L'imperialismo unitario

Arrigo Cervetto (1950-1980)

 


Trascritto per inetrnet da Mishù, settembre 2001

Capitolo nono
LA QUESTIONE CINESE, 1959-1969

Nota introduttiva
Cronologia
Le "Comuni popolari" e lo sviluppo del capitalismo in Cina
Ruolo oggettivo della Cina nella lotta internazionale della classe operaia
Lenin e la rivoluzione cinese
L'internazionalismo proletario e la rottura cino-sovietica
Né Mosca né Pechino
Punti fermi sulla questione cinese
Russia e Cina: un conflitto capitalistico (Prefazione all'edizione del 1969
di "Lenin e la Rivoluzione cinese")
La teoria maoista del Fronte Unito


L'internazionalismo proletario e la rottura cino-sovietica

Importanza del dissidio Mosca-Pechino
Il " vuoto " imperialista
Transitorietà del capitalismo di Stato cinese
Le prospettive della via cinese al capitalismo
Dittatura mondiale del proletariato
La rivoluzione proletaria d'Occidente
Appoggio critico

Il dissidio cino-sovietico, rimbalzante ormai da Congresso a Congresso, pone dei grossi problemi e degli interrogativi pressanti a tutto il movimento operaio internazionale. Migliaia e migliaia di militanti operai si pongono oggi una serie di domande alle quali trovano solo risposte parziali e confuse. Sono domande che investono alcune prospettive di fondo e che molti operai rivolgono pure a noi.

Abbiamo da tempo tracciato le linee di un'analisi e di una interpretazione dei rapporti tra Cina ed Unione Sovietica, abbiamo da tempo sottolineato l'estrema importanza ed attualità di tale questione. Gli avvenimenti non ci colgono impreparati, anzi possiamo dire di averli seguiti con attenzione in tutto il loro sviluppo e di aver cercato di affrontarli con la massima chiarezza. Oggi questa chiarezza è più che mai indispensabile, se si vuole che il contrasto cino-sovietico sia un elemento di propulsione per il proletariato rivoluzionario e non un ulteriore elemento di confusione. Perciò, come sempre, saremo fedeli al nostro impegno di chiarezza, alla nostra esigenza di una corretta analisi marxista, al nostro dovere di una conseguente posizione internazionalista.

Nella lotta rivoluzionaria vi sono momenti in cui ogni parola, ogni posizione e ogni giudizio debbono essere ancora più chiari, ancora più cristallini. Quello di oggi è uno di questi momenti.

Importanza del dissidio Mosca-Pechino
Prima di affrontare la parte ideologica del dissidio tra Cina ed Unione Sovietica, cioè prima di esaminare le versioni propagandistiche del dissidio, pensiamo sia bene fare una premessa inequivocabile.

In altre parole, occorre stabilire qual è l'importanza oggettiva del contrasto. Non bisogna mai dimenticare che ci troviamo di fronte non tanto ad un dissidio ideologico, quanto ad un dissidio politico, cioè ad una frattura tra Stati, ad una frattura di un sistema di alleanze che può preludere ad un capovolgimento dello stesso sistema in crisi e, in parte, modificarlo. Questa è la realtà oggettiva troppo spesso non sottolineata.

Ma che cosa significa una frattura tra Stati se non un episodio della crisi dell'imperialismo, se non un aggravamento di questa crisi?

L'analisi marxista deve valutare il grado di frattura tra gli Stati cinese e sovietico e deve valutare, inoltre, a che livello è giunta questa tipica crisi dell'imperialismo. Forse vi sarà discussione sull'importanza della frattura e della crisi stessa.

Tutto il settore asiatico dell'egemonia imperialistica è in una crisi che non lascia intravedere soluzioni immediate. L'egemonia dell'imperialismo sovietico sulla Cina è stata brutalmente frantumata, grazie soprattutto alla sua estrema debolezza, e certamente non è stata soppiantata dall'egemonia dell'imperialismo americano o europeo.

Nel complesso intreccio che avviene in ogni rivoluzione coloniale e semicoloniale tra spinta antimperialistica ed influenza di qualche potenza imperialista, il caso della Cina è un esempio storico di posizione autonoma, di "vuoto" imperialistico.

Tutte le recenti rivoluzioni coloniali e semicoloniali, da Cuba al Congo e all'Algeria, hanno subito una certa influenza da parte di questa o quella potenza imperialistica, di questo o quel blocco: influenza inevitabile data la presenza massiccia degli schieramenti imperialisti, ma che non ha infirmato il ruolo oggettivo svolto da queste rivoluzioni anche se, ovviamente, lo ha limitato.

D'altra parte, è assurda la tesi che vede nelle rivoluzioni coloniali e semicoloniali solo l'aspetto della manovra imperialistica, come se l'imperialismo potesse determinare il corso della rivoluzione antimperialista e come se la caratteristica fondamentale di questa risiedesse nell'essere una pedina della lotta tra le potenze imperialiste.

Come ogni fenomeno sociale che poggia sulla lotta delle classi, la rivoluzione coloniale e semicoloniale diventa un epicentro ove ogni classe esistente, nessuna esclusa, in campo nazionale ed in campo internazionale, si scontra, fa pressione sulle altre, reagisce e subisce.

La strategia e la tattica rivoluzionaria, appunto perché tengono presente una tale realtà sociale, cercano di intervenire in questo nodo di contraddizioni con un criterio fisso ed immutabile che Lenin ha riassunto nel principio strategico per cui è rivoluzionario tutto ciò che rafforza la rivoluzione del proletariato mondiale. Questa è l'essenza della strategia leninista della questione coloniale.

Se non si afferma questa essenza, se non si sanno vedere tutte le forze motrici di un movimento sociale, se non si sanno stabilire, nelle giuste proporzioni, i nessi che legano tutte queste forze motrici, difficilmente si è in grado di valutare il problema della influenza imperialista su lotte antimperialiste. Si finisce, come accade a taluni, col negare le caratteristiche fondamentali di queste stesse lotte, il che equivale, in definitiva, a dare un quadro complementare deformato della situazione mondiale. Le contraddizioni dell'imperialismo vengono ridotte alla lotta per la ripartizione del mondo e alla lotta tra capitalismo e proletariato all'interno di ogni singolo paese. Tutto un altro gruppo importante di contraddizioni, di cui la questione coloniale e semicoloniale è la più importante, viene ad essere virtualmente mitigato perché trasfuso nella indifferenziata lotta per la ripartizione del mondo. C'è da chiedersi come, con tali concezioni, possano essere visti e spiegati i processi di formazione delle nuove potenze imperialiste o come possa essere analizzato il processo di formazione del capitalismo stesso. Come può essere visto, ad esempio, il processo di formazione dell'imperialismo giapponese?

Il " vuoto " imperialista
Solo una corretta analisi della dinamica dell'influenza imperialistica in ogni parte del mondo può fornirci gli elementi per valutare in quale modo tale influenza è esercitata, se è o se non è esercitata.

Se non si affronta, perciò, il problema dell'imperialismo in tutti i suoi aspetti non si è in grado di comprendere ciò che nei rapporti di forza tra i gruppi imperialistici può essere definito un "vuoto" di potenza, cioè quella condizione transitoria in cui la posizione delle vecchie potenze imperialiste viene ad essere prima contrastata e poi eliminata dalle forze di un nuovo capitalismo nazionale nascente. È una condizione transitoria che, nel quadro dell'imperialismo mondiale, prelude ad uno squilibrio nei rapporti di forza tra le potenze imperialistiche, prelude cioè ad una nuova fase della lotta per la ripartizione e la suddivisione del mondo. Sotto questo aspetto, ogni rivoluzione coloniale e semicoloniale rientra nel quadro generale dell'imperialismo perché allarga le forze produttive capitalistiche, estende il mercato capitalistico, estende il sistema di produzione capitalistico nel mondo. Ma - e qui l'analisi marxista dell'imperialismo si differenzia radicalmente dal determinismo economico generico e passivo - in tutto questo processo di estensione del capitalismo occorre saper distinguere tra forze imperialiste esterne e forze capitalistiche autonome nazionali, almeno sino a quando queste rimangono tali.

Quando il marxismo analizza il processo di formazione del capitalismo giapponese alla fine dell'800 e agli inizi del '900 ne individua chiaramente le forze autonome che determinano il "vuoto" per le vecchie potenze imperialistiche, valuta le possibilità di queste forze, prevede il momento in cui diventeranno un fattore di rottura e di squilibrio nell'ordinamento mondiale imperialistico, cioè il momento in cui entreranno in lizza con le grandi potenze. Lenin ha prodotto questa mirabile previsione della scienza marxista.

Quando parliamo di "vuoto" imperialista in Cina vogliamo, perciò, indicare una situazione transitoria e quando parliamo di situazione transitoria vogliamo indicare una transizione capitalista verso uno sviluppo imperialistico, cioè vogliamo indicare tutto quel processo di "occidentalizzazione" della società cinese che Lenin, cinquant'anni fa, previde per l'ultimo mezzo secolo. In altre parole, non vi è una "via orientale" al socialismo.

Dobbiamo, quindi, vedere la questione cinese sotto questo profilo leninista e non sotto il profilo della rivoluzione socialista in Cina, dei suoi ritmi e delle sue prospettive. Quest'ultimo profilo divenne cruciale e importantissimo solo quando il proletariato occidentale ebbe l'iniziativa rivoluzionaria con l'Ottobre e sino a quando poté mantenere tale iniziativa.

Transitorietà del capitalismo di Stato cinese
In Cina si presentarono le condizioni oggettive nelle quali un partito comunista rivoluzionario poteva, portando a fondo la riforma agraria e utilizzando il movimento delle masse contadine, conquistare il potere come in Russia, esercitare la dittatura del proletariato e mettere questo potere socialista a disposizione della strategia rivoluzionaria dell'Internazionale Comunista. La rottura di questo "secondo anello" avrebbe dato un colpo formidabile al già scosso imperialismo europeo ed avrebbe accelerato e radicalizzato la lotta di classe delle metropoli imperialiste. L'involuzione sovietica ha rimandato ad un altro appuntamento storico l'occasione di poter saldare in una strategia mondiale due così potenti rivoluzioni. Si può discutere finché si vuole, ma con il 1927 questa occasione fu persa.

Da allora non si può più vedere la questione cinese sotto il profilo della rivoluzione socialista anche se, ovviamente, occorre vedere la politica nazionale del PC cinese che diventa sempre più moderata e non porta neppure sino alle sue estreme conclusioni borghesi la riforma agraria.

Non si dice niente di nuovo quando si afferma che solo un partito proletario e rivoluzionario può portare sino in fondo il programma borghese nelle campagne e risolvere quel problemi agricoli di fronte ai quali un partito borghese e piccolo borghese è impotente. Basti pensare alla rendita agraria e, per la Cina particolarmente, al capitale commerciale, all'interesse e all'usura. Nella misura in cui queste categorie economiche, rappresentate da determinate forze sociali, saranno abolite o ridimensionate avremo un allargamento del mercato interno capitalistico. Ma la mancata abolizione di queste categorie, anche se ostacola la formazione del mercato capitalistico, non ne impedisce lo sviluppo come espressione del determinante sistema di produzione.

Lenin rispondeva ai populisti, che negavano la possibilità del mercato capitalistico in Russia, che il capitalismo non è solo una produzione per il consumo individuale ma è pure una produzione per la produzione. Infatti, oggi in Cina come ieri in Russia, si è formato un mercato capitalistico e si sono sviluppate forze produttive e rapporti di produzione di tipo capitalistico. In Cina non vi è quindi un'economia socialista, ma un'economia capitalistico-statale nei suoi caratteri essenziali. E la politica e l'ideologia che la società cinese esprime non possono essere, ovviamente, una politica e una ideologia socialiste.

Il fatto che la politica e l'ideologia dello Stato cinese riprendano oggi alcune tesi del marxismo rivoluzionario sta a confermare non la base socialista di questo Stato ma la fase transitoria che esso attraversa nel suo sviluppo capitalistico e la lotta gigantesca che esso deve condurre contro l'imperialismo per garantirsi un minimo di sviluppo autonomo.

Non è affatto paradossale che uno Stato capitalistico in formazione debba e possa impiegare, nella sua ascesa, tesi e parole d'ordine della ideologia proletaria, anzi lo Stato cinese non fa che ricalcare la strada percorsa da alcune rivoluzioni borghesi. Tuttavia, nel caso della Cina, ciò non potrebbe essere spiegato se lo sviluppo economico di questo paese fosse alle soglie della maturità imperialistica, cosa che è lontanissima dalla realtà, dato che l'industrializzazione cinese richiederà ancora parecchi anni prima di essere compiutamente attuata. Solo allora l'equilibrio tra le attuali potenze mondiali sarà completamente scardinato e ciò non avverrà all'improvviso, ma sarà il risultato di un processo mondiale di crisi dell'imperialismo, di guerre e di rivoluzioni.

Noi oggi cominciamo a vivere l'ultimo lacerante periodo della fase storica aperta dalle guerre imperialiste e dalle rivoluzioni proletarie.

Solo in questo senso possiamo inquadrare la questione cinese nella prospettiva della rivoluzione proletaria internazionale, perché solo in questo senso possiamo investire il proletariato cinese in formazione del ruolo rivoluzionario che gli compete, come sezione molto importante della classe mondiale.

Investire, invece, il PC cinese di compiti che per sua natura non può avere, significa tenere aperte delle illusioni sulla sua politica, significa riproporre una nuova edizione dello "Stato guida", significa affrontare idealisticamente e non materialisticamente la questione cinese e non vederne tutti gli oggettivi sviluppi.

Si può cadere nell'interpretazione idealistica in due modi: o appoggiando acriticamente la posizione cinese o rifiutando in blocco ogni appoggio.

La strategia rivoluzionaria non può e non deve essere basata sulla esaltazione o sul rifiuto della realtà. La strategia rivoluzionaria poggia le sue basi sulla concezione scientifica marxista e questa concezione insegna a rintracciare in qualsiasi situazione gli interessi fondamentali della classe operaia.

Se non si sanno individuare in ogni momento e in modo concreto, cioè nel corso della pratica rivoluzionaria, gli interessi fondamentali della classe operaia, se non si sa cogliere in ogni momento tutto ciò che è utile alla classe operaia e tutto ciò che è dannoso, se non si sa vedere in ogni momento tutto ciò che porta avanti la classe operaia e tutto ciò che la riporta indietro, non si possono concepire gli elementi costitutivi della strategia rivoluzionaria e non si possono avere dei termini oggettivi di riscontro. La strategia, in questo caso, non è più una strategia, ma un idealistico insieme di enunciazioni morali.

Oggi qual è l'interesse fondamentale della classe operaia, cioè dell'unica classe internazionale conseguentemente rivoluzionaria?

L'interesse fondamentale del proletariato è di giungere al più presto ad avere una direzione rivoluzionaria.

Oggi il centro di gravitazione del proletariato è nelle metropoli imperialistiche ed è in questa sede che risiede l'interesse fondamentale della classe a spostare i rapporti di forza in suo favore, a indebolire l'opportunismo, a minare il cuore dell'imperialismo.

Solo il rafforzamento rivoluzionario del proletariato metropolitano può rendere definitivamente insanabili le contraddizioni dell'imperialismo, e solo la presenza e la lotta sempre incalzante del partito rivoluzionario può costituire la garanzia a che la crisi dell'imperialismo non abbia più soluzione e la verifica concreta che le fratture dell'imperialismo siano effettivamente sfruttate dal proletariato.

Lenin trova conferma nell'insurrezione del 1905 al mutato rapporto di forze in un'Asia che vede il giovane capitalismo giapponese piegare la vecchia Russia zarista. Ma i giapponesi non portarono il disfattismo rivoluzionario, accelerarono semplicemente le condizioni in cui si sarebbe diffuso.

In altre parole, ogni situazione di frattura nelle aree dominate o influenzate dall'imperialismo può determinare certe condizioni oggettive per il rafforzamento rivoluzionario del proletariato, ma di per sé non può tradursi automaticamente in tale rafforzamento. Il partito rivoluzionario che attendesse passivamente questo rafforzamento senza intervenire attivamente in una situazione contingente di questo tipo sarebbe già intaccato dall'opportunismo, cioè da quella malattia che si cova credendo di scacciarla con lo stare immobili tappandosi più gli occhi che la bocca.

Tutto ciò che rafforza il processo di formazione della direzione rivoluzionaria del proletariato è rivoluzionario: in questo modo Lenin ci ha insegnato ad affrontare i problemi.

I principi del marxismo non sono principi moralistici, ma generalizzazioni scientifiche risultanti dall'analisi delle leggi oggettive del mondo capitalistico.

Le prospettive della via cinese al capitalismo
Dobbiamo, perciò, porci scientificamente il problema del dissidio cino-sovietico, studiare quindi la realtà di questo dissidio e non compiere scelte emotive di mille gradazioni, dalle più accese alle più sfumate.

In fondo, quello che dicono i cinesi ci interessa relativamente e non per un giudizio di fondo. Ci interessa invece ciò che rappresentano in questo momento nei rapporti di classe su scala internazionale.

Sotto questo aspetto, il contrasto russo-cinese rafforza il processo di formazione rivoluzionaria del proletariato o lo indebolisce?

Nessun argomento può contestare che questo processo viene rafforzato. Ecco il primo importante dato di fatto dal quale consegue che la questione cinese va affrontata, oltre che come problema di politica internazionale e come problema particolare della questione coloniale, anche come problema di tattica contingente della strategia generale antimperialista.

Oggi il contrasto russo-cinese rafforza il proletariato rivoluzionario, perché obbiettivamente indebolisce l'imperialismo. Domani la situazione può anche cambiare, dato che il contrasto russo-cinese è una contraddizione dell'imperialismo che può essere attenuata. La Cina può anche far marcia indietro per tutta una serie di motivi, che altre volte abbiamo indicati, che trovano il loro punto di raccordo nei problemi dello sviluppo economico cinese.

Avevamo accennato già altre volte alla forma particolare in cui si presenta in Cina il problema dell'accumulazione capitalistica. In sostanza, pensiamo all'estrema difficoltà in cui procede l'accumulazione in una economia come quella cinese in cui l'investimento straniero di capitale, dopo il ritiro sovietico, è praticamente sparito.

Se pensiamo poi alla esiguità dei cosiddetti "aiuti" sovietici (in nove anni solo 3 miliardi di dollari), avremo un'idea anche delle deboli basi di partenza per l'industrializzazione. Dovendo contare esclusivamente sulle proprie forze la Cina deve compiere uno sforzo immenso per accumulare capitali destinati all'accumulazione.

La politica del "balzo in avanti" e delle "Comuni" è stata un originale e ardito tentativo di utilizzare tutte le forze di lavoro per accelerare un processo già di per sé difficoltoso e lento, tentativo di cui non si può ancora fare un esatto bilancio, ma di cui già si sono potuti notare alcuni cedimenti. L'agricoltura ha dovuto subire una intensa crisi e l'industria ha dovuto rallentare i ritmi d'incremento.

È finito l'esperimento di questa "via cinese" al capitalismo? È possibile una accumulazione sufficiente all'industrializzazione senza l'intervento di capitali stranieri?

Questi problemi non richiedono risposte perentorie, ma studio, osservazione e attesa.

Dopo la conclusione della rivoluzione cinese nel 1949, alcuni teorici rivoluzionari sostennero che l'immenso mercato cinese sarebbe stato un enorme campo di investimento americano, quasi una provvidenziale valvola di sfogo alla crisi del dopoguerra statunitense. L'ipotesi poteva avere teoricamente una certa giustificazione.

La rivoluzione di Mao, imperniata sulla collaborazione delle quattro classi, portava avanti la rivoluzione borghese di Sun Yat-sen, spazzava via le forme economiche precapitalistiche, unificava un enorme mercato, creava questo nuovo mercato in Asia. D'altra parte l'imperialismo sovietico era così debole ed immaturo da dovere essere tagliato fuori economicamente, come infatti è avvenuto. Ciò che invece non è avvenuta è l'apertura del mercato agli USA. La Cina è rimasta "chiusa."

L'ipotesi che possa costituire nuovamente un mercato "aperto" è un'ipotesi che teoricamente non si può scartare e che può essere tenuta presente per eventuali "marce indietro" cinesi, ma oggi è un'ipotesi debolissima. Molto debole rimane anche per il futuro.

A nostro avviso, la Cina riassume oggi, nella sua radicalizzazione politica, la gravità degli ostacoli che incontra lo sviluppo economico nelle aree già coloniali o semicoloniali. Anche la storia dello sviluppo del capitalismo in Occidente è costellata da lunghi periodi di crisi e, spesso, di arretramento.

L'idea del progresso è un'idea ottocentesca firmata da una borghesia che è giunta all'apice della sua carriera storica e che dimentica il burrascoso e stentato periodo della sua giovinezza.

Lo sviluppo economico capitalistico non è stato in nessun paese un processo evolutivo e lineare, ma dappertutto ha rappresentato una fase storica di intense lacerazioni sociali, di drammatici sconvolgimenti, di rapide ascese e di altrettanto precipitose cadute. A questa legge "normale" non possono sfuggire i giovani paesi capitalistici afroasiatici. Il dramma del loro sviluppo è, però, aggravato dal fatto che essi nascono capitalisticamente nella fase imperialistica del capitalismo e, particolarmente, nel periodo della disgregazione e delle massime contraddizioni dell'imperialismo. Quelle stesse contraddizioni che hanno permesso la vittoria del movimento di indipendenza politica e di formazione dei nuovi Stati spingono ad accelerare lo sviluppo economico nelle aree arretrate e, nello stesso tempo, lo frenano in mille modi.

Esaminare il cosiddetto "sottosviluppo" è come fare l'anatomia del giovane capitalismo che è nato vecchio e che è costretto a correre come un ragazzo per sopravvivere. La corsa diventa quindi un duello mortale.

Le potenze imperialistiche hanno in mano tutti gli strumenti, dalle forze produttive ai capitali, dal controllo completo del mercato mondiale delle materie prime e dei manufatti alla forza militare, dal monopolio internazionale di interi settori economici ai vantaggi della forbice dei prezzi, per condizionare lo sviluppo economico dei giovani capitalismi.

La Cina non sfugge a questa morsa. Il fatto che oggi si sia resa indipendente da ogni influenza imperialistica testimonia la gravità dei problemi economici che si pongono alla Cina stessa. O questi problemi trovano un minimo di soluzione o il paese ritorna indietro di decenni ed apre le porte ad ogni influenza imperialistica. Ad un certo punto dello sviluppo economico diventa quasi impossibile una stagnazione: o si va avanti o si ritorna indietro.

La Cina, nell'ampio ventaglio dei paesi arretrati, rappresenta nel modo più clamoroso quel gruppo di paesi che sono giunti a quel determinato punto dello sviluppo economico. Di qui discende tutta l'importanza che per i nuovi paesi ha l'esperimento cinese.

La posta in gioco non è quindi stalinismo, maoismo, kruscevismo, ma la soluzione dei problemi dello sviluppo, e questa è strettamente connessa ai rapporti con l'imperialismo.

Dittatura mondiale del proletariato
Posta nei suoi termini oggettivi, la soluzione della rivoluzione cinese e di tutte le rivoluzioni coloniali e semicoloniali sembra quasi impossibile.

L'imperialismo aggrava sempre di più le difficoltà dello sviluppo economico dei paesi politicamente indipendenti e l'accumulazione capitalistica è resa sempre più affannosa da una situazione agraria ereditata dalla dominazione imperialista e forgiata dall'imperialismo stesso nella sua divisione internazionale del lavoro.

Ogni tentativo di supplire alla bassa accumulazione con l'esportazione è paralizzato dal peggioramento delle ragioni di scambio, dalla caduta dei prezzi mondiali delle materie prime.

Con la dominazione imperialistica del mondo ogni zona economica è sempre meno autonoma e sempre più legata alle leggi dell'imperialismo ed ormai matura è la scelta storica: il mondo o imputridisce sotto l'imperialismo o si sviluppa la condizione di vita delle masse coloniali perché corrisponde ai loro interessi, perché solo in questo modo esse potranno evitare la tragedia della fame e della morte che le perseguita.

Solo la dittatura del proletariato nei paesi industrializzati potrà mettere a disposizione dei due terzi dell'umanità enormi forze produttive inutilizzate o male impiegate e creare un'alternativa socialista al dramma dell'accumulazione capitalista nei continenti arretrati. La via al socialismo dell'Asia, dell'Africa, dell'America Latina passa attraverso la violenta ed inesorabile rivoluzione socialista nell'Occidente capitalistico. Teorizzare la via al socialismo nei paesi arretrati come "salto" della fase capitalistica e, nello stesso tempo, teorizzare e propugnare la via pacifica e la rinunzia alla rivoluzione e alla dittatura del proletariato nei paesi capitalisti è quanto di più controrivoluzionario abbia partorito l'opportunismo giunto ad essere il più valido puntello dell'ultimo periodo imperialista. L'opportunismo krusceviano e togliattiano che, al XXII Congresso del PCUS e al X Congresso del PCI, ha teorizzato questa duplice mistificazione non rappresenta più un tentativo revisionistico, o neo-revisionistico come dicono i cinesi, ma è una delle massime espressioni dell'ideologia e della politica imperialista.

La rivoluzione proletaria d'Occidente
In sostanza l'imperialismo sovietico ed il suo portavoce picista pongono il movimento operaio al servizio di quell'alleanza cogli imperialisti occidentali definita "coesistenza pacifica" e cercano, nel quadro di questa alleanza, di utilizzare le masse operaie contro le istanze dei paesi arretrati, istanze rappresentate in generale dalla Cina.

La lotta contro i "cinesi" intrapresa da Kruscev e da Togliatti non è quindi una lotta per questioni ideologiche, bensì una lotta per la difesa di interessi imperialistici, sia russi che occidentali. Sulla piattaforma di una comunanza di interessi imperialistici gabellata all'insegna della coesistenza pacifica, l'opportunismo mondiale, in via di integrazione dai socialdemocratici ai krusceviani, si prepara a costruire l'ultima trincea di difesa delle vecchie potenze imperialiste contro la Cina e ad incatenare, con la falsificazione politica e la corruzione riformistica, le masse lavoratrici sovietiche ed occidentali a questa trincea.

Dovere del movimento rivoluzionario è lottare instancabilmente contro questa strategia imperialista, smascherarla ogni giorno agli occhi delle masse, proclamare incessantemente che l'unica solidarietà attiva con le masse lavoratrici cinesi consiste nella lotta per la dittatura mondiale del proletariato, dire apertamente che la Cina non può saltare la fase capitalistica senza la vittoria rivoluzionaria del socialismo in Europa.

Solo se il movimento rivoluzionario saprà marciare coerentemente in questa direzione si potrà operare un'alleanza strategica tra proletariato occidentale e masse lavoratrici cinesi, e di fatto l'egemonia ideologica e politica sarà del partito marxista rivoluzionario e non della classe dirigente cinese, classe organizzata burocraticamente e che per sua natura può porre anche in modo radicale i problemi dello Stato cinese, ma mai i problemi della rivoluzione socialista internazionale.

Il proletariato occidentale ha un comune interesse con il PC Cinese: indebolire la strategia imperialista della coesistenza pacifica. Ma l'interesse storico e generale del proletariato va più avanti e arriva alla rivoluzione socialista, mentre l'interesse del PC cinese e dello Stato che rappresenta si ferma a modificare i termini della coesistenza pacifica, cioè i rapporti tra le potenze imperialiste, in un modo tale che gli arrechi il massimo vantaggio contingente. Se i dirigenti cinesi avessero gli stessi interessi di fondo del proletariato occidentale dovrebbero dire che in Cina non è possibile il socialismo e che in Occidente il proletariato deve prendere il potere con una rivoluzione, per aiutare lo sviluppo economico socialista nelle zone arretrate, cioè dovrebbero dire ciò che hanno sempre detto Marx e Lenin. Invece su questo punto fondamentale hanno una posizione opposta a quella marxista e leninista, perché la loro ideologia poggia le basi sulla mistificazione staliniana dell'edificazione del socialismo e dell'attribuzione del carattere socialista alla proprietà statale dei mezzi di produzione.

Certamente noi non pretendiamo che i dirigenti cinesi siano quello che non possono essere e, d'altra parte, il fatto che non siano marxisti non può annullare il ruolo antimperialista che svolgono.

Senz'altro il tipo di polemica che fanno contro i sovietici, alcune parole d'ordine e alcune tesi che agitano, la propaganda che diffondono, non può che rafforzare nella Cina stessa la formazione di gruppi veramente internazionalisti e marxisti, gruppi che nel loro sorgere non possono che scontrarsi con i dirigenti ufficiali, perché una loro visione internazionale coerente dei problemi della rivoluzione socialista mondiale li porterà inevitabilmente a cozzare contro l'ideologia dell'edificazione del socialismo.

Appoggio critico
Nel partito cinese come in quello russo la disfatta della sinistra è già avvenuta al momento della stalinizzazione del Komintern: difficilmente una vera sinistra comunista può risorgere in quella sede, ma l'agitazione di molte idee comuniste e l'esistenza di problemi strategici che la stalinizzazione non ha risolto, ma ha aggravato, pongono le condizioni oggettive e soggettive per la rinascita di una sinistra comunista rivoluzionaria in seno alle sterminate masse cinesi.

Nella misura in cui il proletariato rivoluzionario occidentale saprà fornire un appoggio critico alla lotta dei cinesi, rinvigorirà la rinascita marxista e leninista nel proletariato cinese, trasmetterà iniziative ed esperienze, ridurrà l'influenza burocratica del PC Cinese sui lavoratori, creerà un'alternativa internazionalista alla lotta puramente nazionale dello Stato cinese.

Solo un appoggio critico alle attuali posizioni del PC Cinese può accelerare il processo in corso. Se i dirigenti del PC Cinese hanno certe posizioni di rottura con l'URSS, vuol dire che sono sospinti da problemi giganteschi che riescono appena a controllare e che imprimono una radicalizzazione al movimento delle masse cinesi, dato che i problemi economici e sociali e le grandi tensioni economiche e politiche sono tali perché sono vissuti dalle masse e queste ne sono protagoniste.

Il PC Cinese convoglia il movimento delle masse su un terreno nazionalistico e molte delle critiche cinesi all'URSS hanno un tale contenuto. La stessa critica alla politica riformista dei partiti comunisti occidentali ha una base di partenza nella tattica di politica estera cinese e non nella salvaguardia dei principi marxisti.

I cinesi attaccano la politica delle "riforme di struttura" e la "via democratica al socialismo" di Kruscev-Togliatti, perché questa politica è parte integrante della "coesistenza pacifica" come la concepisce Mosca e, quindi, attaccando ove è possibile tale politica, i cinesi mirano ad indebolire la politica dello Stato sovietico, con lo scopo di poterla condizionare. Tutti gli strumenti di critica per poter fare "pressione" sullo Stato sovietico possono essere adoperati dal PC Cinese. Quali sono gli obbiettivi ultimi di questa tattica cinese è difficile precisare.

La costante di ogni Stato è indubbiamente il proprio rafforzamento nei confronti degli altri Stati, siano essi avversari od alleati: anche per lo Stato cinese vale questa norma e tanto più vale nei suoi rapporti con lo Stato sovietico, cioè con l'unica grande potenza mondiale confinante.

Contingentemente gli obiettivi cinesi possono essere costituiti da un rinsaldamento dell'alleanza e perciò la Russia può essere costretta a concedere aiuti militari ed economici senza alcuna contropartita di influenza imperialistica, anzi sulla base di una "partnership" russo-cinese. In un abbraccio di questo tipo lo Stato cinese potrebbe rafforzarsi ed attenuare alcune delle grosse difficoltà dello sviluppo economico. Possono esistere, tuttavia, soluzioni che stiano a metà strada da quegli ambiziosi obbiettivi cinesi e forse sono soluzioni possibili.

Esiste, infine, la prospettiva dell'aggravamento e della definitiva frattura russo-cinese che indicavamo all'inizio. Questa prospettiva di impossibilità di soluzione momentanea delle contraddizioni dell'imperialismo ci avvicina maggiormente al momento della crisi generale e della rivoluzione proletaria internazionale.

Quali che siano le soluzioni o semi soluzioni della frattura russo-cinese, una cosa è certa: nel periodo che ci separa dalla crisi generale non resterà immobile né politicamente né economicamente.

La tesi marxista dell'incapacità delle forze capitaliste nazionali a portare avanti la rivoluzione democratico-borghese, anche se trova in Cina una storica conferma, non vuole assolutamente significare la teorizzazione di un sistema di produzione che non è più precapitalista ma non è ancora capitalista.

In Cina il sistema di produzione capitalistico è ormai diventato predominante, malgrado le enormi difficoltà dello sviluppo e malgrado la linea "moderata" e sostanzialmente opportunistica imposta alla rivoluzione.

Questa è la realtà che il movimento rivoluzionario deve affrontare e su cui deve pronunciarsi, senza attendere che altri fatti vengano a modificarla. In questo modo si applica quell'appoggio critico che sa valutare, in ogni aspetto, il valore oggettivo delle posizioni cinesi e sa sfruttare ai fini rivoluzionari l'apporto che le critiche cinesi possono dare alla lunga ed aspra battaglia ingaggiata contro l'opportunismo e l'imperialismo.

(" Azione Comunista " n. 77-78, febbraio 1963)

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Mosca né Pechino

Come avevamo previsto la crisi dei rapporti cino-sovietici è giunta alla rottura. Da ambo le parti le accuse ormai giungono al grado estremo di invettive e di insulti. Sostanzialmente i punti fondamentali della polemica si imperniano oggi nell'accusa cinese al "revisionismo" di Kruscev come il peggiore revisionismo nella storia del movimento operaio, e nella replica sovietica per cui i cinesi avrebbero sostituito al concetto di classe quello di razza. Sul piano politico la conclusione a cui giungono i cinesi è l'appello diretto al rovesciamento della direzione krusceviana e quella a cui giungono i sovietici è praticamente la prospettiva di una lotta contro un presunto fronte sciovinista e razzista afroasiatico capeggiato ed istigato dalla Cina. È significativa, sotto questo aspetto, la dichiarazione rilasciata il 2 aprile all'agenzia "France Presse" da B. Gapurov, vicepresidente del Comitato sovietico di solidarietà afroasiatica, che riportiamo per esteso, anche perché la stampa italiana e "l'Unità" non l'hanno portata a conoscenza dei loro lettori.

"La politica attuale della Cina - ha dichiarato Gapurov - è una politica razzista e sciovinista che non si differenzia dal nazismo. Gli anticomunisti arrabbiati degli Stati Uniti vogliono una guerra di destra. Gli arrabbiati cinesi vogliono una guerra di sinistra. Non vi è differenza... I francesi comprendono che i cinesi vogliono unire le razze gialla e nera contro gli europei, contro i bianchi quali essi siano? Vedono questo pericolo? La propagazione del nazionalismo e dello sciovinismo da parte dei cinesi è pericolosa non solo per l'URSS, ma per tutti i paesi d'Europa ed altri. È l'odio che viene così fomentato."

È chiaro ormai che, come avevamo individuato nelle nostre precedenti analisi delle cause reali del dissidio, il dibattito ideologico è solo l'espressione di una lotta politica tra due Stati che di comunistico hanno solo il nome. Il contrasto è uno scontro di fondo tra la politica imperialista dell'URSS e le esigenze di sviluppo di un paese come la Cina. Nella misura in cui queste esigenze costituiscono oggettivamente una lotta contro l'imperialismo sovietico e occidentale, esse non possono che essere viste positivamente dall'internazionalismo proletario: questo lo abbiamo già detto e lo riconfermiamo.

Nella strategia del marxismo rivoluzionario ciò che conta è il ruolo delle forze motrici della rivoluzione mondiale, ed una di queste forze motrici è costituita indubbiamente dal movimento delle rivoluzioni coloniali e semicoloniali, di cui la Cina rappresenta una parte importante.

Non saremo di certo noi marxisti rivoluzionari a vedere come essenziale ciò che è invece secondario in questo movimento, cioè l'ideologia populista, sciovinista e razzista. Ciò che conta ai fini dell'effettivo ruolo svolto dalle singole forze motrici della rivoluzione mondiale è il loro relativo grado di sviluppo, la loro relativa spinta, il loro relativo peso.

E se c'è un aspetto negativo di cui ci rammarichiamo è che questa spinta, questa forza d'urto del movimento delle rivoluzioni coloniali e semicoloniali, questo ruolo antimperialista svolto dalla Cina, sia ancora troppo debole, troppo contraddittorio, troppo opportunistico, troppo condizionato dall'egemonia riformista che il proletariato subisce nelle metropoli imperialiste. Ma così come ci auguriamo una spinta più aggressiva contro l'imperialismo da parte del populismo maoista, ne respingiamo nettamente la pretesa di rappresentare il marxismo nel proletariato internazionale. La classe operaia mondiale ha bisogno di una spinta populista che attacchi la periferia dell'imperialismo, non ha bisogno di una ideologia populista per attaccarne il cuore. L'arma che permetterà al proletariato di distruggere il capitalismo è nel proletariato stesso, è nel suo internazionalismo.

Oggi l'alternativa non è tra Mosca e Pechino, ma tra la subordinazione del proletariato ad interessi che non sono suoi e l'Internazionale Comunista. Ed oggi l'Internazionale Comunista non è nella Mosca imperialista né nella Pechino populista, ma nel ritorno a Lenin, nel ritorno alla tradizione marxista della Internazionale di Lenin.

Solo nella lotta conseguentemente internazionalista il proletariato di tutti i paesi, il proletariato italiano ed europeo, americano e russo, cinese ed africano, potrà gettare le basi affinché la gloriosa Internazionale che ha dato alla storia la Rivoluzione d'Ottobre rinasca più forte di prima.

Questo è il nostro compito e a questa prospettiva noi dedichiamo tutte le nostre energie. Su questo cammino di ricostruzione di una vera Internazionale Comunista si ritroveranno tutte le forze che sinceramente aspirano ad una teoria, ad una pratica, ad un metodo marxista ed internazionalista. Sarà un cammino lungo e faticoso che non dovrà conoscere confusioni o cedimenti, ma sarà tanto più accelerato quanto più si sarà sbarazzato il terreno dalle negative influenze ideologiche che lo scontro cino-sovietico determina. Certamente l'assimilazione della coscienza socialista da parte di strati più avanzati della classe operaia non è un processo rapido e lineare. Certamente per parecchi operai, in Italia, la critica dei cinesi all'opportunismo di Togliatti costituisce un primo elemento di risveglio. Ma bisogna far sì che questo processo di risveglio, questo primo passo verso la formazione di una coscienza socialista non si fermi appena iniziato e non si incagli in un nuovo mito populista cinese, non diventi un nuovo vantaggio per l'opportunismo in Italia.

Abbiamo già visto come la burocrazia controrivoluzionaria del PCI e tutto il fronte socialdemocratico dal PSI al PSIUP abbiano saputo approfittare propagandisticamente delle contraddittorie posizioni in politica estera dei cinesi e delle ridicole riabilitazioni di Stalin rivendicate da Pechino.

Abbiamo visto come sia stato facile agli esperti trasformisti del riformismo cogliere gli elementi più negativi della propaganda cinese, dipingerli come "guerrafondai" e "staliniani", usarli come gratuiti ed utili diversivi per spostare l'attenzione del proletariato dal tema reale della degenerazione opportunista e della costituzione del partito rivoluzionario leninista. Offrire alla direzione controrivoluzionaria del movimento operaio comodi bersagli su cui sparare a zero significa, in pratica, facilitarle il compito di socialdemocratizzazione delle masse, significa non contrastarle minimamente il passo nella sua opera di corruzione ideologica, significa non aiutare con una chiarificazione marxista quei militanti operai oggi scossi da tanti dubbi ma incapaci di orientarsi in tanta confusione. In altre parole, significa non porre nei suoi esatti termini la strategia leninista del rapporto tra proletariato e questione coloniale e lasciare, quindi, ogni spazio di manovra a quelle "Sante Alleanze" imperialiste che i sovietici suggeriscono.

La lotta contro l'opportunismo non è una lotta di slogan male accoppiati, ma una dura, lenta, capace lotta di analisi marxista, di preparazione leninista di quadri, di diffusione della coscienza rivoluzionaria nella classe operaia.

Essa richiede preparati e collaudati gruppi di militanti, che sappiano smantellare con gli strumenti teorici del marxismo tutto quel castello di raffinati sofismi ideologici che una vasta e alimentata schiera di riformisti quotidianamente imbastisce. Essa richiede tenaci e perseveranti gruppi di militanti che in tutte le lotte della classe operaia sappiano portare il lievito della coscienza politica rivoluzionaria, come un portato stesso dell'esperienza negativa della pratica riformista e della necessità dell'azione rivoluzionaria. Essa richiede seri e responsabili gruppi di militanti che in questo lavoro teorico e politico sappiano costituire il partito marxista, autonomo da ogni interferenza politica e finanziaria di questo o di quell'altro Stato.

Questo ce lo ha insegnato Lenin e non Mao Tse-tung. E per questa semplice ragione la lotta rivoluzionaria in Italia ha molto bisogno di allievi di Lenin, ma non di quelli di Mao Tse-tung.

(" Azione Comunista " n. 86, aprile 1964)

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Punti fermi sulla questione cinese

Dove va la Cina? È una domanda che da quarant'anni si pongono i marxisti rivoluzionari e che puntualmente si presenta al centro degli interessi del movimento comunista. Una ragione fondamentale c'è e riguarda il fatto che inevitabilmente le tendenze di sviluppo della società cinese finiscono con l'incidere sulle tendenze dei continenti capitalisticamente più maturi e dei centri mondiali dell'imperialismo. Una svolta proletaria nel corso della rivoluzione borghese degli anni venti avrebbe influito enormemente su tutte le prospettive di una rivoluzione socialista in Occidente. Non ci fu marxista conseguente, da Lenin a Trotsky, che non avvertì l'importanza del peso che la questione cinese esercitava sulla bilancia mondiale dei rapporti di forza.

Allora non vi fu una svolta proletaria e la possibilità che la crisi mondiale dell'imperialismo degli anni trenta potesse avere una soluzione rivoluzionaria ne uscì seriamente compromessa, poiché alla sconfitta in Occidente ad opera di fascismo-socialdemocrazia-stalinismo venne ad aggiungersi la sconfitta in Oriente. La rivoluzione borghese in Cina non ebbe una soluzione proletaria, ma la questione cinese è rimasta in tutta la sua immensa portata tra le questioni di fondo del proletariato internazionale e del movimento comunista rivoluzionario.

Il fatto che lo sviluppo della società cinese sia stato uno sviluppo capitalistico non ha minimamente diminuito l'importanza della questione cinese per il proletariato internazionale, anzi l'ha aumentata perché, sotto tutti gli aspetti, ha reso ancora più sfavorevoli i suoi rapporti di forza con il capitalismo.

Tale oggettiva constatazione non può essere, d'altra parte, superata con il riconfermare il giudizio marxista sullo sviluppo capitalistico cinese di ieri e di oggi.

Da un punto di vista strategico, dire che gli attuali avvenimenti cinesi confermano l'analisi marxista fatta da tempo sul corso della rivoluzione borghese in Cina ha un'importanza molto relativa. Più importante è, invece, definire la posizione che il proletariato deve assumere di fronte a quegli avvenimenti.

Quindi l'alternativa pro o contro la cosiddetta "rivoluzione culturale" si rivela come una falsa alternativa.

Il problema deve essere visto, marxisticamente, in termini di rapporti di forza tra le classi internazionali (proletariato e borghesia) e non in termini "interni", cioè cinesi. Ciò pone due tipi di analisi: una riguardante la lotta di classe all'interno della società cinese, il suo corso e le sue tendenze, e l'altra riguardante l'incidenza che le lotte sociali cinesi possono avere sulle lotte sociali in tutto il mondo.

Sul primo tipo di analisi, che ovviamente non possiamo qui condurre ma che sarà sviluppato nei prossimi numeri del giornale, pensiamo sia necessario fissare alcuni punti fermi. In nessun modo la società cinese può essere definita una società socialista: né dal punto di vista economico, poiché in essa sono dominanti i classici rapporti di produzione capitalistici (rapporto tra capitale e lavoro salariato), né dal punto di vista politico, poiché lo Stato cinese non fa che riflettere la struttura economica su cui è basato.

Del resto la stessa corrente maoista non fa che, involontariamente, confermare ciò quando propagandisticamente dice che l'attuale lotta politica in Cina verte tra coloro che vogliono imboccare la "via socialista" e coloro che hanno già imboccato la "via capitalistica." Giungiamo così al secondo punto fermo: il carattere borghese della linea maoista.

Il maoismo, ridotto alla sua essenza, non è altro che l'ideologia dello sviluppo capitalistico nelle condizioni particolari della Cina.

Ridotto alla sua essenza, abbiamo detto. E per far ciò ricorriamo al criterio del suo rapporto col leninismo. Il maoismo pretende di rappresentare la continuità del leninismo ed è proprio su questo punto che vogliamo prenderlo in parola per verificare se la sua pretesa è vera o falsa.

Lenin, nella sua strategia della rivoluzione russa, si basò sul presupposto, più volte dichiarato, che senza una rivoluzione proletaria internazionale l'economia russa non avrebbe potuto superare il capitalismo di Stato ed entrare in una fase socialista: nella sua teorizzazione "l'edificazione economica" della struttura russa non significava altro che il processo di accumulazione e sviluppo del capitalismo controllato dallo Stato.

Tutta la strategia leninista della rivoluzione internazionale era basata su un presupposto che la pratica del "comunismo di guerra" (da Lenin stesso definito capitalismo di Stato e non comunismo) e della NEP avevano ampiamente confermato. Questo era un aspetto inequivocabile della visione di Lenin e non tanto, come molti ritengono, per la necessità di dare una chiara definizione marxista dello sviluppo economico russo (in fondo aveva, "in sé", ben poca importanza la definizione "pedantesca" della struttura economica russa), quanto per l'inderogabile necessità di stabilire un chiarissimo rapporto tra lo sviluppo economico russo e la strategia della rivoluzione internazionale.

Questo rapporto diventa, per Lenin, l'asse centrale della lotta rivoluzionaria nel mondo. In bilico su quest'asse sta la dittatura del proletariato in Russia che può reggersi, senza essere travolta dal capitalismo internazionale e dal capitalismo interno, solo se si appoggia sul movimento rivoluzionario del proletariato del mondo. Spostare quest'asse significa, per Lenin, fare crollare la dittatura del proletariato in Russia, permettere l'avvento di uno Stato capitalista che trova il suo naturale alimento negli stessi rapporti di produzione russi e, soprattutto, indebolire il proletariato mondiale e far fallire la rivoluzione socialista internazionale.

Difatti lo stalinismo ha rappresentato lo spostamento dell'asse centrale dei rapporti internazionali tra proletariato e capitalismo. Ha sviluppato il capitalismo russo a spese della rivoluzione internazionale. Il rapporto tra sviluppo economico russo e proletariato internazionale divenne un rapporto controrivoluzionario; cioè, in altre parole, nei rapporti mondiali con il capitalismo il proletariato si trovò una forza in più da combattere.

Quel capitalismo che il proletariato, guidato da Lenin, riusciva a controllare in Russia con l'appoggio della classe operaia mondiale, non fu più controllato ma impose la sua controrivoluzione prima in Russia e, poi, alleandosi con le potenze imperialistiche, nel mondo.

Ebbene, sul problema fondamentale della "edificazione economica" il maoismo rifiuta la concezione leninista e assume quella staliniana. In tutti i suoi documenti il maoismo richiede la lotta del proletariato mondiale contro il "revisionismo" e l'appoggio alla "edificazione del socialismo" in Cina.

Non fa minimamente cenno alla tesi leninista della impossibilità della economia socialista in Cina senza l'aiuto della rivoluzione proletaria nei paesi imperialistici. Dice di lottare contro il capitalismo in Cina, ma indica lo sbocco di questa lotta non nella rivoluzione socialista internazionale ma nella "edificazione del socialismo" in Cina. Lo abbiamo già detto anni fa e lo ripetiamo: se il maoismo dicesse di dover lottare, in una economia arretrata, contro lo sviluppo del capitalismo interno e contro l'imperialismo esterno, se dicesse che in quelle condizioni oggettive non vi può essere una economia socialista fino all'avvento della rivoluzione proletaria nei paesi capitalisticamente maturi; se lavorasse per la formazione di un Partito Comunista Mondiale, che abbia il suo centro direttivo fuori della Cina, e a questo partito chiedesse tutto l'appoggio contro le forze imperialistiche esterne americane, russe, giapponesi, ecc.; se ponesse, a sua volta, tutte le sue energie al servizio del Partito Comunista Mondiale e della rivoluzione internazionale, ebbene noi riterremmo necessario e giusto che, nelle attuali condizioni, il movimento rivoluzionario e la classe operaia si impegnassero a fondo in questa direzione.

E ciò lo ripetiamo, sfidandole a dimostrare il contrario, anche a tutte quelle correnti filocinesi, trotskiste e paratrotskiste che proprio su questi punti gettano confusione a piene mani, per mascherare il loro congenito opportunismo. Abbiamo detto sopra che, nella strategia di Lenin, la dittatura del proletariato in Russia doveva appoggiarsi sulla lotta rivoluzionaria della classe operaia mondiale. Nella realtà questo appoggio venne in gran parte a mancare. La lotta rivoluzionaria non ebbe la forza di poter reggere un così enorme peso, rappresentato dalle decine di milioni di piccoli capitalisti russi. La classe operaia mondiale non seppe, inoltre, costruirsi lo strumento necessario per poter supplire a questa sua debolezza: il partito leninista internazionale. Anche nella sua parte avanzata non superò le secche delle correnti della sinistra non leninista e cadde più facilmente travolta da fascismo-socialdemocrazia-stalinismo.

Non essendosi impadronita, neppure nella fase della ritirata, del leninismo, non fu in grado di usarlo come strumento di ripresa. Anche da questo punto di vista occorre saper vedere l'avvento staliniano, se non si vuole cadere in uno storicismo deterministico che finisce col giustificare, anche se lo condanna moralisticamente, l'accaduto.

Veniamo così a toccare il secondo tipo di analisi indicato, cioè il rapporto tra la lotta di classe in Cina e la lotta di classe nel mondo.

Ovviamente per il proletariato mondiale attualmente non si tratta di appoggiare una dittatura operaia in Cina, in quanto questa non rientra nella tendenza del maoismo. La lotta sociale in Cina è, però, una lotta acuta che deve essere seguita attentamente. Sotto molti aspetti è lo stesso ritardo della rivoluzione democratico-borghese che ha accumulato le contraddizioni che oggi esplodono violentemente. Nella sua soluzione maoista la rivoluzione cinese non portò neppure avanti quelle riforme borghesi, specie in agricoltura, che la Rivoluzione d'Ottobre attuò perché era condotta dal proletariato e non dal "blocco delle quattro classi" come in Cina.

Questo ritardo, sommato alla pressione imperialistica americana e russa, ha determinato una serie di difficoltà enormi per l'accumulazione dei capitali e la industrializzazione cinese, non risolte ma aggravate dal "balzo in avanti." La lotta politica ha questo sottofondo irrisolto che permette, tra l'altro, il manifestarsi di una fortissima corrente populista, cioè di una corrente utopistica sul piano ideologico, ma sostenitrice dell'accumulazione capitalistica sul piano economico.

Oggettivamente questa spinta colpisce l'imperialismo sovietico e americano e questo suo carattere deve essere valutato positivamente, anche se tutto il fenomeno certamente non si esaurisce in questo aspetto, ma si allarga ad una serie di aspetti complessi e contraddittori che dovranno essere esaminati.

In questo momento ci interessa sottolineare il contrasto tra le forze populistiche-borghesi maoiste e l'imperialismo sovietico. Non c'è nessun dubbio che le correnti maoiste, nel contesto cinese, si pongano più avanti in questo scontro, mentre le altre correnti (che sarebbe semplicistico definire filosovietiche) si attestano su posizioni più arretrate, tanto è vero che godono dell'appoggio propagandistico sovietico e americano.

Anche per i suoi rapporti con l'imperialismo, la rivoluzione borghese in Cina è un capitolo ancora aperto e con molte pagine in bianco.

(" Lotta Comunista " n. 11-12, gennaio-febbraio 1967)

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La teoria maoista del Fronte Unito

Il carattere socialimperialistico del fronte unito
L'applicazione della teoria: il Giappone imperialista diventa " nazione oppressa "
La base sociale della teoria maoista
Il problema dell'unità statale
Le " zone intermedie " nel fronte unito
L'irrealizzabilità della teoria
I veri realizzatori della teoria maoista
I fattori internazionali determinanti la teoria
Gli interessi nazionali corrispondenti alla teoria

Il nuovo Statuto approvato al IX Congresso del PCC afferma "in termini espliciti che il fondamento teorico sul quale il partito guida il suo pensiero è il marxismo-leninismo-pensiero di Mao Tse-tung" (Rapporto di Lin Piao).

Ufficialmente il maoismo è diventato il programma teorico del PCC. Anche da un punto di vista formale ciò rappresenta un elemento di chiarezza, perché il partito cinese si presenta esplicitamente come un partito maoista e come tale va giudicato.

Esamineremo quindi il maoismo nell'aspetto che ci interessa maggiormente come marxisti internazionalisti: nella sua politica estera.

Il documento ufficiale che espone in 25 punti questa politica è la risposta del CC del PCC al CC del PCUS del 17 giugno 1963, resa pubblica col titolo "La linea generale del movimento comunista internazionale."

Il Rapporto di Lin Piao, nei punti riguardanti la politica estera, ricalca le tesi della "linea generale" del 1963: segno che i 25 punti sono assunti dalla nuova direzione.

Possiamo perciò considerare i 25 punti come la linea generale internazionale del maoismo. Il rapporto di Lin Piao sintetizza la linea generale maoista che troviamo esposta dettagliatamente nel documento ufficiale del 1963, e si differenzia su un solo punto particolare, anche se estremamente importante: il "socialimperialismo sovietico" che nel 1963 non veniva menzionato.

L'inserimento, nella linea generale maoista, del fattore "socialimperialismo sovietico" inverte l'ordine in cui sono presentate le quattro contraddizioni fondamentali nel mondo.

Nella linea generale del 1963 (punto 4) queste venivano presentate nel seguente ordine:
1) contraddizione fra il "campo socialista" e l'imperialismo;
2) contraddizione fra il proletariato e la borghesia;
3) contraddizione "fra le nazioni oppresse e l'imperialismo";
4) contraddizione "fra paesi imperialisti, fra gruppi monopolisti."

Nel Rapporto di Lin Piao abbiamo il seguente ordine:
1) fra le nazioni oppresse e l'imperialismo e il socialimperialismo sovietico;
2) fra il proletariato e la borghesia "nei paesi capitalisti e revisionisti";
3) fra paesi imperialisti e paesi socialimperialisti e fra paesi imperialisti;
4) fra paesi socialisti e paesi imperialisti e socialimperialisti.

Mentre nel 1963 si parlava di "campo socialista" ora si parla di "paesi socialisti." Nel 1963 l'imperialismo sovietico era ancora incluso nel "campo socialista", nel 1969 è abbinato all'imperialismo americano. Nel 1963 la prima contraddizione era fra il "campo socialista" (inclusa l'URSS) e l'imperialismo, oggi è tra le "nazioni oppresse" e l'imperialismo (inclusa l'URSS).

Nel Rapporto di Lin Piao è detto: "... noi appoggiamo risolutamente la giusta lotta del popolo della Cecoslovacchia e degli altri paesi contro il socialimperialismo revisionista sovietico... noi appoggiamo risolutamente qualsiasi giusta lotta condotta contro l'aggressione e l'oppressione dell'imperialismo americano e del revisionismo sovietico. Che tutti i paesi e i popoli vittime dell'aggressione, del controllo, dell'intervento e delle vessazioni dell'imperialismo americano e del revisionismo sovietico si uniscano e formino il più largo fronte unito per abbattere i nostri comuni nemici."

Dai termini impiegati nel Rapporto risulta chiaramente che tutti i paesi del mondo devono unirsi "nel più largo fronte unito" contro gli Stati Uniti e l'URSS che, "nel vano tentativo di spartirsi il mondo, collaborano pur contrastandosi a vicenda" e che "nelle azioni anticinesi, anticomuniste e antipopolari, nella repressione del movimento di liberazione nazionale e la continuazione della guerra di aggressione, coordinano le loro azioni e agiscono in collusione."

Non vi è paese che, nell'interpretazione maoista, non rientri in uno dei quattro tipi di rapporto (aggressione, controllo, intervento, vessazione) con l'imperialismo americano e russo. Quindi non vi è paese che, nella strategia maoista, non debba rientrare nel "fronte unito" anti USA-URSS.

Vedremo in seguito come si articola questa strategia del "fronte unito"; per ora soffermiamoci su un tratto caratteristico della formulazione di Lin Píao. Non è un caso che "paesi" e "popoli" abbiano perso ogni aggettivazione, anche quella estremamente generica indicata nelle quattro grandi contraddizioni. Quali sono le "nazioni oppresse"? Quali sono i "paesi capitalisti"? Quali sono i "paesi imperialisti"? Quali sono i "paesi socialisti"? Di definito, nella formulazione di Lin Piao, vi è solo che gli Stati Uniti sono un "paese imperialista" (anzi, "il nemico più feroce dei popoli del mondo"), che l'URSS è un "paese socialimperialista" e che la Cina è un "paese socialista." Dalla formulazione di Lin Piao possiamo dedurre che vi sono altri "paesi imperialisti", "paesi socialimperialisti" e "paesi socialisti" e che vi sono inoltre "paesi revisionisti" e "nazioni oppresse"; ma la linea generale maoista non li indica specificamente e non dà un volto concreto a queste categorie di paesi.

Il carattere socialimperialistico del fronte unito
Ci troviamo di fronte perciò ad una "strategia diplomatica" tesa, per sua natura, a stabilire il "più largo fronte unito" (il più largo sistema di alleanze tra Stati) contro un "fronte unito" già stabilito ed egemonizzante (alleanza tra Stato americano e Stato russo); cioè ad una "strategia diplomatica" che si basa su leggi oggettive che regolano ogni azione diplomatica, ogni esigenza di rapporti internazionali tra Stati. In nessun caso possiamo considerare la linea maoista come una proposta di strategia rivoluzionaria, sbagliata o giusta che sia, in nessun caso, appunto, poiché manca addirittura l'oggetto che dovremmo considerare: la strategia rivoluzionaria. Possiamo dire che manca addirittura la proposta di una strategia rivoluzionaria. Esiste la proposta diplomatica di alleanze statali contro l'alleanza USA-URSS: questa proposta non riguarda il proletariato internazionale e quindi non ci interessa.

D'altra parte, come si potrebbe parlare di strategia quando le quattro grandi contraddizioni non vengono concretizzare, quando della prima, ad esempio, viene indicato concretamente un solo termine (USA e URSS) e l'altro viene lasciato allo stadio generico di "nazioni oppresse"?

Senza l'analisi concreta della realtà sociale e politica in cui si deve operare e senza la definizione specifica e particolare di tutti gli aspetti fondamentali di una data situazione, mancano i presupposti stessi della strategia.

Lin Piao, ad esempio, pone come prima grande contraddizione quella tra l'imperialismo e le "nazioni oppresse." Potrebbe essere una proposta di strategia che si basi principalmente su questa grande contraddizione, una proposta di strategia che noi marxisti, ovviamente, respingiamo perché: 1) la contraddizione fondamentale del capitalismo nella fase imperialistica è quella tra il proletariato internazionale e il capitalismo di tutti i paesi; 2) la contraddizione tra i paesi capitalisti, sia di quelli maturi imperialisticamente che di quelli in formazione, non è determinante nel processo della rivoluzione internazionale del proletariato.

Ad ogni modo, una tale proposta di strategia potrebbe essere avanzata dalla piccola borghesia ed anche dalla borghesia nazionale dei paesi di "giovane capitalismo", come li definisce Lenin (o "nazioni oppresse", come li definisce Lin Piao). Abbiamo detto che una tale proposta "potrebbe" essere avanzata, poiché in realtà non lo è. Sarebbe una strategia "populista" che oggi non esiste e, per le ragioni che vedremo, neppure può più esistere.

A torto alcuni hanno creduto di individuarla nella teoria maoista dello "accerchiamento delle città da parte delle campagne": a torto, perché, oltre alla tesi populista dell'accerchiamento delle città da parte delle campagne, quella teoria contiene anche dell'altro, ad esempio la tesi tipicamente socialimperialista del fronte unito.

Infatti, se analizziamo la linea generale, nel documento del 1963 e nel Rapporto di Lin Piao del 1969, vediamo che la stessa teoria dell'accerchiamento delle città da parte delle campagne è inquadrata in un contesto di politica internazionale di cui costituisce solo un elemento abbastanza secondario.

In realtà la linea generale maoista non è quella del "fronte unito" delle "nazioni oppresse" (giovani capitalismi) contro i paesi impermalisti, non è quella del "fronte unito" dei paesi capitalistici non ancora sviluppati imperialisticamente contro le grandi e medie potenze imperialistiche.

La linea generale maoista è quella del "fronte unito" di vari paesi a vario grado di sviluppo contro un "blocco imperialistico", composto da grandi potenze imperialistiche, o da grandi e medie potenze imperialistiche; blocco che può includere anche paesi capitalistici non ancora imperialisti, che può includere cioè anche "nazioni oppresse" (giovani capitalismi). Il "fronte unito", in certe circostanze, può essere realizzato anche contro una singola potenza imperialistica.

La legge che regola la formazione del "fronte unito" è quella degli interessi nazionali della Cina. Su questa base concreta il maoismo elabora e porta avanti la linea del "fronte unito". Ciò spiega perché la teoria venga continuamente adattata e perché la definizione sociale e politica dei vari paesi, siano essi grandi e medie potenze imperialistiche o gli stessi giovani capitalismi, muti costantemente secondo le esigenze dello Stato cinese.

Ecco perché il maoismo teorizza il "fronte unito" con l'imperialismo americano contro l'imperialismo giapponese nel corso della seconda guerra mondiale. Eppure, anche allora, l'imperialismo USA era la più grande potenza imperialistica, e quindi, secondo la teoria maoista, il nemico principale. Ma non lo era per la Cina che, in quel momento, era aggredita dal Giappone il quale rappresentava il nemico principale dal punto di vista degli interessi nazionali cinesi.

Ecco perché il maoismo teorizza, nel 1963, il "campo socialista" in cui include l'URSS con la quale la Cina è stata alleata ed ha avuto interesse ad esserlo, o ha pensato di averlo. Nel 1963 la grande potenza imperialistica russa è definita dal maoismo un "paese socialista." Nel 1969 è definita un paese imperialista, che aggredisce e controlla altri paesi e che tenta di dividersi il mondo in collusione con l'imperialismo americano. Eppure, questo l'URSS lo faceva già nel 1963 e il mondo se lo era già diviso con gli USA a Yalta.

Si potrebbe continuare a lungo con esempi di questo tipo che dimostrerebbero come le definizioni che la teoria maoista dà dei vari paesi si adeguarono alle esigenze contingenti della politica del "fronte unito", cioè agli interessi della Cina.

L'applicazione della teoria:
il Giappone imperialista diventa " nazione oppressa "
Nella guerra col Giappone il maoismo teorizzò il "fronte unito antigiapponese": il Giappone era definito allora "paese imperialista." Oggi è "nazione oppressa"!

"La nazione giapponese è una grande nazione. Essa non permetterà all'imperialismo americano di schiacciarla sempre sotto i piedi", sottolinea il presidente Mao. Questo tipico giudizio maoista non riguarda neppure la situazione di 20 o di 15 anni fa. Lo riporta una nota del n. 13 di "Pekin Information" di quest'anno, dedicata all'esposizione industriale giapponese inaugurata a Pechino il 22 marzo, "allestita da organizzazioni commerciali giapponesi amiche della Cina", come precisa il giornale.

In tutti i discorsi pronunciati da esponenti commerciali cinesi e giapponesi all'Esposizione, di cui "Pekin Information" riporta ampi stralci, viene ribadito il concetto del Giappone quale "nazione oppressa" e la conclusione è questa: "Kia Che, vice presidente del Consiglio cinese per lo sviluppo del commercio internazionale, ha dichiarato che il popolo cinese sostiene fermamente le masse giapponesi nella loro giusta lotta patriottica contro l'imperialismo USA... Egli ha ringraziato il popolo giapponese per il sostegno e l'incoraggiamento che dà al popolo cinese nella sua lotta contro le provocazioni armate del socialimperialismo revisionista sovietico."

Queste dichiarazioni sostanziano chiaramente la politica del fronte unito col Giappone contro l'alleanza USA-URSS. La Cina tende ad essere sostenuta contro la pressione russa, frutto di una espansione che intacca e contrasta anche gli interessi dell'espansione giapponese, Il Giappone tende ad essere sostenuto nella sua lotta concorrenziale all'imperialismo americano, il quale cerca di conservare la sua egemonia in Asia conquistata con la seconda guerra mondiale imperialista.

Nel quadro di queste tendenze in atto, la teoria maoista riduce la terza potenza mondiale imperialista a "grande nazione oppressa"! Nella teoria maoista sparisce lo sviluppo imperialistico del Giappone, sparisce persino la lotta di classe in Giappone e l'obiettivo della rivoluzione socialista in un paese così altamente industrializzato e proletarizzato.

Siccome la linea generale maoista è quella di realizzare il fronte unito con l'imperialismo giapponese, essa arriva a mistificare la stessa realtà sociale in Giappone. La società divisa in classi diventa "popolo" e il nemico interno è ridotto ad una generica "reazione." Nella sua teoria socialimperialista del fronte unito, il maoismo nega la lotta del proletariato giapponese per l'abbattimento del capitalismo e per la sua dittatura di classe. Ecco la linea fissata dall'organo maoista: "Noi siamo convinti che il popolo giapponese scaccerà l'imperialismo USA dal suo paese e raggiungerà i suoi obiettivi: l'indipendenza, la democrazia, la pace e la neutralità."

Questi quattro obiettivi, tipicamente borghesi e che nulla hanno a che fare con l'internazionalismo proletario, sono propri di quelle correnti imperialistiche giapponesi che tendono a rivedere i rapporti instaurati dalla sconfitta del Giappone ad opera dell'imperialismo americano e russo.

L'applicazione della teoria maoista del fronte unito al Giappone dimostra chiaramente l'uso che viene fatto della categoria "nazione oppressa". Questo è l'asse portante dell'intera politica internazionale maoista poiché ogni paese viene definito in base al criterio degli interessi cinesi e non in base a criteri oggettivi di analisi scientifica.

La base sociale della teoria maoista
La politica internazionale maoista deve affrontare il problema di contenere, limitare, isolare e contrastare le forze esterne che si oppongono o comunque possono condizionare lo sviluppo delle forze produttive, l'accumulazione del capitale e lo sviluppo del capitalismo statale in Cina.

Questo è il compito specifico della politica internazionale del maoismo nell'attuale stadio di sviluppo capitalistico in Cina, stadio che non permette tendenze espansionistiche. Anzi, il vasto mercato cinese non ha ancora raggiunto quella stretta unità che solo la presenza e l'azione di forti ed estesi centri industriali possono determinare e garantire. Gran parte del mercato è ancora costituita da una infinità di piccoli centri di piccolo capitalismo agricolo che vede, da un lato, la presenza di un considerevole autoconsumo e, dall'altro, un basso scambio con l'industria e con la produzione industriale.

Il tentativo di raggruppamento di questi centri agricoli nelle Comuni se, da un lato, è stato il tentativo di concentrare la produzione agricola, per estendere lo scambio nel settore agricolo stesso e tra agricoltura e industria, dall'altro lato si è risolto in un aumento dell'autoconsumo. In altri termini, non ha ancora permesso un più vasto mercato per la produzione industriale.

Se non bastassero i bassi ritmi di industrializzazione a confermare il fenomeno, la bassa capacità cinese di esportazione ne sarebbe la prova. Il problema dell'accumulazione del capitale in Cina deve essere visto, perciò, in tutti questi aspetti e non solo come un processo esclusivamente interno, specie dopo che il tentativo della concentrazione agricola non è riuscito a risolverlo nei ritmi necessari ad una intensa industrializzazione.

Ad ogni modo il processo di sviluppo capitalistico è avviato su tutto il mercato cinese e non solo per singole zone. Ciò corrisponde a quello che il Rapporto di Lin Piao indica in termini ideologici: "nel 1956, la trasformazione socialista della proprietà dei mezzi di produzione nell'agricoltura, nell'artigianato e nell'industria e commercio capitalistici era in complesso completata."

Che poi lo stesso Rapporto richiami il passo di "Sulla giusta soluzione delle contraddizioni in seno al Popolo" - in cui è detto che "in Cina, sebbene nel complesso la trasformazione socialista sia stata completata per quanto riguarda il sistema di proprietà... esistono ancora i resti delle classi rovesciate dei proprietari terrieri e dei compradores, esiste ancora una borghesia e il lavoro per riplasmare la piccola borghesia è appena cominciato." - per affermare che "... le classi e la lotta di classe esistono ancora dopo che la trasformazione socialista della proprietà dei mezzi di produzione è stata nel complesso portata a termine" e che il proletariato deve continuare la rivoluzione, non costituisce altro che la conferma dello sviluppo capitalistico in atto.

Infatti la "trasformazione del sistema di proprietà" non è socialismo.

Il socialismo è trasformazione dei rapporti di produzione: trasformazione dei rapporti di produzione capitalistici basati sul lavoro salariato in rapporti di produzione socialisti basati sull'abolizione del salario. La trasformazione socialista dei rapporti di produzione comporta di per sé non la trasformazione, ma l'abolizione di ogni tipo di rapporto di proprietà dei mezzi di produzione e del prodotto.

La trasformazione del sistema di proprietà dei mezzi di produzione è la trasformazione di uno o più tipi di rapporto di proprietà, non di ogni tipo di rapporto di proprietà sui mezzi di produzione. Quello che Mao e Lin Piao affermano è che si è verificata in Cina una trasformazione del sistema di proprietà e, non a caso, non affermano che vi è stata una trasformazione socialista nei rapporti di produzione.

In sostanza, Mao e Lin Piao affermano che si è verificata una trasformazione del sistema di proprietà da privato a statale, cioè che "nel complesso" si è instaurato un sistema di proprietà capitalistico statale. Che poi questa trasformazione venga definita "socialista" è un problema che riguarda l'ideologia maoista, in ciò seguace dell'ideologia staliniana e imitatrice di tutti i capitalismi statali che si autodefiniscono "socialisti".

In questa sede l'ideologia maoista ci interessa esclusivamente per gli aspetti che la proiettano in campo internazionale, cioè per gli aspetti propagandistici che accompagnano la teoria socialimperialista del fronte unito. In questo senso, che la Cina si proclami "socialista" è un elemento propagandistico, che contribuisce ad inserire il proletariato in un fronte unito di un gruppo imperialistico alleato alla Cina in lotta contro un altro gruppo imperialistico concorrenziale; cioè in definitiva a far schierare il proletariato di un gruppo di paesi contro il proletariato di un altro gruppo di paesi.

Con questo fine preciso e su queste basi inconfutabili il marxismo internazionalista deve combattere a fondo la teoria e la pratica maoista del fronte unito. L'obiettivo della lotta contro la teoria maoista è quello di impedire che la concorrenza tra i vari imperialismi possa adoperare un nuovo strumento socialimperialista, oltre a quelli classici che ha già sperimentato.

Senza questi riflessi internazionali, il fatto che l'ideologia maoista definisca "socialista" la trasformazione dei rapporti di proprietà in Cina avrebbe un peso più limitato, che riguarderebbe, principalmente, il proletariato cinese nella sua lotta anticapitalistica. Comunque, in quel caso, l'ideologia maoista non potrebbe essere definita socialimperialista e su un punto potremmo essere d'accordo coi maoisti, e cioè sul fatto che il proletariato cinese debba continuare la rivoluzione dopo l'instaurazione del sistema di proprietà capitalistico statale e contro la borghesia in Cina.

Il maoismo afferma inoltre che la lotta di classe tra il proletariato e la borghesia in Cina diventerà più acuta. Anche su questo possiamo essere d'accordo.

Ma quello che il maoismo non può dire è che in Cina vi è il capitalismo di Stato, e che la trasformazione socialista della Cina deve essere, e sarà, opera della rivoluzione proletaria internazionale contro l'imperialismo e il capitalismo mondiale. Espressione delle forze capitalistico-statali, il maoismo non può essere internazionalista. È legato agli interessi nazionali del capitalismo cinese e cerca di utilizzare le contraddizioni internazionali al fine di rafforzare tali interessi. È quindi costretto a dire che la teoria della rivoluzione proletaria dopo la "trasformazione socialista della proprietà dei mezzi di produzione" è sostenuta dal maoismo "per la prima volta nella teoria e nella pratica del movimento comunista internazionale" (Rapporto Lin Piao).

Per mascherare il capitalismo statale con il "socialismo" è spinto ad essere più coerente dello stalinismo, nell'affermare che la teoria maoista è sostenuta per la prima volta nella storia del comunismo. Siamo d'accordo, difatti né MarxLenin si sono mai sognati la "trasformazione socialista della proprietà." Lo aveva già fatto Proudhon.

Il problema dell'unità statale
Il fatto è che la teorizzazione maoista corrisponde ad un processo di sviluppo capitalistico in Cina che avviene in stretta interdipendenza da una serie di fattori internazionali.

L'unità dello Stato cinese entrava in crisi nell'Ottocento ad opera dei gruppi capitalistici europei, americani e giapponesi. Se l'unità di quello Stato aveva potuto salvaguardarsi, o almeno ricomporsi, di fronte alle invasioni di popolazioni nomadi o più arretrate, era perché il modo di produzione su cui poggiava era più solido, omogeneo ed esteso di quello degli invasori e finiva con l'imporsi agli invasori stessi. Nella continuità del modo di produzione risiedeva la continuità dell'unità statale.

Entrata in contatto con un modo di produzione superiore, quello capitalistico, la struttura economica della Cina era costretta a differenziarsi ed entrava in crisi. Si rompeva l'unità del mercato cinese, basata su una omogeneità del modo di produzione, e si creavano una serie di mercati gravitanti sul commercio delle varie potenze imperialistiche. Mentre si creavano grandi zone capitalistiche collegate al commercio mondiale, persistevano vaste zone precapitalistiche dove il modo di produzione capitalistico non era quello predominante; ma, soprattutto, queste zone differenziate finivano col costituire singoli mercati separati, in quanto ognuna gravitava attorno ad una potenza imperialistica.

Di fatto, anche se sopravviveva un unico Stato, non esisteva più una Cina, ma parecchie Cine. La rottura della formale unità statale era solo un problema di tempo. L'inizio della rivoluzione democratico-borghese nel 1911 non fece che accelerare la rottura della formale unità statale e la creazione di vari Stati cinesi collegati alle varie potenze straniere.

Primo compito della rivoluzione democratico-borghese era quindi quello dell'unificazione, del ristabilimento dell'unità statale, e per realizzarlo doveva combattere contro tutte le potenze straniere che avevano interesse a tenere divisa la Cina, per poter ognuna utilizzare la sua frazione di mercato. Dato che tutte le principali potenze imperialistiche erano presenti in Cina e, pur tra scontri e guerre tipo quella russo-giapponese, trovavano un accordo nella ripartizione dei suoi mercati, il compito della rivoluzione democratico-borghese cinese era praticamente impossibile.

Nessuna nazione si è mai unificata o riunificata avendo contro tutte le maggiori potenze dell'epoca. Tanto meno poteva farlo la Cina in un'epoca in cui queste potenze erano diventate imperialistiche, dominavano il mercato mondiale, avevano un rapporto di forza nei confronti degli altri paesi infinitamente superiore a quello delle epoche precedenti. Inoltre la fase imperialistica dello sviluppo capitalistico veniva, e viene, a caratterizzarsi per la presenza di più potenze e per la tendenza alla formazione di più potenze. La Cina era proprio l'esempio di questa caratterizzazione. Inghilterra, Francia, Germania, Italia, Russia, Giappone, Stati Uniti: tutte le principali potenze imperialistiche vi erano presenti.

Se il giacobinismo francese, rappresentante la borghesia, aveva potuto prendere posizione contro tutti gli Stati reazionari, rappresentanti la nobiltà, il giacobinismo cinese non poteva prendere posizione contro tutti gli Stati imperialisti. L'ideologia populista di Sun Yat-sen si tinge subito di venature socialimperialiste e chiede l'appoggio del Giappone. Dovrà attendere, però, che la prima guerra mondiale tolga di scena la potenza russa e metta al suo posto l'internazionalismo di Lenin, per poter portare avanti la riunificazione della Cina.

Ma appena la riunificazione salta all'aria, con l'occupazione giapponese, il maoismo, che è il continuatore legittimo e conseguente della lotta democratico-borghese per l'unità statale, deve riprendere la teoria socialimperialista per allearsi all'imperialismo occidentale. Solo in questo modo riuscirà a realizzare l'obiettivo della riunificazione della Cina, riunificazione che avviene nel 1949 quando il Giappone è stato sconfitto, le potenze europee sono sparite dalla scena, la potenza russa è uscita rafforzata, e in parte appoggia l'unità statale cinese e in parte la condiziona, e il più potente imperialismo americano assume in pratica una posizione abbastanza vicina a quella russa. Sia gli Stati Uniti che l'URSS sanno che l'unità statale cinese non significa ancora controllo del mercato di tutta la Cina.

Sotto molti aspetti l'unità statale potrebbe anzi rappresentare un vantaggio per una penetrazione imperialistica, soprattutto da parte della potenza più forte, mentre potrebbe essere uno svantaggio per le potenze più deboli.

Realizzata l'unità statale, il maoismo dovrà lottare per unificare il mercato e per unificare il mercato dovrà portare avanti l'industrializzazione. Finché l'industria nazionale non sarà in grado di coprire tutto il mercato, non solo non esisterà un mercato solidamente unificato ma la stessa unità statale non sarà garantita.

Le varie zone economiche tenderanno a gravitare verso zone esterne ai confini cinesi e tenderanno ad instaurare con queste zone rapporti commerciali durevoli e, al limite, di complementarità. Le tendenze troveranno poi espressione politica con allentamento dell'unità statale, frazionamento della classe dirigente e rafforzamento dei poteri locali, se non addirittura nella centrifugazione.

Attorno ai confini cinesi, cioè attorno a quello che deve essere il mercato garantito dall'unità statale, si sono create zone fortemente industrializzate, sia russe che occidentali e asiatiche. La lotta del maoismo, in questi ultimi venti anni, è stata essenzialmente quella di unificare il mercato interno e di salvaguardare e di rafforzare l'unità statale, in condizioni estremamente difficili. Le lotte interne al partito maoista, ultima la cosiddetta "rivoluzione culturale", riflettono la difficoltà nella soluzione di un problema storico che attanaglia la Cina dal secolo scorso e che sarà risolto definitivamente solo ad un certo grado di industrializzazione. Finché questo non sarà raggiunto, le lotte politiche in seno al maoismo saranno fondamentalmente l'espressione del compito gigantesco di mantenere l'unità statale, in un vastissimo mercato agricolo attorniato da potenze industriali.

Questo è un aspetto decisivo della condizione oggettiva della Cina che determina la sua politica estera e le sue teorie internazionali.

Le " zone intermedie " nel fronte unito
Componente importante della linea maoista del fronte unito è la teoria delle "forze intermedie."

Prima di vedere cosa intende il maoismo per forze intermedie vediamo, al terzo dei 25 punti, come questa teoria si inserisca nella linea del fronte unito: "Questa linea generale consiste nella formazione di un largo fronte, avente al centro il campo socialista e il proletariato internazionale, unito contro l'imperialismo e la reazione capeggiata dagli Stati Uniti ... (per) ... conquistare le forze intermedie ... e isolare le forze della reazione..."

Quali obiettivi debba avere questo largo fronte unito è già indicato al punto 2, dove si stabilisce come principio la "unione di tutti i proletari del mondo, unione di tutti i proletari e di tutti i popoli e nazioni oppresse [nella elaborazione maoista il concetto di "popolo" è strettamente collegato a quello di "nazione oppressa" sino ad identificarvisi: al punto 13, che ha quindici passi, per ben 8 volte viene immancabilmente accoppiato il termine "nazioni oppresse" al termine "popoli" del mondo per combattere l'imperialismo e la reazione; il termine "capitalismo" viene impiegato raramente] dei diversi paesi, assicurare la pace mondiale, far trionfare la liberazione nazionale, la democrazia popolare e il socialismo, consolidare il campo socialista e accrescere la sua potenza, condurre la rivoluzione del proletariato di tappa in tappa..."

Gli obiettivi indicati al proletariato sono quelli classici dello stalinismo e della socialdemocrazia: la pace, l'indipendenza nazionale, la democrazia progressiva. Anche la via indicata è quella classica dello stalinismo e della socialdemocrazia: la rivoluzione proletaria tappa per tappa. In ciò la linea maoista non si distingue dalla linea togliattiana.

Lenin bollò per sempre come controrivoluzionaria la teoria menscevica della rivoluzione per tappe, sostenuta per la Russia. Lo sviluppo del partito bolscevico, le Tesi d'Aprile, la Rivoluzione d'Ottobre, furono possibili grazie alla lotta implacabile condotta contro la teoria menscevica della rivoluzione per tappe, che fu sconfitta sul piano teorico dal leninismo e sul piano pratico dalla storia della rivoluzione russa. La teoria menscevica della rivoluzione proletaria per tappe, da teoria piccolo-borghese e opportunista finì col diventare, applicata ad una Russia strettamente collegata alla prima guerra mondiale imperialistica, una teoria oggettivamente socialimperialista, che orientava ideologicamente il tentativo pratico di impedire la trasformazione della guerra imperialista in rivoluzione proletaria internazionale, spezzando l'anello più debole, costituito dalla Russia stessa, della catena imperialistica mondiale.

Anche allora i menscevichi indicavano come obiettivo della classe operaia la "tappa" della pace, dell'indipendenza e della democrazia, e si opposero alleandosi di fatto agli imperialisti occidentali e giapponesi, alla "tappa" della dittatura proletaria. Applicata a paesi impermalisti più maturi della Russia, la teoria menscevica della rivoluzione per tappe divenne la piattaforma socialimperialista, che portò la socialdemocrazia di destra e di centro a salvare il sistema capitalista e a reprimere il movimento rivoluzionario.

La teoria menscevica della rivoluzione per tappe, ripresa dal maoismo, viene così ad essere una delle importanti componenti della linea socialimperialista del fronte unito. Per vedere come si articola questa linea nei paesi imperialisti europei occorre analizzare la definizione maoista delle "zone intermedie", che troviamo al punto 7 dei 25 punti: "Profittando della situazione creata dopo la seconda guerra mondiale e sostituendosi ai fascisti tedeschi, italiani e giapponesi, gli imperialisti americani cercano di fondare un immenso impero mondiale senza precedenti. Il loro obiettivo strategico è sempre stato quello di invadere e di dominare la zona intermedia situata fra gli Stati Uniti e il campo socialista, di soffocare la rivoluzione dei popoli e delle nazioni oppresse, di passare alla distruzione dei paesi socialisti e quindi di sottoporre tutti i popoli e paesi del mondo.... compresi i suoi alleati, al dominio e alla schiavitù del capitale monopolistico USA... Gli imperialisti USA si sono quindi messi in una posizione di contrasto con i popoli di tutto il mondo e ne sono stati accerchiati. Il proletariato internazionale deve e può unirsi a tutte le forze che possono essere unite: insieme, servirsi delle contraddizioni esistenti nel campo avverso e cercare il più vasto fronte unito possibile contro gli imperialisti americani e i loro lacchè."

L'estesa citazione ci permette di individuare quali sono le "zone intermedie" (tutto il mondo meno gli Stati Uniti e il cosiddetto "campo socialista"); quali sono le "forze intermedie" (tutte le classi meno gli imperialisti americani e i loro lacchè e meno, naturalmente, il cosiddetto "campo socialista"); qual è il sistema di alleanze in cui, nella linea generale maoista, dovrebbe entrare il proletariato internazionale e qual è il "più vasto fronte unito possibile" (il cosiddetto "campo socialista" più il proletariato internazionale, più tutti i gruppi borghesi e piccolo borghesi e tutti i gruppi imperialistici che sono contro l'imperialismo americano). In pratica, il maoismo porterebbe il proletariato internazionale ad essere il supporto di un fronte unito di tutti i gruppi imperialisti concorrenti dell'imperialismo americano e dell'imperialismo sovietico, secondo l'aggiornamento nella definizione del fronte unito contenuto nel Rapporto Lin Piao del 1969.

Esclusi i "lacchè" dell'imperialismo americano (ed ora anche dell'imperialismo sovietico) tutti i gruppi sociali del mondo dovrebbero unirsi contro gli imperialisti USA (ed ora anche contro gli imperialisti russi). Nella "zona intermedia", così come è definita dal maoismo, esistono ben cinque delle sette maggiori potenze imperialistiche del mondo: esiste l'imperialismo giapponese, tedesco, inglese, francese ed italiano.

Ebbene, il maoismo vorrebbe che i proletari europei, ad esempio, si alleassero con gli imperialisti tedeschi, francesi, inglesi e italiani che sono in concorrenza con gli imperialisti americani e russi! Il proletariato italiano, ad esempio, dovrebbe allearsi con quei gruppi imperialisti italiani che, per i loro interessi, entrano in contrasto con i gruppi imperialisti statunitensi e russi per lo sfruttamento del petrolio nel Medio Oriente e nell'Africa, tanto per citare un caso concreto che vede operante un forte gruppo imperialistico come l'ENI!

Per fare questo, il proletariato italiano dovrebbe seguire ciò che viene indicato al punto 10 della linea generale maoista: "nei paesi capitalisti che gli imperialisti americani controllano o cercano di controllare, la classe operaia e le masse popolari devono dirigere principalmente i loro attacchi contro l'imperialismo americano, e anche contro il capitale monopolistico e le altre forze della reazione interna che tradiscono gli interessi della nazione" e deve allearsi con "... gli elementi intermedi del partito socialdemocratico che sono pronti a combattere il dominio del capitale monopolistico del loro paese e quello dell'imperialismo straniero, e realizzare con loro la più larga unità d'azione nelle lotte quotidiane del movimento operaio e nella lotta per la difesa della pace mondiale."

Nelle "nazioni oppresse", cioè nei paesi borghesi meno sviluppati, l'alleanza comprende "... anche la borghesia nazionale patriottica, e persino certi re, principi e aristocratici patrioti"! (vedi punto 9).

L'irrealizzabilità della teoria
Analizzando i concetti maoisti di "zone intermedie" e di "forze intermedie" abbiamo visto chiaramente la natura socialimperialista della teoria del "fronte unito."

Per un marxista conseguente, per un leninista, non c'è possibilità di equivoco. I testi maoisti parlano in modo chiarissimo. Compito nostro è di metterli sotto gli occhi a chi non li ha letti o non li legge, affinché si renda conto del reale contenuto politico del maoismo e di come questa posizione non abbia nulla a che fare col marxismo, col leninismo, con l'internazionalismo proletario.

Abbiamo visto alcune cause oggettive che determinano la politica internazionale cinese e, quindi, determinano la teoria socialimperialista del "fronte unito." Dobbiamo vedere ancora il processo oggettivo che ha portato una teoria menscevica e populista ("blocco delle quattro classi" e "rivoluzione per tappe"), quale è stata quella sostenuta dal maoismo nel corso della rivoluzione democratico-borghese in Cina, a divenire una teoria socialimperialista quando si è proiettata nei rapporti tra le classi e tra gli Stati sulla scena mondiale. In fondo questo è il lato più interessante e più importante dell'analisi marxista sulla teoria maoista, poiché, se la puntualizzazione sul ruolo che gioca la teoria del fronte unito negli attuali rapporti interimperialistici è un compito contingente della politica rivoluzionaria, ben più importante è il compito di analisi teorica sul processo oggettivo che ha determinato la natura attuale di questa teoria.

Il marxismo non può limitarsi a demistificare e, tanto meno, a denunciare le ideologie. Esso deve conoscere il movimento reale della società, le sue leggi e le sue tendenze di sviluppo, perché deve intervenire in questo processo e rovesciarlo rivoluzionariamente.

L'analisi della linea generale maoista ci ha permesso di vedere qual è il suo reale obiettivo strategico: il più largo sistema di alleanze costituito dalla Cina contro gli USA e l'URSS, cioè un fronte unito non solo con tutti i giovani capitalismi, ma pure con "tutti i paesi" e, quindi, anche con paesi imperialisti.

In termini di rapporti di forza, il "più vasto fronte unito" (tutto il mondo contro USA-URSS) non riuscirebbe attualmente a superare USA e URSS; comunque sposterebbe tanto l'attuale bilancia dei rapporti mondiali di forza da favorire in modo considerevole la Cina, oltre naturalmente tutta una serie di paesi tra i quali le principali potenze. Un tale riequilibrio nella bilancia dei rapporti di forza potrebbe essere possibile solo ad una condizione: che il proletariato dei vari paesi, il proletariato internazionale, non utilizzi in modo autonomo la situazione di crisi e di contraddizione determinata dallo squilibrio degli attuali rapporti di potenza e rimanga passivo. Ciò è impossibile, perché lo squilibrio di determinati rapporti di potenza è il risultato dello sviluppo delle forze produttive, dello sviluppo di un processo sociale di lotte di classe, della crisi e dello squilibrio che un tale processo comporta in tutte le classi.

In altri termini è il prodotto della lotta di classe ed è la causa di un nuovo corso di lotta di classe. L'imperialismo italiano è indotto a modificare i suoi rapporti con l'imperialismo americano e sovietico dalla lotta di classe che accompagna il suo sviluppo: quindi ha necessità di una politica socialimperialistica che, da un lato, contenga la sua interna lotta di classe favorendo ad esempio un'aristocrazia operaia e, dall'altro, ponga dei diversivi ("l'imperialismo straniero", il "nemico", ecc.) alla lotta operaia.

Anche in Cina la lotta di classe pone una serie di esigenze internazionali al capitalismo di Stato. Se la Cina potesse condurre da sola la lotta per modificare i suoi rapporti di forza con l'imperialismo sovietico e americano, non avrebbe bisogno di una teoria socialimperialista, perché le basterebbe l'ideologia populista e nazionalista per mobilitare le masse contadine e per contenere e deviare la lotta di classe del proletariato.

Ma la Cina non può da sola modificare gli attuali rapporti di forza. Ha bisogno di alleati. A questi alleati, la forza che la Cina può dare in contributo è relativa e, comunque, non determinante. Può invece offrire l'ideologia e questa è importante. In un ipotetico "fronte unito" anti USA-URSS, l'imperialismo europeo e giapponese non ha certo bisogno della potenza economica della Cina, che conterebbe poco. Può avere bisogno, invece, di ideologie che riescano a deviare le lotte operaie e a favorire l'esportazione imperialistica nei mercati in contesa con gli imperialisti americani e russi, che sono proprio la principale causa del tentativo di modificare gli attuali rapporti di potenza.

La teoria maoista del fronte unito è appunto una di queste ideologie e si viene a collocare a fianco di altre più tradizionali. Perciò, come lo stalinismo contribuì con la sua ideologia "del fronte unito" (fronte popolare) ad uno schieramento imperialistico prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale, così il maoismo tende a calcarne le orme e non è un caso che vi si richiami.

La pratica del fronte popolare ha dimostrato al maoismo la sua utilità ai fini del rafforzamento degli interessi nazionali del capitalismo di Stato russo. Più lo stalinismo ha potuto aver presa sul proletariato internazionale, più ha potuto barattare questa influenza con un maggior bottino nella spartizione imperialistica.

I veri realizzatori della teoria maoista
Se lo staliniano fronte unito ha giovato agli interessi del capitalismo di Stato russo, non vi sono ragioni per cui il fronte unito maoista non possa giovare agli interessi del capitalismo di Stato cinese. L'unica differenza è che la Russia, oltre alla ideologia, ha portato nel suo sistema di alleanze interimperialistiche una considerevole forza economica. Questa forza le ha permesso di non rimanere mai isolata e di passare da un sistema di alleanze all'altro - dall'alleanza con l'imperialismo occidentale all'alleanza con quello tedesco e nuovamente all'alleanza con l'imperialismo occidentale e, particolarmente, con quello americano - realizzando contemporaneamente la neutralità con l'imperialismo giapponese. Data la sua considerevole forza economica, nessuno schieramento imperialista poteva ignorarla come alleata o come nemica.

La Cina attualmente non ha una forza economica paragonabile. Perciò è costretta ad offrire maggiormente la sua ideologia, in una situazione che non è però ancora quella in cui lo stalinismo fu in condizioni di mettere in pratica la sua ideologia del fronte unito. Ciò per le ragioni che seguono.

1) Le contraddizioni e le lotte interimperialistiche non hanno ancora raggiunto il grado di intensità degli anni '30 e '40, quando lo stalinismo attuò i fronti popolari.
2) L'attuale alleanza di fatto USA-URSS rappresenta il peso maggiore della potenza imperialistica mondiale e finché permane lascia poco spazio ad un altro tipo di alleanze imperialistiche. Lo spazio si potrà determinare solo ad una condizione, cioè solo nel caso dell'unificazione dei gruppi imperialistici europei e della conseguente creazione di una grande potenza europea che supererebbe la potenza russa. In questo caso le due componenti dell'alleanza USA-URSS sarebbero costrette a dover tener conto, ognuna per conto proprio, della terza potenza in gioco. Oggettivamente l'alleanza di fatto USA-URSS acquisterebbe una maggior elasticità e quindi una maggiore probabilità di incrinatura. In una situazione nuova di questo tipo, le ideologie socialimperialistiche antiamericane e antirusse acquisterebbero un ruolo considerevole, per tentare di inserire il proletariato nella lotta anti USA-URSS; così come un forte ruolo acquisterebbero le ideologie "terzomondiste", per collegare i paesi capitalistici in via di sviluppo alla metropoli europea e per strapparli alle metropoli americane e russa. Ma finché non si determinerà tale situazione, il fronte unito maoista avrà ristrette possibilità di applicazione e rimarrà a livello di propaganda ideologica e di formazione politica degli intellettuali delle rinnovate correnti socialimperialistiche della piccola borghesia.
3) Anche per questi motivi il maoismo non può avere quella forte influenza sul proletariato che ha avuto lo stalinismo russo nella preparazione e nella conduzione del fronte popolare. Da ciò ne deriva che il ruolo socialimperialista principale viene svolto e, molto probabilmente, sarà svolto in Europa Occidentale, che è una tipica "zona intermedia" e un tipico obiettivo del fronte unito maoista, dalle socialdemocrazie tradizionali e dalle nuove socialdemocrazie derivate dallo stalinismo, come il PCI in Italia.
Queste socialdemocrazie sono da tempo ancorate al proprio imperialismo e in ciò risiede la loro forza socialimperialistica. Le socialdemocrazie di derivazione staliniana, tipo il PCI, si vanno staccando dall'imperialismo russo nella misura in cui si sviluppa il proprio imperialismo e nella stessa misura stanno acquistando tutti i caratteri del socialimperialismo nazionale. La funzione che vorrebbe assolvere il maoismo nel campo dei rapporti interimperialistici, la assolvono già egregiamente questi partiti. Non c'è tema maoista in politica estera che non sia già autorevolmente propagandato da questi partiti.

Naturalmente variano i toni e la fraseologia, ma nella sostanza i temi della critica all'imperialismo americano e russo, della denuncia della colonizzazione americana e russa, dell'indipendenza, della pace, della democrazia e della negazione del carattere imperialistico dei paesi europei, da tempo sono già nella piattaforma di questi partiti.

La divergenza con la teoria maoista del fronte unito si incentra su due questioni:

1) sulla richiesta di realizzare subito il fronte unito anti USA-URSS, realizzazione immediata che non è negli interessi immediati degli imperialisti europei;
2) nel fatto che le socialdemocrazie europee lavorano per fronti uniti in cui tutto l'interesse sia per i propri imperialismi, mentre il maoismo cerca di far derivare il maggior interesse possibile al capitalismo statale cinese.

Non si vede perché, se gli imperialismi europei possono disporre di propri socialimperialismi, debbano lasciar spazio o rivolgersi alla linea socialimperialista maoista del fronte unito a cui dovrebbero, pertanto, pagare uno scotto. Se quello che vuol fare il maoismo lo possono fare le socialdemocrazie, i vari PC, tutto guadagnato per i vari imperialismi europei.

A meno che le varie socialdemocrazie, e i vari PC, subiscano crisi e perdita di influenza sul proletariato europeo. In questo caso la teoria maoista del fronte unito potrebbe avere un certo ruolo e la Cina acquisire maggiori vantaggi nella possibile alleanza. Comunque, dato il peso oggettivo della Cina, la funzione principale socialimperialistica sarà sempre svolta da forze europee direttamente coordinate con i propri imperialismi; esse dirigerebbero lo schieramento socialimperialista includendovi le forze probabili che rappresentano direttamente gli interessi cinesi, ma soprattutto utilizzerebbero ai loro fini la teoria maoista del fronte unito.

Questo lo sa bene il maoismo, che valuta gli attuali rapporti di forza e, proprio in base a questi rapporti di forza, è costretto ad esportare ad uso imperialistico la teoria del fronte unito, nel tentativo di ricercare quelle difficili alleanze che l'attuale assetto imperialistico mondiale e la debolezza della Cina non favoriscono. La debolezza della Cina, della sua rivoluzione democratico-borghese costretta a dover affrontare enormi ostacoli, la costringe a cercare alleanze al più alto prezzo, costituisce il processo oggettivo per cui la teoria menscevica cinese del "blocco delle quattro classi" e della "rivoluzione per tappe" è lanciata dal maoismo in campo internazionale come teoria socialimperialista del fronte unito. Ed è la stessa debolezza della Cina che riduce l'incidenza di questa teoria nella pratica delle correnti socialimperialiste, così come sarà la stessa debolezza della Cina a far sì che l'utilizzazione della teoria maoista sarà a maggior vantaggio diretto dei vari imperialismi e a minor vantaggio della Cina stessa, a differenza di quanto avvenne con l'utilizzazione della teoria staliniana per gli interessi dell'URSS che, in cambio dei fronti popolari dati all'imperialismo europeo, è riuscita ad arrivare alla spartizione di Yalta.

I fattori internazionali determinanti la teoria
La conclusione sarà che quel tanto di maoismo che sarà reso possibile dai rapporti interimperialistici sarà gestito in gran parte da forze imperialistiche. Finisce col favorire direttamente i vari imperialismi, più che il capitalismo statale cinese, la tesi che il maoismo sia il minor male di fronte alle forze socialdemocratiche e socialimperialiste europee. Favorisce l'imperialismo e non la Cina. Siamo di fronte ad un processo oggettivo e non soggettivo.

La natura socialimperialista della teoria del fronte unito non è una scelta o un errore soggettivo del maoismo. È il risultato di una condizione oggettiva che vede, da un lato, la collocazione della Cina in un contesto mondiale strettamente condizionato da una serie di potenze imperialistiche (e non da due sole come mistifica il maoismo) e, dall'altro, il proletariato internazionale incapace di iniziativa autonoma e soggetto a varie correnti socialimperialiste, opportuniste e controrivoluzionarie.

Se il proletariato, per ipotesi, fosse capace di iniziativa autonoma e quindi di lottare contro il capitalismo e l'imperialismo di ogni paese, la crisi dei vari imperialismi sarebbe più accentuata e il capitalismo statale cinese avrebbe oggettivamente maggiore possibilità di lotta contro l'imperialismo americano, che impedisce la riunificazione di Formosa, e contro l'imperialismo russo che porta avanti l'espansionismo industriale nell'Asia settentrionale e centrale, ai confini della Cina. Comunque sarebbe maggiormente in grado di contenere queste due pressioni imperialistiche, soprattutto quella russa che, attualmente e in prospettiva, danneggia maggiormente gli interessi cinesi.

In una tale situazione ipotetica una probabile e possibile teoria maoista del fronte unito acquisterebbe immediatamente il carattere di sabotaggio della lotta proletaria e sarebbe immediatamente respinta dalla classe operaia. Nella classe dirigente del capitalismo di Stato cinese potrebbero assumere maggior peso le correnti sostenenti la tesi di un fronte unito limitato alle "nazioni oppresse" (giovani capitalismi non ancora imperialistici) contro tutti gli imperialisti, poiché, in quella situazione e in quella soluzione, quel tipo di fronte unito sarebbe l'unica e possibile realizzazione degli interessi del capitalismo di Stato cinese.

Ma in quella ipotetica situazione e in quella ipotetica soluzione della politica estera cinese, anche il proletariato internazionale troverebbe confermati i suoi interessi di classe mondiale, perché solo in quel modo il proletariato cinese troverebbe più rapidamente la via per combattere contro il proprio capitalismo e per congiungersi con la sua classe che in modo autonomo porta avanti la lotta nelle cittadelle dell'imperialismo. La lotta contro il maoismo sarebbe il naturale processo delle tendenze proletarie cinesi ad abbattere i rapporti capitalistici di produzione in Cina e ad elevarsi alla teoria e alla pratica dell'internazionalismo comunista

Nella situazione attuale queste tendenze sono schiacciate dalla mobilitazione nazionalistica contro le pressioni imperialistiche. Se abbiamo formulato l'ipotesi suesposta è solo per far risaltare, per contrasto, la situazione attuale in cui si trova collocata la Cina.

Nell'individuare le caratteristiche della collocazione oggettiva della Cina occorre distinguere i due piani differenti in cui deve essere vista la sua azione: quando la Cina propaganda la teoria maoista del fronte unito, favorisce una serie di paesi imperialistici e quindi danneggia il proletariato internazionale; quando invece lotta contro l'imperialismo americano e sovietico o, almeno, tenta di contenerli, favorisce l'accentuarsi delle contraddizioni in questi due imperialismi, contribuisce al loro indebolimento e provoca oggettivamente una situazione che può essere sfruttata dal proletariato internazionale, a patto che questo rifiuti l'ideologia maoista del fronte unito e le altre ideologie socialimperialiste.

In termini di strategia leninista ciò significa che il maoismo va respinto decisamente e la lotta della Cina contro l'imperialismo americano e sovietico va appoggiata nel solo modo in cui può essere appoggiata, e cioè portando avanti la lotta internazionalista, in primo luogo in tutte le metropoli dell'imperialismo e in secondo luogo negli stessi paesi di giovane capitalismo, come la Cina, dove il proletariato viene condotto alla lotta contro alcuni paesi imperialisti per obiettivi borghesi e in nome del socialismo.

Senza questa duplice distinzione non è possibile impostare una strategia leninista che affronti l'attuale stadio della "questione cinese." Così come per ogni fenomeno sociale, anche per la Cina rimane valido il criterio marxista per cui una classe, un modo di produzione, un paese, va giudicato per quello che è oggettivamente e non per quello che dice di essere.

Mentre il maoismo è l'ideologia che va demistificata, la Cina è un fatto oggettivo e come tale va giudicato. Non può essere cancellato e, tanto meno, risolto, con la critica alla sua ideologia. E neppure può essere confuso con la sua ideologia.

L'analisi marxista ci permette di individuare il duplice carattere dell'azione della Cina nell'attuale situazione internazionale: un carattere di centro di propaganda del socialimperialistico fronte unito ed un carattere di contraddizione per l'imperialismo americano e sovietico.

La strategia leninista non consiste solo nella constatazione e nella descrizione dei due caratteri. Essa consiste nel limitare al massimo il primo carattere e nell'accentuare al massimo il secondo.

Ciò può essere fatto, come abbiamo già visto, con una direzione internazionale della lotta proletaria, ed anche se non può essere fatto a brevissima scadenza, va posto come obiettivo della strategia rivoluzionaria rivolta all'attuale stadio della "questione cinese."

Se ciò potrà essere fatto, i colpi che l'imperialismo russo, ad esempio, potrebbe ricevere dal capitalismo statale cinese, sarebbero sfruttati dal proletariato sovietico per la sua rivoluzione socialista e non da imperialismi concorrenti.

Gli interessi nazionali corrispondenti alla teoria
Il fatto è che il capitalismo statale cinese non è oggi in grado di dare colpi all'imperialismo russo e, tanto meno, a quello americano, anzi questi colpi li subisce. Perciò cerca di allearsi con tutte quelle forze imperialistiche che possono indebolire l'imperialismo americano e l'imperialismo russo, cioè con l'imperialismo europeo e con quello giapponese.

Facendo questo la Cina non tradisce i suoi attuali interessi nazionali, cioè gli interessi del predominante modo di produzione capitalistico, anzi li fa. Questo è il punto fondamentale. Per fare i suoi attuali interessi nazionali, la Cina è costretta a mascherare la natura socialimperialista del fronte unito, cioè è costretta a mascherare la natura sociale dei suoi potenziali alleati. Ciò non scandalizza, perché una delle funzioni delle ideologie è quella di servire a scopi pratici sociali e politici e quindi di mistificare la realtà sociale su cui le forze che le esprimono devono operare.

Ciò dimostra semplicemente che il proletariato internazionale e il capitalismo statale cinese hanno interessi divergenti in assoluto, in questo caso addirittura opposti, in altri casi (la Cina contro tutti gli imperialismi) paralleli e in nessun caso convergenti.

Abbiamo già detto che è la debolezza della Cina nell'attuale contesto internazionale a determinare la sua politica estera e l'ideologia che l’accompagna. Questa politica potrebbe cambiare solo in quattro casi generali:

1) che tutti i paesi imperialistici si indeboliscano;
2) che la Cina si rafforzi considerevolmente (fortissimo ritmo di sviluppo economico interno);
3) che tutto il sistema capitalistico mondiale entri in una forte crisi;
4) che gran parte dei paesi capitalistici in via di sviluppo abbia incrementi più forti di tutti i paesi imperialistici.

Per il primo caso abbiamo visto quale ruolo determinante potrebbe avere il proletariato delle metropoli imperialistiche.

Per il secondo caso vi sono una serie di fattori, che qui non staremo a esaminare, che ne escludono la probabilità a breve e media scadenza. L'attuale debolezza della Cina riflette appunto le sue difficoltà di sviluppo o, per lo meno, la difficoltà di raggiungere incrementi paragonabili a quelli russi dei primi piani staliniani.

Per il terzo caso occorre dire che la crisi del sistema capitalistico mondiale colpirebbe inevitabilmente anche il capitalismo di Stato cinese limitando fortemente le sue esportazioni e, di conseguenza, le sue importazioni. Ciò provocherebbe limitazioni ad eventuali investimenti esteri e, anche nella probabilità di una maggiore chiusura autarchica, si avrebbero difficoltà addizionali a quelle già esistenti nell'accumulazione di capitali, nello sviluppo economico, nell'industrializzazione. La crisi del sistema capitalistico mondiale, se è negli interessi del proletariato internazionale, non è negli interessi del capitalismo statale cinese, come non lo è stata negli anni '30 per quelli del capitalismo statale russo che pure era più avvantaggiato.

Il quarto caso infine è quello che corrisponderebbe meglio agli interessi del capitalismo di Stato cinese, perché potrebbe trovare uno schieramento di alleanze in paesi capitalistici rafforzati che hanno lo stesso problema di modificare quei rapporti che anche la Cina ha con i paesi imperialistici. Ma è quello meno probabile a breve e media scadenza. A lunga scadenza è invece abbastanza probabile.

Non rimane perciò che considerare la politica estera cinese come una politica estremamente condizionata da fattori internazionali abbastanza rigidi per quanto riguarda i quattro casi esaminati. Gli unici fattori internazionali a non essere rigidi sono oggi quelli costituiti dai paesi imperialistici. È in corso un intenso movimento di paesi imperialistici che sta scardinando l'attuale assetto imperialistico del mondo e l'attuale sistema di alleanze. Gli attuali e formali schieramenti diventano sempre meno rigidi.

Questa caratteristica è quella che deve interessare maggiormente l'analisi marxista e la strategia rivoluzionaria, perché è proprio in quella sede che si avranno i maggiori movimenti delle classi e delle correnti politiche.

Se assumiamo l'alleanza di fatto USA-URSS come un fattore internazionale rigido, non riusciremo a comprendere tutte le tendenze del movimento in corso. Non a caso il maoismo fa questo, ma lo fa proprio per mascherare anche questo aspetto della realtà imperialistica. L'alleanza USA-URSS non è mai stata un fattore internazionale rigido, non lo è e non lo sarà. Come in ogni alleanza, tra gli USA e l'URSS vi è un terreno di convergenza oggettiva ed un terreno di divergenza e di concorrenza. La ripartizione dell'Europa orientale costituisce il principale motivo di convergenza nell'alleanza USA-URSS, assieme al fatto che nessuna delle due potenze ha interesse a che si formi una grossa potenza europea. Comunque, la formazione di questa potenza è un processo oggettivo che USA e URSS possono contrastare ma non impedire. Saranno costrette a tenerne conto in modo differenziato e quindi si differenzieranno su questo fronte. Il contrasto russo-cinese, la crisi dei confini asiatici e l'industrializzazione dell'Estremo Oriente sovietico, assieme al rafforzamento dell'imperialismo giapponese, vengono ad inserirsi organicamente in questo processo che ha l'epicentro in Europa.

Se teniamo presente la molteplicità e la complessità dei fenomeni internazionali in cui si inserisce la Cina, possiamo comprendere come anche la formula maoista del fronte unito anti USA-URSS, oltre che attualmente irrealizzabile, è mistificatoria. Essa nasconde un obiettivo più concreto e realizzabile: agire sui fattori flessibili e non rigidi dell'alleanza USA-URSS. E siccome su questi fattori l'elemento più condizionante è costituito dall'imperialismo europeo e giapponese, la Cina tende ad appoggiare Europa e Giappone per raggiungere il comune obiettivo: allentare, modificare, influenzare l'alleanza russo-americana. Se il cemento che unifica questa alleanza è costituito dal generale o parziale sacrificio degli interessi degli altri imperialismi, una coalizione di tali interessi può difatti incrinare il cemento. Non di una lotta frontale contro USA-URSS si tratta, ma di una manovra sui fianchi, sulle ali.

Difatti la Cina, in lotta con l'URSS, non può contare su un massiccio appoggio dell'imperialismo europeo. Questo sarebbe possibile se l'URSS fosse la sola a non avere interesse alla crescita della potenza europea, ed oltre che possibile sarebbe realizzabile, poiché costringerebbe l'imperialismo russo ad abbandonare certe zone d'influenza nell'Europa orientale a favore dell'imperialismo europeo, e certe zone d'influenza in Asia a favore del capitalismo statale cinese e a garanzia dell'unificazione del mercato cinese. Ma l'URSS non è sola a contrastare l'ascesa della potenza europea, perché gli Stati Uniti sanno che le sfere d'influenza abbandonate dall'URSS sarebbero più ampiamente e rapidamente utilizzate dagli imperialismi europei e rafforzerebbero la loro concorrenzialità.

L'URSS può invece trovarsi sola di fronte all’abbandono o al ridimensionamento delle sue zone d'influenza in Asia. A meno che non si rafforzi troppo il Giappone, l'imperialismo americano non verrebbe colpito nei suoi interessi nel caso che la Cina si rafforzi a spese dell'URSS. Potrebbe anzi salvaguardarli in parte in Asia poiché non è certo la Cina che può fargli concorrenza in quel settore. Ad ogni modo è proprio in questo settore che l'alleanza USA-URSS è più flessibile. Inoltre è proprio in questo settore che il contrasto tra Cina e URSS è più forte di quello che oppone la Cina agli USA.

Il contrasto Cina-USA diventerebbe il più forte se la Cina realizzasse il fronte unito con i paesi asiatici, contro gli USA o contro USA-URSS. Ma siccome i paesi asiatici hanno il loro maggiore contrasto con gli USA e il minore con l'URSS, la Cina non ha attualmente maggiore interesse a realizzare, sempre che fosse possibile (il che non è), il fronte unito anti USA.

Il maggiore contrasto oggi la Cina lo ha con l'imperialismo russo e questo determina la sua attuale politica estera. Come abbiamo visto, questa situazione potrebbe determinare una forma di appoggio degli USA alla Cina e al limite un'alleanza.

Non è assolutamente impossibile, anzi è nel novero delle possibilità degli schieramenti imperialistici, anche se è poco probabile dato che sconvolgerebbe profondamente l'attuale sistema di alleanze e le possibili e realizzabili modifiche, ma soprattutto perché isolerebbe l'imperialismo americano in una alleanza asiatica poco proficua e darebbe invece la possibilità all'URSS di realizzare un'alleanza con l'imperialismo europeo, proficua sia per gli europei sia per i russi. Il rapporto di forze sarebbe decisamente rovesciato e segnerebbe la decadenza finale degli USA.

Non è questo caso limite a dover essere preso in considerazione, ma una delle tante forme di appoggio che può dare l'imperialismo americano alla Cina contro l'URSS. Già oggi una di queste forme è in atto: la neutralità. Mentre su una serie di aspetti il contrasto USA-Cina permane, sull'aspetto specifico del contrasto Cina-URSS, che è l'aspetto che più interessa attualmente alla Cina, la posizione neutrale americana è già un segno di una tendenza in atto.

E poi, in nessun caso occorre che la Cina giunga al caso limite dell'alleanza con gli USA, per poter vedere salvaguardati o rafforzati i suoi interessi nei confronti dell'URSS. Può bastare una delle tante forme di appoggio USA a poter condizionare l'URSS o, nel caso limite, a ristabilire l'alleanza con l'imperialismo russo, salvaguardando o rafforzando, sia nel caso del condizionamento che in quello del ristabilimento dell'alleanza, gli interessi del capitalismo di Stato cinese.

Per le stesse ragioni per cui è da escludere il caso limite dell'alleanza con gli USA, è da escludere il caso limite dell'alleanza con l'URSS, anche se questa avrebbe minori effetti sconvolgenti nei rapporti mondiali di forza e nell'attuale sistema di alleanze, in quanto avrebbe un minore peso capovolgente.

Il gioco politico perciò viene a situarsi in posizioni e in soluzioni mediane.

Quello che ci interessava dimostrare è che, nella pratica, la linea dei fronte unito contro USA-URSS è, nelle attuali condizioni, nient'altro che la mascheratura di una politica cinese che cerca di inserirsi nelle divergenze insiste nell'alleanza russo-americana.

(" Lotta Comunista " n. 35, 36, 37, 38, 39, dal maggio
al settembre 1969; pubblicato in opuscolo nel 1971

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Ultima modifica 09.09.2001