’aspetto sommario di certe sue categorie, i filosofi sentono benissimo e sanno benissimo che la vera questione non è lì. Sentono e sanno benissimo che Lenin se ne infischia altamente delle loro obiezioni. Se ne infischia prima di tutto perché le aveva previste da tempo. Lenin stesso lo dice: non sono un filosofo, sono impreparato in questo campo (lettera a Gorki, 7 febbraio 1908). Sempre Lenin dice: so bene che le mie formulazioni, le mie definizioni sono vaghe e imprecise; so che i filosofi accuseranno il materialismo di essere «metafisico». Ma Lenin aggiunge: la questione non è lì. Non solo io non faccio la loro filosofia, ma non «faccio» della filosofia come loro. Il loro modo di «fare» della filosofia è di spendere tesori di intelligenza e di acume per non fare altro che ruminare nella filosofia. Io invece tratto la filosofia diversamente, la pratico, come voleva Marx, conformemente a quello che essa è. Ecco in che cosa penso di essere «materialista dialettico».

Tutto questo lo si può leggere sia a chiare lettere, sia fra le righe in Materialismo ed Empiriocriticismo. Ed è per questo che Lenin filosofo è insopportabile alla maggior parte dei filosofi, i quali non vogliono riconoscere, ossia capiscono senza confessarlo, che la vera questione è lì. La vera questione insomma, non è tanto sapere se Marx, Engels e Lenin sono o non sono veri filosofi, se le loro enunciazioni filosofiche sono formalmente ineccepibili, se dicono o no delle sciocchezze sulla «cosa in sé» di Kant, se il loro materialismo è precritico o no, ecc.: tali questioni infatti sono e restano poste all’interno di una certa pratica della filosofia. La vera questione riguarda proprio questa pratica tradizionale, che Lenin rimette in causa proponendo una pratica totalmente altra della filosofia.

Questa nuova pratica porta in sé qualcosa come la promessa o l’embrione di una conoscenza oggettiva del modo d’essere della filosofia come Holzweg der Holzwege. Ora l’ultima cosa che i filosofi e la filosofia possono sopportare, l’intollerabile, è forse proprio l’idea di questa conoscenza. Ciò che la filosofia non può sopportare è l’idea di una teoria (ossia di una conoscenza oggettiva) della filosofia, capace di mutare la sua pratica tradizionale. Una teoria che potrebbe esserle mortale, giacchè essa vive della sua denegazione.

La filosofia universitaria non può dunque tollerare Lenin (come d’altronde Marx) per due ragioni, che formano una sola e medesima ragione. Da un lato non può sopportare l’idea di avere qualcosa da imparare dalla politica e da un politico; dall’altro non può sopportare la idea che la filosofia possa essere fatta oggetto di una teoria, ossia di una conoscenza oggettiva.

Che oltre tutto fosse un politico come Lenin, un «naïf» e un autodidatta in filosofia, ad avere l’audacia di proporre l’idea di una teoria della filosofia come essenziale a una pratica veramente cosciente e responsabile della filosofia, è evidentemente il colmo…

La filosofia universitaria, o d’altro genere, anche qui non sbaglia: se resiste con tanto accanimento a questo incontro apparentemente accidentale in cui un semplice uomo politico le offre di che incominciare a conoscere che cos’è la filosofia, è perché questo incontro colpisce giusto, colpisce nel punto maggiormente sensibile, nel punto dell’intollerabile, nel punto del «rimorso», di cui tradizionalmente la filosofia non è che la ruminazione, – esattamente nel punto in cui, per conoscersi nella sua teoria, la filosofia deve riconoscere di non essere altro che politica investita in un certo modo, politica proseguita in un certo modo, politica rimuginata in un certo modo.

Il fatto è che Lenin è il primo a dirlo e che può dirlo soltanto perché è un politico, non un politico qualsiasi, ma un dirigente proletario. Ecco perché Lenin è intollerabile alla ruminazione filosofica, altrettanto intollerabile, e parlo pesando le parole, di Freud alla ruminazione psicologica.

Ci si rende ben conto che tra Lenin e la filosofia ufficiale non ci sono soltanto malintesi e conflitti di circostanza, e neppure le reazioni di suscettibilità offesa dei professori di filosofia che si sentono dire in faccia da un semplice figlio di maestro, piccolo avvocato diventato dirigente rivoluzionario, che essi sono, nella loro massa, soltanto degli intellettuali piccolo borghesi, degli ideologi la cui funzione nel sistema d’educazione borghese è d’inculcare alle masse della gioventù studentesca i dogmi, critici e postcritici quanto si vuole, dell’ideologia delle classi dominanti4. Tra Lenin e la filosofia ufficiale c’è una relazione intollerabile nel vero senso della parola: quella per cui la filosofia imperante è toccata nel vivo del suo rimorso: la politica.



III.

 


Ma per vedere bene in che modo i rapporti tra Lenin e la filosofia sono giunti a questo punto, occorre una certa prospettiva e, prima di parlare di Lenin e della filosofia marxista dunque bisogna ricordare qual era la situazione della filosofia marxista.

E' assolutamente escluso che io possa qui delinearne la storia. Non siamo in grado di farlo, e per una ragione determinante: che bisognerebbe conoscere appunto che cos’è questo x di cui dovremmo fare la storia e, sapendolo, che fossimo in condizione di sapere se questo x ha o no una Storia, ossia ha o no diritto a una storia.

Piuttosto che delineare, anche molto alla lontana, la «storia» della filosofia marxista, vorrei fare rilevare, attraverso testi e opere che si sono succeduti in questa Storia, l’esistenza di una difficoltà sintomatica.

Una difficoltà che ha dato adito a discussioni famose, che durano ancora oggi. E' sufficiente, per provarne l’esistenza, citare i titoli più comuni di queste discussioni: che cos’è nella sostanza la teoria marxista? Una scienza o una filosofia? Il marxismo è nella sostanza una filosofia, «filosofia della prassi», – ma che ne è allora delle pretese scientifiche enunciate da Marx? Il marxismo è invece nella sostanza una scienza, il materialismo storico, scienza della storia, – ma che ne è allora della sua filosofia, il materialismo dialettico? O anche, se si accetta la distinzione classica fra materialismo storico (scienza) e materialismo dialettico (filosofia), come pensare questa distinzione: in termini tradizionali o in termini nuovi? O anche: quali sono i rapporti tra il materialismo e la dialettica nel materialismo dialettico? O ancora: che cos’è la dialettica, un semplice metodo o tutta la filosofia?

Questa difficoltà, che alimenta tante discussioni, è sintomatica. Con questo vorrei suggerire che testimonia di una realtà in parte enigmatica, di cui gli interrogativi classici che abbiamo or ora ricordato rappresentano un certo trattamento, ossia una certa interpretazione. Molto schematicamente diremo cioè, che le formulazioni classiche interpretano questa difficoltà unicamente in termini di questioni filosofiche, all’interno quindi di quella che abbiamo chiamato la ruminazione filosofica – mentre dobbiamo pensare queste difficoltà, attraverso le questioni filosofiche che non possono mancare di produrre, in tutt’altri termini: in termini di problema, ossia di conoscenza oggettiva (quindi scientifica). Soltanto a questa condizione è possibile capire la confusione che ha fatto pensare prematuramente, in termini di questioni filosofiche, l’apporto teorico essenziale del marxismo alla filosofia, ossia l’insistenza di un certo problema che può sì produrre effetti filosofici, ma appunto nella misura in cui non è, in ultima analisi, una questione filosofica. Se uso di proposito questi termini, che presuppongono una distinzione (problema scientifico, questione filosofica), non è affatto per giudicare coloro che sono caduti in questa confusione, poiché vi cadiamo tutti e abbiamo motivo di pensare che essa era, ed è ancora, inevitabile – al punto che anche la filosofia marxista vi è rimasta e vi rimane presa per ragioni necessarie.

Basta infatti gettare un’occhiata al teatro di quella che viene chiamata la filosofia marxista, dopo le Tesi su Feuerbach, per accorgerci che offre uno spettacolo molto particolare. Se si è d’accordo con me che bisogna lasciare da parte le opere giovanili di Marx (so di chiedere una concessione difficile a molti nonostante la validità delle ragioni avanzate) e sottoscrivere la dichiarazione di Marx che l’Ideologia tedesca costituisce la «chiusura dei conti con la sua coscienza filosofica anteriore», dunque una rottura e una svolta decisiva nel suo pensiero, – e se ci si sofferma a considerare ciò che avviene fra le Tesi su Feuerbach (primo indice della «rottura», 1845) e l’Antidühring di Engels (1877), non si può fare a meno di essere colpiti dal lungo spazio di vuoto filosofico.

La XI Tesi su Feuerbach dichiarava: «i filosofi hanno soltanto interpretato il mondo, si tratta invece di trasformarlo». Questa semplice frase sembrava promettere una nuova filosofia, che non fosse più interpretazione ma trasformazione del mondo. Appunto in questo modo d’altronde venne letta, più di mezzo secolo dopo, da Labriola e successivamente da Gramsci, che definirono il marxismo essenzialmente una nuova filosofia, una «filosofia della prassi». Tuttavia, bisogna arrendersi all’evidenza, questa frase profetica non produsse nell’immediato nessuna nuova filosofia, in ogni caso nessun discorso filosofico nuovo, al contrario aprì soltanto un lungo silenzio filosofico. Silenzio che venne pubblicamente rotto solo da qualcosa che ebbe tutte le apparenza di un incidente imprevisto: un precipitoso intervento di Engels, obbligato a entrare nella battaglia ideologica contro Dühring, costretto a «seguirlo sul suo stesso terreno» per fare fronte alle conseguenze politiche degli scritti filosofici di questo professore di matematica totalmente cieco, il cui influsso si estendeva pericolosamente sul socialismo tedesco.

Ecco quindi una situazione ben strana: una Tesi che sembra annunciare una rivoluzione nella filosofia, – indi un silenzio filosofico di trent’anni, e infine qualche capitolo improvvisato di polemica filosofica pubblicato da Engels per motivi politici e ideologici, come introduzione a un ottimo compendio delle teorie scientifiche di Marx.

Dobbiamo forse concludere che siamo vittime di una illusione filosofica retrospettiva leggendo la XI Tesi come l’annuncio di una rivoluzione filosofica? Sì e no. Ma prima di dire no, credo che dobbiamo innanzi tutto dire seriamente sì: sì, siamo essenzialmente vittime di un’illusione filosofica. Ciò che le Tesi su Feuerbach annunciavano era, nel linguaggio necessariamente filosofico di una dichiarazione di rottura con tutta la filosofia «interpretativa», qualcosa di ben diverso da una nuova filosofia: era una nuova scienza, la scienza della storia di cui Marx porrà le basi, ancora infintamente fragili, nell’Ideologia tedesca.

Il vuoto filosofico che segue l’annuncio della Tesi XI, è dunque il pieno di una scienza, è il pieno di un lavoro intenso, lungo e penoso che imposta una scienza senza precedenti, sulla quale Marx consumerà tutta l’esistenza, sino alle ultime righe del Capitale che non potrà mai terminare. Questo pieno scientifico rappresenta la prima ragione profonda per la quale la XI Tesi, anche se annunciava profeticamente un evento capace di segnare profondamente la filosofia, non poteva produrre una filosofia, anzi doveva proclamare la soppressione radicale di ogni filosofia esistente, per mettere in primo piano il lavoro di gestazione teorica della scoperta scientifica di Marx.

Questa soppressione radicale della filosofia è iscritta, come sappiamo, a chiare lettere nell’Ideologia tedesca. Bisogna, dice Marx, sbarazzarsi di ogni ubbia filosofica, e mettersi a studiare la realtà positiva, strappare i veli della filosofia e vedere finalmente la realtà com’è.

L’Ideologia tedesca giustifica questa soppressione della filosofia con una teoria della filosofia come allucinazione e mistificazione o, per dirla tutta, come sogno, costruito usando quelli che chiamerò i resti diurni della storia reale degli uomini concreti, resti diurni rivestiti di un’esistenza meramente immaginaria, in cui l’ordine delle cose è rovesciato. La filosofia, al pari della religione e della morale, non è altro che ideologia: non ha storia, tutto ciò che sembra succedere in essa succede in realtà fuori di essa, nella sola storia reale, quella della vita materiale degli uomini. La scienza allora è il reale stesso, conosciuto attraverso l’atto che lo svela distruggendo le ideologie che lo velano: al primo posto di queste ideologie, la filosofia.

Fermiamoci a questo momento drammatico per precisarne il significato. La rivoluzione teorica annunciata dalla XI Tesi è dunque in realtà la fondazione di una nuova scienza. Servendoci di un concetto di Bachelard, noi crediamo di poter pensare l’evento teorico che inaugura questa nuova scienza come una «rottura epistemologica».

Marx fonda una nuova scienza, ossia elabora un sistema di concetti scientifici nuovi, laddove prima non esisteva che un’impalcatura di nozioni ideologiche. Marx fonda la scienza della storia, laddove non c’erano che filosofie della storia. Quando diciamo che Marx dispone un sistema teorico di concetti scientifici nel campo in cui prima regnavano delle filosofie della storia, noi facciamo una metafora che è soltanto una metafora: suggeriamo infatti che in uno stesso spazio, quello della Storia, Marx sostituisce alcune teorie ideologiche con una teoria scientifica. In realtà questo campo stesso ne viene trasformato. Con questa fondamentale riserva, propongo però di conservare in via provvisoria la metafora, e anzi di darle una forma ancora più precisa.

Se consideriamo infatti le grandi scoperte scientifiche della storia, vediamo che quelle che chiamiamo le scienze possono venire riferite, come altrettante formazioni regionali, a quelli che chiameremo i grandi continenti teorici. Possiamo adesso, col distacco di cui ormai disponiamo, e senza anticipare su un futuro che neppure noi, al pari di Marx, faremo «cuocere nelle nostre pentole», sviluppare la nostra metafora e dire che prima di Marx, soltanto due grandi continenti erano stati aperti alla conoscenza scientifica attraverso rotture epistemologiche continuate: il continente Matematica con i Greci (da Talete o da coloro che il mito di questo nome designa) e il continente Fisica (da Galileo e dai suoi successori). Una scienza come la chimica, fondata dalla rottura epistemologica di Lavoisier, è una scienza regionale del continente fisica: tutti sanno ora che essa vi è iscritta. Una scienza come la biologia che, da qualche decina d’anni appena, è uscita dalla prima fase della sua rottura epistemologica inaugurata da Darwin e Mendel, integrandosi alla chimica molecolare, rientra anch’essa nel continente Fisica. La Logica, nella sua forma moderna, rientra nel continente Matematica, ecc. Ѐ probabile, per contrapposto, che la scoperta di Freud apra un nuovo continente, di cui abbiamo appena iniziato l’esplorazione.

Se la metafora fila, possiamo allora avanzare la proposizione seguente: Marx aprì alla conoscenza scientifica un nuovo e terzo continente, il continente Storia, con una rottura epistemologica il cui primo taglio, ancora tutto tremante, è iscritto nell’Ideologia tedesca, dopo essere stato annunciato nelle Tesi su Feuerbach. Questa rottura epistemologica non è evidentemente un avvenimento puntuale. Può anche darsi che si possa, per ragionamento ricorrente, e in qualche piccolo particolare, attribuirle come il presentimento di un passato. Questa rottura diventa in ogni caso visibile nei suoi primi segni ma questi segni inaugurano soltanto l’inizio di una storia senza fine. Come ogni rottura, anche questa rottura è infatti una rottura continuata, all’interno della quale si possono osservare complessi rimaneggiamenti.

In effetti si può seguire empiricamente, nella serie degli scritti marxiani, l’operazione di questi rimaneggiamenti che riguardano concetti essenziali e il loro dispositivo teorico: nel Manifesto e in Miseria della filosofia, del 1847, in Per la critica dell’economia politica, del 1857, in Salario, prezzo e profitto, del 1865, nel primo libro del Capitale, del 1867, ecc. Altri rimaneggiamenti e sviluppi si ebbero poi nelle opere di Lenin, in particolare in quell’impareggiabile opera di sociologia economica, purtroppo misconosciuta dai sociologi, che si chiama Sviluppo del capitalismo in Russia, nell’Imperialismo ecc. Ancora oggi noi siamo iscritti, sia che accettiamo sia che rifiutiamo di saperlo, nello spazio teorico contrassegnato e aperto da questa rottura. Come le altre rotture che hanno aperto gli altri due continenti che conosciamo, anche questa rottura inaugura una storia che non avrà mai fine.

Ecco perché non dobbiamo leggere la XI Tesi su Feuerbach come l’annuncio di una nuova filosofia, bensì come quella necessaria dichiarazione di rottura con la filosofia che fa piazza pulita per la creazione di una nuova scienza. Ecco perché, dalla soppressione radicale di ogni filosofia, fino all’«incidente» imprevisto che provocò i capitoli filosofici dell’Antidühring, si stende quel lungo silenzio filosofico in cui parla soltanto la nuova scienza.

La quale certamente è materialista, ma come ogni altra scienza, e appunto per questo la sua teoria generale porta il nome di «materialismo storico». Il materialismo è allora semplicemente l’atteggiamento rigoroso dello scienziato davanti alla realtà del suo oggetto, che gli consente di cogliere, come dirà Engels, «la natura senza nessuna aggiunta estranea».

Nell’espressione un po’ strana di «materialismo storico», (giacché per designare la chimica non si usa l’espressione materialismo chimico), il termine materialismo registra contemporaneamente la rottura preliminare con l’idealismo delle filosofie della storia e l’instaurazione della scientificità della storia. Materialismo storico vuol dire allora scienza della storia. Se qualcosa come la filosofia marxista può allora mai nascere, dovrebbe essere dalla gestazione stessa di questa scienza, sorella del tutto originale certo, ma nella sua originalità stessa sorella delle scienze esistenti, dopo un lungo intervallo di tempo che separa sempre un avvenimento filosofico dalla rivoluzione scientifica che lo provoca.

In effetti se vogliamo spingerci oltre nei motivi di questo silenzio filosofico, ci troviamo portati a proporre qui, limitandoci a illustrarla con dati puramente empirici, una tesi sui rapporti tra le scienze e la filosofia. Lenin inizia il suo libro Stato e rivoluzione con questa semplice annotazione empirica: lo Stato non è sempre esistito; l’esistenza dello Stato si osserva soltanto nelle società classiste. Nello stesso modo noi diremo: la filosofia non è sempre esistita; l’esistenza della filosofia si osserva soltanto in un mondo che comporta quella che si chiama una scienza, o più scienze. Scienza in senso stretto: disciplina teorica, cioè ideale e dimostrativa, e non aggregato di risultati empirici.

Ed ecco in breve le illustrazioni empiriche di questa tesi.

Perché la filosofia nasca o rinasca, è necessario che le scienze siano. Forse per questo la filosofia in senso stretto è cominciata soltanto con Platone, suscitata a nascere dall’esistenza della Matematica greca; è stata sconvolta da Cartesio, provocata alla sua rivoluzione moderna dalla fisica galileiana; è stata riformata radicalmente da Kant, sotto l'effetto della scoperta newtoniana; è stata trasformata da Husserl, sotto lo stimolo delle prime assiomatiche, ecc.

Mi limito a suggerire questo tema, che andrebbe verificato per fare osservare, sempre in modo empirico, che Hegel non aveva in fondo tutti i torti quando diceva che la filosofia sorge una volta scesa la notte: allorchè la scienza, nata all’alba, ha già percorso l’arco di una lunga giornata. Sulla scienza che la provoca a nascere nella sua prima forma, o a rinascere nelle sue rivoluzioni, la filosofia ha dunque sempre il ritardo di una lunga giornata, che può durare anni, vent’anni, mezzo secolo oppure anche un secolo.

C’è da pensare che lo choc delle rotture scientifiche non si faccia sentire al momento, e che ci voglia tempo affinchè la filosofia ne venga trasformata. E c’è evidentemente anche da concluderne che il lavoro di gestazione filosofica è impegnato in una continua rivincita col lavoro di gestazione scientifica, ciascuno dei due essendo al lavoro nell’altro. E 'chiaro che le nuove categorie filosofiche vengono elaborate nel travaglio della nuova scienza. E' vero anche però, che in certi casi (Platone, Cartesio appunto) la filosofia serve anche da laboratorio teorico in cui sono messe a punto le nuove categorie richieste dai concetti della nuova scienza. Tanto per fare un esempio, non fu forse elaborata nel cartesianesimo la nuova categoria della causalità, necessaria alla fisica galileiana, la quale inciampava nella causa aristotelica come in un «ostacolo epistemologico»? Se si aggiunge che i grandi eventi filosofici che conosciamo (la filosofia antica uscita da Platone, la filosofia moderna uscita da Cartesio) rimandano chiaramente all’apertura provocante dei due grandi continenti scientifici, la Matematica greca e la Fisica galileiana, possiamo enunciare (giacchè tutto ciò resta empirico) alcune inferenze su quella che pensiamo di potere chiamare la filosofia marxista. E precisamente tre inferenze:

Prima inferenza. Se Marx ha veramente aperto un nuovo continente alla conoscenza scientifica, la sua scoperta scientifica dovrebbe provocare un qualche rivolgimento importante nella filosofia. La XI Tesi era forse in anticipo: annunciava semplicemente un avvenimento maggiore nel campo della filosofia. Sembra che potrebbe essere il caso.

Seconda inferenza. La filosofia esiste solamente nel suo ritardo sulla provocazione scientifica. La filosofia marxista dovrebbe quindi essere in ritardo sulla scienza marxista della storia. Sembra proprio che questo sia il caso. Lo testimonia il vuoto di trent’anni fra le Tesi su Feuerbach e l’Antidühring, lo testimoniano anche certi lunghi ristagni ulteriori, in cui continuiamo a segnare il passo in buona compagnia.

Terza inferenza. Abbiamo la possibilità di trovare nella gestazione della scienza marxista qualche elemento teorico, più avanzato di quanto non pensiamo, per elaborare, forti del distacco con cui possiamo guardare ormai al suo ritardo, la filosofia marxista. Lenin diceva: è nel Capitale di Marx che va cercata la sua dialettica – e intendeva con questo la filosofia marxista stessa. Deve esserci nel Capitale di che completare o foggiare le nuove categorie filosofiche: esse sono sicuramente operanti, allo «stato pratico». Sembra che potrebbe essere il caso. Bisogna leggere il Capitale e mettersi al lavoro.

La giornata è ancora lunga, ma quasi insperatamente è già molto avanti: la notte è ormai prossima a scendere. La filosofia marxista sta per sorgere.

Se prendiamo queste inferenze come prospettive, vediamo che esse mettono, oserei dire, un certo ordine nelle nostre speranze, e anche in certi nostri pensieri. Capiamo allora che la ragione ultima per cui Marx, preso com’era tra la miseria, l’accanito lavoro scientifico e le scadenze della direzione politica, non scrisse mai quella Dialettica (o quella Filosofia) che vagheggiava, non è, qualunque cosa egli abbia creduta, perché non ne abbia mai «trovato il tempo». Capiamo allora che la ragione ultima per cui Engels, trovandosi dall’oggi al domani costretto a dover esprimere, come dice lui stesso, «il proprio parere sulle questioni di filosofia» non riuscì a convincere i filosofi di professione, non è il fatto di essere stato colto alla sprovvista da una polemica semplicemente ideologica. Capiamo allora che la ragione ultima dei limiti filosofici di Materialismo ed Empiriocriticismo non dipende esclusivamente dalle esigenze della lotta ideologica.

Ora possiamo dirlo. Il tempo che Marx non potè trovare, la presa in contropiede di Engels, le leggi della lotta ideologica, in cui Lenin dovette accontentarsi di rivolgere contro l’avversario le sue stesse armi costituiscono sì altrettante scuse, ma non una ragione.

La ragione ultima è invece che i tempi non erano maturi, che la notte non era ancora calata e che nè Marx stesso, nè Engels, nè Lenin potevano ancora scrivere quella grande opera filosofica che manca al marxismo. In un certo senso, se è vero che venivano dopo la scienza da cui essa dipende, venivano però ancora troppo presto per una filosofia indispensabile sì, ma che può tuttavia nascere soltanto da un necessario ritardo.

Partendo dal concetto di questo «ritardo» necessario, tutto diventava chiaro, tutto, compreso il malinteso di coloro che, quali il giovane Lukacs e Gramsci, e tanti altri che non avevano il loro genio, avevano spinto la loro impazienza davanti a questa filosofia troppo lenta a nascere, fino ad affermare che era già nata da tempo, sin dalle origini, sino dalle Tesi su Feuerbach, e quindi ben prima degli inizi della scienza marxista stessa: per convincersene, dichiaravano molto semplicemente che essendo ogni scienza una «sovrastruttura», essendo quindi ogni scienza esistente positivista nel fondo perché borghese, la «scienza» marxista non poteva essere che filosofica, e il marxismo una filosofia, filosofia posthegeliana o «filosofia della prassi».

Partendo dal concetto di questo «ritardo» necessario, molte altre difficoltà potevano chiarirsi, anche nella storia politica delle organizzazioni marxiste, dei loro fallimenti e delle loro crisi. Se è vero, come testimonia tutta la tradizione marxista, che il più grande evento della storia della lotta di classe – ossia praticamente della storia umana – è l’unione della teoria marxista e del movimento operaio, si capisce bene come l’equilibrio interno di questa unione possa essere minacciato da quei cedimenti della teoria che si chiamano deviazioni, per quanto infime possano essere; si capisce la portata politica di quelle accanite discussioni teoriche scoppiate in seno al Movimento socialista, poi comunista, su quelle che Lenin chiamava semplici «sfumature», giacchè, diceva in Che fare: «da una sfumatura può dipendere il futuro del partito socialdemocratico per molti, moltissimi anni».

Possiamo allora essere tentati di pensare che, essendo la teoria marxista quello che è, una scienza e una filosofia, e avendo la filosofia dovuto tardare sulla scienza, la quale ne è stata frenata nel suo sviluppo, queste deviazioni teoriche fossero in fondo inevitabili, non soltanto a causa degli effetti della lotta di classe sulla e nella teoria, ma a causa del décalage interno alla teoria stessa.

In effetti, ritornando sul passato del movimento marxista operaio, possiamo chiamare col loro nome le deviazioni teoriche che portarono ai grandi insuccessi storici proletari, quello della II Internazionale, tanto per fare un esempio. Queste deviazioni si chiamano: economismo, evoluzionismo, volontarismo, umanesimo, empirismo, dogmatismo, ecc. Queste deviazioni sono nella sostanza filosofiche, e come filosofiche sono state denunciate dai grandi dirigenti operai, Engels e Lenin per primi.

Ma allora siamo molto vicini a capire perché esse abbiano travolto quegli stessi che le denunciavano: non erano forse in un certo senso inevitabili, in funzione stessa del necessario ritardo della filosofia marxista?

Andiamo sino in fondo. Se le cose stanno così, allora anche nella profonda crisi che divide oggi il Movimento comunista internazionale, i filosofi marxisti possono sussultare e tremare davanti al compito insperato, a forza d’essere sperato, che la storia assegna e affida loro. Se davvero, come tanti segni sembrano confermare, il ritardo della filosofia marxista può oggi in parte essere colmato, non è soltanto il passato che ne sarà illuminato, ma fors’anche il futuro trasformato.

In questo futuro trasformato, sarà resa giustizia a tutti coloro che avranno dovuto vivere nella contraddizione tra l’urgenza politica e il ritardo filosofico. E sarà resa giustizia a uno dei più grandi, Lenin. Giustizia: la sua opera filosofica sarà allora compiuta. Compiuta, ossia completata e corretta. Noi dobbiamo questo servizio e questo omaggio all’uomo che ebbe la fortuna di nascere a tempo per la politica, ma la disgrazia di nascere troppo presto per la filosofia. Dopo tutto, chi sceglie la propria data di nascita?


IV.


Possiamo a questo punto, istruiti della «storia» della teoria marxista delle ragioni del ritardo della filosofia marxista sulla scienza della storia, prendere direttamente in mano Lenin, ed entrare nella sua opera. Ma allora il nostro «sogno» filosofico si dissolve: le cose non hanno la sua bella semplicità.

Anticipo sulle mie conclusioni. No, Lenin non era nato troppo presto per la filosofia. Non si nasce mai troppo presto per la filosofia. Se la filosofia è in ritardo, e se l’essere in ritardo la fa appunto filosofia, come si può mai essere in ritardo su un ritardo che non ha storia? Se bisogno ancora a ogni costo parlare di ritardo, siamo noi a essere in ritardo su Lenin. Il nostro ritardo è soltanto l’altro nome di un fraintendimento, perché noi ci inganniamo filosoficamente sui rapporti tra Lenin e la filosofia. I rapporti tra Lenin e la filosofia si esprimono sì nella filosofia, all’interno del «gioco» che costituisce la filosofia come filosofia, ma questi rapporti non sono filosofici, perché questo «gioco» non è filosofico.

Vorrei tentare di esporre i motivi di queste conclusioni in una forma che, condensata e sistematica, risulterà per forza molto «filosofica» di Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo. Dividerò questa esposizione in tre punti:

  1. Le grandi Tesi filosofiche di Lenin

  2. Lenin e la pratica filosofica

  3. Lenin e la posizione di partito in filosofia

In occasione di ciascuno di questi punti cercherò di dimostrare quello che Lenin apporta di nuovo alla teoria marxista.


Le grandi Tesi filosofiche di Lenin


Per Tesi intendo, come tutti, le prese di posizione filosofiche di Lenin, registrate in enunciati

filosofici. Lascio da parte, per il momento, l’obiezione che ha servito da schermo o da pretesto alla filosofia universitaria per non leggere Materialismo ed empiriocriticismo: la terminologia categoriale, i riferimenti storici, ossia le ignoranze di Lenin.

E' un dato di fatto che meriterebbe da solo tutto uno studio, che Lenin si situa, sotto molti aspetti e fin dalla sorprendente «ouverture» di Materialismo ed empiriocriticismo, in cui veniamo bruscamente rimandati a Berkeley e a Diderot, nello spazio teorico dell’empirismo del XVIII secolo, dunque in una problematica filosofica «ufficialmente» precritica, se si pensa che la filosofia diventa «ufficialmente» critica con Kant.

Una volta riscontrata l’esistenza di questo sistema di riferimento, una volta conosciuta la sua logica strutturale, le formulazioni teoriche di Lenin si spiegano appunto come effetti di questa logica, comprese le incredibili distorsioni che Lenin fa subire alla terminologia categoriale dell’empirismo, per volgerla contro l’empirismo stesso. Se infatti egli pensa nella problematica dell’empirismo oggettivo (Lenin dice addirittura del «sensismo oggettivo») e se il fatto di pensare in questa problematica incide spesso non soltanto sulle formulazioni ma anche su certe articolazioni del pensiero di Lenin, nessuno tuttavia può negare che Lenin pensi, ossia pensi sistematicamente e rigorosamente. Questo pensiero è appunto ciò che ci importa, per il fatto che enuncia delle Tesi. Eccole enunciate nella loro nuda essenza. Ne distinguerò tre:

Tesi 1. La filosofia non è una scienza. La filosofia è distinta dalle scienze. Le categorie filosofiche sono distinte dai concetti scientifici.

E' una tesi basilare. Il punto chiave in cui si decide il suo destino è la categoria di materia, punto sensibile quant’altri mai per una filosofia materialista e per tutte le anime filosofiche che vogliono la sua salvezza, ossia la sua morte. Ora Lenin dice chiaro e tondo che la distinzione tra la categoria filosofica di materia e il concetto scientifico di materia è vitale per la filosofia marxista.

«La materia è una categoria filosofica» (Materialismo ed empiriocriticismo, p.96 ).

«L’unica proprietà della materia, la cui ammissione definisce il materialismo filosofico, è quella di essere una realtà oggettiva» (Materialismo ed empiriocriticismo, p. 206)

Ne consegue che la categoria filosofica di materia, che è congiuntamente Tesi d’esistenza e Tesi d’oggettività, non può mai essere confusa con i contenuti dei concetti scientifici di materia. I concetti scientifici di materia definiscono delle conoscenze, relative alla condizione storica delle scienze, sull’oggetto di queste scienze. Il contenuto del concetto scientifico di materia cambia con lo sviluppo, ossia con l’approfondimento della conoscenza scientifica. Il significato della categoria filosofica di materia non muta, poiché non riguarda nessun oggetto di scienza, ma afferma l’oggettività di ogni conoscenza scientifica di un oggetto. La categoria di materia non può cambiare. E' «assoluta».

Le conseguenze che Lenin trae da questa distinzione sono fondamentali. Innanzitutto Lenin comincia col ristabilire la verità nella cosiddetta «crisi della fisica»: la fisica non è affatto in crisi, ma in via di crescenza. La materia non è «scomparsa». Solo che il concetto scientifico di materia ha cambiato contenuto, e continuerà a cambiarlo in futuro, perché il processo conoscitivo è infinito nel suo stesso oggetto.

La pseudocrisi scientifica della fisica non è altro che una crisi filosofica, in cui vediamo degli ideologi, che sono anche gli scienziati, prendersela apertamente col materialismo. Quando dichiarano che la materia è scomparsa bisogna udire il discorso silenzioso del loro desiderio: potesse scomparire il materialismo!

Ed ecco Lenin che denuncia e confuta tutti questi filosofi improvvisati che credevano finalmente giunta la loro ora! Che cosa resta oggi di questi personaggi? Chi li conosce ancora? Diciamo almeno che quell’ignorante di filosofia che era Lenin, aveva se non altro del discernimento. E quale filosofo di professione seppe come lui, senza aspettare né avere un attimo d’esitazione, impegnarsi così a fondo e con tale sicurezza, assolutamente solo, contro tutti, in una battaglia apparentemente perduta? Mi piacerebbe venisse fatto qualche nome – al di fuori di Husserl, allora oggettivamente alleato di Lenin contro l’empirismo e lo storicismo – ma alleato provvisorio e che non potè mai incontrarlo, giacchè Husserl credeva, da buon «filosofo», di stare andando «in qualche posto».

Ma la Tesi di Lenin va oltre la congiuntura immediata. Se bisogna assolutamente distinguere la categoria filosofica di materia da ogni concetto scientifico, allora i materialisti che applicano le categorie filosofiche agli oggetti delle scienze come ne fossero il concetto, finiscono col rimanere presi in un «quiproquo». Esempio: chi facesse un uso concettuale della coppia categoriale materia/spirito o materia/coscienza ha molte probabilità di cadere in paralogismi, giacchè «l’opposizione tra la materia e la coscienza non ha un significato assoluto che entro limiti assai ristretti, e nella circostanza solo in quelli del problema gnoseologico fondamentale: che cos’è primordiale, che cos’è secondario? [ossia in filosofia]. Al di là di questi limiti [ossia nelle scienze] la relatività di questa opposizione non presenta dubbi». (Materialismo ed empiriocriticismo, p. 112).

Non posso insistere su altre conseguenze, tutte di grande importanza, sul fatto per esempio che la distinzione tra filosofia e scienze apre necessariamente, nella prospettiva leniniana, il campo di una teoria della storia delle conoscenze, già annunciata da Lenin nella sua teoria dei limiti storici di ogni verità (leggi: di ogni conoscenza scientifica), che egli pensa come teoria della distinzione tra verità assoluta e verità relativa (in questa teoria sono pensate, in una sola coppia di categorie, tanto la distinzione tra la filosofia e le scienze quanto la necessità di una teoria della storia delle scienze).

Voglio soltanto fare osservare quanto segue. La distinzione tra la filosofia e le scienze, tra le categorie filosofiche e i concetti scientifici costituisce nella sostanza una radicale presa di posizione filosofica contro tutte le forme dell’empirismo e del positivismo: contro l’empirismo e il positivismo di certi materialisti stessi, contro il naturalismo, contro lo psicologismo, contro lo storicismo (su questo punto preciso, vedi la violenza polemica contro lo storicismo di Bogdanov).

Bisogna confessare che da parte di un filosofo che ci si affanna a definire, sulla base di qualche formula, precritico, prekantiano, non è poi tanto male, anzi è piuttosto stupefacente, giacchè questo dirigente bolscevico del 1908 che evidentemente non aveva letto allora neppure una riga di Kant e di Hegel, ma si era accontentato di Berkeley e di Diderot, dà prova, per strane ragioni, di un senso «critico» dell’avversario positivista e di un discernimento strategico straordinario nel concetto religioso della filosofia allora «ipercritica» del tempo.

La cosa più sorprendente è che Lenin si assoggetti allo sforzo di prendere queste posizioni antiempiriste nell’ambito stesso della sua problematica empirista di riferimento. Che si giunga a essere antiempiristi, pur pensando ed esprimendosi nelle categorie di base dell’empirismo, ecco un exploit paradossale che pone se non altro un piccolo «problema» ai filosofi in buona fede che vorranno prenderlo in esame.

Non significherà, per caso, che il campo della problematica filosofica, le formulazioni categoriali, gli enunciati filosofici, sono relativamente indifferenti alle prese di posizione filosofiche? Non significherà che in fondo non succede niente di essenziale in ciò che sembra costituire la filosofia? Strano.

Tesi 2. Se la filosofia è distinta dalle scienze, esiste però tra la filosofia e le scienze un legame privilegiato. Questo legame è rappresentato dalle tesi materialista dell’oggettività.

Due punti sono qui essenziali.

Il primo concerne la natura della conoscenza scientifica. Le indicazioni contenute in Materialismo ed empiriocriticismo sono riprese, sviluppate e approfondite nei Quaderni sulla dialettica: esse danno tutto il loro significato all’antiempirismo e all’antipositivismo di Lenin, all’interno stesso della concezione della pratica scientifica. Sotto questo aspetto Lenin deve essere anche considerato come un testimone che parla della pratica scientifica da autentico esperto. Basta leggere i testi da lui consacrati al Capitale fra il 1898 e il 1905, la sua analisi dello Sviluppo del capitalismo in Russia, per vedere che la sua pratica scientifica di teorico marxista della storia, dell’economia politica e della sociologia è costantemente accompagnata da acute riflessioni epistemologiche, che i suoi testi filosofici non fanno che riprendere in forma più generale.

Quello che Lenin mette in evidenza, e ancora una volta attraverso categorie che possono essere contaminate dai suoi riferimenti empiristi (come, ad esempio, la categoria di riflesso), è l’antiempirismo della pratica scientifica, la funzione decisiva dell’astrazione scientifica, meglio ancora della sistematicità concettuale, e, in maniera più generale, la funzione della teoria in quanto tale.

Politicamente Lenin è conosciuto per la sua critica dello «spontaneismo» che prende di mira, bisogna dirlo, non la spontaneità, le risorse, l’invenzione, il genio delle masse popolari, bensì un’ideologia politica che, dietro il riparo di un’esaltazione verbale della spontaneità delle masse, la sfrutta per spingerla in una politica falsa. Non ci si avvede però, che nella sua concezione della pratica scientifica, Lenin adotta esattamente la medesima posizione. Se Lenin ha scritto «senza teoria rivoluzionaria niente movimento rivoluzionario», potrebbe altrettanto bene avere scritto: senza teoria scientifica niente produzione di conoscenze scientifiche. La sua difesa delle esigenze della teoria nella pratica scientifica ricalca esattamente la sua difesa delle esigenze della teoria nella pratica politica. Il suo antispontaneismo riveste allora la forma teorica dell’antiempirismo, dell’antipositivismo e dell’antipragmatismo.

Ma nello stesso modo in cui il suo antispontaneismo politico presuppone il più profondo rispetto della spontaneità delle masse, così il suo antispontaneismo teorico presuppone il più grande rispetto della pratica nel processo della conoscenza. Neppure per un istante, né nella sua concezione della scienza, né nella sua concezione della politica, Lenin cade nel teoricismo.

Questo primo punto consente di capire il secondo. La filosofia materialista è, agli occhi di Lenin, profondamente legata alla pratica scientifica. Mi pare che questa tesi debba essere intesa in due sensi.

Innanzi tutto in un primo senso estremamente classico che illustra quanto abbiamo potuto osservare empiricamente nella storia dei rapporti che legano ogni filosofia alle scienze. Per Lenin ciò che accade nelle scienze interessa in prima persona la filosofia. Le grandi rivoluzioni scientifiche provocano rivolgimenti importanti nella filosofia. Ѐ la nota tesi di Engels: il materialismo cambia di forma ad ogni grande scoperta scientifica; tesi difesa anche da Lenin il quale dimostra, diversamente e meglio di Engels, affascinato invece dalle conseguenze filosofiche delle scoperte delle scienze naturali (la cellula, l’evoluzione, il principio di Carnot, ecc.), che la scoperta decisiva che provoca il rimaneggiamento obbligato della filosofia materialista, non viene tanto dalle scienze naturali quanto dalle scienze della storia, dal materialismo storico.

In un secondo senso, Lenin apporta un argomento importante. Non parla più allora della filosofia in genere, bensì della filosofia materialista. Questa è, in modo suo proprio, particolarmente interessata a ciò che succede nella pratica scientifica perché rappresenta, nella sua tesi materialista, le convinzioni «spontanee» degli scienziati in merito all’esistenza dell’oggetto della loro scienza e dell’oggettività della loro conoscenza.

Lenin non si stanca mai di ripetere in Materialismo ed empiriocriticismo che gli specialisti di scienze naturali sono, nella maggior parte, «spontaneamente» materialisti, per almeno una delle tendenze della loro filosofia spontanea. Pur combattendo le ideologie dello spontaneismo della pratica scientifica (empirismo, pragmatismo), Lenin riconosce, nell’esperienza della pratica scientifica, una tendenza materialista spontanea della massima importanza per la filosofia marxista. Egli mette allora in rapporto le tesi materialiste necessarie per pensare la specificità della conoscenza scientifica, con la tendenza materialista spontanea degli scienziati che praticano le scienze: come esprimenti al tempo stesso praticamente e teoricamente una sola e medesima tesi materialista, d’esistenza e d’oggettività.

Anticipo fin da ora che l’insistenza leninista nell’affermare il legame privilegiato tra le scienze e la filosofia materialista, dimostra che si tratta di un punto nodale decisivo, che chiameremo, se volete, Punto Nodale n. 1.

Ma appunto, attraverso l’accenno alla filosofia spontanea degli scienziati, si profila qualcosa di molto importante che ci porrà davanti a un altro punto nodale decisivo, di tutt’altra natura.

Tesi 3. Anche qui Lenin riprende una tesi classica, esposta da Engels nel Ludwig Feuerbach, ma le dà una portata senza precedenti. Questa tesi riguarda la storia della filosofia concepita come storia di una lotta secolare tra due contrapposte tendenze: l’idealismo e il materialismo.

Bisogna proprio dire che nella sua brusca formulazione questa tesi urta in pieno le convinzioni della stragrande maggioranza dei filosofi di professione. I quali potranno anche convenire, se accetteranno di leggere Lenin, e lo leggeranno pure un giorno, che le sue tesi filosofiche sono meno sommarie della reputazione di cui godono. Ma ho ragione di temere che essi resisteranno accanitamente a quest’ultima tesi, la quale rischia di ferirli nelle loro convinzioni più profonde: decisamente appare loro troppo grossolana, buona tutt’al più per discussioni pubbliche, ossia ideologiche e politiche. Dire che tutta la storia della filosofia si riduce in ultima analisi a una lotta fra il materialismo e l’idealismo, significa fare d’ogni erba un fascio e svilire tutta la ricchezza della storia della filosofia.

In realtà questa tesi viene ad affermare che, nell’essenziale, la filosofia non ha davvero una storia. Che cos’è una storia che è soltanto ripetizione dello scontro di due tendenze fondamentali? Le forme e gli argomenti della lotta possono variare, è vero, ma se tutta la storia della filosofia non è altro che la storia di queste forme, basta ricondurle alle tendenze immutabili che esse rappresentano per far sì che la trasformazione di queste forme diventi una specie di gioco per nulla. Al limite la filosofia non ha storia, la filosofia è quello strano luogo teorico dove non avviene propriamente nulla, nulla se non questa ripetizione del nulla. Dire che non avviene nulla in filosofia è dire che la filosofia non porta in nessun posto perché non va in nessun posto: le vie che apre sono appunto, come diceva Dietzgen prima di Heidegger, degli «Holzwege», delle vie che non portano in nessun posto.

E' d’altronde quello che suggerisce praticamente Lenin, il quale, sin dalle prime pagine di Materialismo ed empiriocriticismo, spiega che Mach non fa che ripetere Berkeley, alla qual cosa egli oppone, da parte propria, la propria ripetizione di Diderot. Peggio ancora, ci si accorge che Berkeley e Diderot si ripetono l’un l’altro, poiché sono d’accordo sulla coppia materia/spirito, di cui si accontentano di disporre diversamente i termini. Il nulla della loro filosofia è semplicemente il nulla di questo rovesciamento dei termini di una coppia categoriale immutabile (materia/spirito) che rappresenta nella teoria filosofica il gioco delle due tendenze antagoniste che si affrontano attraverso questa coppia. La storia della filosofia è allora soltanto il nulla di questo rovesciamento ripetuto. Questi restituirebbe anche il suo significato alle famose formule sul rovesciamento di Hegel da parte di Marx-Hegel, di cui già lo stesso Engels disse che non era altro che un rovesciamento preliminare

Su questo punto bisogna riconoscere che l’insistenza di Lenin non conosce limiti o scrupoli. In Materialismo ed empiriocriticismo almeno, (poiché il tono cambia su questi punti nei Quaderni), si butta dietro le spalle tutte le sfumature, tutte le distinzioni, le finezze, le sottigliezze teoriche mediante cui la filosofia si sforza di pensare il suo oggetto: sono soltanto sofismi, arzigogoli, cavilli di professori, accomodamenti, compromessi il cui unico obiettivo è di mascherare la posta reale del dibattito in cui è impegnata ogni filosofia: la lotta fondamentale di tendenza tra il materialismo e l’idealismo. Come in politica, anche qui non ci sono vie di mezzo, non ci sono mezze misure o posizioni ibride. In fondo o si è idealisti o si è materialisti. Tutti coloro che non si dichiarano apertamente tali sono soltanto dei materialisti o degli idealisti «vergognosi» (Kant, Hume).

Ma allora bisogna andare più avanti e dire che se tutta la storia della filosofia non è altro che la rifrittura d’argomenti in cui si consuma una sola e unica lotta, la filosofia è semplicemente lotta di tendenze, quel «Kampfplatz» di cui parlava Kant, ma che ci getta allora nella soggettività pura e semplice delle lotte ideologiche. Significa dire che la filosofia, propriamente parlando, non ha oggetto, nel senso in cui invece una scienza ha un oggetto.

Lenin arriva sin qui – il che prova se non altro che Lenin pensa. Egli dichiara che i principi ultimi del materialismo non possono essere dimostrati più di quanto non possono essere dimostrati (né confutati, il che irritava Diderot) quelli dell’idealismo. Non possono essere dimostrati perché non possono costituire l’oggetto di una conoscenza, intendiamo con questo di una conoscenza paragonabile a quella della scienza che dimostra la proprietà dei suoi oggetti.

La filosofia quindi non ha oggetto. Ma tutto è collegato. Se non avviene nulla nella filosofia, è appunto perché non ha oggetto. Se avviene effettivamente qualcosa nelle scienze, è appunto perché hanno un oggetto, di cui possono approfondirne la conoscenza, la qual cosa procura loro una storia. Siccome la filosofia non ha oggetto non può accadervi nulla. Il nulla della sua storia si ripete semplicemente il nulla del suo oggetto.

Incominciamo finalmente ad avvicinarci al Punto Nodale n.2 che dipende da queste famose tendenze. La filosofia non fa che ripetere argomenti i quali rappresentano, in forma di categorie, il loro conflitto di fondo: e proprio questo loro conflitto, innominabile nella filosofia, sostiene quell’eterno rovesciamento nullo di cui la filosofia è il teatro verboso, il rovesciamento della coppia categoriale fondamentale materia/spirito. Come si manifesta allora una tendenza? Nell’ordine gerarchico che instaura fra i termini della coppia: un ordine di dominazione. Ascoltiamo Lenin:

«Fingendo di discutere soltanto Beltov, e passando sotto silenzio Engels, Bogdanov si indigna di queste definizioni, le quali, secondo lui, non sono altro che “ripetizioni” della “formula” di Engels…secondo la quale la materia è l’elemento primordiale e lo spirito l’elemento secondario per una tendenza filosofica, mentre l’altra tendenza professa il contrario. E tutti i seguaci russi di Mach ripetono estasiati la “confutazione” di Bogdanov. La menoma riflessione proverebbe loro, tuttavia, che non si possono in fondo definire le due nozioni ultime della teoria della conoscenza che indicando quale delle due si considera come primaria. Che cosa significa dare una “definizione”? Innanzi tutto significa riportare una concezione data a un’altra più larga. Si tratta ora di sapere se esistono concezioni più larghe di quelle dell’esistenza e del pensiero, della materia e della sensazione, del fisico e dello psichico, con le quali possa operare la teoria della conoscenza. No. Sono concezioni ultime, le più larghe, che la gnoseologia non ha ancora sorpassato (fatta astrazione delle nostre modificazioni, sempre possibili, della terminologia). Solo il ciarlatanismo o l’indigenza intellettuali possono esigere per queste due “serie” di concezioni ultime, infinitamente larghe, definizioni che non siano che “semplici ripetizioni”: l’una o l’altra sono considerate come primarie» (Materialismo ed empiriocriticismo, p. 110).

Il rovesciamento, che è formalmente il nulla che si produce nella filosofia, nel suo discorso esplicito, non è però nullo, o meglio è l’effetto di un annullamento, l’annullamento di una gerarchia anteriore sostituita della gerarchia inversa. Quello che è in gioco nella filosofia attraverso la categorie ultime che comandano tutti i sistemi filosofici, è dunque il significato di questa gerarchia, il significato di questa collocazione di una categoria in posizione dominante, è insomma, nella filosofia, qualche cosa che fa irresistibilmente pensare a una presa di potere o a una messa al potere. Filosoficamente dobbiamo dire: una messa al potere è senza oggetto. Una messa al potere è ancora una categoria meramente teorica? Una presa di potere (o una messa al potere) è politica, essa non ha oggetto, ma ha una posta: il potere appunto, e un obiettivo: gli effetti del potere.

Qui bisogna fare una piccola pausa per vedere ciò che Lenin apporta di nuovo nei confronti di Engels. Il suo contributo è enorme, se si vogliono misurare bene gli effetti di quelle che troppo spesso sono state prese per semplici sfumature.

In fondo Engels che ha lampi di genio straordinari quando lavora su Marx, non ha un pensiero paragonabile a quello di Lenin. Gli succede spesso di accostare semplicemente delle tesi piuttosto che pensarle nell’unità del loro rapporto.

Peggio ancora: egli non riuscì mai a sbarazzarsi del tutto di un certo tema positivista dell’Ideologia tedesca. Per lui la filosofia, di cui tuttavia raccomanda lo studio sistematico, deve scomparire, giacchè è soltanto il laboratorio artigianale ove sono state approntate nel passato le categorie filosofiche necessarie alla scienza. Tempi passati, ormai. La filosofia ha fatto la sua opera. Ora deve cedere il posto alla scienza. Da quando le scienze sono scientificamente in grado di presentare il sistema organico unitario dei loro rapporti non c’è più bisogno né di una Naturphilosophie né di una Geschichtphilosopie.

Che cosa rimane alla filosofia? Un oggetto: la dialettica, le leggi più generali della natura (ma le scienze vi provvedono) e del pensiero. Restano dunque le leggi del pensiero, che possono venire ricavate dalla storia delle scienze. La filosofia non è dunque veramente separata dalla scienze; di qui il positivismo che minaccia certe formule di Engels, allorchè dice che essere materialisti è ammettere la natura così com’è «senza aggiunte estranee»: eppure Engels sa bene che le scienze sono un processo di conoscenza. Ecco perché la filosofia ho comunque un oggetto: ma paradossalmente allora è il pensiero puro, il che non dispiacerebbe all’idealismo. Che cosa fa ad esempio oggi, per sua stessa ammissione, Claude Lèvi-Strauss che si richiama a Engels? Anche lui studia le leggi, diciamo le strutture del pensiero. Ricoeur gli ha dimostrato, e aveva ragione, che era Kant meno il soggetto trascendentale. Lèvi-Strauss non l’ha sconfessato. In realtà se l’oggetto della filosofia è il pensiero puro, è possibile richiamarsi a Engels e scoprirsi kantiani, meno il soggetto trascendentale.

Si può esprimere in altro modo la medesima difficoltà. La dialettica, oggetto della filosofia, è detta una logica. La filosofia può davvero avere come oggetto l’oggetto della Logica? Sembra che la Logica tenda ormai a disinteressarsi sempre più della filosofia: essa è una scienza.

Certo Engels difende contemporaneamente anche la tesi delle due tendenze, ma materialismo e dialettica da una parte, lotta di tendenze e progresso filosofico esclusivamente determinato dai progressi scientifici dall’altra, ecco qualcosa che è ben difficile da pensare insieme, ossia da pensare. Engels ci prova ma, anche se non si vuole prenderlo alla lettera (che è il minimo, trattandosi di un non specialista), è pur sempre chiaro chi gli manca qualcosa d’essenziale.

Questo significa che manca qualcosa d’essenziale al suo pensiero per poter pensare. Proprio grazie a Lenin noi possiamo accorgerci che si tratta di una mancanza. Manca infatti al pensiero di Engels quello che Lenin gli apporta.

Lenin apporta un pensiero profondamente coerente in cui si trovano sistemate un certo numero di tesi radicali che circoscrivono dei vuoti, ma appunto dei vuoti pertinenti. Al centro di questo pensiero la tesi che la filosofia non ha oggetto, cioè: la filosofia non si spiega col semplice rapporto che essa ha con le scienze. Ci avviciniamo al Punto Nodale n.2. Ma ancora non l’abbiamo raggiunto.


  1. Lenin e la pratica filosofica


Per arrivare a questo Punto Nodale n.2 dobbiamo entrare in un nuovo campo, quello della pratica filosofica. Sarebbe interessante studiare la pratica filosofica di Lenin nelle sue diverse opere. Questo presupporrebbe però che sapessimo che cos’è la pratica filosofica in quanto tale.

Orbene, in qualche rara occasione, Lenin si trova costretto, per le esigenze stesse della polemica filosofica, a dire una specie di definizione della sua pratica filosofica. Ecco i due testi più netti:

«Direte che questa distinzione tra la verità assoluta e la verità relativa è vaga. Vi risponderò: è “vaga” quel tanto che occorre per impedire alla scienza di diventare un dogma nel peggior senso della parola, cosa morta, fredda, ossificata; ma è abbastanza precisa per tracciare tra noi e il fideismo, l’agnosticismo, l’idealismo filosofico, la sofistica dei seguaci di Hume e di Kant, una linea di separazione decisiva e incancellabile» (Materialismo ed empiriocriticismo, p. 102).

«Non si deve certo dimenticare che il criterio della pratica non può mai in fondo confermare o confutare completamente un’idea umana, qualunque essa sia. Questo criterio è inoltre abbastanza “vago” per non permettere alla conoscenze umane di diventare “assolute”, ma è abbastanza determinato per permettere una lotta implacabile contro tutte le varietà dell’idealismo e dell’agnosticismo» (Materialismo ed empiriocriticismo, p. 107).

Altri testi confermano la posizione di Lenin. Non si tratta manifestamente di formule isolate e casuali, ma di un pensiero profondo.

Lenin definisce dunque l’essenza ultima della pratica filosofica come un intervento nel campo teorico. Intervento che riveste una doppia forma: teorica per la formulazione di categorie definite, pratica per la funzione di queste categorie. Questa funzione consiste nel «tracciare una linea di separazione» all’interno del campo teorico tra idee dichiarate vere ed idee dichiarate false, tra lo scientifico e l’ideologico. Gli effetti di questo tracciato sono duplici: positivi in quanto servono una certa pratica – la pratica scientifica – negativi in quanto difendono questa pratica contro i pericoli di certe nozioni ideologiche nel caso specifico quelle dell’idealismo e del dogmatismo. Tali, almeno, sono gli effetti prodotti dall’intervento filosofico di Lenin.

In questo tracciato di una linea di separazione vediamo affrontarsi le due tendenze fondamentali di cui abbiamo già parlato. E' la filosofia materialista a tracciare questa linea di separazione per preservare la pratica scientifica dagli assalti della filosofia idealista, lo scientifico dagli assalti dell’ideologico. Possiamo generalizzare questa definizione dicendo: ogni filosofia consiste nel tracciato di una linea di separazione maggiore mediante cui respinge le nozioni ideologiche delle filosofie che rappresentano la tendenza opposta alla sua; la posta di questo tracciato, e quindi della pratica filosofica, è la pratica scientifica, la scientificità. Ritroviamo qui il nostro Punto Nodale n.1: il rapporto privilegiato tra la filosofia e le scienze.

Ritroviamo anche il gioco paradossale del rovesciamento dei termini in cui la storia della filosofia si annulla nel nulla che essa produce. Un nulla che non è nullo: ha infatti come posta il destino delle pratiche scientifiche, dello scientifico in genere e del suo altro, l’ideologico. Le pratiche scientifiche o vengono sfruttate o vengono servite dall’intervento filosofico.

Che la filosofia abbia una storia e che tuttavia non vi accada nulla, diventa allora intellegibile. L’intervento di ogni filosofia infatti, che sposta o modifica le categorie filosofiche esistenti e quindi produce quei cambiamenti nei discorsi filosofici in cui la storia della filosofia esibisce la sua esistenza, questo intervento è proprio il nulla filosofico di cui abbiamo constatata l’esistenza, giacchè, in realtà, una linea di separazione non è niente, neppure una linea, neppure un tracciato, ma il semplice fatto di «smarcamento», ossia il vuoto di una distanza presa.

Questa distanza lascia la sua traccia nelle distinzioni del discorso filosofico, nelle sue categorie e nel suo dispositivo modificati, ma queste modificazioni non sono nulla in se stesse perché agiscono solo al di fuori della loro presenza, nella distanza o nella non distanza che separa le tendenze antagoniste dalle pratiche scientifiche, che sono la posta della loro lotta.

Ciò che può esservi di veramente filosofico in questa operazione di un tracciato nullo, è soltanto il suo spostamento, ma questo è relativo alla storia delle pratiche scientifiche e delle scienze. C’è infatti una storia delle scienze, e secondo le trasformazioni della congiuntura scientifica (ossia secondo lo stato delle scienze e dei loro problemi) e secondo lo stato dei dispositivi filosofici provocati da queste trasformazioni, le linee del fronte filosofico vengono a trovarsi spostate. I termini che designano lo scientifico e l’ideologico sono dunque ogni volta da ripensare.

C’è dunque una storia nella filosofia piuttosto che una storia della filosofia: una storia dello spostamento, della ripetizione indeterminata di una traccia nulla i cui effetti sono reali. Questa storia può essere letta vantaggiosamente in tutti i grandi filosofi, anche idealisti e in colui che riassume tutta la storia della filosofia, in Hegel. Ecco perché Lenin legge Hegel, con stupore, ma la lettura di Hegel dipende anche dalla pratica filosofica di Lenin. Leggere Hegel da materialista significa tracciare entro di lui delle linee di separazione.

Probabilmente mi sono spinto oltre la lettura di Lenin, ma non credo di essergli stato infedele. In ogni caso dico semplicemente: Lenin ci fornisce di che incominciare a pensare la forma specifica della pratica filosofica nella sua essenza e dare retrospettivamente un significato a numerose formule registrate nei grandi testi filosofici classici. Già Platone infatti, aveva a suo modo parlato della lotta tra gli Amici delle Forme e gli Amici della Terra, e dichiarato che il vero filosofo deve sapere dividere e tracciare linee di separazione.

Rimane tuttavia ancora una questione fondamentale: che cosa ne è delle due grandi correnti che si affrontano nella storia della filosofia? Lenin dà a questo interrogativo una risposta selvaggia, ma sempre una risposta.


  1. La presa di partito in filosofia


Questa risposta è contenuta nella tesi celebre, e, bisogna pur dirlo, per molti scandalosa, della

presa di partito in filosofia.

Una tesi che suona come una parola d’ordine direttamente politica in cui partito starebbe a

significare partito politico, partito comunista.

Eppure basta leggere un po’ da vicino Lenin, non soltanto Materialismo ed empiriocriticismo,

ma anche e soprattutto le sue analisi di teoria della storia e dell’economia per vedere che si tratta di un concetto, e non di una semplice parola d’ordine.

Lenin costata semplicemente che qualsiasi filosofia prende partito, in funzione della sua tendenza fondamentale, contro la tendenza fondamentale opposta, attraverso le filosofie che la rappresentano. Ma nello stesso tempo constata che le filosofie, nella grande maggioranza, tengono moltissimo a dichiarare pubblicamente e a fornire la dimostrazione che esse non prendono partito perché non sta a loro prendere partito.

Così Kant: il «Kampfplatz» di cui parla, va bene per le altre filosofie, precritiche, ma non per la filosofia critica. La sua filosofia si tiene fuori dal «Kampfplatz», in un altro luogo, di dove si assegna appunto la funzione di arbitrare i conflitti della metafisica in nome degli interessi della Ragione. Da quando esiste la filosofia, dal di Platone, sino al filosofo «funzionario dell’umanità» di Husserl, e anche fino a Heidegger, in certi suoi testi, la storia della filosofia è dominata da questa ripetizione, che è la ripetizione di una contraddizione: la denegazione teorica della propria pratica e contemporaneamente giganteschi sforzi teorici per registrare questa denegazione in discorsi coerenti.

La risposta di Lenin a questo fatto sorprendente, che sembra costitutivo della quasi totalità delle filosofie, consiste nel dirci semplicemente qualche parola sull’insistenza di queste misteriose tendenze che si affrontano nella storia della filosofia. Per Lenin, in definitiva, queste tendenze sono in rapporto con posizioni e quindi con conflitti di classe. Dico in rapporto perché Lenin non dice di più, e inoltre Lenin non dice mai che la filosofia si riduce alla pura e semplice lotta di classe, sia pure a quella che viene chiamata nella tradizione marxista la lotta di classe ideologica. Per non eccedere le dichiarazioni di Lenin, possiamo dire che ai suoi occhi la filosofia rappresenta la lotta di classe, ossia la politica. La rappresenta, il che presuppone un’istanza presso cui la politica è così rappresentata: questa istanza sono le scienze.

Punto Nodale n. 1: rapporto tra la filosofia e le scienze. Punto Nodale n. 2: rapporto tra la filosofia e la politica. Tutto si decide in questo doppio rapporto.

Possiamo allora avanzare la proposizione seguente: la filosofia sarebbe la politica continuata in un certo modo, in un certo campo, a proposito di una certa realtà. La filosofia rappresenterebbe la politica nel campo della teoria, per essere più precisi: presso le scienze, – e viceversa, la filosofia rappresenterebbe la scientificità della politica, presso le classi impegnate nella lotta di classe. Come poi questa funzione sia regolata, attraverso quali meccanismi sia assicurata, attraverso quali meccanismi possa essere falsata o finta, sia di regola falsata, Lenin non ce lo dice. La sua convinzione profonda è che in ultima analisi nessuna filosofia può evadere questa condizione, sfuggire al determinismo di questa doppia rappresentazione, che la filosofia insomma esiste in qualche posto, come una terza istanza, tra queste due istanze maggiori, che la costituiscono appunto come istanza: la lotta di classe e le scienze.

Bastano allora ancora poche parole: se troviamo in Engels il Punto Nodale n.1, l’istanza Scienze, non troviamo in Engels, nonostante l’accenno alla lotta delle tendenze in filosofia, il Punto Nodale n.2, l’istanza politica. Ciò significa che Lenin non è il semplice commentatore di Engels e che egli apporta qualcosa di nuovo e di decisivo in quello che si chiama il campo della filosofia marxista: ciò appunto che mancava a Engels.

Basta allora un’altra parola solo per concludere. Infatti la conoscenza di questa doppia rappresentazione della filosofia, è solo, ma è propriamente, l’inizio balbettante, ma l’inizio, di una teoria della filosofia. Che questa teoria sia una teoria embrionale, che sia appena delineata in quella che sembrava essere una semplice polemica, nessuno lo contesterà. Ma almeno queste indicazioni di Lenin, se si vuole raccoglierle, hanno il risultato inedito di spostare la questione in un problema e di sottrarre quella che si chiama la filosofia marxista alla ruminazione di una pratica filosofica che è, da sempre, in modo assolutamente dominante, quella della denegazione della propria pratica reale.

In questo senso Lenin risponde – ed è il primo a farlo giacchè nessuno, nemmeno Engels, l’aveva fatto primo di lui – alla profezia dell’XI Tesi. Risponde personalmente con lo «stile» della propria pratica filosofica. Pratica selvaggia, nel senso in cui Freud parla di analisi selvaggia, che non fornisce i titoli teorici delle proprie operazioni, e che fa gridare la filosofia dell’«interpretazione» del mondo: la quale può anche venire chiamata filosofia della denegazione.

Il fatto è che questa pratica è una nuova pratica filosofica: nuova per il fatto che non è più quella ruminazione che s’identifica appunto con la pratica della denegazione, in cui la filosofia, che pure non smette mai di intervenire «politicamente» nelle questioni in cui si decide il destino reale delle scienze, tra lo scientifico che esse instaurano e l’ideologico che le minaccia, e che non smette mai di intervenire «scientificamente» nelle lotte in cui si decidono le sorti delle classi, tra lo scientifico che è al loro servizio e l’ideologico che le minaccia – nega accanitamente tuttavia, nella teoria filosofica, di intervenire; nuova in quanto è una pratica che ha rinunciato alla denegazione e che, sapendo quello che fa, agisce secondo quello che è.

Se questo è vero, si può allora sospettare che non a caso questo risultato senza precedenti è stato provocato dalla scoperta scientifica di Marx e pensata da un dirigente politico proletario. In definitiva infatti, se la filosofia è stata provocata a nascere dalla prima scienza della storia umana, questo è avvenuto in Grecia, in una società classista, e sapendo bene fin dove lo sfruttamento di classe può estendere i suoi effetti, non c’è da meravigliarsi se questi effetti hanno anche preso la forma, classica nelle società di classe, in cui le classi dominanti negano di dominare, di una denegazione filosofica della dominazione della filosofia da parte della politica. Non c’è da meravigliarsi allora se soltanto la conoscenza scientifica dei meccanismi di dominazione di classe e di tutti i suoi effetti, quale è stata prodotta da Marx e applicata da Lenin, abbia provocato nella filosofia quello straordinario spostamento che fa vacillare i fantasmi delle denegazione, in cui la filosofia racconta se stessa, perché gli uomini lo credano e anche per credervi, di essere al di sopra della politica come è al di sopra delle classi.

Ne consegue che soltanto con Lenin può prendere finalmente corpo e significato la frase profetica della XI Tesi su Feuerbach. «(Fino ad ora) i filosofi hanno interpretato il mondo; si tratta invece di trasformarlo». Questa frase promette una nuova filosofia? Non credo. La filosofia non sarà soppressa: la filosofia resterà la filosofia. Ma sapendo che cos’è la sua pratica e sapendo che cosa è essa, o almeno incominciando a saperlo, può esserne poco alla volta trasformata. Meno che mai potremo dire allora che il marxismo è una filosofia: una filosofia della prassi. Nel cuore della Teoria marxista c’è una scienza: una scienza particolarissima, ma una scienza. Quello che il marxismo introduce di nuovo nella filosofia è una nuova pratica della filosofia. Il marxismo non è una (nuova) filosofia della prassi, ma una (nuova) pratica della filosofia.

Questa nuova pratica della filosofia può trasformare la filosofia. E contribuire inoltre, alla propria stregua, alla trasformazione del mondo. Ma contribuire soltanto, giacchè non sono i teorici – scienziati o filosofi –, non sono neppure gli «uomini» che fanno la storia – ma le «masse», ossia le classi alleate in una medesima lotta di classe.


Febbraio 1968



Nota annessa

Per non ingannarsi sul senso di questa condanna dei professori di filosofia, e della filosofia da essi professata, bisogna fare attenzione alla data del testo e ad alcune espressioni. Lenin, richiamandosi a Dietzgen, condanna i professori di filosofia nella loro massa, e non tutti i professori di filosofia senza eccezione. Condanna la loro filosofia, ma non condanna la filosofia. Raccomanda anzi di studiare la loro filosofia per potere definire e seguire, in filosofia, una pratica diversa dalla loro. Possiamo fare una triplice constatazione quindi, cui nel fondo la data e le circostanze non cambiano niente di essenziale.

  1. I professori di filosofia sono dei professori, ossia degli intellettuali impiegati in un sistema scolastico dato, soggetti a questo sistema, aventi nella loro massa la funzione sociale di trasmettere e inculcare i «valori dell’ideologia dominante». Che possa esistere un certo «gioco» nelle istituzioni scolastiche o altre, che consente individualmente a certi professori di rivolgere il loro insegnamento e la loro riflessione contro quei «valori» stabiliti, non modifica l’effetto di massa della funzione filosofica professorale. I filosofi sono degli intellettuali, quindi dei piccoli borghesi, soggetti nella loro massa all’ideologia borghese e piccolo borghese.

  2. Questa è la ragione per la quale la filosofia di cui, nella loro massa, i professori di filosofia, anche nella loro stessa libertà di «critica», sono i rappresentanti o i poetatori è soggetta all’ideologia dominante – quella che Marx definì fin dai tempi dell’Ideologia tedesca come l’ideologia della classe dominante. Questa ideologia è dominata dall’idealismo.
  3. Questa situazione, tanto degli intellettuali piccolo borghesi professori di filosofia, quanto della filosofia che essi insegnano, o ripetono dandole una forma personale, non esclude che alcuni intellettuali possano sfuggire alle coercizioni cui è soggetta la massa degli intellettuali e, se sono filosofi, aderire a una filosofia materialista e a una teoria rivoluzionaria. Il Manifesto ricordava già questa possibilità. Lenin la riprende e aggiunge che l’apporto di questi intellettuali è indispensabile al Movimento operaio. Il 7 febbraio 1908 Lenin scriveva a Gorki: «Il ruolo degli intellettuali è in diminuzione nel nostro partito: da tutte le parti ci viene annunciato che disertano il partito. Che il buon vento se li porti, queste carogne. Il partito si libera dei rifiuti piccolo borghesi. Gli operai prendono di più le cose in mano. Il ruolo dei militanti operai si accentua. Tutto questo è meraviglioso». Alle proteste di Gorki, di cui aveva richiesto l’aiuto, Lenin risponde il 13 febbraio 1908: «Penso che alcune questioni da voi sollevate a proposito delle nostre divergenze siano soltanto un malinteso. Infatti non pensavo certo di “cacciare gli intellettuali”, come fanno certi stupidi sindacalisti, o negare che siano necessari al movimento operaio. Su questioni del genere non possono esserci divergenze tra noi».

In compenso, nella stessa lettera, le divergenze andavano di buon passo per quello che riguarda la filosofia: «In merito al materialismo, in quanto concezione del mondo, penso di non essere d’accordo con voi nella sostanza…». Non facciamo fatica a immaginarlo, visto che Gorki difendeva la causa dell’empiriocriticismo e del neokantismo.

 

 

Note


1 Comunicazione presentata alla Società Francese di Filosofia il 24-2-1968 e riprodotta con l’approvazione del presidente Jean Wahl.


2 Purtroppo bisogna ormai aggiungere a questa lista il nome di Jean Hyppolite.


3 Le citazioni di Materialismo ed Empiriocriticismo sono fatte seguendo la prima edizione italiana, Studio Editoriale Vivi, 1946. Ndt

Scriviamo in corsivo le citazioni di Dietzgen fatte da Lenin , il quale ha lui stesso sottolineato l’espressione «den Holzweg der Holzwege».


4 Vedi la Nota annessa alla fine del testo.


 

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Ultima modifica 22.06.2012