La linea generale del capitalismo italiano

Cervetto (luglio 1969)

 


Scritto nel luglio 1969
Pubblicato per la prima volta su Lotta Comunista, N°37-38-39
Trascritto per internet da Antonio Maggio (Primo Maggio), febbraio 2002


 

L'analisi marxista della società di classe in Italia richiede una specifica caratterizzazione dei movimenti politici operanti nel paese. Quando diciamo «specifica» intendiamo dire che non basta affermare che i partiti politici sono espressioni del sistema capitalistico. Occorre invece vedere in che modo lo sono e come lo esprimono. Se non si analizzano nel loro meccanismo i rapporti esistenti tra le forze sociali e i movimenti politici in Italia, non si individuano le cause dell'attuale crisi politica e non si capisce neppure perché i portavoce di gruppi come la FIAT e l'ENI affermino insistentemente che «i partiti non esprimono più la società reale». In sostanza i gruppi imperialisticamente più avanzati, dopo aver denunciato un «gap tecnologico», denunciano adesso un «gap politico». Esiste davvero questo «gap»? Si, dal punto di vista del sistema capitalistico esso esiste ed è una delle più vistose manifestazioni della crisi di un particolare rapporto tra lo sviluppo del capitalismo italiano e la sovrastruttura statale. E' la crisi di un tipo di organizzazione parlamentaristica sulla quale si modellano i partiti in Italia. Possiamo perciò dire che è in crisi il parlamentarismo ed è in crisi, di conseguenza, il tipo parlamentaristico di partito.

Come vedremo alcuni gruppi capitalistici hanno bisogno di un altro tipo di partito.

La crisi attuale riflette queste esigenze e per queste ragioni possiamo dire che è una crisi che può trovare soluzioni dentro il sistema.

Ma prima di affrontare questo problema è necessario soffermarci sulla teoria marxista del rapporto tra la struttura economica e la sovrastruttura politica. Per il marxismo la sovrastruttura è determinata dal modo di produzione. Al modo di produzione capitalistico corrisponde un determinato tipo di Stato, lo Stato capitalistico. A questa conclusione il marxismo è giunto non perché ha applicato una determinata idea al rapporto struttura-sovrastruttura, ma perché, applicando un determinato metodo scientifico, ha scoperto le leggi che regolano il rapporto stesso, ossia ha verificato la reiterabilità di determinati fenomeni sovrastrutturali in corrispondenza alla reiterabilità di determinati fenomeni strutturali. Però il rapporto struttura sovrastruttura non è meccanico ma dialettico, poiché riguarda due processi che, anche se sono interdipendenti, non sono identici bensì distinti.

Cosa significa ciò? Significa forse che la sovrastruttura è autonoma nel processo sociale della produzione del capitale? No, in nessun modo la sovrastruttura, in questo caso lo Stato, è autonoma nel processo sociale della produzione del capitale; anzi, ne è una delle condizioni indispensabili. Senza lo Stato, ad un certo stadio dello sviluppo capitalistico, non potrebbero sussistere le condizioni sociali della produzione del capitale. Il carattere dialettico del rapporto economia-Stato riguarda la specificità delle interdipendenze che lo compongono. In Italia il rapporto tra la struttura economica e la sovrastruttura statale si presenta attualmente con caratteristiche di squilibrio. Occorre analizzare queste caratteristiche per evitare l'errore di attribuire alla crisi dello Stato una natura che attualmente non ha. Occorre perciò individuare la vera natura dell'attuale crisi statale, anche perché da questa analisi ne deriva una determinata impostazione della strategia rivoluzionaria.

La prima caratteristica che riscontriamo è costituita dalla sfasatura tra il funzionamento dell'apparato statale e il movimento della struttura. Lo Stato non si è adeguato tempestivamente allo sviluppo dell'economia. Ciò spiega la crisi di adeguamento dei partiti parlamentari che, nelle loro funzioni, non corrispondono più alle esigenze dello sviluppo capitalistico. Questo non vuol dire che questi partiti, nelle loro funzioni controrivoluzionarie, non riescano a compiere tutto un altro insieme di ruoli necessari alla conservazione del sistema sociale capitalistico. Questo vuol dire solamente che questi partiti, essendo componente essenziale dell'apparato statale, non riescono più, come lo Stato, ad assolvere quelle funzioni necessarie alle tendenze di sviluppo del capitalismo negli ultimi cicli.

La seconda caratteristica è data dalle modifiche intervenute, a seguito dello sviluppo intercorso, nei rapporti tra le classi. A questi mutamenti non corrisponde un adeguamento della sovrastruttura o per meglio dire, la sovrastruttura ha finito col moltiplicare le contraddizioni del sistema senza contribuire minimamente ad una loro temporanea soluzione. Alcuni dati possono illustrare gli aspetti fondamentali del fenomeno.

Prendendo il periodo 1951-1967 troviamo i seguenti risultati:

1) gli investimenti fissi lordi sono aumentati al tasso medio annuo del 7,3%;
2) il reddito lordo è aumentato al tasso medio annuo del 5,4%;
3) è raddoppiato il capitale complessivo;
4) è quadruplicato il capitale industriale che si è rinnovato quasi completamente.

Quest'ultimo dato è estremamente importante perché dimostra che, nella struttura capitalistica italiana, il capitale industriale ha accresciuto enormemente il suo peso ed nettamente predominante. Tra le frazioni della classe capitalistica, quella industriale è diventata la frazione egemone. L'apparato statale deve adeguarsi a questo fatto. Il capitalismo italiano, capitalismo nettamente industriale, ha bisogno di uno Stato « industriale », cioè di un organismo sovrastrutturale capace di seguire i corsi, i tempi e le necessità dello sviluppo capitalistico industriale. Siccome lo sviluppo capitalistico industriale è estremamente contraddittorio e non lineare e vede profondi squilibri tra i settori industriali e, all'interno dei settori stessi, tra aziende e aziende, la sovrastruttura statale non dovrebbe limitarsi ad essere «industriale» ma dovrebbe avere il compito di assicurare il funzionamento del sistema mediando il più possibile gli squilibri. Lo Stato in Italia non solo non è in grado di assolvere questo compito ma, nel complesso, non è neppure in grado di assolvere i compiti generali della frazione industriale del capitalismo.

Se analizziamo un'altra serie di dati del periodo 1958-1967 possiamo vedere come l'accelerazione dello sviluppo industriale abbia accentuato la necessità per il capitalismo italiano di avere una sovrastruttura corrispondente. Fatta 100 la produzione industriale del 1958 (edilizia esclusa) abbiamo, nel 1967, l'indice 160 per la Germania, 156 per la Francia, 132 per il Regno Unito, 173 per gli Stati Uniti e 225 per l'Italia (che supera largamente l'indice 170 della CEE ed e superata solo dal 330 del Giappone, mentre l'URSS è a quota 220). L'incremento del capitale industriale italiano nel decennio è quindi fortissimo. Vediamo come si è articolato in quattro settori: industria siderurgica, automobilistica, chimica e cotoniera. Siderurgia: nel 1958 l'Italia produceva 6,4 milioni di tonnellate di acciaio grezzo, nel 1967 15,9 (aumento di 9,4 milioni di tonnellate); la Germania passa da 26,3 a 36,7(+ 10,4), la Francia da 14,6 a 19,7 (+ 5,1), la Gran Bretagna da 19,9 a 24,3 (+ 4,4), gli Stati Uniti da 79,2 a 118 (+ 38,8), l'URSS da 55 a 102,2 (+ 47,2 milioni di tonnellate). Industria automobilistica: nel 1958 l'Italia produceva 369.000 vetture private e commerciali, nel 1967 t 1.439.000 (aumento di 1.106.000). Contemporaneamente la Germania passava da 1.307.000 a 2.862.000 (+1.555.000), la Francia da 969.000 a 1.777.000 (+ 808.000), la Gran Bretagna da 1.052.000 a 1.552 000 (+ 500.000), gli Stati Uniti da 4.247.000 a 7.407.000 (+ 3.160.000), l'URSS da 125.000 a 251.000 (+ 126.000) e il Giappone da 51.000 a 1.376.000 (+1.325.000).

Industria chimica: nel 1958 l'Italia produceva 2.032.000 tonnellate di acido solforico, nel 1967 ne produceva 3.504.000, mentre la Germania passava da 2.917.000 a 3.778.000 tonnellate, la Francia da 1.824.000 a 3.227.000, la Gran Bretagna da 2.278.000 a 3.233.000, l'URSS da 4.800.000 a 9.732.000 e gli Stati Uniti da 14.472.00 a 25.596.000 tonnellate.

Mentre i settori siderurgico, automobilistico e chimico vedono un forte incremento nella produzione italiana, il quarto settore che prendiamo in esame denota un debole incremento e, rapportato con gli altri, sostanzialmente una crisi. C'è da notare però che il fenomeno è generale; anzi mentre Germania e Francia decrescono, l'Italia riesce a contenere la caduta e ad aumentare la produzione. Il capitalismo industriale cotoniero italiano può ancora utilizzare nel settore, a differenza di quello tedesco e francese, una forza-lavoro a basso prezzo e perciò riesce a contenere maggiormente la concorrenza sferrata dai giovani capitalismi arabi ed asiatici ad esempio. Non è una situazione che possa durare a lungo; infatti dal 1966 al 1967 si riscontra una caduta nella produzione italiana. Comunque la situazione stessa dimostra come l'industria cotoniera è andata perdendo progressivamente quel peso specifico che per molto tempo ha avuto nella frazione industriale della classe capitalistica italiana. Ciò ha determinato, oltre ad una drastica riduzione della classe operaia nel settore e ad una conseguente modifica della composizione settoriale della classe operaia industriale in Italia, una forte diminuzione del peso politico dei capitalisti cotonieri, della stampa a essi legata, delle frazioni politiche da loro influenzate.

Nel 1958 l'Italia produceva 199.000 tonnellate di filati di cotone e 157 mila tonnellate di tessuti di cotone, nel 1967 ne produceva rispettivamente 248.000 e 179.000 tonnellate.

Nello stesso periodo la Germania passava da 393.000 tonnellate (filati) e 311.000 tonnellate (tessuti) a, rispettivamente, 331.000 e 277.000 tonnellate, la Francia da 308.000 e 233.000 a 268.000 e 203.000 tonnellate.

Da questi dati che abbiamo ricavato dalle fonti ufficiali della CEE, risulta chiaramente che i settori determinanti nella frazione industriale del capitalismo italiano sono appunto quelli che hanno accresciuto più dinamicamente il loro già consistente peso. La linea politica che esprimono è corrispondente al loro peso economico, alla parte di capitale sociale che rappresentano e quindi ai loro interessi, alle tendenze di sviluppo che li spingono, al grado di integrazione nel mercato mondiale che hanno raggiunto.

Questi settori sono altamente concentrati e si trovano ad essere rappresentati da gruppi come la FIAT l'IRI, la Montedison cui dobbiamo aggiungere gruppi come l'ENI, la Pirelli, oltre ad una certa parte dell'industria meccanica. Per la loro attuale collocazione e per le loro attuali tendenze di sviluppo, questi gruppi rappresentano quella linea politica che abbiamo definito riformistico imperialistica, riformistica in campo interno, imperialistica nell'espansione commerciale in campo internazionale. Non c'è nessun dubbio che questi gruppi rappresentino la parte più concentrata e più importante del capitalismo italiano.

Difatti hanno imposto la linea riformistica del centro-sinistra e la sostengono, almeno finché non subiscono forti crisi, contro i sussulti degli strati capitalistici più arretrati e meno concentrati. Essi rappresentano la «linea generale» dell'imperialismo italiano, la linea contro cui il proletariato deve combattere le sue battaglie più avanzate senza farsi distogliere da terreni di lotta più arretrati.

Ovviamente, all'interno dello stesso schieramento capitalistico che abbiamo indicato, la linea riformistica si articola in varie gradazioni e, in certe punte come la FIAT o l'ENI, giunge ad appoggiare l'unificazione sindacale e la collaborazione governativa del PCI come prevedibile garanzia del contenimento delle spinte più acute della lotta operaia. Anche qui non ci sono dubbi che questa impostazione riformistica è destinata, nella misura che i settori che l'avanzano si rafforzeranno, ad essere fatta propria da tutto lo schieramento industriale riformistico imperialistico. Ma come mai se nella struttura le esigenze che sorgono sono quelle di una linea riformistico imperialistica, queste non trovano subito riscontro nella sovrastruttura? Qui ritorniamo al discorso sul rapporto dialettico e non meccanico tra la struttura e la sovrastruttura, tra l'economia e la politica, tra l'industriale lo Stato. Solo dei volgari piccolo borghesi antimonopolisti, siano essi parlamentaristi oppure spontaneisti, hanno potuto pensare e propagandare, ad esempio, che lo Stato fa la politica della FIAT, che la FIAT, ad esempio, è il padrone e lo Stato l'esecutore ecc. Una simile volgarizzazione non ha niente a che fare col marxismo per il quale lo Stato è l'apparato di una classe dominante e non di un singolo padrone. Certamente la FIAT è un grande gruppo capitalistico, altamente concentrato, che per la sua stessa forza economica ha un peso considerevole sullo Stato capitalistico; ma la FIAT non è tutto il capitalismo italiano. Lo Stato, in quanto organo della dittatura capitalistica rappresenta gli interessi di tutti i gruppi capitalistici, di tutte le frazioni della classe capitalistica. Lo Stato deve quindi da un lato dominare la classe sfruttata e dall'altro unificare la classe dominante. Non esiste nessun meccanismo che assicuri che queste due fondamentali funzioni lo Stato le svolga nel migliore dei modi per il sistema capitalistico. Se esistesse questo meccanismo, il capitalismo non avrebbe bisogno dello Stato.

Invece dominio di classe ed unificazione di classe rappresentano un processo permanente di lotta e di contraddizione all'interno della classe capitalistica. Le sue frazioni intervengono nello Stato per adeguare il dominio e l'unificazione di classe dal punto di vista dei loro particolari interessi. Lo Stato viene quindi ad essere l'apparato in cui tale lotta e tale contraddizione si manifesta in vari gradi. Strumenti di lotta sono tutti i partiti politici, ad esclusione del partito rivoluzionario della classe operaia che non si pone l'obiettivo di conquistare lo Stato ma quello di distruggerlo per poter instaurare la dittatura del proletariato. Quando alcune frazioni del capitalismo in Italia sostengono che i partiti sono in crisi perchè non corrispondono più alle esigenze della società, non fanno altro che rilevare il fatto che gli attuali partiti non sono più adeguati a svolgere il ruolo di mediatori, tramite il loro personale specializzato, dalla lotta di interessi settoriali dentro lo Stato. La crisi dei partiti non risiede però in questo, poiché essi possono essere riformati attraverso la lotta di correnti ad esempio.

La crisi sta invece nel fatto che ogni frazione capitalista vorrebbe fare la riforma dei partiti e quindi dello Stato, dal punto di vista dei suoi interessi settoriali o ponendo questi interessi al centro delle funzioni statali di dominio di classe e di unificazione capitalistica. Ciò tuttavia non sarebbe ancora di per sè motivo di crisi. Lo diventa però quando l'interesse di una frazione è tanto prevalente da provocare la rottura del precedente equilibrio tra tutte le frazioni e da determinare quindi una crisi nello Stato, ma non ancora così predominante da modellare l'apparato statale alle sue esigenze.

Quando noi diciamo che il raggruppamento FIAT-IRI-ENI-Pirelli-Montedison rappresenta la linea generale dell'imperialismo italiano, vogliamo dire che la tendenza dell'apparato statale e all'adeguamento a questa linea e non vogliamo certo dire che l'adeguamento sia un fatto compiuto. Un automatico fatto amministrativo da registrare. Se tutto fosse così semplice non vi sarebbe bisogno di una analisi marxista della contingenza politica. Basterebbe un'analisi dello sviluppo economico. D'altra parte, senza l'analisi marxista della contingenza politica, non si può individuare in che modo e in che misura la lotta della classe operaia incide nei processi di dominio e di unificazione della classe dominante. Una determinata situazione politica è appunto prodotta da questi processi. Per comprendere la complessità di tali processi nell'attuale situazione occorre vedere le caratteristiche dello sviluppo capitalistico nella fase imperialistica. Abbiamo già visto che in Italia è raddoppiato il capitale complessivo e quadruplicato il capitale industriale nel periodo 1951-1967. Ciò significa che la produzione annua di plusvalore è enormemente aumentata. Non vi sono dati di sintesi sulla massa di plusvalore che il sistema capitalistico italiano estrae annualmente, così come non li abbiamo su: 1) la ripartizione effettuata nel periodo 1951-1967 tra le varie frazioni della grande, media e piccola borghesia; 2) la ripartizione effettuata annualmente; 3) la parte di plusvalore che è stata prelevata dallo Stato.

Possiamo desumerla da un'analisi particolareggiata; dovremmo però illustrarne il procedimento e in questa sede non è il caso dato che ciò complicherebbe ulteriormente la nostra esposizione. Ci interessa per ora dare delle indicazioni generali, cioè indicare che: 1) solo una parte della massa di plusvalore viene accumulata; 2) una grande parte della massa di plusvalore viene consumata da strati parassitari; 3) più aumenta la massa del plusvalore, più aumenta il suo consumo da parte degli strati parassitari.

Il fatto che il capitale industriale sia quadruplicato ci indica chiaramente di quanto si sia ampliata la fonte di estrazione di plusvalore.

Sul piano dei rapporti sociali e dei riflessi sulla sovrastruttura, questo sviluppo ha provocato tre fenomeni estremamente contraddittori e la cui azione combinata determina la attuale situazione sociale e politica in Italia: è aumentato enormemente il capitalismo industriale ma, contemporaneamente, è aumentata la classe operaia industriale ed il consumo di plusvalore degli strati parassitari incrementati dalla trasformazione della piccola borghesia da produttrice a parassitaria. L'aumento della massa del plusvalore ha significato non solo aumento della massa del profitto ma anche aumento della massa della rendita, dell'interesse, delle imposte. La sovrastruttura statale si trova ad essere investita dai tre fenomeni concomitanti deve contenere lo sviluppo della classe operaia industriale e della sua lotta e quindi scegliere una tattica di contenimento e di repressione che sia adeguata e alle tendenze dello sviluppo industriale e alle tendenze di sviluppo del parassitismo.

Inoltre deve assolvere queste funzioni in un processo di sviluppo che vede circa l/4 dell'economia italiana proiettata nell'interscambio mondiale; che vede quindi il capitalismo italiano giungere ad un alto grado di internazionalizzazione e ad una forte maturità imperialistica. Lo Stato in Italia viene a trovarsi perciò nell'immediata incapacità di corrispondere alle esigenze delle frazioni più dinamiche dell'imperialismo italiano. Il tentativo di unificare tutti gli interessi di tutte le frazioni della grande, media e piccola borghesia, lo compie su di un piatto più arretrato corrispondente ad una fase di sviluppo già superata. Nella stessa incapacità vengono a trovarsi i partiti che per la loro funzione parlamentaristica sono costretti a sostenere gli interessi di tutte le frazioni capitalistiche, da quelle industriali a quelle parassitarie. I due grossi partiti italiani, DC e PCI, riflettono chiaramente questa situazione e non sono niente altro che federazioni (piccoli parlamenti nel sistema parlamentare) di gruppi che esprimono gli interessi delle frazioni della borghesia. Lo stesso PCI che programmaticamente dovrebbe rappresentare il capitalismo di Stato, non può farlo coerentemente sino in fondo perché una parte consistente del suo elettorato è costituita dalla piccola borghesia. Se lo facesse perderebbe questi strati che si orienterebbero verso altre formazioni politiche concorrenti, probabilmente la DC.

Lo stesso capiterebbe a questo partito, magari a favore del PCI. Paradossalmente ciò che impedisce a questi partiti di portare avanti conseguentemente la linea industriale dell'imperialismo italiano (e quindi la politica di riforme fondiarie, scolastiche, statali ecc. a questa corrispondenti) non è la presenza proletaria nel loro seno ma la presenza piccolo-borghese. Una politica riformistica corrispondente agli interessi industriali dell'imperialismo italiano non provocherebbe di certo, nell'attuale fase della lotta di classe, una rottura col proletariato, anzi rafforzerebbe e allargherebbe gli strati di aristocrazia operaia. Una politica che permettesse al capitale industriale di ridurre i 3000 miliardi di rendita fondiaria, ad esempio, fornirebbe ulteriori mezzi per l'espansione imperialistica sul mercato mondiale, aumenterebbe di conseguenza il sovrapprofitto realizzato nell'espansione produttiva e commerciale e lo sviluppo oggettivo dell'aristocrazia operaia.

In fondo è questa la politica che vuole il capitalismo di Stato, ma il PCI non può farla perché oltre che partito di capitalismo statale è partito di piccola borghesia. Di fronte a queste contraddizioni dei partiti, i sindacati cercano di riorganizzarsi con l'appoggio esplicito del capitale industriale, privato e statale.

I sindacati sono la sola forza che attualmente si può meglio adeguare alle tendenze di sviluppo del capitalismo industriale, dell'imperialismo.

Nella misura in cui si rendono autonomi dai partiti parlamentari, non sono costretti a difendere gli interessi della piccola borghesia parassitaria. Si possono quindi concentrare e unificare; soprattutto possono sottrarsi alla crisi dei partiti parlamentari.

Certamente i sindacati attraversano una profonda crisi, ma non è una crisi derivata dalla loro natura, come credono gli spontaneisti, dalla politica che hanno seguito nel ventennio di profondi movimenti strutturali. I sindacati inseriti in blocchi interclassisti finivano col portare nella contrattazione della forza lavoro le esigenze e gli interessi di questi blocchi. Il risultato è stato che da un lato non si sono adeguati allo sviluppo del capitalismo industriale, dall'altro sono stati sopravanzati dalle rivendicazioni economiche degli operai. Sindacati simili non servono al capitale industriale il quale, nella produzione, deve contrattare il prezzo della forza-lavoro e non il rapporto con gli interessi della piccola borghesia che tratterà in altre sedi. Una situazione di questo tipo finirebbe inevitabilmente col provocare la formazione di altri sindacati a base soprattutto aziendale e localistica, cioè ad un livello inferiore a quello necessario al grande capitale concentrato. Di fronte a questa crisi i sindacati sono stati i primi ad operare un adeguamento sovrastrutturale mentre ancora partiti, Parlamento e Stato si dibattono nelle loro contraddizioni. I sindacati indicano ormai la futura tendenza di sviluppo della sovrastruttura, la soluzione del rapporto struttura sovrastruttura del sistema capitalistico in Italia.

Il loro attuale processo di riorganizzazione dimostra l'affermazione della linea riformistico imperialistica. Un blocco di grandi gruppi industriali e un forte sindacato unificato ed accentrato possono assicurare la prevalenza della linea generale dell'imperialismo italiano e garantire una certa stabilità del sistema di fronte all'inevitabile progredire della crisi sovrastrutturale che investirà il parlamentarismo e lo Stato. La crisi sovrastrutturale o gollista che ha investito la Francia, ha dimostrato che l'alleanza grande capitale industriale e sindacati è stata in grado di salvare il sistema più di tutti i partiti e gli eroi dello Stato borghese.

 

 


Ultima modifica 28.2.2002