L'imperialismo unitario

Arrigo Cervetto (1950-1980)

 


Edizioni Lotta Comunista, luglio 1981
Trascritto per internet da Antonio Maggio, agosto 2001


 

Capitolo sedicesimo
NUOVE CARTE NELLA POLITICA
INTERNAZIONALE, 1976-1979

Nota introduttiva
Cronologia
Il PCI pedina delle lotte internazionali
Il PCI tra le linee imperialistiche degli Stati Uniti

I "vertici" dell'imperialismo

Le frazioni dell'imperialismo americano

Il motore tedesco

L'imperialismo americano ha un nuovo Presidente

Nuovi rapporti tra Stati Uniti ed Europa?
Nuove carte nella politica internazionale
I rapporti molteplici dell'imperialismo USA
Rafforzamento tedesco e riflessi francesi
La "distensione armata" dei nuovi rapporti di potenze
Movimenti nei rapporti tra potenze
Potenze e gruppi finanziari internazionali
I grandi gruppi nel mercato cinese
Scosse asiatiche sugli equilibri mondiali
I conflitti nell'epicentro asiatico: banco di prova per il marxismo
Spesa militare ed euromissili

Il PCI pedina delle lotte internazionali

L'oggetto della lotta fra le frazioni americane
Le principali linee USA: la "dottrina" Sonnenfeldt
La linea Ball
L'oggetto delle politiche internazionali nelle altre metropoli
I pretesti usati nella disputa americana
La collocazione dell'imperialismo italiano
Utilizzo della "risorsa nazionale PCI"
L'ironia della storia ha voluto che, dopo decenni di attività volta a diventare un forte partito socialdemocratico, il PCI arrivasse all'appuntamento nel momento in cui meno di prima poteva influirvi.
E' una rivincita della tesi di Marx sulla determinazione dei movimenti politici.
II PCI ha portato avanti una linea che, con provinciale presunzione, ha definito via nazionale. Oggi il risultato di questa linea è condizionato più che mai e più che ieri da una serie di fattori internazionali e da una serie di potenze mondiali. La sua "via nazionale" è divenuta una questione internazionale.
Ciò era inevitabile. Ciò che, invece, è particolare è che oggi il condizionamento internazionale avviene in una situazione estremamente dinamica, e poco prevedibile anche per il PCI che vede accentuarsi la lotta interimperialistica.
Il PCI diventa, da un lato, oggetto di una lotta delle metropoli imperialistiche sulla collocazione della metropoli italiana, e, dall'altro, un pretesto nella lotta tra le metropoli stesse.
Ecco perché nelle tesi internazionali che riguardano il PCI occorre distinguere tra quelle che riguardano l'oggetto e quelle che rappresentano invece il pretesto. Inoltre, queste tesi riflettono, spesso, posizioni di varie frazioni nella stessa metropoli: oggetto di varie posizioni di politica internazionale e pretesto delle loro lotte interne.
L'oggetto della lotta fra le frazioni americane
L'oggetto della lotta fra le frazioni statunitensi è la definizione dei rapporti dell'imperialismo USA con l'URSS e con le potenze europee e l'adeguamento della strategia americana delle modificazioni nei rapporti di forza avvenuti tra le potenze imperialistiche nello scacchiere atlantico.
L'occasione per l'emergere di questo scontro è data dalla campagna elettorale in corso negli Stati Uniti e uno dei pretesti utilizzati è la discussione sul "caso italiano " e sull"'eurocomunismo".
Il contenimento dell'URSS in Asia analizzato in un precedente articolo di Lotta Comunista deve lasciare sbocchi in altre direzioni all 'imperialismo russo che pur con grandi contraddizioni è in espansione. Poiché essi non possono essere in America Latina la contesa si sposta oggettivamente sul "territorio" di azione dell'imperialismo tedesco e degli altri gruppi imperialistici europei: Europa Occidentale, Europa dell'Est, Africa.
Le principali linee USA: la "dottrina" Sonnenfeldt
Due sono le posizioni più evidenti che emergono nella lotta fra le frazioni statunitensi.
Una nota come dottrina Sonnenfeldt, dal nome di uno dei più importanti collaboratori di Kissinger, afferma, nella sostanza, che di fronte all'accrescersi della potenza dell'URSS, è interesse degli Stati Uniti ribadire il predominio dell'imperialismo sovietico sull'Europa Orientale.
"La nostra politica estera di base rimane dunque quella seguita fino dal 1948/49" dichiara Sonnenfeldt.
In corrispondenza con ciò gli Stati Uniti sono interessati a mantenere il massimo di stabilità nella loro sfera di influenza, l'Europa Occidentale.
Questa è una chiara limitazione posta alle possibilità di espansione dell'imperialismo tedesco e all'emergere di un forte polo imperialistico in Europa.
Ogni modificazione dell'assetto europeo e cambiamenti interni ai singoli paesi che rafforzino posizioni di autonomia dei gruppi imperialistici europei, squilibrano l'intera zona e costringono gli Stati Uniti ad abbandonare la politica di distensione".
Ne consegue la minaccia ad impegnarsi nello sfruttare le contraddizioni tra gli interessi nazionali in Europa Occidentale e Orientale facendo anche in questo settore, secondo le parole di Kissinger, quello che è stato fatto "tra URSS e Cina ".
E' in sostanza la continuazione della politica di "Yalta" in un quadro in cui alla aumentata forza dell'imperialismo russo è lasciato il controllo dell'aumentata forza capitalistica dei paesi dell'Est e delle loro tendenze "eurocentriche".
Nella dottrina Sonnenfeldt gli Stati Uniti non le favoriscono. Ribadiscono però la loro egemonia sull'Europa Occidentale nella quale la Germania può rafforzarsi ma all'interno degli attuali equilibri complessivi
La linea Ball
La seconda posizione, espressa nel modo più chiaro da George Ball, probabile Segretario di Stato americano in caso di vittoria democratica alle elezioni presidenziali, sottointende la necessità di favorire gli "scismi" in Europa Orientale e di utilizzare i partiti comunisti dell'Europa Occidentale contro l'attuale politica del Kremlino.
Le direttrici di questa strategia sono: maggiore autonomia europea, rapporti più elastici all'interno della NATO, in sostanza accordo con i gruppi imperialistici dell'Europa Occidentale e del Giappone quali "principali partners" nel contenimento dell'URSS. Questa strategia è in alternativa ai "rapporti preferenziali" derivanti dalla "sopravvalutazione" dell'URSS propria della politica kissingeriana in Europa.
L'oggetto delle politiche internazionali nelle altre metropoli
Anche nelle altre metropoli imperialistiche gli scontri tra i principali gruppi hanno per oggetto la definizione delle loro politiche in una situazione in crescente movimento.
In Germania emergono differenziazioni. Nella Socialdemocrazia alla "linea Brandt" che prevede una articolazione degli impegni NATO a seconda dei vari paesi e una politica differenziata verso i paesi dell'Est Europeo si contrappongono le posizioni di Schmidt favorevoli all'utilizzo della potenza tedesca per "stabilizzare l'Europa".
I pretesti usati nella disputa americana
La possibilità che il PCI vada a breve scadenza al governo in sé non può essere fonte di preoccupazione per il governo americano, cosi come in sé sono pretesti le argomentazioni a favore o contrarie all'ingresso del PCI usate in USA per di più in pieno clima elettorale.
La ideologia del PCI, l'indebolimento della NATO in caso di uscita dell'Italia, l'effetto di esempio per l'Europa Orientale con conseguente irrigidimento dell'URSS, variamente combinati da Ford, Kissinger, Haig, Sonnenfeldt sono sicuramente argomenti inapplicabili al PCI e al peso dell'Italia.
Così come è fuori di dubbio che possa essere un ostacolo per gli USA l'alleanza con un governo a presenza PCI.
La dottrina Sonnenfeldt dimostra esattamente il contrario. D'altra parte gli argomenti delle correnti favorevoli e cioè la valorizzazione della svolta del PCI, l'efficienza del PCI al governo, il caso italiano paragonabile a quello cinese, non hanno alcuna validità oggettiva.
Ma l'entrata del PCI al governo acquista un altro significato se considerata accanto ad altre possibili fattori di squilibrio in un assetto in movimento.
Gli argomenti americani rappresentano dunque dei pretesti per accentuare alcuni caratteri della politica internazionale degli Stati Uniti.
Entrambe le tesi concordano nella necessità di rafforzare gli strumenti di intervento militare, anche se per vie differenti .Gli uni escludendo l'Italia e il PCI dall'alleanza rafforzata, gli altri coinvolgendo l'Italia e il PCI nell'azione di rafforzamento.
Analoghe considerazioni valgono per la politica estera della Germania.
Nel corso dell'importante discussione svoltasi tra i partiti socialisti europei, e in particolare tra Schimdt e Mittenand, è emersa, dietro il pretesto delle alleanze con il PCF e col PCI ed i governi con la loro partecipazione, la tendenza a nuovi equilibri tra gli Stati Germania, Francia, Inghilterra.
La Germania, rafforzatasi nella crisi di ristrutturazione coglie il pretesto delle formule governative possibili in Francia e in Italia per rafforzarsi militarmente. Con ciò coglie l'occasione per indebolire la trentennale resistenza francese e inglese al riarmo tedesco.
Gioca sulla necessità USA ad un rafforzamento NATO di fronte ad un presunto indebolimento del settore NATO francese ed italiano.
Ecco a che risultato non previsto e non voluto può arrivare la questione del PCI-PCF in Europa!
Porterebbe al rafforzamento tedesco fatto con lo spauracchio del pericolo russo nel Mediterraneo!
L'imperialismo italiano è dunque condizionato dai fattori internazionali e dalle scelte di politica estera delle grandi potenze ed il PCI è doppiamente condizionato.
La collocazione dell'imperialismo italiano
In realtà, l'oggetto reale della discussione internazionale sul PCI non è questo partito, ma l'imperialismo italiano, cosi come la discussione sulla collocazione internazionale del PCI riguarda realmente la collocazione della metropoli italiana. Non è immaginabile che un partito di governo possa determinare un capovolgimento di alleanze o di collocazione internazionale dello Stato che sia in contrasto con quella corrispondente agli interessi di tutte le frazioni borghesi.
Ciò può avvenire solo nel caso di una occupazione militare straniera e sempre che tutte le frazioni ritengano questa occupazione contraria ai loro interessi.
Nel quadro generale della oscillazione e della rettifica delle alleanze e dei rapporti con l'URSS e dentro la CEE, l'attacco al PCI al governo è un attacco ad una potenziale (per ora) tendenza di una o più frazioni. La difficoltà di previsione della "questione PCI" è fondamentalmente la difficoltà di previsione dei nuovi rapporti tra le potenze.
Tra le tendenze possibili alcune sono più probabili, altre meno. Così hanno un minore grado di probabilità la tendenza alla finlandizzazione come la tendenza ad una diretta alleanza con l'URSS, mentre sono più probabili la tendenza ad un nuovo atteggiamento verso l'URSS nel quadro del movimento in corso della "rettifica .della distensione" o la tendenza ad una più stretta alleanza con la Germania.
In ognuna di queste ipotesi l'imperialismo italiano tende ad utilizzare il PCI. Ma questo utilizzo incontra difficoltà per la debolezza dell'imperialismo italiano stesso.
Utilizzo della "risorsa nazionale PCI"
La tendenza al bipartitismo in Italia, cioè la tendenza a fare del PCI un partito socialdemocratico di gestione dello Stato borghese è un fenomeno che ha radici oggettive nella maturazione dell'imperialismo italiano. Questo fenomeno esprime le esigenze "nazionali" del capitalismo.
Ma esprime le "esigenze nazionali" di una metropoli che deve riformare il suo Stato perché pressata dalla concorrenza internazionale delle metropoli concorrenti. Tale esigenza di riforma è tanto più pressante quanto più lo è la concorrenza internazionale. Anzi si può dire che è stata proprio la crisi mondiale di ristrutturazione a porre con estrema urgenza questa esigenza dell'imperialismo italiano.
Nel momento in cui l'imperialismo italiano si poneva urgentemente il problema di poter disporre di un partito socialdemocratico di massa che potesse assolvere la funzione socialimperialistica di compressione e contenimento dei salari, questo stesso imperialismo veniva a trovarsi indebolito di fronte ai suoi concorrenti.
Cosi come per altre sue "esigenze nazionali" quali possono essere i prestiti internazionali, anche per quella riguardante l'utilizzo del PCI l'imperialismo italiano viene a trovarsi estremamente indebolito di fronte ai suoi concorrenti.
In altre parole, viene progressivamente condizionato nell'utilizzo di una "risorsa nazionale" come è il PCI. Questa è l'essenza, al momento, della questione PCI la quale, a dispetto dei suoi sostenitori borghesi e dei suoi protagonisti da nazionale è divenuta internazionale e, come tale, pedina di uno scacchiere più ampio.

("Lotta Comunista" n.68, apr. 1976)

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Il PCI tra le linee imperialistiche degli Stati Uniti

Abbiamo precedentemente affermato che la partecipazione del PCI al Governo, in una delle varie formule, è diventata un pretesto ed un oggetto delle lotte internazionali degli Stati imperialistici, in particolare modo quello americano e quello tedesco.
Ciò si colloca come una contingenza che viene drammatizzata in un momento particolare dei rapporti internazionali. Questo momento particolare è il frutto di un movimento in corso dagli anni '60. In quegli anni viene a maturazione, con lo sviluppo sovietico, con la rapida ripresa delle metropoli europee e giapponesi e con il formarsi di giovani capitalismi, un oggettivo ridimensionamento dell'imperialismo statunitense.
All'inizio degli anni '70 vengono a determinarsi una serie di fattori che faranno precipitare la crisi mondiale del 1974 e 1975.
Per tutta una serie di interdipendenze è proprio in questi ultimi anni che si forma in Italia una tendenza al bipartitismo col maturare del PCI come partito socialdemocratico di massa, come partito di governo. Essendo il PCI un partito di un imperialismo, come quello italiano, che in questi anni si è indebolito, inevitabilmente, volente o nolente, diventa una pedina passiva delle lotte internazionali degli imperialismi forti.
In buona parte il suo destino politico e governativo viene ad essere determinato dall'esito di queste lotte.
Dalla crisi di ristrutturazione sono emerse modificazioni di forza tra le principali potenze imperialistiche, modificazioni reali anche se poco apparenti poiché su questo terreno gli spostamenti sono influenzati anche da ristrette quote della forza stessa. Nel breve periodo la forza di ogni singola potenza imperialistica sembra accrescersi o diminuire in maniera irrilevante solo a chi non ha una visione scientifica, di tipo quantitativo e qualitativo, dell'assetto mondiale. Invece questi spostamenti di forza, anche se apparentemente irrilevanti, hanno un peso nel rompere vecchi equilibri e nel tendere a nuovi equilibri. Solo le guerre imperialistiche modificano, nel breve periodo, profondamente i rapporti di forza tra le potenze; ma le guerre imperialistiche sono, appunto, preparate da movimenti di lungo e medio periodo che modificano lentamente i rapporti reciproci tra le potenze.
La crisi di ristrutturazione, invece, rappresenta una accelerazione di questo movimento e la stessa politica estesa delle potenze, cioè l'aspetto più appariscente di questo fenomeno, lo ha subito avvertito.
La crisi di ristrutturazione ha scosso i vecchi equilibri. La politica estera pone apertamente oggi la tendenza a nuovi equilibri. Basti considerare il nuovo ruolo della Germania dentro la CEE, i suoi nuovi rapporti con la Francia e la Gran Bretagna, per non parlare dell'Italia.
E' in corso una lotta mondiale per nuovi equilibri, si è appena aperta questa nuova fase.
II posto centrale in questa lotta è occupato dagli Stati Uniti. E' proprio in questa metropoli imperialistica che più acuto si è fatto il dibattito interno fra le varie frazioni borghesi per gli indirizzi di politica estera e per la ricerca di equilibri mondiali più corrispondenti alla forza e agli interessi del capitalismo statunitense.
E' naturale che questo dibattito abbia le più compiute ed elaborate espressioni teoriche, data la posta in gioco.
Tra le varie linee teoriche dei rapporti internazionali due sono quelle che da decenni si scontrano nell'ispirare la politica estera statunitense: quella cosiddetta "realistica" e quella cosiddetta "occidentalista". Queste due linee teoriche ovviamente rappresentano raggruppamenti di interessi borghesi su questa o su quell'area mondiale e si articolano in varie posizioni o "dottrine" specifiche.
La linea "realistica" ha trovato una applicazione nel cosiddetto "realismo strategico" di Kissinger e del suo gruppo. Questa linea Kissinger sostanzialmente si basa su alcuni punti costanti: il primo è che l'unica potenza concorrente degli Stati Uniti è l'URSS perché è l'unica potenza mondiale mentre le altre sono solo potenze regionali. Il secondo punto è che l'URSS è una superpotenza mondiale che è forte militarmente ma debole economicamente. Essa non può concorrere economicamente con gli USA su tutti i continenti. Anzi, aggiunge Sonnenfeldt, non può tenere economicamente neppure l'Europa Orientale e gli USA devono aiutarla a mantenere "organicamente" quella sfera d'influenza proprio per essere più liberi, aggiungiamo noi, di intervenire nelle altre aree.
II terzo punto è che l'Europa Occidentale non può diventare la terza superpotenza mondiale perché la Germania non può unificarla. La Germania è la maggiore forza regionale ma per divenire una potenza mondiale dovrebbe trovare una integrazione con la Francia e la Gran Bretagna. Le teorie "realistiche" valutano poco probabile tale integrazione e su questa valutazione basano la loro strategia generale.
In realtà è questo uno dei problemi fondamentali e controversi dell'evoluzione imperialistica. L'unificazione delle metropoli euro-occidentali partorirebbe non solo la terza superpotenza mondiale ma, in graduatoria, addirittura la seconda poiché supererebbe, in forza, l'URSS. Una tale evoluzione sconvolgerebbe l'intero assetto, con conseguenze incalcolabili.
II solo motore in grado di imprimere la marcia europea è indubbiamente la Germania. Ma la forza della Germania, anche se preminente, non è tale da imporsi sulla forza francese e inglese. La Germania è due volte più forte della Gran Bretagna, una volta e mezza più forte della Francia. Singolarmente la metropoli tedesca supera la metropoli francese e quella inglese. Ma Francia e Gran Bretagna superano la Germania. Inoltre vi è l'Italia con la quale la Germania ha una superiorità di due volte e mezza, ma la quale se affiancata alla Germania può contribuire a pareggiare la forza anglo-francese e se schierata contro la Germania può consolidare una inferiorità tedesca.
Infine, USA ed URSS, interessate alla divisione europea, hanno effettivamente la possibilità di influirvi acuendo continuamente le contraddizioni tra Bonn, Parigi, Londra e Roma.
Su questo presupposto si basa la linea "realistica". Il suo quarto punto è costituito dalla valutazione che il Giappone oggettivamente non può divenire la terza superpotenza mondiale poiché, a differenza della Germania, è solo in Asia e non ha altre potenze da unificare. Per la linea realistica, solo la Cina può diventare questa terza superpotenza, ma tra parecchi decenni.
Questo, che noi definiamo il quinto punto, è estremamente ambiguo. La linea Kissinger sostiene che il fatto ineluttabile dell'ascesa cinese costringe e costringerà sempre più la Russia ad avvicinarsi all'America e, quindi, a stabilire un equilibrio mondiale, fondato sull'accordo russo-americano, che impedisce la guerra.
In verità, nessun dato oggettivo permette di vedere la Cina diventare la terza superpotenza mondiale. Per quanto alti possano essere i ritmi cinesi di industrializzazione, le distanze sono ancora enormi.
Per raggiungere l'attuale livello russo la Cina deve quadruplicare o quintuplicare le sue forze e ciò non può farlo in poco tempo. In teoria la Cina può superare la Russia, che nel frattempo non rimane di certo ferma; ma in tempi che esulano da ogni proiezione strategica.
Quindi, questa terza superpotenza cinese, concepita dalla linea Kissinger, è in realtà una superpotenza asiatica con il motore giapponese. Alla luce di tale potenzialità diventa più chiara la linea realistica la quale per ovvie ragioni riveste di panni maoisti un corpo ben più consistente.
L'ultimo punto della linea realistica riguarda lo sviluppo delle zone arretrate. In queste zone le potenze emergenti lo sarebbero a lunga distanza.
Da questa visione generale dello sviluppo del capitalismo nel mondo esce fuori un periodo abbastanza lungo in cui gli Stati Uniti possono mantenere l'egemonia mondiale se riescono a mantenere gli attuali equilibri e, quindi se aiutano l'URSS a rendere stabile la sua sfera d'influenza nell'Europa Orientale e a contenere le sue crisi interne ed esterne, tra le quali i rapporti con i PC occidentali.
I punti fermi della linea "occidentalista" sostanzialmente riassumono una diversa, e a volte opposta, valutazione dell'evoluzione imperialistica. Possiamo riassumerli in quattro. Il primo è un punto cardine perché attorno ad esso ruotano gli altri tre. In pratica la linea "occidentalista" che oggi ha il maggiore esponente in Brzezinski e i maggiori sostenitori nei candidati democratici alla presidenza statunitense, concorda con la linea realistica e Kissingeriana sulla reale debolezza dell'imperialismo sovietico. Anzi, ritiene la debolezza sovietica più grande di quanto ufficialmente la valutano i "realistici" ed i Kissingeriani. Proprio per questo tutti gli "occidentalisti", con varie gradazioni ed accentuazioni, criticano la distensione di Kissinger per aver favorito l'URSS e per aver concesso più di quello ottenuto. Spingono per rettifiche alla distensione, spingono per un nuovo tipo di distensione. In sostanza lottano per nuovi equilibri. Alla base di questa spinta, che sta diventando predominante nella metropoli americana vi è la valutazione che gli Stati Uniti hanno rafforzato negli ultimi anni la loro posizione.
Ai fini della nostra analisi marxista sulla crisi di ristrutturazione è troppo presto per avere dati oggettivi che permettano di vedere se gli Stati Uniti ne siano usciti più rafforzati nei confronti dei concorrenti. Due dati, però, già si hanno: l'inizio di un gioco quadripolare in Asia che indebolisce la Russia ed il fatto che l'URSS, nei due anni scorsi di maggiore debolezza americana, non è riuscita ad avvantaggiarsi, neppure in Europa e Medio Oriente, sull'America.
Questi due dati sembrano avvalorare il punto cardine della linea occidentalista secondo il quale la politica estera statunitense dovrebbe utilizzare al massimo tutte le debolezze dell'URSS, dall'agricoltura alla tecnologia, dai prestiti ai fermenti nazionalistici nell'Europa Orientale. Nella visione di Brzezinski, di Ball, di J. Carter, la "questione PCI" è una debolezza russa che deve essere sfruttata invece di congelarla come vogliono Kissinger e Sonnenfeldt per non destabilizzare gli attuali equilibri. Per gli "occidentalisti" la situazione è già destabilizzata e gli USA debbono intervenirvi per migliorare la loro posizione.
Nella linea occidentalista due altri punti possiamo così definirli: il mondo è in continuo mutamento e vi è un rapido emergere di nuove potenze. Gli Stati Uniti, invece di aver come priorità assoluta l'accordo con l'URSS ed invece di indirizzare forti crediti sul mercato sovietico, devono intervenire maggiormente nel mercato a giovane capitalismo che è in forte sviluppo e devono stabilire alleanze con le nuove potenze che si vanno formando. Infine, ultimo punto, per contenere le spinte di un'URSS ridimensionata dalle contraddizioni della sua debolezza e per controbilanciare le sue reazioni all'utilizzo americano delle sue crisi, gli Stati Uniti devono rafforzare le alleanze con il Giappone e con l'Europa Occidentale, specie la Germania. Queste alleanze debbono essere privilegiate e garantite.
Lo scontro tra la linea realistica e quella occidentalista è in corso nella metropoli americana. Come spesso accade, il risultato può essere una combinazione delle due posizioni, che noi abbiamo dovuto ovviamente semplificare ma che si articolano in varie sfumature.
Comunque, dal prevalere dell'una o dell'altra dipendono quelle impostazioni generali della politica imperialistica americana che hanno inevitabili influenze sulla vita politica europea ed italiana e, quindi, anche sulla collocazione del PCI.

("Lotta Comunista" n.69, mag. 1976)

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I "vertici" dell'imperialismo

Le riunioni tra i capi di Stato delle maggiori potenze imperialistiche sono ormai diventati una costante della politica internazionale. Sempre più i rapporti tra le maggiori potenze sono regolati da vertici ristretti a scapito di istituzioni collegiali, tipo ONU. Se c'è un campo dove lo strumento parlamentare non ha mai funzionato questo è il campo dei rapporti internazionali, dei rapporti tra gli Stati. Essendo questi rapporti essenzialmente rapporti di forza, anche formalmente hanno richiesto e richiedono sempre più strumenti adeguati per essere affrontati e regolati. La costituzione di parlamenti internazionali, prima la Società delle Nazioni e poi l'ONU, e il tentativo di creare un diritto internazionale, un corpo di leggi o risoluzioni vincolanti per tutti gli Stati, hanno clamorosamente fallito nel loro scopo. Prepotentemente è emerso il reale contenuto che presiede alle relazioni internazionali. L'evoluzione recente dei rapporti interimperialistici, la formazione di fatto di vertici e di direttori semistituzionalizzati, mentre relega nel museo delle anticaglie il parlamentarismo internazionale si adegua al movimento reale. E' una chiarezza di più nella lotta internazionale del proletariato. E' una smentita ulteriore alle ideologie "distensive" dei riformisti nostrani i quali non contenti di voler "mettere le brache" all'Italia le vorrebbero mettere al mondo.
Cosa è cambiato, in sei mesi, in occasione dei vertici a sette e degli incontri bilaterali e triangolari nei rapporti tra le principali potenze imperialistiche? Innanzitutto si è avuta, nel primo semestre del 1976, la conferma che dalla crisi di ristrutturazione USA, Giappone e Germania sono usciti più forti di prima. Queste tre metropoli, che hanno più della meta` della produzione mondiale, guidano la ripresa che permette loro di ritagliarsi una quota maggiore del plusvalore mondiale. E' difficile, in così poco tempo, individuare come si siano modificati i rapporti reciproci tra queste tre potenze di punta. Più facile è vedere come, complessivamente, si siano avvantaggiate verso le altre potenze, inclusa l'URSS. Comunque, rimanendo inalterata la supremazia statunitense, si può valutare che gli Stati Uniti si sono leggermente avvantaggiati sulla Germania mentre il Giappone si è avvantaggiato leggermente sugli Stati Uniti. Se ciò pone dei problemi politici, derivati dalle rispettive modificazioni dei rapporti di forza, tra le grandi metropoli ancor più li pone nei confronti dell'URSS, della Francia, della Gran Bretagna e dell'Italia.
Per l'URSS occorre un discorso a parte, che abbiamo già fatto e che continueremo in altra occasione.
Prima di vedere le tre potenze occidentali, bisogna affrontare un aspetto che normalmente è poco sottolineato, cioè la distinzione tra potenza commerciale e potenza finanziaria, distinzione che è invece al centro dei rapporti interimperialistici e che può spiegare molti dei temi trattati nel vertice di Portorico (bilance dei pagamenti, inflazione, spesa pubblica, ecc.).
Se osserviamo la dinamica degli ultimi tre anni possiamo notare che gli Stati Uniti, il Giappone e la Germania emergono come potenze commerciali e con forti attivi commerciali di complessivi 78 miliardi di dollari, di cui 54 per la sola Germania. Come si vede, l'aumento del prezzo del petrolio e delle materie prime, che a parole nell'ideologia piccolo-borghese antimperialista doveva colpire i centri più forti dell'imperialismo, ha finito con il colpire le metropoli più deboli ed i giovani capitalismi. Difatti, mentre i tre imperialismi più forti si sono ulteriormente rafforzati, l'imperialismo russo ha ancora aggravato il suo deficit e il suo indebitamento e gli imperialismi francese, inglese e italiano hanno accumulato un disavanzo commerciale di 40 miliardi di dollari, di cui 25 inglesi e 14 italiani, mentre i francesi quasi pareggiano. Non c'è bisogno di essere dentro ai castelli francesi o alle residenze portoricane per sapere come si dispongono le sedie dei creditori e dei debitori!
Se, però, osserviamo, per gli stessi tre anni, la dinamica della potenza finanziaria notiamo che l'attivo tedesco si riduce a 18 miliardi di dollari mentre quello statunitense si alza a 12, raccorciando la distanza che aveva nella dinamica commerciale. Anche il disavanzo finanziario franco-anglo-italiano si riduce a 32, grazie alla Gran Bretagna che ne ha soli 14. La Francia, invece, dal pareggio commerciale scende a quasi 7 miliardi di dollari di disavanzo finanziario e l'Italia risale a 11.
Sostanzialmente: gli Stati Uniti finanziariamente migliorano sulla Germania, la Gran Bretagna migliora leggermente su Stati Uniti, Germania, Francia e Italia, la Francia peggiora su tutti.
Ancor più questo andamento si nota nel rapporto tra Stati Uniti e Giappone: gli USA hanno 4,7 miliardi di dollari di attivo commerciale ma ne hanno 12 nelle partite correnti, il Giappone, al contrario, ha un attivo commerciale di 10,2 e un passivo finanziario di ben 5,5 miliardi di dollari.
Ciò si riflette nelle riunioni di vertice dove gli Stati Uniti chiedono al Giappone di rivalutare lo yen per limitarne la concorrenza commerciale in Asia e sullo stesso mercato americano, mentre il Giappone rifiuta la rivalutazione per compensare lo svantaggio finanziario.
Lo stesso problema agita i rapporti franco-tedeschi da quando il franco si è indebolito nei confronti del marco, da quando cioè la Francia è uscita dal "serpente" monetario. Sostanzialmente, negli ultimi anni l'imperialismo francese si è indebolito nei confronti di quello tedesco. Le conseguenze sul terreno della politica estera si sono fatte subito sentire con il pendolarismo della politica giscardiana e la rettifica del tradizionale gollismo incentrato sull'asse Parigi-Bonn.
La Francia, che per anni ha bloccato l'ingresso inglese nella CEE ha aperto alla Gran Bretagna, oltre che agli Stati Uniti, il suo gioco pendolare. Se ciò, nella media distanza, introduce un forte fattore squilibrante nell'assetto europeo che ha come perno la Germania, a breve distanza produce effetti immediati. Gli schieramenti politici francesi ne vengono subito sconvolti avvicinando, per quanto riguarda la politica estera, giscardiani e mitterandiani, da un lato e gollisti e PCF dall'altro. Come era facile prevedere, PCI e PCF si vengono a collocare sul problema delle alleanze internazionali, su posizioni divergenti e l'invenzione giornalistica del cosiddetto "eurocomunismo" dimostra subito la sua labilità al cospetto di due partiti opportunisti che sempre più si integrano con le loro centrali imperialistiche allontanandosi da quella russa ma che, per la stessa ragione, devono seguire le contraddizioni delle loro borghesie.
In Italia, per ora, tutte le frazioni borghesi private e statali sono per l'alleanza con gli Stati Uniti ed il PCI, nella misura in cui si integra nell'imperialismo italiano, è oggettivamente obbligato a tale scelta.
In Francia, invece, l'evoluzione dei rapporti franco-tedeschi ha costretto le frazioni borghesi a porsi il problema della alleanza con gli Stati Uniti. Sulla soluzione si sono determinate alcune divergenze e ciò si riflette nella posizione antiamericana ed antirussa del PCF.
Ci fu, inoltre, facile prevedere che non bastavano alcune formulazioni ideologiche socialdemocratiche del PCI per trasformare la "questione PCI" da pretesto ad oggetto delle tendenze imperialistiche americane. Infatti, non essendo il PCI oggetto della politica internazionale, non essendo cioè il PCI la manifestazione politica di frazioni borghesi italiane che vogliono ribaltare o modificare l'alleanza con gli Stati Uniti, la "questione PCI" ha finito per essere ridimensionata come pretesto dei vari gruppi americani. Così come è avvenuto per il cosiddetto "eurocomunismo", cioè di quell'insieme di forze politiche che se hanno punti comuni nell'ideologia hanno differenti politiche internazionali.
Le riunioni interimperialistiche, ovviamente, non sono seminari ideologici ma strumenti diplomatici dove si riscontrano i mutamenti dei rapporti di forza, si registrano i contrasti di interessi e si tenta la mediazione di questi contrasti. A Portorico, perciò, la "questione PCI" doveva, per forza, passare in secondo piano di fronte alla "questione Italia" .
E qui pesa la seconda conseguenza dell'indebolimento dell'imperialismo francese nei confronti di quello tedesco. Perché la Francia rimane tra i Grandi? Se la Francia ha interesse ad aprire agli Stati Uniti questi hanno un nuovo interesse a sostenere una Francia indebolita, anche se non di molto, per riequilibrare il rafforzamento della Germania. Questa politica rientra facilmente nella linea Kissingeriana della "bilancia delle potenze" .
Molto più problematica sarebbe, invece, una politica di questo tipo nella linea "occidentalista" emergente negli Stati Uniti. Comunque, attualmente, la Francia può svolgere un certo ruolo nei rapporti interimperialisti su di un punto che è di estrema importanza. Non a caso Parigi ha rimesso Londra nel riequilibrio con Washington e con Bonn. Non a caso appoggia, anche se parzialmente, Londra .
Uno dei termini più duri dello scontro interimperialistico è costituito dalla spesa pubblica inglese. Ciò è spiegabilissimo, specie alla luce di quanto abbiamo detto sulla differenza tra le bilance commerciali e le bilance finanziarie. Washington e Bonn non vogliono continuare a finanziare, in qualche modo, la spesa pubblica di Londra quando questa ha ancora margini di potenza finanziaria. In altre parole: Stati Uniti e Germania cercano di soppiantare completamente il centro finanziario inglese il quale, in una metropoli in declino, conserva tuttavia una certa forza. Di qui l'inusitata violenza della polemica. anche da parte di rappresentanti ufficiali quali Simon, di cui in Italia giunge una pallida eco.
I commentatori italiani, un po' per provincialismo, un po' per strumentalizzazione, e forse per entrambe le ragioni, hanno posto e pongono la "questione Italia" al centro delle discussioni dei vertici imperialistici. Non è così. La "questione Italia", sia per il peso oggettivo che per le reali interdipendenze, oggi non è che un aspetto secondario della 'questione Inghilterra". La critica alla spesa pubblica italiana e al suo effetto inflattivo non è che una carta della critica all'Inghilterra. L'obiettivo è qualcosa più che l'Italia, anche se in questo scontro l'imperialismo italiano è di fatto coinvolto.

("Lotta Comunista" n.71, lug. 1976)

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Le frazioni dell'imperialismo americano

La dinamica demografica U.S.A. come espressione dello sviluppo ineguale del capitalismo
La modificazione degli equilibri all'interno del capitale industriale U.S.A.
La democrazia forma di dittatura del capitale americano
Jimmy Carter, espressione di una frazione borghese in rapida ascesa
Nell'affrontare le linee di politica estera dell'imperialismo statunitense, in un precedente articolo, abbiamo fatto riferimento alla lotta che è in corso negli Stati Uniti tra le varie frazioni borghesi, lotta che si svolge nella ripartizione del capitale sociale e che si manifesta politicamente nella formazione di correnti e di schieramenti nel bipartitismo in occasione della campagna presidenziale. Questa dura praticamente un anno ed offre un abbondante materiale per studiare il comportamento delle frazioni borghesi. E' naturale che ciò si rifletta nelle linee della politica estera dell'imperialismo americano. Forse in nessuna metropoli è acceso il dibattito sulla politica estera come è in quella statunitense.
Ma per comprendere cosa bolle in pentola non resta che guardare dentro alla pentola. Occorre, in altre parole, seguire lo sviluppo delle varie componenti economiche della metropoli americana. Per fare ciò è indispensabile compiere una analisi per aree geografico-economiche. Data la estrema corrispondenza, in un capitalismo come quello statunitense, tra struttura e sovrastruttura risaltano più chiare e comprensibili le ragioni della lotta politica in svolgimento e, quindi, anche molti aspetti della politica estera del presente e, soprattutto, del prossimo
futuro.
Nelle elezioni presidenziali americane del prossimo novembre, il partito democratico presenterà come candidato Jimmy Carter ex governatore dello Stato della Georgia. Per la prima volta, dalla guerra civile americana, un uomo politico del Sud, avrà la possibilità di diventare presidente della repubblica del più forte paese imperialistico del mondo. Le ripercussioni, sia sulla politica interna, che su quella estera degli U.S.A., saranno inevitabili. Come inquadrare questi avvenimenti politici? Il marxismo, con la sua metodologia scientifica, ci insegna che esistono dei nessi causali tra sovrastruttura e struttura, tra politica ed economia. E' nella modificazione dei rapporti reciproci fra le classi nella produzione di plusvalore, cioè nel movimento della struttura della società, che devono essere cercate le spiegazioni causali della lotta politica americana.
La dinamica demografica U.S.A. come espressione dello sviluppo ineguale del capitalismo
Una delle condizioni dello sviluppo del capitalismo e l'esistenza di un libero mercato della forza-lavoro. Gli spostamenti della forza-lavoro da una regione ad un'altra dipendono dalla domanda e dall'offerta del lavoro create dallo sviluppo economico. Lo sviluppo ineguale del capitalismo tra settore e settore, tra industrie e industrie, tra regioni e regioni, crea i fenomeni migratori e le fluttuazioni delle popolazioni. Regioni in sviluppo, con alti indici di accumulazione di capitale e uno sviluppo capitalistico non solo intensivo ma anche estensivo attraggono forza-lavoro e hanno la popolazione in aumento. Regioni in declino, hanno dei processi inversi.
L'andamento dei flussi di popolazione fra le varie regioni geografiche degli U.S.A. ci da un'idea, anche se abbastanza generale, delle linee di tendenza dello sviluppo interno del capitalismo americano. Ciò si può osservare se si considera una certa serie di cicli economici, ad esempio, dalla fine della seconda guerra mondiale.
Stabilendo 100 il ritmo di incremento della popolazione statunitense nel periodo 1950/1970, per le varie regioni si hanno questi indici: New-England 79, Middle Atlantic 68, Est Nord Central 95, Ovest Nord Central 47, Sud Atlantic 131, Est Sud Central 34, Ovest Sud Central 96, Mountain 184, Pacific 220. Limitandoci alla costa atlantica e al Middle West si può mettere in evidenza che gli Stati del Sud - Georgia, Virginia, Carolina del Nord e del Sud, Florida - hanno dei ritmi di incremento notevolmente superiore alla media quelli del Nord Atlantico - Pennsylvania, New York, New Jersey, Vermont etc.- sono notevolmente sotto la media nazionale, quelli del Middle West Ohio, lllinois, Wisconsin ecc. - sono nella media. Il baricentro dello sviluppo economico americano si sta quindi spostando dal centro nord al centro sud. Gli Stati meridionali nel 1970 avevano circa 1/3 di tutta la popolazione statunitense. Lo spostamento del baricentro verso il Sud, quindi, si rifletterà in un prossimo futuro in una modificazione dei rapporti di forza fra tutte le classi U.S.A.. Essa avrà conseguenze prima nei rapporti fra Stati federati, poi nella politica del governo federale, la quale deve essere la risultante degli interessi complessivi di tutta la borghesia americana. E' una tendenza che necessita tempo per potersi realizzare pienamente. Comunque, alcuni riflessi già si avvertono.
La modificazione degli equilibri all'interno del capitale industriale U.S.A.
In una economia capitalistica sviluppata il capitale industriale è predominante rispetto alle altre forme di capitale. Vedere gli equilibri all'interno delle varie frazioni del capitale industriale è fondamentale per comprendere la base oggettiva della lotta politica. E' evidente che limitare l'analisi al capitale industriale non permette di avere una visione complessiva di tutti i rapporti tra le classi. Permette, però, di vedere l'essenziale.
Se, per semplicità, ipotizziamo un tasso medio del plusvalore per gli U.S.A. nel loro complesso, possiamo vedere i rapporti di forza fra le varie frazioni del capitale industriale in base al numero di addetti impiegati nei loro settori.
Nel 1963 il 58,7% degli addetti all'industria manifatturiera era occupato nelle tre regioni geografiche settentrionali - New England, Middle Atlantic, E.N. Central -; il 22 8% nelle tre regioni del Sud -Sud Atlantic, E.S. Central, W.S. Central. Il rapporto era di circa 3 a 1 a favore del settentrione, ossia la borghesia industriale meridionale americana aveva circa 1/3 della forza economica di quella settentrionale. Nel 1975 il 52% di tutti gli addetti U.S.A. all'industria manufatturiera era nelle regioni settentrionali, e il 28% nelle regioni del meridione. Il rapporto fra Nord e Sud è diventato nel 1975 di 2 a 1. La forza relativa della borghesia industriale degli Stati del Sud è passata quindi, dal 1963 al 1975, da 1/3 a 1/2 nei confronti della forza relativa della borghesia industriale del Nord. Pur essendo il capitale industriale del Nord ancora il doppio di quello del Sud, ha avuto nel periodo preso in considerazione un notevole indebolimento relativo. Si può valutare che l'indebolimento relativo del Nord sia stato di circa 80 miliardi di dollari, mentre il rafforzamento del Sud di circa 67 miliardi di dollari (la differenza è l 'Ovest). E' come se, in poco più di un decennio, nel periodo 1963/1975, agli Stati del Sud si fosse aggiunto uno Stato della forza economica del Brasile!
L 'indebolimento del Nord è avvenuto fondamentalmente a discapito degli Stati della costa atlantica, quelli che storicamente sono stati tra i primi insediamenti di popolazione europea. Gli Stati del Middle West hanno mantenuto il loro peso relativo.
Il New England e il Middle Atlantic - che comprendono le città di New York, Filadelfia, Boston - nel 1963 avevano il 32% del totale degli addetti all'industria manufatturiera USA ;nel l975 il 26% con un ridimensionamento del loro peso relativo del 20%. La loro forza industriale che nel 1963 era 1/3 di tutta la forza industriale americana, si è ridotta ad 1/4. La legge dello sviluppo ineguale e inesorabile: i vecchi Stati agrari del Sud, sconfitti nella guerra civile dal Nord industriale, a 100 anni di distanza per effetto della loro industrializzazione, si prendono la rivincita. Non sono certo le "frustrazioni" del Sud, o il populismo agrario e protestante, che esprimono un Carter, ma è lo sviluppo capitalistico in una delle regioni che per decenni ha rappresentato per gli U.S.A, una specie di "questione meridionale". Per avere un'idea più precisa, si può immaginare che sia avvenuto negli Stati meridionali degli USA un processo di industrializzazione in un rapporto paragonabile al Nord e al Sud d'Italia. E' come se, in venti anni, il Meridione italiano si fosse portato al livello di industrializzazione del Settentrione. Le conseguenze politiche si sarebbero fatte sentire.
La democrazia forma di dittatura del capitale americano
La borghesia, nell'esercitare la sua dittatura sul proletariato, ha necessità di avere forme statali che oltre a garantirle di portare avanti il processo di estrazione del plusvalore, le permettano anche di risolvere le sue contraddizioni interne, pur mantenendo l'unità politica dello Stato.
Il capitalismo americano, sviluppatosi in un territorio vergine, e non avendo incontrato nel suo sviluppo nessuna resistenza da parte di classi e partiti feudali, ha potuto darsi istituzioni politiche più adeguate alle sue esigenze economiche. La forma democratica dello Stato americano, cioè la forma della dittatura borghese sul proletariato, è la sovrastruttura che meglio si adegua alle modificazioni dei rapporti di forza all'interno della classe dominante. Essendo l'economia capitalistica caotica per natura, e sviluppandosi in modo ineguale, gli equilibri che si stabiliscono di volta in volta fra le classi o frazioni di esse, non possono che essere precari. Perciò la forma politica più adeguata al dominio del capitale, è quella forma che mantiene il più elevato grado di elasticità, in modo da esprimere la continua modificazione dei rapporti tra le classi e le frazioni di classe.
Il sistema delle elezioni primarie che scavalca gli apparati burocratici dei partiti politici, la lotta fra i gruppi che avviene per la nomina dei candidati, il sistema elettorale maggioritario che obbliga i gruppi borghesi all'accordo dopo aver confrontato le loro forze nella battaglia elettorale, la caratteristica eterogenea dei partiti nazionali che sono solo dei cartelli elettorali, l'equilibrio fra i vari organismi dello Stato - esecutivo, legislativo, giudiziario - permettono alle varie frazioni della classe dominante di esprimere a livello politico la loro forza economica nel modo più adeguato ed immediato.
L'ascesa rapida di Carter, fino a pochi mesi fa uomo quasi sconosciuto sia per l'America che per il mondo è stata permessa dalla combinazione della accresciuta forza economica del Sud con l'elasticità della forma dello Stato americano.
Jimmy Carter, espressione di una frazione borghese in rapida ascesa
Il fenomeno Jimmy Carter può quindi essere spiegato dalla rapida modificazione degli equilibri all'interno della classe dominante U.S.A. iniziato dal secondo dopoguerra. La sua ideologia, manifestata durante la campagna elettorale per le elezioni primarie non ne è che una conferma. Carter si è presentato all'elettorato delle elezioni primarie come l'uomo che esprimeva gli interessi della "base" contro il centralismo della burocrazia sia del partito che dello Stato federale. Considerando che negli U.S.A, più del 50% della popolazione non partecipa alle elezioni presidenziali, e quindi una percentuale ancora inferiore partecipa alle primarie, risulta evidente che i discorsi di Carter non possono essere rivolti alle masse di sfruttati disorganizzati, che esclusi praticamente dalla possibilità di difendere i loro interessi all'interno dello Stato borghese, si astengono anche dal partecipare alle elezioni. La base elettorale di Carter è quindi composta prevalentemente dalla piccola e media borghesia imprenditoriale, sia industriale che commerciale o agraria, e dagli strati impiegatizi. La "base" che si contrappone al vertice burocratico di Washington non può che essere composta di strati di borghesia che stanno aumentando il loro peso sociale, e di tutti i settori di salariati che a questi strati sono direttamente legati.
La campagna portata contro la corruzione della burocrazia federale, già iniziatasi con il caso Watergate, che ha portato alla esclusione di Nixon, esprime questi gruppi borghesi in espansione, che nella lotta per aumentare il loro peso nell'apparato statale, si scontrano inevitabilmente contro chi l'apparato statale già controlla. Il tema della corruzione, la ripresa di peso politico da parte del Congresso rispetto al potere esecutivo, la richiesta di maggior autonomia locale rispetto al governo federale, non è che il riflesso sovrastrutturale della lotta delle frazioni borghesi per modificare il loro peso sull'apparato statale.
Ma al di là delle ideologie, necessarie per mascherare i reali interessi di classe, e indipendentemente dalla probabilità o meno da parte di Carter di essere eletto presidente, quello che è evidente è che all'interno degli U.S.A. sono avvenute delle trasformazioni che oggi si stanno riflettendo sul piano politico. Queste trasformazioni, essendo essenzialmente modificazione di rapporti all'interno della classe dominante si rifletteranno su tutto il sistema imperialistico mondiale, per il ruolo che l'imperialismo U.S.A. svolge in esso.
Nuove contraddizioni sono destinate ad aprirsi. Nuove pagine di politica internazionale si riempiranno dei fatti e dei misfatti dell'imperialismo.

("Lotta Comunista" n.72, ago. 1976)

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Il motore tedesco

Da più di un secolo il cuore dell'Europa batte con il motore tedesco. Marx ed Engels fecero a tempo ad individuare ciò che avrebbe rappresentato il declino inglese in termini di parallela ascesa tedesca. Quella che da Engels venne definita la crisi di fine secolo con tutte le sue mostruose conseguenze non era altro che la geniale anticipazione di appena un decennio della prima guerra mondiale imperialistica.
La scienza marxista, che non gioca con le parole e con le mode, analizza il corso delle forze profonde che agitano e scuotono, prima impercettibilmente e poi intensamente, interi continenti. Non da oggi l'imperialismo tedesco determina il movimento del continente europeo, ne rallenta o ne accelera i suoi ritmi. Parecchi anni fa ci capitò di titolare un nostro articolo "Puntualità della questione tedesca". Oggi questa puntualità ci convoca nuovamente ad appuntamento.
Osservatori superficiali hanno seguito le elezioni tedesche con l'occhio del loro inguaribile parlamentarismo e non hanno saputo inquadrarle in una più ampia prospettiva. Ciò che determina la "questione tedesca" è la stessa oggettività che periodicamente la porta alla ribalta e la rende puntuale: la divisione della Germania in due Stati. In altri termini: la divisione artificiale del mercato tedesco.
La sconfitta della rivoluzione borghese in Germania determinò, per secoli, la divisione del mercato in decine di piccoli Stati. Ciò facilitò il tentativo di unificazione del mercato europeo compiuto dalla Francia uscita dalla sua rivoluzione e, contemporaneamente contribuì` al crollo napoleonico di quel tentativo che non aveva la forza economica sufficiente per essere portato avanti e tanto meno poteva trovarla sul territorio tedesco.
Non essendo opera dell'iniziativa francese, la unificazione del mercato tedesco doveva travagliare buona parte delI'Ottocento europeo e proseguire col "ferro e sangue" prussiano in una serie di guerre che coinvolsero e facilitarono anche il processo di unificazione del mercato italiano.
Unificata la Germania, la potenza del più grande mercato esistente in Europa non solo non poteva essere arrestata ma veniva ad essere estremamente rinvigorita e proiettata nell'espansione tanto da produrre nell'arco di appena due decenni ben due guerre mondiali imperialistiche.
Quello che è opera della storia non può essere cancellato dai trattati. Diviso, da Stati Uniti ed URSS, il mercato tedesco in due Stati esso tende sempre più ad unificarsi. E' significativo che già all'atto di formazione della CEE nel 1958 molti dei suoi meccanismi daziari facciano eccezione per la RDT. E' un Mercato Comune chiuso a tutti meno che alla parte orientale della Germania.
A questa pressante tendenza economica si adegua ben presto la politica della Germania Federale che nel corso degli anni '60 enuncia l'apertura ad Oriente. Dopo la recessione del 1967 il bipartitismo tedesco svolge un particolare ruolo nella lotta delle frazioni interessate o contrarie alla Ostpolitik e nel processo di ristrutturazione che, per alcuni aspetti, si può dire inizi in Germania proprio dopo quella recessione. La ristrutturazione comporta un aumento della prima sezione, cioè della produzione dei mezzi di produzione: ciò acuisce la lotta tra i gruppi capitalistici interessati ai beni di produzione e quelli interessati ai beni di consumo. La lotta interessa settori definiti, zone economiche, diverse regioni e comporta concentrazioni e passaggi di controllo tra varie imprese.
Sul piano esterno, l'effetto della prima ristrutturazione è la lotta per l'Ostpolitik. Lo strumento di questa lotta è il SPD e l'elemento determinante è l 'FDP, in seno al quale avviene la lotta politica più importante tra le frazioni borghesi in quegli anni ed anche negli anni successivi sino ai giorni nostri.
E' proprio l'FDP, tipico "partito industriale" di alcune importanti frazioni, a segnare il cambiamento di coalizione governativa e a gestire la nuova politica estera, anche se comprensibili ragioni propagandistiche di massa la attribuiscono ai socialdemocratici i quali in realtà, portano grandi sindacati e grandi masse elettorali ma non gli organi giornalistici che gliele hanno formate e che in seguito, gliele hanno ridotte. Anche se la parte orientale del mercato tedesco è importante è, però poco più di una settima parte del totale. Cosí come tutto il mercato dell'Europa Orientale, URSS inclusa, può rappresentare al massimo un ventesimo di tutta l'esportazione della Germania Occidentale.
Ne consegue che non tutto il capitalismo tedesco occidentale può essere interessato massicciamente al mercato orientale e che l'Ostpolitik ha dei limiti oggettivi, almeno nel presente ciclo. Difatti dal 1974 entra in una fase se non di esaurimento perlomeno di stanchezza, rotta da momentanei successi commerciali e politici ma impossibilitata a produrre un lungo slancio. Puntualmente, perciò, entra in crisi lo strumento elettorale che l'aveva permessa: la socialdemocrazia. Il rovescio elettorale del SPD imperversa per un paio di anni, tra il 1974 e il 1975, e il calo di questo partito nelle consultazioni regionali è di circa 1'8%. Da questo punto di vista, le elezioni del 3 ottobre hanno rappresentato una rimonta per Schmidt il quale ha dovuto sostituire nell'immagine pubblica il logoro Brandt della decelerata Ostpolitik.
Avremo occasione di analizzare nel dettaglio la composizione strutturale delle tendenze di politica estera dell'imperialismo tedesco, le regioni, i settori, i gruppi e le imprese che le sostanziano e che si esprimono nei partiti SPD, CDU, CSU e FDP. Naturalmente non si può dire che, in assoluto, un gruppo od una impresa è interessata esclusivamente ad un mercato poiché gli interessi dell'impresa capitalistica sono molteplici e pluri direzionali. Comunque, per grandi linee e per grandi settori produttivi e zone economiche è possibile individuare almeno quattro importanti direttrici di espansione sul mercato mondiale. Per semplificare e sintetizzare possiamo chiamare nordica, orientale, meridionale ed occidentale queste direttrici lungo le quali corrono i flussi di esportazioni di capitali e di merci ed attorno alle quali si organizza la vita produttiva e commerciale di un paese come la Germania Federale che ha quasi la metà della sua vita economica proiettata all'esterno.
Quello che è sintomatico, e può meravigliare chi la scienza politica la cerca nella filosofia e mai nella realtà scientificamente analizzata, è che anche la vita politica in definitiva si organizza e si esprime attorno a queste direttrici ed attorno a questi flussi. Se noi ricerchiamo la forza politica e le fortune elettorali dei socialdemocratici, dei democristiani e dei liberali tedeschi nelle varie città troveremo una diretta rispondenza con i fenomeni economici che abbiamo su indicato. Nel complesso potremmo dire, quindi, che la socialdemocrazia è più collegata, a volte anche geograficamente, alla direttrice nordica e orientale, mentre la democrazia cristiana lo è maggiormente alle altre direttrici.
Senza voler assolutizzare si può, pertanto individuare nell'ascesa democristiana la manifestazione di un rafforzamento delle tendenze meridionale ed occidentale, particolarmente di quest'ultima.
Si può valutare che queste tendenze rappresentino circa i due terzi del capitale sociale tedesco, che si basino principalmente sull'industria chimica, su una parte dell'industria automobilistica, sull'industria elettrotecnica interessata particolarmente alle centrali nucleari, in gran parte dell'industria meccanica, mentre sull'industria metallurgica sono ancora in corso di definizione i nuovi orientamenti. E' forte la tendenza al cosiddetto Denelux, cioè al gigantesco cartello siderurgico tedesco-olandese-lussemburghese che ha il 40% della produzione CEE e che indica la principale area di espansione tedesca in diretta concorrenza con la declinante presenza inglese e francese. Quest'area, acquisita ormai al marco, è già quella che registra il massimo flusso dell'esportazione tedesca. Non a caso è quella in cui più forte diventa la spinta tedesca. Inevitabilmente diventerà, a breve scadenza, uno dei maggiori punti di frizione tra Germania, Francia e Gran Bretagna.

Le tendenze occidentale e meridionale comprendono una vasta zona della Germania Federale, inglobante circa i due terzi della popolazione e della popolazione attiva, che va da Colonia a Francoforte, a Stoccarda e a Monaco. E' in questa zona che si sono verificati i principali spostamenti elettorali. Quasi tutte le città industriali sono passate a direzione CDU-CSU. In quasi tutte queste città le perdite SPD sono state consistenti ma ancor più significativo, per il nostro criterio di analisi, è che negli stessi centri forte è stato il ridimensionamento dei liberali. Solo un semplicista può valutare questo fenomeno come un mutamento di umori di strati impiegatizi e di strati operai e non scorgere, invece, un più profondo spostamento di frazioni borghesi ed un più molecolare processo di nuovi schieramenti tra i gruppi capitalistici ed industriali.
Non basta dire che la Germania è più forte di prima e vuol fare sentire questa sua forza in Europa. Non basta riscontrare il declino socialdemocratico. Occorre chiedersi perché questo avviene, come questo avviene e dove tutto ciò conduce. Intanto noi cerchiamo di dare una prima risposta individuando nel corpo capitalistico tedesco quelle parti che più si sono rafforzate e tentiamo di prevedere in che direzione sono lanciate. Pensare che puntino all'Est è uno dei classici equivoci che si trascina da almeno un secolo. Il motore tedesco è proiettato anche all'Est ma né ieri né oggi lo è mai stato e lo è principalmente. Il suo massimo di giri lo ha verso l'Ovest. Tanto più lo avrà domani. Impossibilitata ad unificare l'Europa, la Germania tende comunque in questa direzione. Non a caso è lo Stato imperialista più liberoscambista e più europeista, essendo oggi l'europeismo la versione politica di un libero-scambismo che è la espressione commerciale di una forte base economica.
Il libero scambismo della Germania è non solo a livello europeo ma pure a livello mondiale. Esso testimonia la forza di una industria la quale, nella divisione internazionale del lavoro, si è riorganizzata come grande produttrice e come prima esportatrice mondiale di macchinari. L'europeismo è la ideologia e la politica corrispondente a questo sviluppo strutturale. L'imperialismo tedesco è ormai europeista perché il vecchio nazionalismo è diventato un abito troppo stretto. Cerca di costringere inglesi, francesi, italiani, riluttanti, ad accettare il Parlamento Europeo e forse, domani, anche la Costituzione Europea. In questa sua strategia appoggia i piccoli Stati della CEE e quelli che vogliono entrarvi. Inevitabilmente sono gli altri a far ricorso al vecchio nazionalismo per contrastare la espansione tedesca. E' da prevedere che ancor più vi facciano ricorso nel prossimo futuro contro il "modello Germania". L'ironia della storia è inesauribile.

("Lotta Comunista" n.74, ott. 1976)

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L'imperialismo americano ha un nuovo presidente

Jimmy Carter: nuovo Roosevelt?
Presidenza Kennedy come risultato della crisi della alleanza rooseveltiana
Ascesa e vittoria di Carter
La democrazia imperialistica degli Stati Uniti d 'America ha scelto il suo nuovo presidente: Jimmy Carter. Paradossalmente gli opportunisti nostrani si compiacciono: "L'America non va a destra" scrive Rinascita. "Il successo di Carter indica chiaramente che nell'elettorato americano ha prevalso una volontà di cambiamento" dichiara Enrico Berlinguer subito dopo essere venuto a conoscenza del risultato elettorale. Sulla stessa falsariga si muovono tutti gli intellettuali italiani cosiddetti di sinistra, i quali annebbiati dalla loro concezione ideologica del mondo ed incapaci di comprendere la natura degli avvenimenti politici giudicano le elezioni presidenziali americane in base ai loro sentimenti e alle loro simpatie. Dopo aver criticato per mesi la "mediocrità" della campagna elettorale e aver sostenuto che esiste una sostanziale identità tra il repubblicano Ford e il democratico Carter, di fronte alla vittoria di Carter, si lasciano affascinare dal personaggio ricercandovi a tutti costi la "novità", il "rinnovamento morale e sociale", la "volontà di cambiamento". La realtà è ben diversa e solo il marxismo ha gli strumenti scientifici per interpretarla. La campagna presidenziale negli Stati Uniti dura, tra primarie, convenzioni ed elezione finale, poco meno di un anno ed offre abbondante materiale di lotte politiche per poter verificare alcuni criteri di analisi e per individuare una serie di costanti Ciò facilita, indubbiamente, l'individuazione delle linee fondamentali di tendenza.
Per aiutare la comprensione di queste noi utilizziamo due concetti della scienza marxista: il frazionamento della borghesia e la localizzazione regionale degli interessi della borghesia stessa. La regionalizzazione delle frazioni borghesi od il frazionamento regionale ovviamente rappresentano solo una prima astrazione che deve essere completata ed integrata da quella che si può definire una verticalizzazione delle frazioni sino a giungere ad una completa e complessa configurazione dei grandi gruppi capitalistici.
Comunque, è proprio partendo dalla regionalizzazione che è più facile comprendere quali interessi sono in campo. Ciò faciliterà la comprensione di quella combinazione di interessi che ogni esecutivo presidenziale dovrà attuare.
Jimmy Carter: nuovo Roosevelt?
"Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti: cioè, la classe che è la potenza dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale". (Kart Marx, L'ideologia Tedesca). Da ciò si può dedurre che gli scontri di interesse all'interno della classe dominante appaiono esteriormente come scontri fra idee dominanti e che le elezioni non sono che un momento particolare di questi scontri. Dato che nelle forme democratiche dello Stato imperialista il suffragio universale è un metodo di selezione del personale politico che deve dirigere lo Stato borghese, la semplicità della propaganda elettorale (propaganda delle idee dominanti) diviene necessaria per dirigere il maggior numero di elettori. Per questo il mondo delle idee e della politica si semplifica e si polarizza nella contrapposizione fra il "partito del progresso" e il "partito della conservazione". Ma dietro questa polarizzazione, che solo la sociologia semplicistica e superficiale identifica con la realtà, esistono schieramenti di classe che è necessario individuare se si vuol comprendere la sostanza della lotta politica in generale e in particolare quella che attualmente si sta svolgendo negli Stati Uniti.
A questo punto è vitale richiamarsi all 'esperienza passata.
Un confronto storico fra i risultati delle recenti elezioni presidenziali e quelli di due momenti cruciali della storia degli Stati Uniti -- 1932 con la elezione di Franklin Delano Roosevelt e 1960 con la elezione di John Fitzgerald Kennedy--ci potrà fornire delle utili informazioni sugli schieramenti, di classe determinatisi negli ultimi 40 anni e sulle loro recenti modificazioni.

Nel 1932, Roosevelt, nel pieno della crisi internazionale del capitalismo, divenne presidente degli Stati Uniti con 472 voti elettorali contro i 59 ottenuti da Hoover. A parte alcuni Stati del New England (Maine, Vermont e Connecticut) e la Pennsylvania ed Delaware, ottenne la maggioranza in tutti gli Stati federati, totalizzando 22 milioni e 800.00 voti contro 15 milioni e 760.000. Negli 8 grandi Stati che possono essere considerati determinanti nelle decisioni politiche ed economiche degli USA, Roosevelt vinse in 7 -- California, Illinois, Michigan, New Jersey, Ohio, New York, Texas--con una media del 54% dei voti contro d 42% di Hoover. Negli Stati del Sud la sua vittoria fu schiacciante, ottenendo più dell'80% dei suffragi. Senza dubbio Roosevelt rappresentò l'unificazione della borghesia imperialistica statunitense come i risultati elettorali testimoniano. Tutte le frazioni borghesi sostanzialmente lo appoggiarono, da quella finanziario industriale del Nord-Est, a quella più specificamente industriale dei Grandi Laghi, da quella agraria del vecchio Sud e del Middle West, a quella in tumultuoso sviluppo dell'Ovest. Indipendentemente dalle forme che ha assunto con l'utilizzo delle organizzazioni sindacali e delle minoranze etniche, questo schieramento di classe ha permesso all'imperialismo USA in espansione di uscire dall'isolazionismo e di proiettarsi su tutte le aree geografiche del mondo acquistando un ruolo che Henry Kissinger definisce "globale".

Questa unità della classe dominante statunitense si é conservata nel suoi tratti fondamentali anche nel secondo dopoguerra dal 1945 al 1960. In seguito, sia per il declino dell'imperialismo USA che per gli spostamenti dei centri dello sviluppo economico al suo interno tale unità entra in crisi e si apre un nuovo periodo che possiamo datare dalla elezione alla Presidenza di John Kennedy. La vittoria di Carter anche se alcuni "politologi" la vogliono assimilare a quella di Roosevelt, è una cosa ben diversa in quanto si inserisce in un contesto internazionale che vede l'imperialismo USA un declino e non in espansione. Essa assume piuttosto caratteri simili alla vittoria Presidenziale di Kennedy.
Presidenza Kennedy come risultato della crisi della alleanza rooseveltiana
Con lo sviluppo dell'Ovest e degli Stati del Golfo del Messico, e con la modificazione dei rapporti relativi fra il Middle Atlantic (New York) e i Grandi Laghi (Chicago), si modifica l'equilibrio di classe espresso da Roosevelt e mantenuto da Einsenhover: si apre una lotta di frazione di classe per la definizione dei nuovi rapporti. I risultati elettorali che hanno portato alla Presidenza Kennedy sono da questo punto di vista significativi, Il bostoniano Kennedy vince le presidenziali con uno scarto dello 0,2% sul californiano Nixon, e con 303 voti elettorali contro 219. Tutti gli Stati dell'Ovest, che avevano votato in blocco per Roosevelt, votano --a parte il Nevada--per Nixon e indicano che la borghesia dell'Ovest acquistando nuova forza economica per i forti ritmi di sviluppo di questa regione, è in grado di acquistare una notevole forza politica. Il Sud, storicamente espresso a larga maggioranza dal partito democratico, si fraziona e Kennedy vi ottiene solo il 46% dei voti (ben lontano dall'80% di Roosevelt), contro il 46,9% di Nixon. E' questo il risultato nel Sud-Ovest del boom petrolifero del Texas, della Louisiana e dell'Oklahoma e nel Sud della industrializzazione della Georgia, dell'Alabama, del Mississipi e del Tennesse (iniziata da Roosevelt con la Tennesse Valley Authority) che trasforma la borghesia agraria sudista in borghesia industriale mettendo in crisi l'egemonia del partito democratico e trasformando il sistema politico meridionale da monopartitico in bipartitico, omogeneizzandolo con il sistema politico degli Stati Uniti. Sugli 8 grandi Stati Kennedy è sconfitto in due -- California e Ohio -- e il successo è reso possibile dalla vittoria nei tre grandi Stati del Middle Atlantic--New York New Jersey e Pennsylvania -- dell'Illinois, nei Grandi Laghi e nel Texas nel Sud. La nuova combinazione di forze esprime il ruolo crescente assunto dalla California e dal Texas e l'inizio del declino della egemonia economica-politica dei "vecchi" Stati industriali del Nord-Est. Se volessimo usare la terminologia dei sociologi dovremmo dire che il "nuovo" è espresso dal californiano Nixon e dal texano, scelto di Kennedy alla vice-presidenza, Johnson. Ambedue diverranno poi presidenti degli Stati Uniti. Ma il marxismo rifiuta questa terminologia sociologica e superficiale e colloca gli uomini in base agli interessi di classe che essi rappresentano. Altro elemento significativo delle elezioni del 1960 è la rottura della unità degli Stati industriali dei Grandi Laghi che si collocano su due fronti diversi: l'Illinois e il Michigan per Kennedy e l'Wisconsin, I'lndiana e l'Ohio per Nixon. E' lo sviluppo dell'Ovest e del Sud, che spostando il baricentro dello sviluppo economico crea tensioni nella regione "centrale" degli Stati Uniti nella misura in cui si trova nel punto di incontro della direttrice di sviluppo Nord-Sud con quella Est-Ovest.
La rottura della vecchia alleanza Rooseveltiana chiude un periodo della storia degli Stati Uniti e ne apre un altro caratterizzato da una acutizzazione della lotta politica che con l'uccisione di Kennedy a Dallas nel Texas e le dimissioni di Nixon dalla Presidenza per il caso Watergate raggiunge le sue forme più estreme. L'elezione di Carter si colloca in questo periodo.
Ascesa e vittoria di Carter
Fare derivare la vittoria di Jimmy Carter dalla elevata partecipazione alle urne non solo è semplicistico ma anche non veritiero. Questa tesi ha l'unico scopo di voler inculcare nelle masse degli oppressi una mentalità elettoralistica ed è ad uso e consumo dell'opportunismo che non rinuncia a falsificare i fatti pur di dimostrare la validità della sua politica parlamentaristica. Il 2 Novembre si sono presentati alle urne 79 milioni e 500.00 di cittadini statunitensi su 146 milioni aventi diritto al voto, cioè il 54,4%. Questa cifra è inferiore a quella di precedenti elezioni. Nelle Presidenziali del 1952--vittoria del repubblicano Eisenhower--ha partecipato alle elezioni d 62,6% dell'elettorato; nel 1960--elezione di Kennedy--il 64%; nel 1964--elezione di Johnson--il 62,8%. Carter, che per il segretario del P.C.I. rappresenta la volontà di cambiamento del popolo americano, ha ottenuto in assoluto 40 milioni e 263.000 voti, meno dei 45 milioni e 861.00 di Nixon nel 1972 e dei 43 milioni e 130.000 di Johnson nel 1964.
Il neo-eletto Presidente degli Stati Uniti sugli 8 grandi Stati ha vinto in 4 contro i 7 di Roosevelt e i 5 di Kennedy e di strettissima misura con il 49,8% dei voti (sul totale degli 8 Stati) contro il 49,5% di Ford.
A differenza di Kennedy e nonostante l'appoggio ottenuto dalle organizzazioni sindacali non ha avuto la maggioranza negli Stati altamente industrializzati dell'lllinois e del Michigan. La sua elezione è stata permessa dalla unità degli Stati del Sud (non bisogna dimenticare che il "terzo partito" tipico del Sud nel secondo dopoguerra, ha dato il suo appoggio, nella figura del governatore dell'Albama Wallace, a Carter sin dalle elezioni primarie) e dalla vittoria ottenuta nello Stato di New York (per il voto dei nutriti strati intellettuali--i "liberal"--in grado di portare circa 500.000 voti) e nello Stato della Pennsylvania.
Gli appelli che Carter si è subito affrettato a fare alla "unità della nazione" e le sue dichiarazioni sulla "continuità" della politica americana, sono un segno della debolezza della attuale coalizione rispetto a quella di Kennedy.
Alla mancata vittoria negli Stati dell'Ovest, vacanti anche nella coalizione espressa dalla amministrazione Kennedy, si somma una accentuazione del frazionamento dell'atteggiamento politico degli Stati dei Grandi Laghi. Il risultato é una combinazione nuova di forze squilibrata verso il Sud (ecco dove sta la novità), la quale, pur inserendosi nelle tendenze di fondo di sviluppo del capitalismo statunitense, non ne rappresenta però gli attuali reali rapporti di forza in termini di distribuzione di quote di capitale sociale. L'esclusione dell'Ovest, che già nelle primarie con Ronald Reagan nel partito repubblicano e Jerry Brown in quello democratico aveva dimostrato la sua consistente forza politica, e degli Stati più industrializzati dei Grandi Laghi (Michigan e lllinois) non può che essere una notevole debolezza della colazione Carteriana. La partita dunque, fra le frazioni dominanti dell'imperialismo statunitense, non solo non si è chiusa con la elezione di Carter e la sconfitta di Ford ma è ora più aperta che mai.

Data la estrema frammentazione, che ha fatto dire che il paese è spaccato a metà, a cui la lotta politica tra le frazioni ha condotto e che trova riscontro nel risultato elettorale, occorrerà una certa fase di assestamento affinché si delinei uno schieramento definito. Quello che è certo è che da un lato, lo scontro di interessi è forte e che, dall'altro, esso deve trovare una mediazione ed una sintesi pena l'apertura di una crisi politica acuta tipo quella che seguí le elezioni del 1960. L'ambiguità della formula carteriana si colloca, però, nella prospettiva della sintesi. I primi riscontri del resto, non tarderanno a venire specie nella politica internazionale. Se la nostra analisi è corretta non tarderanno a farsi sentire le prime tensioni interimperialistiche.

("Lotta Comunista" n.75, nov. 1976)

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Ultima modifica 11.09.2001