L'imperialismo unitario

Arrigo Cervetto (1950-1980)

 


Edizioni Lotta Comunista, luglio 1981
Trascritto per internet da Dario Romeo, settembre 2001


 

Capitolo quinto
LA DESTALINIZZAZIONE, 1956-1961

Nota introduttiva
Cronologia
Il corso dell'imperialismo nel 1955-56
La destalinizzazione: nuovo passo dell'imperialismo unitario e della socialdemocrazia
La struttura economica sovietica e i problemi della rivoluzione e dello Stato
Polonia: la spinta delle masse operaie a Poznan
Ungheria: primo bilancio della rivolta
Il rapporto Gomulka: atto d'accusa contro l'imperialismo russo
Nuovi sviluppi della politica imperialistica alla fine del 1956
Gli insegnamenti della rivolta ungherese (a proposito delle tesi di "Socialisme ou Barbarie")
La fisionomia della nuova classe dominante e la mediazione delle forze sociali in URSS
Sul capitalismo di Stato in URSS (a proposito di una tesi di B. Rizzi)
Trotsky sulla Russia
Il XXII Congresso del PCUS e le esitazioni del PCI nel processo di destalinizzazione

 

 

La fisionomia della nuova classe dominante e la mediazione delle forze sociali in URSS

Dalle corrispondenze da Mosca dei grandi giornali occidentali si Possono ricavare molti esempi di vita sociale della nuova classe dominante, tanto che ne potrebbe uscire fuori benissimo un'analisi sul tipo di quella che T. Veblen fa con la sua "teoria della classe agiata." Chi sono i componenti di questa alta società? Sono i componenti della enorme alta burocrazia moscovita. Anche per spiegare gli ultimi provvedimenti decentralizzatori del governo, basti pensare che a Mosca vi sono ben 52 Ministeri dell'URSS, con 370 Divisioni Generali e 28 Ministeri della Repubblica Federale con 260 Divisioni Generali. Questo alto complesso burocratico è costituito da un apparato di 400 Ministri e vice Ministri e da 2.500 direttori e vice direttori. Un apparato a parte è poi rappresentato dalle alte burocrazie del partito e delle organizzazioni di massa.

Questo quadro della classe dominante corrisponde tuttavia ancora alla tesi di Trotsky, per cui la preponderanza nella burocrazia dirigente rimane ai funzionari dell'amministrazione e del partito, cioè ai cosiddetti "paratniki." Senza propendere verso la tesi opposta, quella dell'ex trotskista Burnham, che vede la tendenza alla costituzione di una tecnocrazia per cui i tecnici predominano nell'apparato statale, vediamo di cogliere le metamorfosi della classe dominante e le sue lotte di frazione, rilevando la pressione dei manager e trovando una spiegazione al "nuovo corso" economico operato dalla destalinizzazione.

Vediamo le ragioni dei conflitti in corso tra i pianificatori messi in luce da Deutscher (i conflitti, più che le ragioni) a commento del nuovo piano di riorganizzazione dell'economia presentato da Kruscev in febbraio. Perché per la prima volta il governo sovietico ha ammesso che un Piano era stato concepito erroneamente? Perché lo sviluppo economico rende inadeguata la vecchia pianificazione. Essa era il risultato di una pratica accentratrice, concepita come una necessità inderogabile dalla dittatura staliniana che mancava di quadri e temeva il sorgere di forze centrifughe e di deviazioni. L'accentramento era l'unica forma di direzione e controllo nel periodo primario dell'accumulazione, mentre le necessità del decentramento sono nate con la maturazione imperialista dell'URSS, quando è stato possibile verificare, sotto lo stimolo del confronto con gli altri imperialismi, che la vecchia pianificazione staliniana aveva portato allo sperpero, al formalismo degli obiettivi e al distacco burocratico dalle stesse tendenze di sviluppo.

Le ragioni del decentramento si possono così riassumere: 1) esigenza di favorire uno sviluppo a livello territoriale di un'industria finora concentrata in zone di alta densità come quelle di Mosca e Leningrado; 2) impossibilità di dirigere dal centro un complesso di 200 mila aziende, per cui o si moltiplicano sino all'assurdo i Ministeri specializzati o si creano forme più elastiche di gestione; 3) esigenza di eliminare il "dipartimentalismo" come fenomeno che ha portato al distacco burocratico dalle istanze dell'espansione economica.

Questo spiega perché Pervukhin si è sbracciato al XX Congresso contro il "meschino atteggiamento burocratico" e perché Saburov ha a sua volta lamentato la mancanza di specializzazione e di cooperazione fra i vari settori industriali, prigionieri dello "spirito di categoria." Anche Baibakov, sempre al XX Congresso, aveva denunciato il caso di industrie che inviano materiali dalla Siberia alla Russia europea invece di scambiarli in loco, provocando così sovraccarico dei trasporti e aggravio di costi. Sono stati citati esempi di questo genere relativi alle zone di Alma Ata e dell'Amur. Ma ecco l'esempio di una fabbrica di Svoboduoie che costruisce mille officine mobili di riparazione all'anno, ma ne fabbrica solo alcune parti: per la finitura le invia nella Russia occidentale, col risultato di spendere in trasporti 5-6 volte il costo di produzione.

Questi assurdi economici della pretesa pianificazione sovietica si moltiplicano con l'espansione economica. Il "nuovo corso" seguito alla morte di Stalin aveva già posto il problema del decentramento e le misure del 1957 non ne sono che il risultato. I primi segni di questo processo si riscontrano nel rapporto di Kruscev al Comitato Centrale del PCUS tenuto il 3 settembre 1953 sulle disastrose condizioni dell'agricoltura. Nel 1953 l'agricoltura sovietica risultava più arretrata, in confronto all'agricoltura occidentale, che nel 1928. Le cause dell'arretratezza, ovviamente, andavano ricercate nella priorità agli investimenti nell'industria pesante, nella forte tassazione in funzione dell'accumulazione e nell'ammasso statale a prezzi assai bassi; ma la pianificazione sovietica, come strumento tutt'altro che razionalmente adatto all'industria, aveva i suoi effetti fallimentari soprattutto sull'agricoltura. Prima del 1953 gli assurdi del sistema di pianificazione, basati su norme elaborate su indici precedenti, facevano sì che i kolchoz più produttivi dovessero realizzare norme più elevate. Dopo venne abolita la pianificazione centrale dei kolchoz, lasciando ai kolchoz la pianificazione locale: compito del centro fissare solo quantitativi di consegna e vendita. È vero che al primo cenno di decentramento venne rivendicata anche la gestione colcosiana delle "stazioni macchine trattori" (SMT) determinando una nuova assurdità economica, ma il sistema di pianificazione precedente aveva prodotto addirittura il fenomeno dell'imboscamento burocratico. Nel 1953 soltanto 18.500 specialisti lavoravano nei kolchoz (uno specialista ogni 5 kolchoz), mentre 75.000 persone catalogate come specialisti erano impiegate nell'amministrazione dei servizi agricoli.

Nel 1955 avviene la riforma del Gosplan, diviso in due commissioni, una per la pianificazione a lungo termine, l'altra per la pianificazione annuale. Le voci dei programmi di produzione approvati dal governo come parte del Piano annuale vengono ridotte da 5.000 a 1.700. Nel passato l'80 per cento degli investimenti doveva essere approvato dal governo; nel 1955 solo il 50 per cento dei programmi d'investimento è devoluto all'approvazione del governo, mentre l'altro 50% è lasciato alla competenza dei Ministri specializzati.

Dal 1954 al 1955 11.000 aziende vengono passate alle dipendenze dirette delle varie Repubbliche. Vengono decentrate quasi tutte le industrie dei beni di consumo (tessili, alimentari, leggere varie), i trasporti fluviali e stradali, il commercio al minuto.

Conseguente al decentramento, si pone il problema di snellire il formalismo burocratico, un fenomeno nato e prosperato con lo stalinismo. Nel 1939 il Ministero della meccanica pesante richiese alle aziende dipendenti che i rapporti di produzione fossero redatti su 176 formulari, per un totale di 235 mila voci. L'anno scorso, alla Conferenza del Carbone a Stalino, Kruscev ha denunciato che le direzioni aziendali minerarie del trust di Voroscilograd, nel 1955, sono state assediate da ben 1.800 ordinanze e direttive.

La riforma burocratica porta in primo piano il rinnovamento e il ruolo dei manager. I quadri tecnici si sono ringiovaniti, con un'età media che oscilla tra i 45 e i 55 anni. Numerosi, indispensabili data la crescente specializzazione industriale, politicamente sicuri, perché figli del regime e membri del partito, sferrano una prima offensiva nella primavera del 1955. Al Comitato Centrale del PCUS (luglio 1955), Bulganin giustifica le loro richieste e il 12 ottobre le "Isvestia" annunciano che hanno ottenuto nuovi diritti concernenti l'autonomia della direzione aziendale. È un primo passo: questi nuovi diritti diminuiscono le prerogative dei burocrati, ma non vanno oltre il quadro aziendale.

Il movimento dei manager incomincia ad esprimere l'ideologia tecnocratica in funzione del profitto d'impresa. La rivista "Kommunist", l'8 maggio 1956, scrive: "Col passaggio alla produzione in stabilimento, con l'aiuto delle macchine, un nuovo elemento è apparso nel tempo di produzione necessario: il "tempo della macchina", vale a dire il tempo che la macchina stessa impiega a compiere le operazioni che prima venivano eseguite dall'operaio."

Questa scoperta di un "nuovo elemento" somiglia molto alle scoperte dei teorici borghesi quando distinguono tra produttività del lavoro e "produttività del capitale", quando trasformano il capitale in macchinario produttivo per impedire che il tempo di lavoro, con l'impiego delle macchine, anziché accrescere il pluslavoro, venga convertito dagli operai in tempo disponibile a loro favore. Questo "tempo della macchina", esterno all'operaio, che il "Kommunist" vuole utilizzare per fondare "obiettivamente" le norme di lavoro degli operai, come farlo quadrare con il "tempo di lavoro medio socialmente necessario" di cui Marx si serve per stabilire la sua teoria del valore?

Un'analisi del genere, come revisione tecnocratica dell' "aspetto economico della teoria marxista", corrisponde anche all'obiettivo di alzare la quota di potere dei manager attraverso una campagna produttivistica. Infatti nell'ottobre 1956 abbiamo la seconda offensiva tecnocratica. Glebovski, direttore di un grosso trust, chiede sulla "Sovietskaia Rossia" del 10 ottobre di abolire il Gosplan e di creare degli organismi pianificatori regionali, ai quali dovrebbero collaborare i direttori aziendali. Con questa richiesta di nuovi organismi speciali, fuori dall'ordinamento burocratico statale, i manager chiedono in sostanza la compianificazione.

Già sulla "Pravda" del 18 settembre 1956, il professor Kozlov aveva chiesto di estendere il criterio dell'interesse materiale ai principali servizi di direzione dei Ministeri. Se queste rivendicazioni venissero soddisfatte, tra direzioni ministeriali ed aziendali si formerebbe un apparato tecnocratico unificato che controbilancerebbe il potere di gruppi amministrativi e politici della burocrazia.

Questa seconda offensiva tecnocratica non è riuscita perché ha suscitato una reazione operaia. I direttori aziendali, incoraggiati dall'ospitalità data dalla stampa sovietica alle loro tesi, forti della loro crescente autorità, sono passati alla revisione dei salari e delle norme di lavoro. Hanno ecceduto perché il "Trud" del 21 novembre 1956 scrive: "La maggior parte degli errori hanno avuto luogo in officine i cui lavoratori sono stati poco interessati alla elaborazione delle nuove norme."

La stampa occidentale ha parlato di scioperi. La reazione operaia è stata ferma, non episodica. Infatti la pressione operaia supera praticamente i sindacati nel volere una collaborazione diretta, di base, per una revisione delle norme più conforme agli interessi operai. In molte imprese il senso che assume la revisione è contrario agli scopi del governo e dei direttori: la tendenza è al livellamento dei salari, non alla differenziazione più accentuata. Questa spinta rivendicativa porta gli operai a temere meno la polizia politica.

Tuttavia pare che gli stalinisti abbiano favorito la reazione operaia nei confronti delle pretese dei manager. Il "Trud" del 15 settembre 1956 attacca il "dispotismo" di alcuni direttori aziendali. Nel numero del 22 settembre dice che alcuni direttori abusano del loro diritto di licenziamento per disfarsi dei dipendenti che danno loro fastidio. Ancora il 28 settembre quest'organo dei sindacati accusa certi funzionari sindacali d'impresa di non aver tutelato i lavoratori.

In altre parole, il "Trud" invita i burocrati sindacali a legarsi maggiormente alle masse, per utilizzarle nella lotta contro la tecnocrazia la quale vuole aumentare il suo potere. Analogamente reagiscono i burocrati del Comitato del Piano di Stato che si sentono minacciati dalle ambizioni pianificatrici dei manager. Essi chiedono che, anziché creare nuovi organismi pianificatori, si rafforzino quelli esistenti facendovi partecipare le "collettività operaie." Sostanzialmente, la burocrazia amministrativa, che aveva costituito il più valido appoggio di Stalin, per difendersi dall'attacco della burocrazia tecnocratica (come scrive J. Michel su "La Nef", n. 4, marzo 1957) "sembra dunque spingere i suoi membri a cercare l'appoggio della classe operaia."

Seguendo questi aspetti del nuovo corso sovietico, caratterizzato dalla pressione dei tecnocrati e dal risveglio operaio, abbiamo secondo la terminologia ufficiale tre classi in URSS: operai, contadini e intellettuali. L'analisi svolta dal Michel descrive l'intreccio complicato dei contrasti di queste classi. È dunque possibile rilevare che gli intellettuali (pur accettando con tutte le riserve questa terminologia) hanno degli interessi che sono: 1) interessi comuni di classe; 2) interessi contrastanti con le altre classi; 3) interessi contrastanti all'interno della loro classe. Essendo nazionalizzata la proprietà dei mezzi di produzione, la lotta economica assume gli aspetti di una lotta per il potere, cioè di una lotta per la detenzione di questi mezzi di produzione. Di qui l'enorme importanza che assume la lotta tra i vari gruppi per dominare le varie branche del potere ed i compromessi, gli equilibri e gli sviluppi che nella dinamica della lotta vengono a determinarsi.

Forzatamente la lotta economica che si svolge in Russia deve assumere le forme che sono proprie dei "gruppi di pressione." Per questo la letteratura sociologica di stampo anglosassone sui gruppi sovietici, di cui le analisi del Michel e del Deutscher sono esempi, può, depurata degli schemi sociologici, aiutare nella descrizione della lotta delle classi e delle frazioni dell'URSS.

La lotta tra "apparatniki" e manager è un esempio classico di lotta di frazioni borghesi. Il PCUS all'inizio lascia sviluppare l'offensiva tecnocratica perché convinto dell'efficienza economica dei manager e perché non può trascurare ogni possibilità di rapido aumento della produzione. Conferma il Michel: "Un tale aumento gli è indispensabile per difendere il sistema all'estero e per fornire una spiegazione dei privilegi all'interno. Se le masse non fossero certe che la produzione aumenta negli stabilimenti, la rivendicazione d'uguaglianza sarebbe troppo forte contro coloro che guadagnano di più, perché si ritiene rechino un maggior apporto." Perciò l'ala più avanzata, più krusceviana, della burocrazia politica ha ritenuto necessario sacrificare alcuni settori della burocrazia politica all'aumento della produzione e al mantenimento dei privilegi della maggioranza, accettando alcune rivendicazioni dei tecnocrati.

Nell'agosto 1956, però, le statistiche indicano che il Piano non è stato realizzato in alcuni settori dell'industria pesante, malgrado che dall'ottobre 1955 i manager aziendali avessero aumentati i loro diritti. Così il Comitato Centrale del PCUS, nell'ultima sessione, ha denunciato il fatto che alcuni manager aziendali praticavano la "sottopianificazione", dissimulavano cioè le capacità produttive dell'azienda per avere obiettivi ridotti.

Dopo la crisi ungherese, nel novembre 1956 la burocrazia politica capeggiata da Molotov, Malenkov e Suslov prende posizione contro i tecnocrati. Molotov viene nominato Ministro del Controllo di Stato. La "Pravda" si interessa, inconsuetamente, alle lamentele degli operai. Il partito si presenta come il veicolo per il ricorso normale delle masse contro il direttore aziendale. Tutto questo per puro "strumentalismo", non certo come riscoperta rivoluzionaria di una "democrazia operaia." Il partito viene riformato secondo questa indicazione: "dirigere meno, controllare di più", cioè la burocrazia politica non deve più occuparsi della gestione diretta dell'economia, ma deve stabilirla e controllarla.

L'empirismo neostalinista, dopo essere stato contingentemente espresso dal compromesso Molotov-Kruscev, viene superato con la vittoria di Kruscev sul gruppo "antipartito." Inizia il pensionamento della vecchia burocrazia staliniana e la mediazione delle forze sociali, dopo l'altalena pro o contro la politica dei beni di consumo, passa attraverso le funzioni di un nascente strato intermedio costituito dagli specialisti dell'industrializzazione. La svolta krusceviana completa così il quadro dei rapporti di classe in URSS avvicinandoli sempre più al modello americano.

(Inedito del 1957)

Inizio pagina

Sul capitalismo di Stato in URSS
(a proposito di una tesi di Bruno Rizzi)

Nel n. 16 di "Azione Comunista", B. Rizzi, autore di "Collettivismo burocratico", interveniva nel dibattito sulla natura sociale dell'URSS con un articolo intitolato "Marxismo antidogmatico." B. Rizzi premetteva di non voler mettere in discussione il marxismo quale concezione del divenire sociale e non faceva alcuna concessione al "primato della politica": "oggi più che mai possiamo affermare che il fattore economico è determinante e generatore delle sovrastrutture morfologiche, politiche, giuridiche e morali della società", affermava. La polemica di Rizzi riguardava certe presunte "posizioni dogmatiche" dei successori di Marx (Engels e Lenin) che avrebbero commesso l'errore di "credere che la semplice abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e la pianificazione produttivo-distributiva potessero portare alla costruzione del socialismo". B. Rizzi riprendeva appunto la sua tesi sul "collettivismo burocratico" sostenuta nel 1939 in polemica con Trotsky il quale, ancora alla vigilia di essere assassinato dai sicari di Stalin, "s'incaponiva a difendere l'URSS perché ivi la proprietà privata era stata abolita."

Rifiutava di attribuire "colpe a questo od a quel capo, a questa od a quella frazione del movimento rivoluzionario. Dico che ci siamo sbagliati tutti quanti, riaffermo che l'assunto per cui statizzando le aziende e pianificando la produzione e la distribuzione si dovrebbe arrivare al socialismo, è completamente sbagliato." E ciò per sottolineare che al posto di Stalin, altri (lo stesso Trotsky) avrebbero commesso "più o meno barbaramente" gli stessi "errori." A suo giudizio: "Lenin deve averlo capito meglio di tutti perché davanti al disastro ripiegò sulla NEP come ora sta facendo Gomulka." Aggiungeva che "Il disastro sovietico conferma il marxismo: dice che un sistema economico non socialista non può portare al socialismo. Dice che l'economia applicata in Russia non è socialista e che se si vuole il socialismo bisogna trovare prima il sistema economico socialista e poi applicarlo." Nell'intervento del 1957, essendo ancora fresche le manifestazioni imperialistiche dell'URSS in Polonia ed Ungheria, Rizzi rilevava che la "pianificazione è un organo economico alquanto più imperfetto ed irrazionale del mercato." Al punto che, esemplificando, bisognerebbe riportarsi all'Annona dell'Impero Romano "per trovare gli sperperi, costi e la burocratizzazione che deliziano l'URSS da oltre trent'anni." Questo per sostenere la tesi che il marxismo avrebbe avuto fretta di eliminare il mercato, meccanismo economico destinato ad andarsene naturalmente quando la sua funzione sarà terminata, cioè eliminata progressivamente da un sistema superiore. Infatti: "Non basta abolire la proprietà privata, bisogna introdurre un rapporto di produzione che eviti i1 coagulamento di un nuovo potere, sia pure collettivo ma non sociale, sui mezzi di produzione. In regime socialista i proprietari devono essere i consumatori, non i produttori, neanche se di marca proletaria. Oggi in Russia i reali proprietari dei mezzi di produzione sono í burocrati. Non in forma privata, ma collettiva, di classe. Proprietà di classe proclamammo fin dal 1938."

È per questa ragione che "i lavoratori comunisti e socialisti ungheresi non si sono mai rivoltati contro il defunto Stalin, ma contro l'ordine sociale che viene loro imposto dalla statizzazione delle aziende e dalla pianificazione. Hanno scritto a caratteri di sangue che questo genere di socialismo non lo vogliono. Ed hanno ragione perché questo non è socialismo."

La conclusione di B. Rizzi rendeva doverosa una replica. "Per il momento - diceva - è necessario continuare a servirsi del mercato ed a subirne le ingiustizie perché manca il volume produttivo che lo renda eliminabile. Inutile è altresì perdersi in querimonie ed appelli alla giustizia perché l'Economia non intende questo frasario e non può commuoversi. Infinitamente più saggia, ci addita la via dell'aumento progressivo della produzione, proprio per giungere a quel fine che oggi prematuramente vorremmo realizzare."

Abbiamo riportato ampiamente l'intervento di Bruno Rizzi per rendere ancora più comprensibile la nostra risposta.

Karl Marx, chiudendo le celebre prefazione alla "Critica dell'Economia Politica", faceva suo il noto verso dantesco con queste parole: "Ma all'ingresso della scienza, come all'ingresso dell'inferno, un'esigenza preliminare va posta. Qui si convien lasciar ogni sospetto, / Ogni viltà convien che qui sia morta."

Applicando l'analisi marxista nello studio della struttura economica sovietica non dovremmo mai dimenticarci di queste parole. In fondo è proprio il pregiudizio sentimentale quello che ha impedito una vasta chiarificazione dell'equivoco sovietico e ciò è comprensibile - vorremmo dire umano - dato che sono le grandi correnti di sentimento collettivo quelle che scuotono ed impregnano le masse e che ricoprono la superficie di vasti movimenti storici. Tanto comprensibile risulta questo fenomeno quanto più lo riscontriamo in uomini ed opere che - per la elevata personalità degli autori e per il livello scientifico delle opere stesse - per la loro maturità dovrebbero esserne esenti.

Per non citare Stalin, la cui opera di definizione scientifica della società è così viziata di contraddizioni e così scoperta di grossolanità ideologiche da essere vulnerabilissima nello scontro con l'analisi marxista, potremmo indicare due considerazioni fondamentali sull'opera di Trotsky. La prima riguarda, appunto, il legame sentimentale che la pervade, legame che corre ininterrottamente come un filo lungo la vita e l'opera dell'autore. Trotsky è l'uomo del 1905 e della Rivoluzione d'ottobre, è uno dei massimi fondatori della nuova società sovietica e ad essa rimane legato nella pratica e nei sogni. Ciò non costituisce un demerito, anzi, ma ciò inficia seriamente la scientificità della sua opera. Questa rimarrà sempre un grande documento della involuzione controrivoluzionaria della società sovietica, ma rimarrà come un documento che è ancora "dentro la crisi", che non l'ha ancora superata, che non si è ancora posto al di fuori e al di sopra della crisi come, appunto, è caratteristica principale di ogni vera opera scientifica.

La pretesa degli epigoni di Trotsky di voler presentare "La Rivoluzione tradita" come l'opera che - con la teoria della Stato operaio degenerato - ha dato l'unica definizione scientifica della natura sociale dell'URSS, non solo rimane una pretesa, ma praticamente porta l'opera stessa in una sede che non le è propria e da dove uscirebbe sminuita.

Una seconda considerazione riguarda il carattere marcatamente politico dell'attività teorica di Trotsky. Anche quando scrive "La Rivoluzione tradita" Trotsky pone la sua attenzione maggiormente agli aspetti politici dell'oggetto che analizza. Nella società sovietica egli vede soprattutto il partito, la lotta in seno a questo, le prospettive di una azione, anche vicina, che riproponga il problema del potere in seno al partito e nella società. Trotsky è ancora il politico della Rivoluzione d'ottobre e dei lunghi dibattiti che ne seguirono il movimentato corso.

Se non si tiene conto della preminenza del fattore tradizione-sentimento e del fattore contingenza-politica nell'opera di Trotsky, non si capisce come tutta la "teoria dello Stato operaio degenerato" riposi su di una fragilissima tesi: cioè che il carattere socialista del sistema di produzione sovietico è dato dal fatto che i mezzi di produzione sono di proprietà dello Stato.

Di fronte all'acume di tanta analisi trotskista, si rimane veramente sorpresi nel constatare come la interpretazione di Trotsky scivoli sulla banalissima buccia di banana della finzione giuridica dei rapporti di produzione e cada prima di entrare nel vivo della analisi delle leggi obiettive che regolano questi. Si capisce, però, che Trotsky si fermò sulla soglia della scienza per creare il trotskismo.

Senza presunzioni, possiamo dire che l'unica interpretazione della natura sociale dell'URSS che abbia una seria base scientifica è quella che definisce l'economia sovietica un "capitalismo di Stato." Ripeto, senza presunzioni poiché la teoria del "capitalismo di Stato" si è limitata, sino ad ora, ad essere una applicazione rigorosa e fedele della classica analisi economica marxista. La teoria del "capitalismo di Stato" ha interpretato l'economia sovietica con "Il Capitale" alla mano, vi ha riscontrato le leggi obiettive in questo descritte, ha tirato le conclusioni che a questo appartengono. Non ha risolto una infinità di problemi, d'accordo; non li ha risolti come non li aveva risolti "Il Capitale." Qui forse sta il suo limite, ma è il limite che demarca da una parte l'equivoco superato e dall'altra uno sgombro avvenire per una ulteriore elaborazione.

Poiché delle due cose una (e lo possiamo dire sicurissimi e senza timore): o le leggi economiche descritte ne "Il Capitale" sono valide nella definizione di Marx e allora l'Unione Sovietica è un "capitalismo di Stato" o la definizione di tali leggi non è più valida e allora - oltre all'immane compito di dimostrarlo - va rivisto tutto, dalla definizione stessa di capitalismo alla descrizione dell'azione delle leggi economiche.

In sostanza vanno scoperte e dimostrate scientificamente nuove leggi direttive che regolano l'economia. In realtà, e malgrado tutti gli sforzi, non ci sono ancora riusciti in quarant'anni gli economisti sovietici e per convincersene basta seguire le vicende del famoso "Manuale di Economia Politica" che venne fatto, rifatto, fatto ancora una volta per rimanere tuttora in cantiere.

Non a caso il problema che angustia maggiormente gli economisti sovietici - proprio in questi ultimi mesi è stato il tema di lunghe loro discussioni - è quello che riguarda la definizione della legge del valore nella economia sovietica. Non a caso ne trattò a lungo Stalin nei suoi "Problemi economici" e ne diede una definizione che, malgrado la contorta costruzione logica, può essere assunta a dimostrazione dell'esistenza del capitalismo di Stato. Infatti la legge del valore elaborata da Marx è la legge fondamentale del capitalismo.

Poco vale dire che la sua azione nella economia occidentale caratterizza il sistema capitalistico e che, invece, la sua azione nella economia sovietica - dato che i mezzi di produzione sono di proprietà dello Stato - caratterizza il sistema socialista.

Dato che la sovrastruttura giuridica non determina in alcun modo la struttura economica e dato che il carattere sociale dell'economia è determinato dalle sue leggi obiettive e non viceversa, la tesi staliniana e trotskista, per un materialista dialettico, equivale ad una aperta confessione del carattere capitalistico statale della struttura sovietica.

A questo punto Bruno Rizzi mi consenta una obiezione di fondo. Giustissimo quanto lui dice ("Azione Comunista" del 31 maggio 1957) della necessità del mercato, e delle sue ingiustizie, fino a che il volume produttivo non lo renda eliminabile. È puro utopismo pensare il contrario, dato che il socialismo è sostanzialmente la civiltà del massimo benessere materiale - e finché non è tale non è né socialismo né civiltà - cioè l'emancipazione dell'uomo dalle insufficienze della natura. Meno chiara, perciò, risulta la seguente affermazione del Rizzi: "In economia socialista il mercato resta, ma si può vedere che sarà limitato ai prodotti. Il lavoro non sarà più merce."

Non vorrei fare una questione bizantina, anche se non è mai bizantinismo studiare a fondo i problemi della economia socialista, ma non riesco a concepire il mercato senza la merce e non riesco a concepire la merce senza il lavoro incorporato in essa, cioè senza la sola merce capace di darle un valore di scambio o, che è lo stesso, di renderla merce. Di che mercato si tratta, allora?

Per concludere voglio indicare brevemente i compiti che lo studio

della questione russa ci presenta:

a) Seguire attentamente, analizzare, descrivere i fatti economici e sociali che quotidianamente la vita sovietica ci fornisce. Le stesse fonti sovietiche, se bene consultate, offrono abbondante materiale per questa ricerca che potrebbe, poi, essere presentata in modo semplice in una apposita rubrica del giornale. Comunicazioni statistiche, produzione e consumo, decentralizzazione sono ottimi argomenti e spunti.
b) Seguire attentamente la dinamica dei rapporti di produzione, i contrasti sociali latenti o patenti che ne scaturiscono, la legislazione sociale, i contratti di lavoro, le retribuzioni, la distribuzione dei consumi, la condizione del proletariato e dei dirigenti tecnici, politici e intellettuali, le differenze sociali, la formazione e la distribuzione del reddito, ecc.
c) Seguire l'evoluzione della questione agraria e del mercato agricolo, la formazione e la distribuzione della rendita assoluta e differenziale. Il rapporto industria e agricoltura, il rapporto prezzi industriali e agricoli, l'influenza che i prezzi agricoli hanno nel determinare i prezzi alimentari ed il conseguente salario operaio; il peso del settore agricolo nell'economia nazionale, il mercantilismo privato dei kolchoz, la formazione di capitale privato presso i kolchoz, ecc.
d) Seguire, attraverso le varie forme di prestito statale e di deposito bancario, l'ammontare della quota di capitale in mano a privati, l'incidenza di questa sul totale del profitto, il peso che questa va assumendo.
e) Studiare, nella teoria marxista, il rapporto tra diritto ed economia, rapporto dialettico che supera le forme giuridiche di proprietà e si sofferma nell'individuare le forze sociali che detengono - anche se non ne sono formalmente proprietarie - praticamente i mezzi di produzione.

Queste sono alcune delle direttive di lavoro, che possono venire arricchite da analisi e recensioni di opere; come quelle del Trotsky o quelle recentemente tradotte del Dobb e dello Schwartz, che personalmente mi propongo di compiere. Un interesse particolare, in questo senso, dovrà essere rivolto all'opera di un acuto studioso, anche se con forti limiti, della struttura sociale sovietica quale è Amedeo Bordiga.

Se con questi propositi, e senza pregiudizi moralistici pro o contro l'Unione Sovietica, sapremo lavorare negli anni futuri, certamente daremo al movimento operaio quei quadri rivoluzionari specializzati di cui abbisogna e non avremo concluso inutilmente questo nostro dibattito.

(" Azione Comunista " n. 19, 15 luglio 1957)

Inizio pagina

Trotsky sulla Russia

Alcune riserve
Preistoria del socialismo

La causa di tanti equivoci
Teoria e pratica

Il susseguirsi di concetti, valutazioni, analisi, linee di prospettiva, previsioni nel tipico stile del geniale pensatore comunista che da Marx aveva ereditato la capacità di usare spesso la logica dialettica come strumento di critica e di sarcasmo polemico, ci richiama alla mente un giudizio che lo stesso Trotsky aveva dato, nel suo volume su Lenin giovane, sulla lotta tra Plechanov e Lenin.

Diceva Trotsky, in una delle sue solite efficaci e sintetiche definizioni, che Plechanov poteva essere paragonato ad un elegante, veloce e nobile levriero mentre Lenin era il solido, tenace e resistente mastino. Se questa immagine dovessimo trasferirla a Trotsky diremmo che Trotsky è il veloce levriero.

In poche battute penetra nella concezione fondamentale del socialismo, su tutto quell'insieme di idee che costituiscono una visione nuova di una società nuova. Ed è, appunto, da tale concezione che deriva tutta la critica alla teoria del "socialismo in un paese solo."

Trotsky conosce troppo bene la lezione marxista sul socialismo "civiltà di tipo superiore" per accettare la versione staliniana. Potremmo aggiungere che Trotsky ha troppa coscienza dei caratteri materiali della civiltà socialista per non capire come il socialismo deve tradursi praticamente nel benessere della distribuzione sociale del prodotto economico. Sotto questo aspetto la sua critica alla teoria e alla pratica staliniana - anche se spesso è motivata esclusivamente dal fattore della distribuzione e dalle conseguenti disuguaglianze - ha il merito di ricondurre il problema del contenuto del socialismo alle sue origini materialistiche.

Nel suo errore di fondo - cioè nell'analizzare la natura sociale di un sistema solo nell'aspetto distributivo staccato dall'aspetto produttivo, alterando profondamente il metodo marxista per cui i rapporti di distribuzione non sono che il riflesso dei rapporti di produzione e gli uni e gli altri formano un unico processo sociale ed economico - Trotsky ha indirettamente contribuito a rivalutare l'economia socialista in tutta la sua unità.

Trotsky ci ha dimostrato che le differenze nella ripartizione, le differenze salariali e di condizioni sociali di vita, le suddivisioni privilegiate del reddito nazionale, non hanno niente a che fare col socialismo ed appartengono alla sfera della distribuzione borghese. Egli chiama questo fenomeno "burocrazia".

Alcune riserve
Noi non accettiamo - per le ragioni che esporremo - la sua definizione, ma la sua opera ci ha aiutato a comprendere che o il socialismo avrà una base economica che permetta un vasto benessere distributivo o non sarà. Vani saranno tutti i tentativi, vane saranno le rivoluzioni se quelli e queste non opereranno ad un livello economico che assicuri un minimo di benessere materiale alle masse. Se tale livello economico sarà ancora da edificare, si edificheranno certamente le basi del socialismo, ma con un processo capitalistico producente fenomeni sociali e politici di formazione di classi e di lotte di classe. Accadde in Russia, accadrà ovunque. Poiché il socialismo o è - per ogni uomo e per la collettività - soddisfacimento di esigenze materiali ad un grado maggiore di quello massimo raggiunto nel capitalismo o non è.

Forse questa è una concezione restrittiva del socialismo e in certo modo "deterministica." Il socialismo è certamente qualcosa di più: è non solo una civiltà materiale ma una civiltà che sviluppa nuovi valori ideali ed umani o, per meglio dire, una civiltà che ha assicurate delle condizioni materiali su cui è possibile, finalmente, l'elevamento di una vita "umana."

Però, se il socialismo è anche l'affermazione di nuove concezioni di vita, la sua base indispensabile non può poggiare che su elevate condizioni materiali di esistenza individuale e collettiva. Il salto dalla "necessità" alla "libertà" non può essere che una esperienza pratica e tangibile, una esperienza semplificata nella realtà concreta di ogni uomo e che ogni uomo semplicemente constata. Solo in questo modo il socialismo ha un senso pratico, immediato e, perciò, indistruttibile. E quando diciamo immediato ci riferiamo al periodo della "fase inferiore" del socialismo, tracciata da Marx nella "Critica del Programma di Gotha". A questo punto sembrerà ancor più "deterministica" la nostra tesi. Non lo neghiamo: anzi riteniamo che questo ripensamento "deterministico" dei problemi del socialismo rappresenta una rivalutazione - dettata ormai da un secolo di dolorosa storia - di fattori obiettivi che troppo spesso il "volontarismo" politico e rivoluzionario aveva sottovalutato e trascurato.

Da un secolo la storia del proletariato internazionale è costellata da grandi e generosi tentativi rivoluzionari di instaurare la società socialista. La Comune di Parigi e quella di Budapest dell'ottobre scorso costituiscono l'arco dell'inevitabile disfatta. Cosa passa sotto questo arco se non la preziosa esperienza di una realtà obiettiva non ancora matura per la società socialista? Cosa rappresentano obiettivamente quei giganteschi episodi della lotta rivoluzionaria se non marce forzate per accelerare lo sviluppo delle basi economiche del socialismo?

Preistoria del socialismo
La carica "volontaristica" insita nella teoria rivoluzionaria fa considerare la passata storia del proletariato non come "storia", bensì come "preistoria del socialismo." A tale deformazione soggettiva di certo non si sottrae Trotsky.

È vero che la sua definizione della società sovietica come "società intermediaria tra il capitalismo e il socialismo" in cui "un regresso verso il capitalismo resta, tuttavia, perfettamente possibile" è condizionata dalla consapevolezza teorica contenuta nella seguente dichiarazione:

"Lo scopo scientifico e politico che perseguiamo non è di dare una definizione compiuta di un processo incompiuto, ma di osservare tutte le fasi di un fenomeno, di farne risaltare le tendenze progressiste e reazionarie, di rivelare la loro interdipendenza, di prevedere le diverse varianti dello sviluppo ulteriore e di trovare in questa previsione un punto d'appoggio per l'azione."

Rarissime volte - nel giudicare l'opera trotskista - si è tenuto conto di questo suo carattere esplicitamente dichiarato dallo stesso Trotsky. E tanto meno ne hanno tenuto conto i suoi epigoni che - come è dimostrato chiaramente nella presente prefazione all'edizione italiana - persistono nell'adeguare la realtà sovietica agli schemi di un'opera scritta venti anni fa e che, per confessione dell'autore, non si proponeva né si voleva proporre una compiuta definizione scientifica, invece di adeguare l'opera - come è nello spirito stesso dell'analisi di Trotsky - agli sviluppi della realtà.

Almeno in due passi Trotsky mette in luce il fatto che la sua interpretazione della natura sociale dell'URSS "Stato operaio degenerato" è una interpretazione contingente e forzatamente - dato che la transitorietà del regime sociale sovietico non può durare in eterno - suscettibile di evoluzione.

Nel timore, nella sua analisi, "di fare violenza al dinamismo di una formazione sociale che non ha precedenti e non conosce analogie", Trotsky ha, però, la esatta coscienza che "qualificare transitorio o intermediario il regime sovietico significa lasciare da parte le categorie sociali compiute come "capitalismo" (compreso il capitalismo di Stato) e "socialismo". Ma questa definizione è in se stessa del tutto insufficiente e suscettibile di suggerire l'idea falsa che la sola transizione possibile per il regime sovietico attuale conduca al socialismo. Un regresso verso il capitalismo resta, tuttavia, perfettamente possibile."

In un altro passo è ancora più preciso: "l'evoluzione delle contraddizioni accumulatesi può portare al socialismo o rigettare la società verso il capitalismo."

La causa di tanti equivoci
Per Trotsky, dunque, il problema della natura sociale sovietica è un problema aperto e definibile nell'ulteriore sviluppo delle contraddizioni; niente gli è più estraneo della paternità - che gli si vorrebbe attribuire in eterno - di una teoria che definisce un sistema sociale "né socialista né capitalista." Tale paternità egli la assunse provvisoriamente come approssimazione d'analisi scientifica e, soprattutto, come strumento di critica e di azione politica.

Niente ci può servire meglio di esempio quanto il modo con cui Trotsky affronta la tesi del "capitalismo di Stato": cioè nel caso in cui la borghesia intera "si costituisca in società per azioni per amministrare con i mezzi dello Stato tutta l'economia nazionale." Il singolo capitalista riceverebbe in profitto la parte di plusvalore proporzionale alla quota di capitale da lui investita nello Stato; il che avviene anche nella economia capitalista privata dato che il profitto individuale rappresenta una quota corrispondente al saggio medio del profitto (e del plusvalore) dell'intera economia - proporzionale dell'intero profitto nazionale. Giustamente Trotsky fa una distinzione tra "capitalismo di Stato" e "stalinismo."

Da un lato è concepito il processo qualitativo di trasformazione dei rapporti di proprietà privata in rapporti di proprietà statale, il che vuol dire, praticamente, superamento di sovrastrutture giuridiche rese inadeguate dallo sviluppo strutturale. D'altra parte Trotsky, a riguardo e dello stalinismo e del capitalismo di Stato, va più in là del riconoscimento di nuovi rapporti giuridici e sinteticamente analizza tutta la tendenza di fondo scrivendo:

"La necessità di simili misure è uno dei sintomi del fatto che le forze produttive del capitalismo superano il capitalismo e lo portano a negare parzialmente se stesso nella pratica. Ma il sistema, sopravvivendo a se stesso, resta capitalista malgrado i casi in cui arriva a negare se stesso."

Teoricamente questo giudizio rappresenta una interessante linea di applicazione e, soprattutto, di sviluppo della dottrina marxista.

Teoria e pratica
Ma, spinto sino a questo punto, il pensiero di Trotsky ritorna indietro ed entra in un insanabile contrasto interno. Pesa su di esso tutto un passato ed un presente politico, frutto di una generale tradizione "soggettivista." È l'ultima romanticheria rivoluzionaria: il mito dei rapporti giuridici tradizionali, il capitalismo visto solo nella proprietà privata.

Dopo averlo concepito nella teoria, Trotsky nega la possibilità d'esistenza del capitalismo di Stato nella pratica. Lo nega per la Russia con l'argomentazione - davvero ingenua in tanto ardore teorico - secondo la quale la struttura sovietica non è capitalistica perché la proprietà dei mezzi di produzione è dello Stato, non esiste diritto di proprietà privata su questi mezzi, non esiste, perciò, diritto di successione, ed i privilegi di cui la burocrazia gode non sono dati da un suo diritto ma solo da un suo abuso di potere. Ma, fatto ancor più grave, nega - contraddicendosi con quanto aveva scritto in altre parti della sua opera - l'esistenza del capitalismo di Stato anche come ipotesi: "non si ebbe mai un regime del genere e non ci sarà mai a causa delle profonde contraddizioni che dividono i possidenti tra di loro e tanto più che lo Stato, rappresentante unico della proprietà capitalista, costituirebbe per la rivoluzione sociale un obiettivo veramente troppo tentatore."

Anche noi riteniamo che non possa esistere un "capitalismo di Stato" integrale - del resto l'URSS lo è forse meno di altri paesi - e che l'economia capitalista, anche nei suoi rapporti giuridici, non è mai integrale nelle sue forme di produzione. In essa varie stratificazioni storiche si sviluppano dialetticamente, sino a determinare - nei settori più avanzati economicamente - le basi materiali del socialismo.

Per molti aspetti questa interpretazione generale è valida anche per l'URSS, dove esistono zone di capitalismo statale, altre di capitalismo privato, altre ancora precapitalistiche. Ed anche in questa economia in movimento si vanno creando le basi del socialismo.

Analizzare più a fondo tale evoluzione pensiamo sia proseguire sulla strada che Trotsky ha iniziato con la sua opera, piena di previsioni e di limiti, dopo che una grande rivoluzione era stata tradita dalla storia.

(" Azione Comunista " n. 26, 15 gennaio 1958)

Il XXII Congresso del PCUS e le esitazioni del PCI nel processo di destalinizzazione

La destalinizzazione esprime la maturità imperialista dell'URSS

La crisi iniziale dello stalinismo

Lo stalinismo contro la sinistra italiana

La crisi finale dello stalinismo

Strategia neoimperialistica russa
I rinnovatori del PCI

Gli istituzionalisti piccolo borghesi

Il problema delle correnti: socialdemocratizzazione o partito rivoluzionario

La destalinizzazione esprime la maturità imperialista dell'URSS
Una delle caratteristiche fondamentali dell'opportunismo è quella di essere sempre superato dalla realtà. Più si dichiara "concreto" e "aderente alla realtà", più questa gli sfugge. Più l'opportunismo si adegua o crede di adeguarsi alla realtà, più crede di essere "immediato" e di avere, nella sua immediatezza, il controllo sulla realtà, più rinnega e combatte l'"astratto" del programma teorico rivoluzionario e più si condanna ad essere campato in aria ed esposto a tutti i colpi di vento delle bufere politiche e sociali. È il destino di tutti i partiti opportunisti e controrivoluzionari. Nell'epoca dell'imperialismo e delle rivoluzioni proletarie, nell'epoca in cui il riformismo e l'opportunismo non sono più fenomeni tradeunionisti sorti dal movimento operaio ma strumenti del capitalismo in seno al proletariato, nell'epoca in cui l'accumulazione capitalista non è più un processo organico ma uno stadio di squilibrio economico che provoca improvvisi terremoti strutturali e politici, nell'epoca in cui le contraddizioni dell'imperialismo diventano gigantesche ed esplodono con violenza centuplicata, i partiti opportunisti non possono che diventare fenomeni transitori ed organismi soggetti alle più violente scosse, ai più acuti sbandamenti, alla più irrimediabile disgregazione. Quanto più l'opportunismo si radica nella base sociale capitalistica che lo germina, tanto più diventa in questo solo modo "concreto" e tanto più la sua sorte è legata alla vita della struttura economica che lo alimenta. Prospera quando questa prospera, oscilla quando questa oscilla, perisce quando questa perisce. Non può essere altrimenti perché l'opportunismo è uno strumento di conservazione. Solo i rivoluzionari possono essere "concreti" perché conoscono scientificamente la realtà, possono essere "immediati" perché conoscono e prevedono i movimenti della realtà economica e politica, possono essere "realisti" perché dall'analisi del movimento della realtà traggono la strategia e la tattica della rivoluzione proletaria.

Il partito di Lenin vide crollare come un castello di carta quell'enorme socialdemocrazia europea, modello di "efficienza", di "concretezza", di "organizzazione" per tanti anni.

Il partito rivoluzionario leninista che tutti noi stiamo ricostruendo vedrà crollare allo stesso modo lo stalinismo che della quintessenza opportunistica della socialdemocrazia aveva fatto l'ideologia del capitalismo di Stato.

La crisi iniziale dello stalinismo
Per anni abbiamo detto queste cose sui nostri giornali, sulla base di una documentazione ma soprattutto guidati dagli strumenti marxisti di analisi. Il PCI, con il suo grosso apparato organizzativo e propagandistico, ha cercato di schiacciarci con l'insulto e di isolarci con la derisione. Oggi, scosso all'improvviso dalle conseguenze del XXII Congresso, è costretto a discutere molte delle nostre tesi. Non è certo nostro merito. Il nostro solo merito è di avere continuato, a tutti i costi, malgrado gli insulti, le repressioni, l'isolamento, ad applicare il programma del marxismo e del comunismo rivoluzionario. Avevamo previsto e dimostrato che lo stalinismo avrebbe iniziato la sua crisi: non perché siamo degli indovini ma perché applichiamo la teoria e l'esperienza che Marx e Lenin ci hanno lasciato. Prevediamo e dimostriamo, oggi, che ad un determinato momento dello sviluppo imperialistico lo stalinismo entrerà nella sua crisi finale.

Tutto ciò che attualmente sta accadendo, la cosiddetta destalinizzazione, non ci ha sorpreso né ci sorprende. È solo il primo sintomo di una crisi che può anche essere, temporaneamente, dilazionata ma non per questo risolta.

Il nostro atteggiamento non può essere, di certo, condizionato dai tortuosi movimenti che può assumere l'inizio della crisi dello stalinismo: anzi, più che mai, esso deve essere centrato sull'analisi delle tendenze di fondo che reggono questa crisi. In nessun modo la cosiddetta "destalinizzazione" può essere confusa con la crisi generale dello stalinismo, che avverrà solo quando tutto l'imperialismo entrerà in crisi e quando la natura capitalistica di classe dell'URSS diventerà un fattore determinante della crisi stessa.

Lo stalinismo non può essere ristretto, come fanno i socialdemocratici e i revisionasti di destra, al processo politico che ha accompagnato l'ascesa e il predominio della burocrazia staliniana. Lo stalinismo è essenzialmente lo sviluppo del capitalismo di Stato nell'Unione Sovietica, avvenuto nel segno della grande mistificazione del "socialismo in un paese solo" ma basato su rapporti di produzione e di classi tipicamente capitalistici. Esso entrerà definitivamente in crisi quando la lotta di classe all'interno della società sovietica giungerà alla sua fase incandescente, quando, cioè, il proletariato sovietico porterà avanti la sua iniziativa rivoluzionaria contro la classe che lo sfrutta e lo opprime. Quello che entra in crisi oggi è lo stalinismo sovrastrutturale e politico, cioè tutto quell'insieme di metodi e di mezzi di direzione statale verso la classe operaia, gli strati contadini e gli strati intermedi, direzione statale che ha prevalso con sue determinate forme ad un dato momento dell'accumulazione capitalistica nell'URSS. Certi aspetti di questa sovrastruttura staliniana, con tutto il correlativo supporto ideologico, diventano oggi inadeguati al fine della soluzione dei problemi dello sviluppo economico. Si pongono, perciò, le condizioni oggettive che determinano la destalinizzazione, cioè quelle condizioni che abbiamo individuato nella nostra analisi del Programma del PCUS.

Lo stalinismo contro la sinistra italiana
Ma anche questa crisi, per quanto secondaria e marginale, non può sfuggire alla dinamica che hanno tutte le crisi di questo tipo, crisi di svolte politiche, crisi di riadattamento. Ogni paese capitalistico ha subito svolte politiche di grande ampiezza ed ha affrontato conseguenze di crisi che ne derivavano. La crisi stalinista è, però, aggravata dal fatto che, come svolta politica, avviene nel quadro storico dell'imperialismo e in un terreno economico e sociale internazionalmente instabile. La crisi stalinista non può che ripercuotersi, come è dimostrato dal contrasto cino-sovietico. La liquidazione del leninismo ad opera della controrivoluzione staliniana ebbe ripercussioni gigantesche su scala mondiale e in seno al movimento operaio internazionale, in un momento in cui il potenziale rivoluzionario proletario e coloniale era minore di quello accumulato oggi in successivi trent'anni di storia. Una crisi anche limitata, come quella che attraversa oggi lo stalinismo, non può non avere ripercussioni anche maggiori di quelle determinate dall'ascesa dello stalinismo stesso.

Noi marxisti dobbiamo avere la capacità di sapere scandagliare sotto le parole e di sapere indagare dietro le ideologie. Saremo allora in grado di tracciare un quadro dialettico, per i suoi aspetti positivi e per i suoi aspetti negativi, dell'attuale crisi stalinista.

Un esempio ci viene offerto dal PCI, cioè da un tipico prodotto dello stalinismo che, per la sua natura politica, non può che rifletterne la crisi, così come in tutta la sua storia ne ha seguito l'ascesa.

Il PCI si è formato con lo stalinismo da quando gli interessi dello Stato sovietico hanno fatto dell'Internazionale Comunista uno strumento di appoggio alla politica del "socialismo in un paese solo." Il prevalere di questi interessi ha determinato nel Partito Comunista d'Italia l'imposizione della direzione Gramsci-Togliatti contro la maggioranza del partito composta dalla "sinistra italiana." L'atto di nascita del PCI attuale, con la direzione Gramsci-Togliatti, è il suo primo certificato di stalinismo e da questa matrice il PCI non si è mai staccato. Passo a passo, svolta a svolta, giorno per giorno il PCI ha seguito fedelmente lo stalinismo a cui doveva la vita e di cui è diventato parte integrante. Non c'è una sola parola di documenti ufficiali del PCI che non avalli tutto ciò che ha fatto lo stalinismo! Dal "socialfascismo" al "fronte popolare", dai "processi di Mosca" al "patto russo-tedesco", dalla "guerra democratica antifascista" alla "liberazione nazionale", dalla condanna del "boia di Belgrado" alla "gloria di Stalin", le risoluzioni del Comitato Centrale del PCI ricalcano esattamente le decisioni di Mosca. Dal 1926 Togliatti è il fiduciario e il supervisore di questa parodia di internazionalismo proletario.

Come poteva non essere preso in contropiede il PCI dal XXII Congresso? Dal XX Congresso aveva escogitato tutti i mezzi per mettere in cantina i fatti e i temi proposti.

Non ha mai pubblicato il "Rapporto Segreto" di Kruscev. Non solo, il tanto proclamato contributo di Togliatti alla destalinizzazione fu pubblicato nella rivista "Nuovi Argomenti", cioè su di una rivista letta da pochi intellettuali. La stragrande maggioranza dei seguaci del PCI ne ha sentito parlare adesso, per la prima volta dopo cinque anni, perché "l'Unità" ne ha pubblicato dei brani. Dopo aver distorto e falsificato le cause e gli avvenimenti della rivoluzione ungherese, il PCI si è gettato a peso morto in una esaltazione da fantascienza degli sputnik e della missilistica sovietica. Lo scopo di soffocare ogni pur timido fermento critico era fin troppo evidente.

Mentre aumentavano i problemi che si sarebbero poi accumulati e scontrati al XXII Congresso (caso Molotov-Malenkov, caso Zukov, dissidio cino-sovietico, dissidio albanese-sovietico) "l'Unità" aumentava le pagine di sport, di canzoni, di cronaca nera. Mai si pronunciava chiaramente su questi problemi e su questi dissidi, anzi spesso, e per bocca di Togliatti, li definiva invenzioni "romanzesche" e "pure fandonie." Eppure non si trattava di... segreti di palazzo, sui quali, Congresso per Congresso, ci illumina Kruscev. Erano problemi e fatti alla portata di chi avesse un minimo di cultura e sensibilità politica. Oggi persino un Pajetta ci parla di uno Zukov come di un "generale bonapartista"! Il silenzio di "prima" era dovuto, dice Togliatti, a Stalin. Ma quello di adesso?

Non c'è dubbio che uno dei "crimini" maggiori dello stalinismo è quello di averci lasciato in eredità questi suoi degeneri epigoni che dalla sua scuola hanno appreso tutto quanto vi era di opportunistico, di abitudine alla falsificazione, di disprezzo per lo spirito rivoluzionario, di ruffianesco mercanteggiamento con la borghesia internazionale, di burocratico terrore della spontaneità operaia, di spregiudicata capacità d'intrallazzo con l'imperialismo, di servile sottomissione agli interessi della classe dirigente e non quel poco di "giacobinismo" che vi era rimasto.

Questi figli degeneri dello stalinismo, morto il padre che avevano servito, hanno continuato la loro funzione di affossatori della ideologia marxista. "Prima" e "dopo" hanno mantenuto la base operaia nella più completa ignoranza politica e nella più strumentale "doppiezza" per poterla adoperare a doppio uso come massa di manovra per i CLN, la partecipazione governativa, il riformismo parlamentare, il milazzismo, l'appoggio all'IRI e all'ENI, la continua profferta di collaborazione alla borghesia, il "salto della quaglia" e, in secondo luogo, come massa ingannata dalla retorica pseudorivoluzionaria. E non solo Togliatti si è adoperato in questo vero e proprio soffocamento del comunismo rivoluzionario: accanto ed unanimi ha sempre avuto Longo, Scoccimarro, Amendola, Secchia e i mille prodotti e sottoprodotti della burocrazia.

Oggi si lamentano perché una larga parte della base del PCI è sentimentalmente staliniana. Ma quella è la base che hanno formato! In quindici anni di attività legale, con un grosso apparato organizzativo e propagandistico, la Direzione del PCI non ha formato due generazioni di comunisti e di rivoluzionari, ma una massa di militanti in cui il feticismo del capitalismo di Stato era elevato alla massima potenza: il socialismo è l'URSS, l'URSS è Stalin, Stalin è il socialismo! Anni e anni di questa mistificazione, accompagnata da una selezione alla rovescia per cui i militanti che più manifestavano il loro senso critico venivano cacciati, messi in disparte e isolati, costituiscono l'essenziale della formazione ideologica del PCI. Ingabbiato l'impulso rivoluzionario della classe operaia, represso con tenacia ogni pur minimo lievito di formazione comunista, confusa con ogni specie di sofismi qualsiasi aspirazione internazionalista, deformata con una sistematica campagna di menzogne la realtà sovietica, non doveva rimanere che una base militante ad uso e consumo della direzione staliniana del PCI. La generosa coscienza di classe del militante operaio del PCI, il suo grande spirito di abnegazione e di sacrificio, la sua volontà di lotta, la sua capacità di organizzazione e la sua fedeltà agli ideali della Rivoluzione d'Ottobre, tutto questo potenziale prezioso e insostituibile, che avrebbe dato certamente migliaia e migliaia di buoni quadri marxisti rivoluzionari, non poteva che immiserire e degradarsi nel più sciatto fanatismo staliniano. Non potendo diventare un quadro rivoluzionario, l'operaio d'avanguardia del PCI divenne un cultore e un devoto di Stalin, ripose in un feticcio tutto il suo slancio e il suo ardore istintivamente rivoluzionario, scambiò i mezzi repressivi dello stalinismo con la risolutezza rivoluzionaria, concentrò tutto se stesso in una fede.

In fondo il PCI ha avuto e ha bisogno di un militante di questo tipo, un militante assurdo da un punto di vista del razionalismo marxista, ma logico ed organico dal punto di vista della direzione staliniana per la quale uno dei più gravi pericoli è la diffusione di una solida cultura marxista e di una conseguente problematica rivoluzionaria in seno al movimento operaio. Il giorno in cui il movimento operaio sarà in grado di assimilare la teoria marxista (e lo sarà spinto dalla pratica e non da sollecitazioni "illuministiche") sarà finita per l'opportunismo stalinista e socialdemocratico. L'azione del PCI in tutti questi anni non ha fatto altro che ritardare quel giorno.

Lo stato di basso livello ideologico e politico a cui ha condotto il movimento operaio italiano, e di cui la più fedele immagine l'offrono gli stessi dirigenti, ne è la miglior prova.

La crisi finale dello stalinismo
La classe operaia, però, anche se può essere usata strumentalmente in funzione controrivoluzionaria, non può, per la sua stessa natura, divenire uno strumento controrivoluzionario. Dovrebbe andare contro sé stessa, il che è assurdo. Lo stalinismo ha usato strumentalmente la classe operaia, ma soprattutto l'ha oppressa e sfruttata in una lotta di classe in cui esso rappresentava la forza antagonistica, cioè la classe capitalistica. Lo stalinismo in Russia si è instaurato contro la classe operaia e la sua avanguardia, il Partito bolscevico, e l'attuale svolta politica è, per molti aspetti, una fase di questa lotta di classe. In Italia il processo è diverso ma non diverse ne sono le conseguenze. Il processo è diverso perché l'egemonia stalinista su larghi settori della classe operaia italiana non si è instaurata come risultato diretto della lotta di classe, ma come risultato indiretto tipicamente opportunista. Le conseguenze non sono diverse perché lo stalinismo è una forma specifica di opportunismo importato, una forma che risiede su di un rapporto capitalistico di produzione e su di una ben determinata struttura economica. La mistificazione stalinista è, perciò, come ogni mistificazione ideologica del capitalismo, destinata a disgregarsi sotto i colpi dei contrasti di classe all'interno della società sovietica. Il suo processo disgregativo non è un processo graduale bensì un processo dialettico che procede per salti e per violente rotture, sino ad accumulare tutte le condizioni oggettive e soggettive di una rivoluzione proletaria nella stessa società sovietica. Siamo ancora lontani da questa fase e non già per la immaturità del proletariato sovietico: siamo lontani, soprattutto, per i margini di manovra e di dilazionamento della crisi che ha l'imperialismo mondiale e per l'insufficiente formazione del proletariato afroasiatico che sposterà dall'Europa anche il centro delle forze motrici e del potenziale sociale della rivoluzione.

Tutto questo processo, di cui oggi siamo appena agli inizi, non può non incidere fortemente anche sulla base sociale del PCI in Italia. Più che le nostre parole, contano i grandi fenomeni sociali che spostano le masse. Finché la lotta di classe in Occidente e in Italia è condizionata oggettivamente da una situazione controrivoluzionaria è facile all'apparato burocratico stalinista mantenere la sua egemonia sul proletariato. Ma quando la lotta di classe su scala internazionale investirà tutte le cittadelle della produzione capitalistica, anche l'egemonia stalinista salterà per aria, come ieri saltò per aria la socialdemocrazia e l'Internazionale Comunista uscì dallo slancio rivoluzionario delle masse. L'equivoco stalinista può durare sino a quando dura l'imperialismo mondiale, ma ciò non vuol dire che arrivi alla sua crisi finale intatto.

Anzi, l'attuale "destalinizzazione", anche se per certi aspetti fondamentali rappresenta l'assetto politico di una società che si avvia alla sua maturità imperialista, per tanti altri aspetti fondamentali è il prodotto della lotta di classe in URSS e il risultato della pressione operaia. Nessuna crisi o riassetto politico in una società può essere esclusivamente un operazione della classe dirigente, anche se questa dalla crisi politica cerca di ottenere nuovi vantaggi e rapporti di forze ad essa favorevoli. Alla base della crisi politica vi è sempre - e non può non esserci - un rapporto di classe ed una lotta tra classi, dove ognuna di esse, pur giustificando la sua azione con le più svariate formulazioni ideologiche, cerca di ottenere il massimo vantaggio e di conquistare o consolidare nuove posizioni. Il machiavellismo esiste solo nella fantasia del singolo, mai nella realtà sociale che può essere complessa e contraddittoria ma non segreta e astuta.

Strategia neoimperialistica russa
Anche in mezzo a tutte le tortuosità della mistificazione politica, il contenuto di classe dello stalinismo finirà con il riflettere la sua crisi nelle masse operaie che seguono il PCI. Il capitalismo di Stato non può, se non annullando se stesso, mascherarsi all'infinito per socialismo. Può darsi benissimo che gli operai del PCI non riescano a vedere oggi il contenuto di classe della "destalinizzazione", può darsi benissimo che alla fine accettino la "destalinizzazione" per seguire meglio la superopportunista "coesistenza pacifica" di Kruscev, può darsi ancora che non mettano in crisi la raccolta di voti e la "via democratica al socialismo" di Togliatti. Sarà difficile perché anche questi episodi incidono abbastanza a fondo. Ma l'inizio della crisi dello stalinismo non consiste solo in questi episodi: consiste, soprattutto, nella tendenza di sviluppo di cui questi episodi sono i sintomi.

La stessa natura imperialistica dell'URSS porterà ad approfondire il contrasto con la Cina che, anche se sarà composto, si riformerà nuovamente nel tempo perché, per le sue cause economiche, è insolubile. Così si può dire, in generale, del rapporto tra URSS e rivoluzione coloniale. In questo rapporto imperialistico, maturato con lo sviluppo della potenza economica sovietica, vi è il germe ineliminabile della crisi dello stalinismo che investirà, a breve o a lunga scadenza, anche il PCI e porterà il movimento operaio italiano di fronte a grandi problemi d'interpretazione, di formazione ideologica e di scelta politica.

Non a caso i dirigenti del PCI, dai "conservatori" agli "innovatori", hanno messo unanimemente avanti le mani contro l'"eresia cinese" e si sono schierati fedelmente, senza eccezioni, dietro la Russia.

Ma di fronte a questi problemi, che noi da anni abbiamo individuato e trattato con articoli specifici sulla Cina e sulla questione coloniale, il gioco di parole tra gli "antistaliniani" moscoviti e gli "staliniani" cinesi ben poco conta. È un artificio burocratico che non può durare a lungo.

Difatti i dirigenti del PCI avvertono, sulla scia di Kruscev, la necessità di riorganizzare la piattaforma ideologica e politica e di adattare il loro fronte opportunistico ai problemi internazionali che si prospettano per il futuro e che saranno posti brutalmente sul tappeto dalla dinamica del movimento cinese. Si tratta di riorganizzare l'influenza dell'opportunismo sulle masse, sulla base di motivi nuovi e tipici della democrazia borghese, specie adesso che il Programma del PCUS ha buttato a mare persino formalmente la marxistica dittatura del proletariato ed accettato il capitalistico "Stato popolare." Si tratta di allinearsi tempestivamente alla politica e alla ideologia imperialistica che Mosca va elaborando nella sua azione internazionale. Si tratta, sostanzialmente, di sottrarre il movimento operaio alle ripercussioni del contrasto cino-sovietico. Se la "coesistenza pacifica" è un accordo a media scadenza tra i due gruppi imperialisti, essa comporta da ambo le parti una strategia adeguata che può essere applicata solo con il contenimento delle forze oltranziste che militano o che gravitano nei due blocchi. I fini della strategia sono ben chiari ad ambo le parti: da una parte "neocapitalismo" e imperialismo finanziario, dall'altra sviluppo ventennale.

Questi sono i fini essenziali della nuova concezione strategica attorno ai quali si sviluppa una ideologia strumentale. Certamente uno dei nuclei essenziali dell'ideologia stalinista (la natura sociale sovietica propagandata come socialista) sussiste, ma ne vengono modificata tutti gli altri aspetti, così come ne viene modificata, in larghissime parti, la strategia. La strategia stalinista era la strategia di un capitalismo di Stato isolato che usava il movimento operaio occidentale e le rivoluzioni coloniali come supporto tattico, e nel far ciò tradiva la Rivoluzione d'Ottobre che aveva usato la sua dittatura del proletariato come punto di appoggio per le rivoluzioni proletarie e coloniali. Ma la strategia stalinista aveva un limite ristretto e "nazionale" e, appunto perciò, non poteva ancora essere compiutamente imperialista.

La nuova strategia sovietica sta superando tale limite e si delinea con aspetti più vasti. Ormai non può più restringere l'uso strumentale dei PC e del proletariato occidentale (del resto, e a differenza del periodo prebellico, in gran parte estraneo all'influenza sovietica) alla "difesa dell'URSS." Dilatando il raggio d'azione della sua strategia, sposta ed allarga non solo il terreno di realizzazione ma pure le forme della realizzazione stessa. Sostanzialmente si tratta di un processo, lento e contraddittorio, di "occidentalizzazione", occidentalizzazione delle intese e dei contrasti, cioè formazione oggettiva di interessi imperialistici comuni tra blocco occidentale e blocco sovietico "occidentalizzato."

I rinnovatori del PCI
In questo quadro strategico in formazione anche il PCI si troverà ad agire con prospettive nuove, se non capovolte. Anche la sua natura internazionale di strumento sovietico subirà certi mutamenti. Di fronte a questa questione fondamentale anche gli effetti per esso negativi della "destalinizzazione" possono costituire un aspetto secondario e sacrificato alle nuove esigenze strategiche, che richiedono un apparato più "tecnicizzato" e socialdemocratico di nuovo tipo, in cui l'azione propagandistica non deve essere tanto contro Nenni quanto contro i cinesi. La concezione strategica della "coesistenza pacifica" non comporta tanto un tipo di alleanza momentanea quanto una profonda integrazione. Alla fine della "coesistenza pacifica" chi saranno gli alleati? Come sarà la configurazione delle alleanze internazionali e la situazione degli attuali paesi sottosviluppati?

L'opportunismo non può risolvere questi quesiti ma deve, deterministicamente, lavorare per il presente.

Ovviamente la nuova svolta strategica mette in crisi la direzione del PCI in cui si scontrano varie interpretazioni sulla "velocità di marcia" da imprimere al "nuovo corso." A prescindere dagli zucconi ottusi e dalle rivalità personali, dagli equilibrismi di chi vuol stare sempre più vicino a chi sarà il più "tempista", le posizioni sono due: da una parte Togliatti e dall'altra Amendola.

Vediamo quindi di tracciare queste due posizioni e di vederne il loro reale significato nella nuova strategia sovietica. Siamo in presenza, come abbiamo già detto, non di due posizioni antitetiche ma di due posizioni affini, vicine e complementari nella loro essenza. Quella di Amendola, però, precorre i tempi ed è troppo avanti. Sostanzialmente Amendola e i suoi alleati nel CC, criticando le insufficienze della posizione di Togliatti, hanno sostenuto i seguenti punti: autonomia, policentrismo, liceità del dissenso, istituzionalizzazione della democrazia e minoranze su determinati problemi all'interno del partito.

Siccome queste richieste così generiche e affastellare possono ingenerare equivoci, cerchiamo di precisarle meglio una ad una.

Autonomia: Amendola, Reichlin, Cossutta, Alinovi e Barca sostengono che siccome è venuta meno l'unanimità fittizia (dissidio URSS-Cina) ed esiste la multiformità delle situazioni e delle posizioni dell'URSS, della Cina, dell'Italia, della Francia, della Jugoslavia e di Cuba, si impone il policentrismo, si impone il giudizio autonomo sulla politica, le vittorie, gli insuccessi degli altri Partiti Comunisti. Non vi è più unità nel movimento comunista internazionale e non vi è su alcuni punti essenziali. È necessaria, perciò, la discussione internazionale con gli altri Partiti Comunisti.

Cioè da una situazione di fatto il gruppo Amendola deduce una necessità di azione politica di nuovo tipo: la critica ad altri Partiti Comunisti, la dissociazione dagli sviluppi della loro linea politica.

Questa "autonomia" è quanto di più funzionale vi possa essere per il futuro della politica estera sovietica, anzi è una delle condizioni del suo successo. Nella misura in cui gli interessi sovietici troveranno molti punti in comune con gli interessi occidentali, l'autonomia del PCI sarà necessaria in quanto solo così lo renderà più libero di difendere questi interessi imperialistici comuni e unitari. "l'Unità" ha fatto già buon uso di questa "autonomia": per accontentare la base nostalgicamente staliniana ha definito "discutibile" il cambio di nome a Stalingrado e, nello stesso tempo, ha riportato una aspra critica anticinese del segretario del PC Indiano a proposito di irrilevanti incidenti di frontiera, senza riportare minimamente la versione cinese dei fatti.

Ma può darsi benissimo che la stampa del PCI arrivi con il tempo a muovere certe critiche più circostanziate al PC sovietico e che arrivi ad approfondire più dei sovietici certi aspetti marginali del fenomeno stalinista. Ma, ferma restando l'esaltazione del sistema di produzione sovietico, anche queste critiche o riserve saranno secondarie di fronte all'essenziale funzione dell'autonomia del PCI come condizione per una maggiore libertà di manovra nel difendere gli interessi dell'imperialismo. Di fronte a questi interessi può essere bruciata tutta la montatura del passato, tutto il castello di menzogne, tutto il mausoleo dei miti. Come la borghesia francese rinnegò il suo terrore giacobino per poi relegarlo alle disquisizioni degli storici, così la nuova classe dirigente sovietica farà del suo terrore staliniano.

Vi è un mito che è più forte di tutti i terrori e che più di questi riesce a dominare la società: il Capitale. Legare il proletariato al sovrapprofitto imperialistico significa legarlo organicamente, riformisticamente e più saldamente di quanto poteva essere legato dal Terrore o dal mito del Terrore staliniano: gli si può dare il "benessere" e la "discussione democratica" per difendere questo suo "benessere", che è solo la "briciola" del sovrapprofitto imperialistico ottenuto sfruttando finanziariamente i mercati sottosviluppati.

Gli Stati Uniti sono l'esempio, verso cui tendono URSS e Italia, della riduzione dei miti alla loro più intima e affascinante essenza: il denaro.

E come non può questa ideologia-forza dominare l'azione dello Stato e degli operai sovietici, del PCI e degli operai che lo seguono, dei capitalisti italiani e di Mattei e predisporli in un fronte comune di interessi quando, in un caso concreto, l'ENI acquista, per poi rivenderlo, un forte quantitativo di petrolio dall'URSS ad un prezzo molto inferiore a quanto lo paga la Cina dalla stessa URSS?

L'esempio del petrolio è uno dei tanti, ma molti di più sono destinati a divenire quando l'espansione industriale dell'URSS e delle aree sviluppate creerà una rete fittissima di scambi ed accentuerà i classici due poli delle ragioni di scambio mondiale: da un lato le nazioni industriali che vendono manufatti e dall'altra nazioni arretrate che vendono materie prime.

Che significato oggettivo ha l'autonomia del PCI in un tale sistema mondiale se non quello di sostegno delle nazioni industrializzate?

L'autonomia diventa, perciò, l'espressione più conseguente dell'inserimento in un tale sistema mondiale. Dopo aver rinnegato anche formalmente la rivoluzione proletaria per la "via pacifica al socialismo", dopo aver rinnegato la dittatura del proletariato per la democrazia borghese, non può mancare il rinnegamento dell'internazionalismo per l'autonomia dell'appoggio concreto, e non a parole, alle rivoluzioni coloniali.

Il movimento operaio deve essere autonomo dal capitalismo e dall'imperialismo, e perciò anche dall'URSS, ma non deve esserlo dalla sua missione internazionale. Non solo, il proletariato di un paese capitalistico deve essere profondamente legato al proletariato degli altri paesi ed assieme a questi, nell'esercizio della sua attività internazionalista, deve costituire il centro egemonico dell'alleanza con le rivoluzioni coloniali.

Cioè, proprio l'opposto del teorizzato policentrismo, variante del più piatto socialpatriottismo. Un partito che si richiama al marxismo non può rinunciare a subordinare i suoi interessi locali agli interessi internazionali della lotta di classe. Nell'epoca dell'imperialismo ogni visione "nazionale" degli interessi di classe non è altro che una visione nazionale capitalista. Solo trent'anni di dominio staliniano che ha sviluppato sino alla sua massima involuzione imperialistica la visione "nazionale" dello Stato sovietico, potevano far dimenticare il grande insegnamento internazionalista di Lenin e fare considerare come un progresso una visione "policentrica" del movimento operaio. Di fronte ad uno Stato il proletariato non deve essere "policentrico" ma nemico. Di fronte alla lotta che il proletariato conduce in ogni paese, ed anche in URSS naturalmente, il proletariato di qualsiasi altro paese appoggia quella lotta perché è anche sua. Il proletariato può avere molteplici fronti di lotta ma ha un solo centro: la sua realtà di classe internazionale.

Tra le tante rovine che lo stalinismo ha provocato, una ci appare tra le più gravi: la distruzione dell'Internazionale Comunista, cioè di quello strumento internazionale che esprimeva la coscienza politica di un proletariato che si completava come classe rivoluzionaria e come classe egemone su scala mondiale nella misura in cui riusciva a spezzare i vincoli opportunistici che la legavano alla "nazione", e nella misura in cui trovava la forza nella sua realtà internazionale e forgiava la sua civiltà nei valori universali della rivoluzione. Riducendo il movimento operaio a strumento della politica "nazionale" del suo Stato, lo stalinismo non poteva che creare un "centro" statale o un policentrismo, cioè due espressioni della politica degli Stati.

Quello che Togliatti teorizza e Amendola vuole portare alle sue logiche conseguenze non è un ritorno all'internazionalismo e al "dibattito internazionale" del tempo di Lenin, ma proprio la sua negazione. L'Internazionale di Lenin non era un "centro" di dibattito accademico ma un "centro" unitario dove tutta l'esperienza internazionale della lotta di classe convogliava in un dibattito aperto e responsabile che aveva il fine più internazionale che sia mai stato posto nella storia: la rivoluzione mondiale. Mancando questo fine, per una serie di ragioni storiche, l'Internazionale Comunista non poteva che crollare e diventare quello che è diventata prima di essere sciolta da Stalin: uno strumento del Ministero degli Esteri dell'URSS. Che poi in questa sezione del Ministero degli Esteri si potesse discutere o meno, è una questione che non riguarda i fini del proletariato internazionale ma che riguarda la funzionalità e la maturità dei gruppi che dirigono il Ministero degli Esteri stesso. Non è certo la discussione che conta ma quello che si discute.

Così come ciò che conta non è la forma "policentrica" escogitata dall'opportunismo togliattiano, ma è di conoscere quali funzioni specifiche assolve il "policentrismo."

Gli istituzionalisti piccolo borghesi
Ancora una volta ci vengono in aiuto i buoni allievi di Togliatti. Essi vogliono addirittura la "istituzionalizzazione della democrazia" per riempire di contenuto "nazionale" il "policentrismo", che come contenuto internazionale ha già assorbito la "coesistenza pacifica" e la "evitabilità della guerra."

Cosa vuol dire "istituzionalizzazione della democrazia"? Pajetta lo spiega: "la semplice contrapposizione fra democrazia borghese e democrazia socialista non è sufficiente quando il problema può essere impostato e risolto in modo nuovo." Cosa sia, poi, questo "modo nuovo" lo sappiamo benissimo.

Per non andare lontano basta rileggere le tesi dell'VIII e del IX Congresso del PCI per convincerci che questa "democrazia nuova", che dovrebbe stare in mezzo tra la democrazia borghese e la democrazia socialista, altro non è che la variante capitalistico-statale della democrazia borghese. La "istituzionalizzazione della democrazia" è un modo complicato di dire le stesse cose che dicono i socialdemocratici. Franco Gerardi, sull'"Avanti!" del 15 novembre, lo ha capito benissimo quando scrive che le affermazioni "fatte da Alicata" e dai suoi compagni: "quando essi affermano la necessità di "istituzionalizzare la democrazia", cioè di modificare o arricchire gli istituti esistenti di nuove garanzie per la libertà individuale, e il diritto dell'individuo di concorrere alla determinazione della linea politica nazionale, dicono esattamente le stesse cose che diciamo noi quando sottolineiamo la necessità di modificare il sistema per garantire quei diritti dell'individuo e per preservare la società dai rischi della burocratizzazione e dai pericoli degli arbitri polizieschi."

Che razza di marxismo è mai questo dei Pajetta, degli Alicata, dei Gerardi? Nemmeno i teorici più seri della borghesia trattano in questo modo vuoto, insulso, piccolo borghese, i problemi del potere statale e delle sue istituzioni.

Non da "Stato e rivoluzione" dovrebbero prendere lezioni gli "istituzionalisti" del PCI, poiché non ne sono capaci, ma da certe correnti sociologiche americane e francesi. Riempiendosi la bocca dei diritti dell'individuo, gli "istituzionalisti" del PCI arrivano addirittura a capovolgere ogni criterio elementare di analisi sociale e a indicare idealisticamente presunte istituzioni giuridiche che preservino la società dalla burocratizzazione. Per loro, sono le istituzioni giuridiche (o la mancanza di queste) e non le classi che caratterizzano socialmente una società. Per loro il rapporto tra le classi non è una lotta, ma una questione di istituti e di garanzie giuridiche.

Non varrebbe nemmeno la pena di ascoltare simili scempiaggini se tutto questo discorso non nascondesse un più serio tentativo di oscurare la natura sociale dell'URSS. Lo stesso Alicata sostiene che la denuncia allo stalinismo fatta al XXII Congresso deve essere "approfondita in una direzione storica che escluda ogni forma di giustificazionismo": il risultato è che M. Alicata in un altro dibattito, riportato il 14 novembre da "l'Unità", sostiene, contro Trotsky, la scelta staliniana del "socialismo in un paese solo" ed estende questa scelta al "comunismo in un paese solo" di Kruscev, contro l'estremismo cinese. La "istituzionalizzazione della democrazia" finisce, quindi, di essere una esercitazione verbale per diventare una concreta arma di attacco ideologico imperialistico.

Il problema delle correnti:
socialdemocratizzazione o partito rivoluzionario

Rimane ancora la questione della "liceità del dissenso" e della possibilità di "maggioranze e minoranze." Qui il giudizio diventa più complesso e non perché la richiesta fatta nel PCI non si inquadri in quelle linee di sviluppo dell'opportunismo che abbiamo tracciato; anzi, ne è proprio una premessa. Inserito nella strategia della "coesistenza pacifica", come uno degli strumenti di sostegno degli interessi imperialistici unitari che sono alla base dell'accordo tra le grandi potenze, il PCI non può che giungere a riflettere tutte le forme della società in cui opera; ed una di queste forme è costituita dal feticismo democratico, dalla vuota parlamentarizzazione in tutti gli aspetti secondari delle decisioni di potere, dalla socialdemocratizzazione delle masse. Tale feticismo democratico è inversamente proporzionale alla concentrazione del capitale e del potere economico e all'estremo imputridimento, parassitismo e burocratizzazione del capitalismo. Mano a mano che il capitalismo raggiunge il suo massimo sviluppo, esso dilata un processo intenso di burocratizzazione in tutti gli aspetti della vita economica, sociale, politica e culturale. Tutto ciò che è diventato ormai subordinato e puramente formale, tutto ciò che ormai non può oggettivamente pesare sul meccanismo di direzione economica e statale, tutto ciò che è ormai ornamentale, viene elevato al massimo prestigio. Comincia l'orgia della "democrazia", del "libero confronto", del "dibattito", della "discussione", delle "maggioranze e delle minoranze" riprodotte all'infinito. Proprio quando il parlamentarismo è ormai ridotto ad un salotto privilegiato, decorativo, divertente, blasonato ma oggettivamente privo di ogni potere ed incapace di averne uno, proprio quando la formazione di un capitalismo oligopolistico privato e statale (con tutto il suo apparato tecnico e amministrativo) ha portato nei fatti la società a superare l'artigianale forma parlamentaristica di elaborazione e di scelta economica e politica, proprio quando il parlamentarismo non può costituire il minimo intralcio alle organizzazioni capitalistiche, di fatto internazionali e interstatali, esso viene esaltato ed esteso. Più è inutile di fatto e più diventa utile come ideologia, come luogo comune, come metodo generalizzato.

Si parlamentarizza tutto, dai Comuni alle Regioni, dai partiti ai sindacati, dalle assemblee dei condomini ai "club della lambretta." Intanto di tutto si discuterà, meno che di rifiutare e combattere il rapporto fondamentale della società capitalistica, il rapporto di produzione che è alla base della sua piramide, il rapporto tra capitale e salario. È su questo dibattito scientifico che il marxismo si scinde da tutta la società capitalistica ed è con il programma dell'abolizione del salario che il marxismo diventa socialismo scientifico.

La discussione e il dibattito, la critica delle armi e le armi della critica, dentro alla società capitalistica, dentro al movimento operaio hanno un senso storico se avvengono attorno a questo problema di fondo. Tutto il resto, tutto ciò che non ha come obiettivo principale la coscienza della critica marxista al capitale e al salario, è secondario.

Il PCI avrà, quindi, la sua "democrazia interna" e le sue correnti. È parte integrante di una società capitalistica ad un certo grado di concentrazione e di parlamentarizzazione e se non si "democratizza" è superato dagli eventi, dalle forme di vita sociale, dalla "cultura di massa", da Nenni.

Rischia di diventare una associazione di vecchi nostalgici, inguaribilmente settari, cioè quanto di meno adatto per servire gli interessi comuni dell'imperialismo sovietico e di quello occidentale e di influenzare le nuove leve di lavoratori nate nel clima della "libera discussione democratica" e che ormai accettano questa come uno dei beni d'uso durevoli.

Il PCI avrà, quindi, le sue correnti come ogni socialdemocrazia che si rispetti, e le avrà nella misura in cui saprà rinnovarsi, adeguarsi, modellarsi come apparato burocratico funzionale, "moderno", neocapitalistico. Il PCI ha oggi bisogno di burocrati e propagandisti di nuovo tipo, formati più dalle scuole di pubblicità e di "human relations" che dai "brevi corsi" di storia del PCI. Il vecchio staliniano, ormai spremuto come un limone, ha fatto il suo tempo ed è messo da parte.

In questo rinnovamento burocratico il gioco delle maggioranze e delle minoranze viene ad assumere una sua funzione ben precisa. Deve riuscire a raggiungere una maturità "democratica" dell'organizzazione riformistica per l'inserimento nelle sovrastrutture capitalistiche (finalmente il PCI avrà dato la sua prova di "democraticità" e potrà essere candidato alla "sinistra democratica") e a contenere una delle maggiori istanze operaie. L'operaio crederà che sia maggiormente socialista quella organizzazione in cui può manifestare il suo dissenso.

La libertà di discussione e di corrente è, infatti una delle più vecchie tradizioni del movimento operaio e delle organizzazioni riformiste. Con la libertà di discussione e di corrente la socialdemocrazia riuscì a contenere e a controllare ogni posizione rivoluzionaria. La libertà di corrente all'interno della grossa organizzazione riformistica finisce con il neutralizzare i gruppi rivoluzionari e con l'isolarli mediante una serie di posizioni opportunistiche intermedie. La dialettica tra le correnti nella discussione in seno al grosso partito opportunistico è la dialettica della confusione e non della chiarezza. Solo sul terreno dell'azione si chiariscono le posizioni. Non bisogna credere che le concezioni rivoluzionarie sorgano dalla libera discussione. Il partito bolscevico rivoluzionario fu sconfitto e massacrato non perché Stalin soffocò la libertà di discussione, ma perché Stalin rappresentò prevalenti ed aggressive forze sociali controrivoluzionarie. Le concezioni rivoluzionarie sorgono dalla dialettica dei fatti e non da quella delle parole. Così è e sarà anche per il PCI che sarà sconfitto non per il dibattito o per la libertà di correnti, ma dalle posizioni chiaramente controrivoluzionarie che dovrà assumere quando, in una fase di crisi dell'imperialismo, le masse si radicalizzeranno e potenzieranno il loro Partito rivoluzionario veramente comunista.

Che poi anche la libertà di corrente in seno al PCI possa accelerare il processo di potenziamento del partito rivoluzionario è un problema che può essere impostato solo con molta chiarezza. Il PCI è un organismo che ha una larga base operaia da cui si manifestano istanze e tendenze genericamente rivoluzionarie. Dobbiamo operare decisamente per aiutare queste istanze a maturare e a rompere con l'opportunismo. Dobbiamo utilizzare in senso rivoluzionario la possibilità di discussione. Dobbiamo lavorare per far sì che anche da questa operazione di rinnovamento dell'opportunismo sorgano nuovi nuclei rivoluzionari.

Dobbiamo, infine, chiarire continuamente il diverso ruolo coperto dalle correnti in un partito riformista e in un partito rivoluzionario. In quest'ultimo, sulla base di un programma teorico marxista intangibile, le eventuali correnti sorgono su problemi tattici e non di principio, esprimono l'ineguale sviluppo della classe e non contrasti di classe, ricompongono nell'unità d'azione l'interesse unitario della classe.

La concezione leninista del centralismo democratico è il risultato teorico e pratico di tutta la storia del movimento operaio internazionale. Essa sorge ad un dato momento di maturità della lotta di classe, come espressione oggettiva delle funzioni che l'avanguardia rivoluzionaria è portata a svolgere in questa lotta, e, soprattutto, ad un determinato grado di sviluppo storico di questa lotta.

Il centralismo democratico non è quindi un omaggio al principio della democrazia, ma l'applicazione teorica e pratica della lotta rivoluzionaria antidemocratica, perché conseguentemente anticapitalista, giunta ad un determinato livello di maturità. È quindi la concretizzazione della dialettica del partito come componente cosciente della dialettica della società. Nel partito si rispecchia, ad un grado superiore, al grado di coscienza scientifica, la contraddizione della società giunta alla fase acuta di rottura. Con il centralismo democratico, con il dibattito interno, con la formazione temporanea di correnti, il partito rivoluzionario si attrezza meglio ed affina tutti gli strumenti di conoscenza ai vari livelli, per potere operare più efficacemente nella società, per potere manovrare tatticamente, per potere sviluppare la sua strategia e la sua offensiva rivoluzionaria.

Il centralismo democratico, perciò, è un mezzo e non un fine, dato che il fine non può che essere il comunismo, cioè l'abolizione delle classi, della democrazia, del partito.

Esso è una conquista storica del proletariato come lo è la concezione leninista del partito. Esso non è l'accettazione del principio democratico borghese che si basa sull'autorità della maggioranza, ma è il "superamento" e la negazione stessa di questo principio con il principio rivoluzionario della dittatura del proletariato.

Il partito è il programma del marxismo rivoluzionario e nel programma non ci sono maggioranze o minoranze ma unità organica, senza la quale il partito si scinde perché non è più un partito rivoluzionario ma l'innaturale aggruppamento di un partito riformista e di un partito rivoluzionario.

Le correnti in seno al partito rivoluzionario si possono formare solo su particolari problemi tattici e servono a dare una maggiore funzionalità operativa al partito e non di certo a frenarla. Sono una rassegna delle capacità del partito ad elaborare e a sviluppare una tattica che applichi il programma. Il più aperto e spregiudicato dibattito in seno al partito su determinate scelte tattiche non può che rafforzare il partito, renderlo cosciente dei suoi compiti immediati, farne uno strumento cosciente del superamento delle forme arretrate di organizzazione di tipo settario. Cosi come il programma del partito rivoluzionario è l'espressione della critica storica alle concezioni settarie, spontaneiste e socialdemocratiche, l'organizzazione del partito ne è la critica operante.

Da tutto ciò deriva che vi è una nettissima demarcazione tra la democrazia interna del partito rivoluzionario e il parlamentarismo interno del partito opportunista. Ciò che qualifica il carattere fondamentale del partito è il suo programma e non la discussione interna. Ciò che separa nettamente il partito rivoluzionario da quello opportunista è che nel primo si discute per fare avanzare la rivoluzione proletaria, nel secondo per soffocarla.

La socialdemocratizzazione del PCI non può che accentuare il ruolo controrivoluzionario che questo partito svolge, come ieri lo svolse la socialdemocrazia. E come ieri dalla socialdemocrazia sorsero, riuscendo a spezzare tutte le remore innalzate dalla possibilità di discussione, gruppi rivoluzionari, così oggi il loro atto di nascita sarà solo dato dalla rottura con il PCI e non dalla discussione. Avranno il vantaggio di trovare già pronta una minoranza rivoluzionaria che da anni lavora per portare avanti il programma del marxismo e del leninismo.

(" Azione Comunista ", n. 65 e 66, 30 ottobre e 15 dicembre 1961)

 

 


Ultima modifica 09.09.2001