L'imperialismo unitario

Arrigo Cervetto (1950-1980)

 


Edizioni Lotta Comunista, luglio 1981
Trascritto per internet da Dario Romeo, settembre 2001


Capitolo quarto
L'INDUSTRIALIZZAZIONE
NELLE ZONE IN SVILUPPO, 1958-1961

Nota introduttiva
Cronologia
Tesi jugoslave sottosviluppiste
L'industrializzazione coloniale
Tibet: una rivolta feudale
Marocco: la rottura del Fronte Nazionale
Uganda: l'estensione Del moto nazionalista
Sud Africa: lo sviluppo del capitalismo e la sua internazionalizzazione
Congo: un campo in cui si scontrano forze estranee
Omaggio a Lumumba
Cuba: punto di arrivo di una rivoluzione democratica-borghese in un paese semicoloniale
La questione algerina e l'opportunismo colonialista della sinistra parlamentare francese
Algeria: sette anni di opportunismo
Vittorie e limiti della rivoluzione algerina

 

Nota introduttiva

Negli articoli raccolti in questo capitolo la registrazione degli episodi della decolonizzazione negli ultimi anni Cinquanta è accompagnata dalla definizione delle analisi sull'industrializzazione dei paesi di giovane capitalismo e della conseguente denuncia delle posizioni sottosviluppiste.

Gli ideologi del socialimperialismo hanno presentato la storia dei fatti economici come la storia dell'industrializzazione, accusando i vecchi imperi coloniali della "deindustrializzazione" del Terzo Mondo. Ancora negli ultimi anni hanno seguito il fenomeno della decolonizzazione ammantandosi di moralismo sottosviluppista per propagandare la consistenza pacifica tra i sistemi che doveva risolvere i problemi dell'"uomo" e della sua povertà nei "paesi diseredati." L'ONU ha fornito a queste ideologie delle statistiche in cui la catena di sfruttamento e di sopraffazione che tiene uniti gli Stati si dissolve in una piramide rovesciata rappresentata da quattro gruppi di Stati a diverso livello di reddito. In testa alla piramide abbiamo i 16 paesi capitalistici maggiori che nel 1953 avevano una popolazione complessiva di 509 milioni e 948 dollari di reddito pro capite; in seconda posizione l'URSS e gli Stati europei a sviluppo medio (quelli dell'Est) con 316 milioni di popolazione e 389 dollari pro capite; come terzo gruppo gli Stati dell'America latina con 151 milioni di popolazione e 92 dollari pro capite; infine il gruppo più numeroso rappresentato dagli Stati dell'Africa, dell'Oceania e dell'Asia (esclusi URSS, Nuova Zelanda e Giappone) con 1.186 milioni di popolazione e 68 dollari pro capite.

Dal 1953 al 1962 - periodo nel quale avvengono le maggiori lotte coloniali di cui ci occupiamo - le variazioni percentuali in termini di popolazione e di reddito pro capite sono state le seguenti: per il primo gruppo, rispettivamente, 11,7 e 33,7 per cento; per il secondo gruppo, 12,9 e 44 per cento; per il terzo gruppo, 33,7 e 56,3 per cento; per il quarto gruppo, 42,4 e 27 per cento. La conclusione che ne deriva è che mentre nel 1953 il reddito pro capite dei paesi cosiddetti ricchi era 13,9 volte quello dei paesi poveri appartenenti al quarto gruppo, nel 1962 il rapporto tra i due gruppi si è ulteriormente divaricato, passando a 14,2.

I dati dell'ONU elaborati nei quattro gruppi (malgrado lo sviluppo cinese venisse celato nel quarto gruppo) permettevano già di distinguere i diversi ritmi di sviluppo fra paesi coloniali e paesi semicoloniali. Tale differenza si poteva cogliere dalle variazioni del terzo gruppo - quello che comprende Stati come il Brasile, il Venezuela e l'Argentina - dove l'incremento del reddito è superiore all'incremento demografico. La conclusione che le ideologie sottosviluppiste traevano dall'analisi del divario tra paesi ricchi e paesi poveri era che la lotta e la corsa all'industrializzazione aveva interessato soltanto pochi paesi, per cui doveva essere incentivata una maggiore "cooperazione internazionale", traducibile in esportazione di impianti e di capitali dal primo verso l'ultimo gruppo. Come se l'esportazione d'impianti e di capitali non fosse il contrassegno più tangibile dell'espansione imperialista! Questo infatti è ciò che doveva verificarsi negli anni '60 e '70, come vedremo nei capitoli conclusivi, quando la stessa lotta per l'accaparramento delle materie prime finiva per modificare le ragioni di scambio, determinando una crisi mondiale di ristrutturazione nelle metropoli imperialiste. Le ideologie sottosviluppiste hanno così assolto il compito di coprire e mistificare le ragioni dell'imperialismo nella sua corsa affannosa per dilazionare la sua crisi generale esportando in tutto il mondo il modo di produzione capitalistico.

(Lorenzo Parodi)

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Tesi jugoslave sottosviluppiste

Il problema dello sviluppo economico dei paesi arretrati occupa, nella prospettiva mondiale, un posto di primissimo piano. Possiamo dire che i prossimi due decenni costituiranno la fase storica in cui questo problema sarà il principale protagonista, determinando tutto un nuovo sistema di rapporti di forza e di equilibri per noi ancora imprevedibile. Non è azzardato dire che dipende proprio dalla soluzione di questo problema una più generale soluzione di una economia socialista su scala mondiale.

Nella misura in cui il processo di industrializzazione procederà nelle aree sottosviluppate, si svilupperà uno spostamento qualitativo e quantitativo di incalcolabile portata nel quadro della economia mondiale, cioè del livello di esistenza economica della specie umana. Basti pensare al peso che incomincia ad esercitare, in tutti i settori, il movimento di industrializzazione cinese; si aggiunga che il cammino cinese è il cammino che, presto o tardi, in forme diverse ma non opposte, dovranno percorrere i due terzi della popolazione mondiale, e si potrà fare un confronto indicativo con la rivoluzione industriale dell'Occidente.

Nessuno, del resto, mette in dubbio questa prospettiva storica. Quello che, invece, è in discussione sono i metodi ed i tempi dello sviluppo economico dei paesi sottosviluppati. Quando si scende ad esaminare il problema sotto questi aspetti, una infinità di quesiti teorici e pratici si pone necessariamente sul tappeto.

Riusciranno i paesi sottosviluppati ad avviare un reale processo di sviluppo economico? Riusciranno a formare fondi e tassi di accumulazione di capitale adeguati alle necessità di investimento a lunga scadenza, cioè di investimento nell'industria pesante? E se vi riusciranno, in che misura concorrerà l'investimento imperialista straniero? Sono possibili, sia nel caso di una autonoma accumulazione del capitale che nel caso di parziale importazione di capitale, altre vie che non siano quella cinese, cioè la via, specie per l'utilizzazione massiccia della forza lavoro disponibile, che sinora si è dimostrata la più valida?

A questi quesiti non risponde direttamente Slobodan Brankovic ("Il problema dei paesi sottosviluppati", Feltrinelli Editore, Milano), ma offre molti elementi per approfondire la conoscenza del problema; nei limiti dell'opera, più impostata come saggio che come trattazione organica, l'autore riesce sinteticamente ad affrontare alcuni aspetti essenziali della problematica economica contemporanea delle aree depresse.

Prima di accennare alla sua impostazione, vorremmo dire che la soluzione ch'egli prospetta non sempre convince e, spesso, non gli permette di abbracciare tutte le esperienze che si sono avute in altri paesi. Sostanzialmente, il Brankovic ritiene che spetti all'ONU e ad organismi che si dovrebbero creare nel suo seno il compito principale di aiuto economico per lo sviluppo dei paesi arretrati. È vero che tale compito l'autore lo pone come una stessa esigenza obiettiva dei paesi avanzati che, secondo le sue tesi, sono alla lunga danneggiati dallo squilibrio economico mondiale, ma questa premessa più che dimostrarla egli la sostiene. Indubbiamente esiste una esigenza di questo tipo (ma per ragioni che vanno oltre a quelle enunciare dal Brankovic), ma esistono pure esigenze contingenti contrastanti: la storia dell'imperialismo è piena delle manifestazioni di questa contraddizione fondamentale. Ma ammettiamo pure che l'ONU possa, un giorno, assolvere ad una funzione propulsiva di investimento nei paesi arretrati. Ciò non risolverebbe completamente il problema dello sviluppo economico, poiché accanto all'ONU vi saranno sempre paesi industrializzati che hanno più eccedenza di capitali che altri e che, in forme più o meno dichiarate, eserciterebbero la loro egemonia finanziaria. Acutamente il Brankovic tocca alcuni aspetti che potremmo ricollegare a questa considerazione: il movimento internazionale dei prezzi, l'accentuarsi del divario tra prezzi agricoli e prezzi industriali, la diversificazione economica, il pieno impiego nei paesi industriali, lo squilibrio tra i vari settori nello sviluppo dei paesi arretrati.

I dati e le cifre che ci fornisce sono eloquenti: "secondo i calcoli degli esperti economici delle Nazioni Unite, alla vigilia della seconda guerra

mondiale i paesi agricoli e fornitori di materie prime potevano procurarsi solo il 60% dei prodotti industriali che avrebbero potuto acquistare alla fine del secolo scorso." Un altro esempio sul movimento degli scambi internazionali ci è fornito da una tabella sulla partecipazione dei paesi sviluppati e sottosviluppati alle esportazioni mondiali. Mentre nel 1948 i primi vi partecipavano con il 63,9% ed i secondi con il 36,1%, nel 1955 avevano rispettivamente il 69,9% ed il 30,1%.

Certamente non è con l'investimento ONU, o di altri organismi internazionali, che simili tendenze, che riflettono le condizioni dell'ineguale sviluppo del capitalismo, possono essere corrette radicalmente. Il movimento dei prezzi rispecchia sostanzialmente il movimento della produttività della forza lavoro ed in questa direzione va ricercata la radice dell'imperialismo come espressione della concentrazione monopolistica; non bisogna invece affrontare questo fenomeno sociale partendo da una illusione che può riservare grosse sorprese come quella, ad esempio, di trovare, malgrado l'investimento straniero nei paesi arretrati, perpetuato il divario dei prezzi e della partecipazione allo scambio internazionale, non tanto in cifre assolute quanto in cifre relative.

Anche per questo motivo ci sembra che il Brankovic avrebbe dovuto prestare più attenzione ad una tendenza che comincia a delinearsi nella teoria e nella pratica dello sviluppo dei paesi arretrati; tendenza che, come ci insegna l'esempio cinese, si è maturata al fuoco delle enormi difficoltà incontrate nel reperimento di fonti esterne di investimento e che, per le stesse ragioni, cerca di creare una accumulazione quasi totalmente interna. È un esempio nuovissimo, appena accennato, per molti versi "autarchico", di sviluppo economico e perciò merita di essere seguito e studiato.

(Inedito, agosto 1960)

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L'industrializzazione coloniale

Giustamente è stato osservato, da parte di compagni qualificati, che il problema più grosso, oggi, nella strategia rivoluzionaria del proletariato internazionale, è il moto dei popoli afroasiatici. Potremmo aggiungere che questo problema è inevitabilmente destinato ad ingrandirsi ed a diventare il problema centrale della strategia rivoluzionaria e delle sue prospettive. Sotto certi aspetti è prevedibile che assurga all'importanza del dibattito teorico e politico già aperto sulla natura sociale dell'URSS che ha animato le minoranze rivoluzionarie nei decenni passati.

E in fondo, oggi che parecchi elementi della teoria del capitalismo di Stato sono stati acquisiti stabilmente alla concezione rivoluzionaria, la questione coloniale si riallaccia a quel dibattito ed in esso può trovare spunti di riferimento e di ispirazione. Come in quel dibattito, la attuale problematica coloniale affronta i temi generali dello sviluppo capitalistico nella fase imperialista, i temi della formazione storica del capitalismo di Stato, i temi della caratterizzazione sociale del processo di accumulazione e riproduzione allargata in una fase d'industrializzazione, i temi, infine, del rapporto tra un determinato sviluppo strutturale e le sue forme sovrastrutturali. Sulla scorta di una analisi di questo grande fenomeno e della sua conseguente definizione, la teoria rivoluzionaria è in grado di elaborare una strategia ed una tattica.

È quindi necessario che si arrivi dall'analisi del movimento afroasiatico ad una sua prima definizione. In base a questa preliminare condizione si potranno tracciare le linee di una strategia. Sono necessarie tanto l'analisi quanto la strategia, anzi, l'una e l'altra costituiscono un serio impegno il cui assolvimento rappresenterà indubbiamente un grosso contributo alla costituzione del partito di classe anche in Italia.

Il compito non deve spaventare, anche se esso non è facile e richiede dibattito e chiarificazione.

Abbiamo uno storico esempio, a proposito, nelle discussioni, di alto livello teorico, che animarono il partito bolscevico ed i primi Congressi del Komintern. La stessa qualità delle discussioni ci sta ad indicare quanto l'estrema importanza della questione coloniale ne abbia determinata una soluzione non definitiva e sempre suscettibile di approfondimento. Il problema è sempre aperto, oggi più che mai, poiché è il problema che più segue la dinamica contorta dell'imperialismo.

Pensiamo che su questa estrema importanza della questione coloniale e sulla forte incidenza che essa ha al presente e nel futuro dell'imperialismo l'accordo sia generale. Come generale dovrebbe essere anche sulla constatazione del fatto che l'industrializzazione delle aree arretrate sta diventando una delle leggi obiettive dell'attuale fase storica. Cioè possiamo dire che l'industrializzazione afroasiatica non è solo e non è più l'obiettivo di una volontà politica dei paesi arretrati, ma è obiettivamente una necessità di sopravvivenza e di conservazione del genere umano. L'imperialismo ha portato l'umanità ad un grado di ineguale sviluppo che rasenta la catastrofe, ma dalle stesse contraddizioni dell'imperialismo sorgono forze obiettive che tendono a risolvere tale frattura: queste forze sono la rivoluzione socialista nei paesi avanzati e l'industrializzazione nei paesi arretrati. Se oggi solo una di queste due forze è attiva non significa ch'essa non aiuti a suscitare anche l'altra, anzi l'una e l'altra si condizionano più di quanto si possa credere. Solo la loro reciproca presenza permetterà una soluzione mondiale socialista, soluzione che rappresenta un eguale sviluppo su scala intercontinentale.

Pensiamo che lo strumento della dialettica marxista ci possa aiutare a seguire ed a comprendere la complementarità, l'interdipendenza, la reciprocità dei due fattori, senza cadere in facili schematismi che ne idealizzino l'uno a scapito dell'altro. Anche in questo caso il marxismo ci deve aiutare a non cadere in un "volontarismo" moralistico o in un meccanico "determinismo."

Possiamo, quindi, dire che senza rivoluzione socialista nei paesi avanzati anche l'industrializzazione dei paesi arretrati non può trovare una soluzione di sviluppo organico mondiale, ma che senza l'industrializzazione dei paesi arretrati anche la rivoluzione socialista non può trovare una soluzione mondiale. Anzi - a parte il fatto che l'imperialismo non giungerà al culmine della sua crisi finché le zone arretrate non abbiano compiuto la loro prima fase d'industrializzazione - possiamo dire che anche una rivoluzione socialista limitata ad alcuni paesi avanzati non potrebbe risolvere, se il grado d'industrializzazione dei paesi arretrati fosse molto basso, il problema mondiale dell'ineguale sviluppo che, per riflesso, ne determinerebbe le sorti e la stabilità. Finché vi sarà l'imperialismo vi sarà l'ineguale sviluppo, d'accordo, ma occorre un minimo di basi materiali anche per la rivoluzione socialista per risolvere questo problema: e questo minimo è l'industrializzazione iniziale dei paesi afroasiatici.

Altrimenti - dato l'ineguale ritmo di sviluppo demografico che restringe percentualmente e proporzionalmente la popolazione dei paesi avanzati, in rapporto al totale della popolazione mondiale - la zona arretrata finirebbe inevitabilmente col sommergere la zona avanzata. È la prospettiva storica del Medio Evo che arrestò, con la sua stagnazione, lo sviluppo di civiltà precedenti. Ed è una prospettiva che è concretamente da escludere poiché, appunto, il capitalismo sviluppa tanto le forze produttive da far loro rompere i rapporti di produzione, come ci ha insegnato Marx.

L'industrializzazione delle zone arretrate ne è una luminosa conferma.

Una tappa fondamentale della strategia rivoluzionaria nei confronti della questione coloniale è costituita dalla differenziazione di classe che matura in seno al movimento d'indipendenza nazionale. Il momento in cui le classi sociali che hanno composto il movimento indipendentistico si differenziano ed iniziano il loro scontro d'interessi è, grosso modo, il momento in cui lo sviluppo della realtà economica porta borghesia nazionale e proletariato indigeno ad una frattura incolmabile. Sino a che esistono interessi comuni nella lotta contro l'imperialismo il fronte nazionale rimane unito poiché gli interessi di classe sono convergenti. Quando lo sviluppo della borghesia e del proletariato comportano necessariamente la limitazione degli interessi dell'una o dell'altra classe, ha inizio un nuovo corso della lotta di classe anche nel paese ex coloniale. Senza un minimo ed adeguato sviluppo economico che formi qualitativamente e quantitativamente le due classi antagoniste non esiste, ovviamente, il terreno materiale per una moderna lotta di classe. Anche per questo semplice motivo la lotta d'indipendenza acquista un contenuto progressivo. È naturale che un tale processo sociale avvenga e si sviluppi in forme complesse e contraddittorie, con passi avanti e passi indietro, in una dialettica continua e tumultuosa. Difficile sarebbe fissare dei limiti cronologici alle fasi della lotta d'indipendenza coloniale e ancor più difficile sarebbe individuare il momento in cui gli interessi comuni del fronte nazionale divergono e si pongono le basi obiettive della lotta di classe.

La teoria leninista, però, pone un punto fermo dicendo che i gruppi proletari d'avanguardia debbono, nel momento in cui sostengono la borghesia nazionale nella lotta antimperialista, incessantemente creare organizzazioni autonome di classe e distinguersi ideologicamente e politicamente dalla borghesia stessa. Ad esempio: la lotta per la nazionalizzazione di aziende imperialiste corrisponde ad interessi comuni della borghesia e del proletariato, ma quest'ultimo deve essere educato a conoscere che la nazionalizzazione ha un contenuto capitalista e non socialista. Domani sarà maggiormente in grado d'impostare la sua difesa e la sua azione di classe all'interno delle aziende nazionalizzare.

La strategia di Lenin era imperniata soprattutto sull'Internazionale rivoluzionaria e sui partiti d'avanguardia e sul proletariato dei paesi metropolitani. Erano questi gli strumenti che, lottando contro le proprie borghesie imperialiste e colonialiste, utilizzavano il moto indipendentistico delle colonie per indebolire il fronte imperialista, appoggiavano i nuclei rivoluzionari nelle colonie, assumevano l'egemonia di questa lotta combattuta sui due fronti. Mancando lo strumento principale - i partiti rivoluzionari e la lotta del proletariato nei paesi avanzati - anche il processo di differenziazione sociale nelle colonie viene rallentato e le masse subiscono maggiormente l'egemonia ideologica e la direzione politica della borghesia nazionale. Ciò è ancora più vero nei paesi arretrati dove la direzione è presa dal nascente capitalismo di Stato.

Ma questo fatto che denuncia la grave responsabilità dei partiti che dirigono il proletariato dei paesi industriali e li inchioda al loro tradimento per non avere appoggiato la lotta anticoloniale (vedi, ad esempio, la Francia) non pregiudica l'interpretazione marxista sullo sviluppo storico delle lotte di classe.

L'opera storiografica di Marx ed Engels ci offre una linea chiarissima che, per la Francia, va dal 1789 al 1848. In un cinquantennio classico passiamo dall'unità con la borghesia e sotto l'egemonia borghese allo scontro del 1848. Dopo il giugno 1848 inizia l'offensiva politica del proletariato ed ogni ragione obiettiva di alleanza con la borghesia viene a mancare. Lo scontro del 1848 avviene prima ancora che si formi una forte minoranza ideologicamente cosciente e mentre il programma socialista è in lenta gestazione.

Il mondo coloniale è oggi al 1789. Come e quando arriverà al suo 1848 non possiamo saperlo. 1789 e 1848 nel mondo coloniale si presentano con loro aspetti particolari ed originali poiché anche i problemi particolari dello sviluppo economico sono fortemente influenzati dalla fase imperialistica della economia mondiale.

Questi problemi comportano: rapida industrializzazione e necessità di un veloce ritmo di accumulazione di capitali, pianificazione e tendenza alle nazionalizzazioni e al capitalismo di Stato, creazione di un moderno apparato amministrativo-burocratico che assolva a funzioni tradizionalmente competenti alla sfera privata, esigenza di profonde bonifiche e di pianificazione della salute pubblica ai fini di costituire una idonea forza lavoro, esigenza di diffondere una base minima di cultura tecnica e generale, necessità di stabilire un minimo equilibrio tra ritmo d'incremento economico e ritmo d'incremento demografico.

In questi nuovi aspetti anche l'impostazione della riforma agraria viene a subire una modificazione importante che la differenzia da quella operata dal capitalismo occidentale. Nello stesso tempo che si va formando la piccola proprietà agricola come elemento di riforma antifeudale, sorge già la necessità di superarla per creare grosse unità produttive.

La Cina è un esempio lampante, ma il fenomeno non si limita solo alla Cina poiché quasi tutti i paesi arretrati hanno gli stessi problemi agricoli.

Tutto questo groviglio di problemi va inquadrato nel mercato mondiale degli scambi, dei prezzi delle materie prime, delle esportazioni di merci e di capitali dominato dall'imperialismo.

Si può comprendere, quindi, come il cinquantennio che ci separa dal 1848 coloniale vada restringendosi. Non è ancora finito il 1789 e già sentiamo i primi sintomi della differenziazione di classe.

Nel nostro secolo il cavallo della storia corre al galoppo e morde il freno.

(" Azione Comunista " n. 45, 16 maggio 1959)

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Tibet: una rivolta feudale

Il "tetto del mondo", una delle ultime oasi della teocrazia feudale, l'ultimo dei paradisi terrestri della parassitaria contemplazione religiosa, è stato recentemente scalato dall'impetuosa onda di risveglio moderno che sale dall'immenso mare delle popolazioni asiatiche. Ad una ad una queste oasi della stagnazione secolare vengono invase dalla rivoluzione capitalistica che ha messo in moto il continente asiatico. Il Tibet, paese agricolo la cui struttura feudale era governata da poche migliaia di preti buddisti facenti capo al Dalai Lama, poté arginare per pochi anni la moderna rivoluzione economica che, tramite la riforma agraria, ne avrebbe cambiato il volto, grazie ad un accordo stipulato nel 1951 con il governo centrale cinese in virtù del quale ogni cambiamento strutturale veniva rimandato al 1961. In cambio il Tibet permetteva l'occupazione militare cinese la quale costituiva, oltre al resto, una garanzia strategica nel quadro delle vastissime frontiere della nuova Repubblica Popolare Cinese.

La Cina con questo atto riconfermava l'unità storica della sua entità politica plurinazionale, non già come continuità tradizionale dell'immenso Impero Celeste ma in quanto organica unità di una vasta zona continentale avente interessi economici e politici convergenti. Anche storicamente i problemi nazionali dell'area geopolitica cinese si presentano in modo diverso e con specifiche caratteristiche che li differenziano, ad esempio, dai problemi delle nazionalità dell'Europa centrale danubiana all'inizio del secolo. I problemi delle nazionalità nell'area cinese trovano, forse, un riscontro nell'esempio delle nazionalità che compongono l'attuale Unione Sovietica. Si potrà discutere sui metodi politici ed economici che occorrono per affrontare questi problemi; e a ciò può soccorrere l'acuta teorizzazione e l'azione politica concreta lasciataci da Lenin, dal "diritto all'autodecisione" al "Decreto sulle nazionalità."

Quello che, per un marxista, è ormai fuori discussione è la esigenza unitaria dell'area economico-politica cinese di cui il Tibet è parte integrante. Anzi, pensiamo che questa esigenza non si esaurisca negli attuali confini ma, nella misura in cui lo Stato cinese si sarà rafforzato, alimenterà in futuro rivendicazioni verso territori dell'Asia centrale e settentrionale. A questo riguardo è sintomatico l'accenno che la stampa cinese, per ora ancora in modo saltuario, va facendo sulla Mongolia. Non è improbabile che in futuro anche i rapporti territoriali tra Cina e Russia abbiano a subire importanti modifiche.

Posta in questo quadro generale, la rivolta del Tibet non può non essere definita un tentativo vandeano di arresto di una rivoluzione economica in atto e di alterazione dell'area economica e politica cinese. Assurdo sarebbe pensare ad un Tibet feudale ed indipendente, base di iniziativa disgregatrice degli sforzi che il governo centralizzato del capitalismo di Stato cinese va compiendo per allargare e solidificare un mercato su cui devono vivere seicento milioni di uomini. Assurdo sarebbe pensare ad un Tibet testa di ponte imperialista minacciante le province sud-occidentali della Cina. Se questo è stato possibile sino ad oggi con il Pakistan nei confronti dell'India, certamente non aveva alcuna probabilità di successo nell'altipiano tibetano. Una delle armi imperialiste nelle zone arretrate che possono ritardare lo sviluppo dei capitalismi nazionali, o comunque creare condizioni più favorevoli per l'esportazione imperialistica dei capitali, è la scissione, l'autonomismo, il localismo, l'estremismo federalista. In ogni modo quest'arma costituisce un ostacolo alla necessaria centralizzazione del potere politico e dello sviluppo economico. Questo male "localistico" è l'arma degli Stati feudali indiani che intralciano la riforma agraria, la ritardano, frenano il processo d'industrializzazione. Questa destra economica che preme su Nehru e ne frena l'azione, ha preso pretesto dalla rivolta tibetana per sferrare una offensiva contro l'ala progressista del Partito del Congresso, che rappresenta la borghesia industriale, e per incrinare i rapporti neutralistici tra Cina ed India. Come la casta buddista tibetana alla vigilia delle scadenze che avrebbero, seppur lentamente, aperto la via alla riforma agraria ha tentato una sollevazione armata, così le caste feudali indiane tentano di allargare la loro resistenza collegandosi politicamente alla rivolta del Tibet.

La posizione "centrista" di Nebru è determinata da due opposte pressioni e pur logorandosi in questa altalena riesce ancora a caratterizzare la politica indiana. Obiettivamente la politica di amicizia cino-indiana costituisce un fatto obiettivo di sviluppo non solo per questi due grandi paesi ma per tutto il movimento afroasiatico. Se si dovesse rompere - cosa che per adesso è da escludere - avremo un riflusso di tutto il movimento di indipendenza coloniale ed un maggiore asservimento economico dell'India da parte degli Stati Uniti e della Cina da parte dell'URSS. Sarebbe il miglior regalo che, in questo momento, potrebbe ricevere l'imperialismo.

Positiva è stata, quindi, la repressione cinese della Vandea tibetana.

In questo momento non vi era altra soluzione. Domani anche l'esperienza tibetana potrà essere oggetto di una migliore formulazione della politica delle nazionalità. Ciò, se ne fossero capaci, dovrebbero capire quegli pseudo socialisti che si sono levati in difesa della "libertà" del Tibet e del suo Papa il Dalai Lama!

Per il marxismo rivoluzionario non vi è una "libertà" astratta, avulsa da un contenuto concreto.

In Ungheria, di fronte ad uno scontro di classe tra un compiuto capitalismo di Stato ed una classe operaia che lottava, con la rivendicazione dei Consigli di fabbrica e dell'autogestione diretta delle aziende, per l'attuazione del socialismo, abbiamo preso una decisa posizione internazionalista a fianco degli operai rivoluzionari ungheresi.

Nel Tibet la rivolta è, invece, tipicamente feudale. Non si chiede "libertà" per i Consigli operai ma per i preti buddisti. La "libertà", in questo caso, è dalla parte cinese che libererà i contadini tibetani dal loro servaggio feudale e li spingerà sul cammino della storia moderna che lavora per il socialismo anche nel paese del "Dio vivente."

(" Azione Comunista " n. 45, 16 maggio 1959)

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Cuba: punto d'arrivo di una rivoluzione democratico-borghese
in un paese semicoloniale

Dall'inizio della rivoluzione cubana ad oggi è passato un certo periodo di tempo che può già permettere un primo bilancio parziale: un primo bilancio quantitativo ma, soprattutto, qualitativo. Infatti, se difficile diviene il calcolare gli aspetti quantitativi degli avvenimenti cubani, specie sotto il profilo economico, meno difficile è lo stabilire alcuni degli aspetti qualitativi.

Innanzitutto a che tipo sociale appartiene la rivoluzione cubana? Innegabilmente essa è una rivoluzione democratico-borghese con dei caratteri similari a tutta quella serie di rivoluzioni che agitano il mondo afroasiatico. Ma si differenzia da quelle in quanto non agisce su un territorio coloniale che si sta liberando politicamente. La rivoluzione cubana è, perciò, una tipica rivoluzione semicoloniale, anzi la prima e più importante rivoluzione semicoloniale del dopoguerra. Molto si è discusso, da Lenin e dai primi Congressi dei Komintern in poi, sulla distinzione tra paese coloniale e paese semicoloniale e non sarebbe male, con calma, riprendere questa discussione ed approfondirla. Ad ogni modo i paesi semicoloniali si caratterizzano per la loro formale indipendenza politica, acquisita magari da tempo, e per la loro totale dipendenza economica dall'imperialismo. Mentre i paesi coloniali sono i prodotti del colonialismo pre-imperialista, sul cui nerbo si è poi innestato l'imperialismo moderno, i paesi semicoloniali sono i prodotti puri dell'imperialismo. L'America Latina è un gigantesco esempio della situazione semicoloniale. Indipendente politicamente dall'ottocento, nel nostro secolo è diventata una grossa riserva dell'investimento imperialistico.

La rivoluzione cubana acquista, perciò, un valore storico che trascende il piccolo episodio per divenire punto di riferimento di tutto il movimento semicoloniale sudamericano. Per questo va attentamente seguita.

Per comprendere le due misure economiche fondamentali, riforma agraria e nazionalizzazioni che caratterizzano la rivoluzione democratico-borghese cubana, occorre avere un quadro generale della struttura dell'isola. In questa struttura troviamo elementi che ci inducono a ritenere che solo un forte movimento "giacobinizzante" come quello castrista poteva rompere una situazione stagnante e portare avanti lo sviluppo capitalistico. Anche a Cuba, come in tutte le aree sottosviluppate, si impone oggettivamente la necessità di un capitalismo statale che è il solo capace di permettere uno sviluppo economico medio. Non a caso i due più potenti organismi della rivoluzione cubana, quelli che più ed oltre certe impostazioni demagogiche di Fidel Castro hanno impresso una forte direzione politica al movimento e creato una consistente tendenza unitaria, sono due organismi statali: la Banca Nazionale, diretta da Ernesto Guevara, e l'Istituto per la Riforma Agraria, diretto da Antonio NuÔ ez Jimenez. Attraverso questi due organismi fondamentali la tendenza capitalistica statale ha potuto dare un contenuto economico alla rivoluzione cubana e al suo governo, neutralizzare rapidamente tutti i cedimenti moderati, operare gradualmente per marcare una direzione economica omogenea nella struttura cubana e nei rapporti con i gruppi imperialistici stranieri.

Sotto questo aspetto le misure economiche del castrismo ricalcano più le orme della rivoluzione cinese che non quella della NEP russa, anche se larghe concessioni, in certi settori industriali, sono fatte a gruppi di stranieri.

È forse questa azione capitalistica statale l'elemento più progressivo della rivoluzione cubana ed importante è notare come non sia stato programmato ma sia stato determinato da necessità sorte dall'applicazione dell'obiettivo fondamentale e quasi unico: la riforma agraria.

Si può dire, anzi, che l'obiettivo del movimento castrista sia stato inizialmente l'obiettivo piccolo borghese della riforma agraria e che solo per l'intima connessione che esiste tra la soluzione dei problemi agrari e la presenza attiva di un settore industriale, la realizzazione della riforma agraria veniva a coinvolgere tutta l'economia e ad imporre l'esame dei rapporti con le industrie straniere. Partita con uno slancio piccolo borghese, la rivoluzione cubana era costretta, pena l'esaurimento, ad entrare nel vivo dei problemi industriali che caratterizzano lo sviluppo economico nell'epoca dell'imperialismo. Col sorgere di questi grossi problemi, che in pratica hanno accentuato la lotta contro l'imperialismo americano (lotta non voluta né prevista tanto è vero che gli USA ad un certo momento appoggiarono e coccolarono Fidel Castro contro Batista ed i suoi agrari sostenitori), anche i caratteri piccolo borghesi e sostanzialmente regressivi della riforma agraria perdono il loro peso predominante.

Non è tanto la tesi enunciata da Fidel Castro secondo la quale distribuendo la terra ai contadini, formando la piccola proprietà agricola sullo spezzettamento della grossa conduzione, si determina una domanda di prodotti industriali da parte delle campagne e si hanno quindi le condizioni oggettive per lo sviluppo dell'industria nazionale, non è tanto la discutibile validità di questa tesi l'aspetto più importante della situazione cubana, quanto quello che ne è derivato. Partendo da quella prospettiva piccolo borghese (limitatissima poiché la formazione della piccola proprietà agricola forma sì una accumulazione capitalistica, ma con un ritmo lento e dispersivo e la soluzione economica per spezzare la monocoltura è l'espropriazione e la sostituzione con grosse aziende statali), lo sviluppo successivo non era quello previsto da Fidel Castro ma uno assolutamente nuovo. Intanto la riforma agraria non poteva bastare a sé stessa e creava dei problemi economici insolubili. Lo schema di riforma può restare, anche con il suo peso parzialmente parassitario, per creare ed attivizzare una base sociale di appoggio al governo. Ma è l'impostazione generale che si è già frantumata e che inevitabilmente determina nuove soluzioni. Il castrismo diventa rivoluzione malgrado la sua origine, cioè è costretto a rompere decisamente con il passato.

Tutto ciò, se si esamina a fondo, è dovuto ad una classica creatura dell'imperialismo: la monocoltura. La monocoltura non è una manifestazione economica semifeudale, ma è una delle più alte forme di produzione capitalistica, cioè una delle più alte forme della divisione internazionale del lavoro. La monocoltura, quindi, è il prodotto di una doppia contraddizione: da un lato è uno degli aspetti più avanzati della divisione internazionale del lavoro, dall'altro, per i rapporti imperialistici che si determinano nel mercato mondiale, è oggetto di un determinato rapporto di scambio internazionale che si caratterizza come semicoloniale. Di fronte a questa doppia contraddizione abbiamo un doppio risultato. La monocoltura cubana, basata sulla canna da zucchero, è stata resa possibile dallo sviluppo imperialistico del capitalismo statunitense per il quale la divisione interna del lavoro veniva, ad un certo stadio, trasferita nel mercato internazionale. Questo fatto storico rappresentava un passo avanti per l'agricoltura cubana che usciva da una feudale produzione domestica per entrare in una produzione industrializzata e instaurava nuovi rapporti di tipo capitalistico. Ma il secondo risultato era che tale suddivisione internazionale del lavoro si basava sui bassi prezzi di acquisto, sui bassi salari, che compensavano la bassa produttività, sullo scambio ineguale tra prodotti agricoli e prodotti industriali, sul sovrapprofitto imperialistico. La monocoltura diveniva un mezzo di conservazione dell'imperialismo americano.

Da un punto di vista di una economia socialista unificata mondialmente si tratterebbe non di abolire la monocoltura ma di integrarla, sulla base di mutati rapporti di produzione, nella pianificazione internazionale.

Ma attualmente non esistono tali condizioni e, quindi, i movimenti di tipo cubano assumono una spinta e una direzione autonoma che risulta essere composta, come abbiamo visto, da esigenze interne e da condizionamenti esterni. Partiti per attaccare alla radice la monocoltura e per creare una policoltura, finiscono col mantenere la monocoltura - che tra l'altro è una condizione indispensabile per le loro vitali esigenze di scambio internazionale sulla base di un improduttivo spezzettamento della proprietà agricola. il prezzo che devono pagare per essere in grado di affrontare problemi più grossi.

Con una popolazione di circa sei milioni di abitanti, Cuba ha il 53% della terra coltivata a canna da zucchero. Undici compagnie USA sino all'anno scorso controllavano il 37% delle terre coltivate a zucchero, cioè 1.181.000 ettari (la United Fruít 260.000, la Cuban American Sugar 148.000 ecc.). Nove latifondisti cubani controllavano circa 624.000 ettari, cioè il 25% della terra. Infine, l'1% dei proprietari agricoli possedeva il 50% della terra. Praticamente i piccoli proprietari erano relegati nella miseria ed era da questa massa che si creava un bracciantato fluttuante di circa 400 mila unità. Con la riforma agraria, che vieta il possesso di più di 420 ettari, sono state create 200 mila nuove piccole proprietà a cui lo Stato ha dovuto, però, venire in soccorso con centri di distribuzione viveri che le garantiscono contro le fluttuazioni dei prezzi, con una sottoscrizione di 20 milioni di dollari per l'acquisto di macchinario, con l'istituzione di oltre 700 cooperative.

Pensiamo che se la riforma agraria ha dato uno slancio di massa al movimento cubano di certo non ha risolto, anzi ha aggravato, il problema economico che sta alla base della monocoltura: il costo di produzione. Senz'altro molte delle terre incolte espropriate permetteranno un relativo sviluppo di coltivazioni alimentari che saranno riversate nel mercato interno, ma anche ciò sarà proporzionato allo sviluppo della industrializzazione, dell'urbanesimo, del potere di acquisto delle masse lavoratrici.

Questo sviluppo non diminuisce quantitativamente la monocoltura, anzi la esaspera poiché la monocoltura è determinata dal mercato mondiale e non dai rapporti sociali nelle campagne cubane.

Tali rapporti e le leggi economiche che li generano (accumulazione ed investimento di capitali) si muoveranno nella direzione in cui si muovono le tendenze fondamentali del mercato mondiale (ad esempio i prezzi delle materie prime e dello zucchero ed il divario con i prezzi dei prodotti industriali). Sino a quando Cuba non sarà industrializzata sarà stretta in una morsa. Dovrà vendere zucchero ai prezzi internazionali che riflettono il crescente divario con i prezzi dei prodotti industriali, anche se sovietici, e dovrà venderlo a costi di produzione più bassi possibili, cioè con la più alta produttività agricola possibile. Questa sarà una delle vie centrali per avere un'accumulazione adeguata all'industrializzazione ma sarà anche la via che condurrà alla disgregazione degli attuali rapporti sociali nelle campagne, altrimenti tutta la possibile accumulazione sarà risucchiata dal sostegno dei prezzi agricoli.

Su questo problema di fondo, che schematicamente si può riassumere nel costo di produzione dello zucchero, si incentra tutta la prospettiva dello sviluppo della rivoluzione cubana come di tutte le rivoluzioni semicoloniali dell'America Latina, in quanto Cuba non ne è che un tipico esempio, un "test" potremmo dire.

La produzione cubana di zucchero, infatti, oscilla sui 60 milioni di quintali. Sinora gli Stati Uniti acquistavano circa 32 milioni di quintali al prezzo di 5,30 cents alla libbra, cioè ad un prezzo superiore al prezzo di produzione cubano e al prezzo mondiale, rispettivamente 4 cents e 3,30 cents.

In questo scambio gli Stati Uniti praticamente regalavano 100 milioni di dollari a Cuba che, naturalmente, andavano alle Compagnie statunitensi ed al loro massiccio investimento di un miliardo di dollari nell'isola. Nel 1960 gli Stati Uniti, con un tipico gesto imperialista, acquistarono solo i 4/5 del quantitativo stabilito e la rimanente giacenza invenduta, di 7 milioni di quintali, mise in crisi l'economia cubana. Intervenne allora l'Unione Sovietica che acquistò 5 milioni di quintali di zucchero ad un prezzo calcolato tra i 2,78 e i 3 cents la libbra. Rispetto al suo costo di produzione Cuba perde circa 1 cent la libbra che integra, per ora, con il già realizzato sovrapprezzo statunitense.

Praticamente l'URSS si è inserita in questa zona del mercato mondiale secondo le leggi tipiche dell'imperialismo. Ha stabilito con Cuba una serie di accordi per il rifornimento di petrolio e per l'acquisto futuro di ben 50 milioni di quintali di zucchero, cioè ha utilizzato a suo favore la divisione internazionale del lavoro ed i prezzi che ne derivano.

Anche questo nuovo aspetto mette in luce la situazione della zona semicoloniale e l'intreccio tra le tendenze imperialiste e la lotta antimperialista. L'esempio di Cuba, con l'inserimento sovietico, dimostra perciò che oggettivamente le rivoluzioni semicoloniali vanno contro l'imperialismo e contribuiscono a prepararne la crisi, ma hanno dei limiti ineliminabili poiché la vera lotta antimperialista non può essere condotta che dal proletariato internazionale.

(" Azione Comunista " n. 54, 10 ottobre 1960)

 

 


Ultima modifica 09.09.2001