Contro il capitale di Stato a base di massa piccolo borghese

Arrigo Cervetto (aprile 1974)

 


Scritto nell’aprile 1974
Pubblicato per la prima volta su Lotta Comunista, N°50
Trascritto per internet da Antonio Maggio (Primo Maggio), marzo 2002

 

Lo sviluppo acuisce le contraddizioni dell'imperialismo
Lo sviluppo contraddittorio del capitalismo in Italia
Lotta fra i gruppi imperialistici italiani
Il capitalismo di Stato si afferma
L'oggettiva posizione dei partiti politici
In difesa del proletariato
A chi serve il referendum
La posizione marxista sulla famiglia
Contro il capitale di Stato il nostro "no"

 

L'attuale congiuntura politica in Italia è caratterizzata dal tentativo del capitalismo di Stato di coinvolgere nella propria linea di politica economica ampi strati intermedi utilizzando la manovra del referendum per l'abrogazione della legge sul divorzio.

Questa fase è stata preceduta da una accanita lotta sulle linee di politica economica che rifletteva le divergenze tattiche dei gruppi del grande capitale italiano.

Fra le frazioni borghesi in Italia, infatti, è ormai affermata l'egemonia del grande capitale industriale interessato ad adattare lo Stato alle nuove esigenze di espansione dell'imperialismo; su questo compito riformistico, ma tutt'altro che progressista, i fondamentali gruppi capitalistici hanno avuto ed hanno una sostanziale unità strategica; le loro divergenze tattiche, talora visibilissime, sono state determinate da fattori esterni più che interni, come ha dimostrato in modo lampante la crisi energetica.

 

LO SVILUPPO ACUISCE LE CONTRADDIZIONI DELL'IMPERIALISMO
Lo sviluppo capitalistico nel mondo, e le contraddizioni ad esso connesse, influisce quindi sulla scena italiana determinando lo scontro fra i gruppi del grande capitale.

La tendenza attuale è data da un forte sviluppo del capitalismo mondiale a livello sia intensivo che, soprattutto, estensivo, uno sviluppo cioè sia delle metropoli che delle aree di giovane capitalismo. Questo sviluppo del capitalismo mondiale, confermato per il 1973 ed il primo bimestre del 1974, permette alle metropoli un certo tipo di crescita imperialistica di cui beneficia anche l'Italia.

Ma è proprio lo sviluppo economico mondiale a determinare un'accanita lotta fra i gruppi imperialistici e questo provoca le differenziazioni tattiche e i loro riflessi politici.

Lo scontro politico sempre più aspro negli USA (Watergate), in Inghilterra (caduta di Heath), in Francia (lotta per la successione a Pompidou) lo conferma. Il dibattito su energia, investimenti, consumi è divenuto praticamente comune a tutte le metropoli imperialiste.

Per l'Europa il ciclo mondiale si ripercuote in modo differenziato; l'Italia e l'Inghilterra presentano le maggiori difficoltà, la Francia è in posizione intermedia, la Germania, invece, dal punto di vista economico sfrutta appieno questo ciclo espansivo accumulando enormi attivi nella bilancia dei pagamenti.

 

LO SVILUPPO CONTRADDITTORIO DEL CAPITALISMO IN ITALIA
Nonostante ciò lo sviluppo capitalistico italiano è stato notevolissimo.

Il PNL è cresciuto del 6,5% in termini reali, mentre la produzione industriale è aumentata dell'8,5%; gli investimenti sono cresciuti del 22,6% in volume (attrezzature) registrando così il più alto aumento degli ultimi 20 anni. Al contrario, l'occupazione non è cresciuta in modo consistente e i consumi privati sono aumentati meno del ritmo di incremento del PNL. E' cresciuto quindi lo sfruttamento del proletariato.

E' quest'aumento dello sfruttamento operaio, accompagnato da un costante peggioramento delle condizioni di vita, che permette l'altissimo ritmo di investimenti registratosi. Questa tendenza, anche per l'Italia, si va accentuando nel primo bimestre del 1974. Tuttavia l'imperialismo italiano incontra notevoli difficoltà nell'inserimento nei mercati esteri. Un aumento dei prezzi del 20% all'anno (mentre in Germania l'aumento si mantiene sul 7-8%), la svalutazione di fatto della lira, il peggioramento dei termini di scambio, costringono il capitalismo Italiano a trasferire all'estero, come contropartita ai prestiti che è costretto a chiedere, una parte dei profitti che può essere stimata intorno al 2% del reddito nazionale.

 

LOTTA FRA I GRUPPI IMPERIALISTICI ITALIANI
Questo andamento strutturale sul quale pesano i fattori internazionali citati si riflette sulle posizioni politiche dei gruppi imperialistici italiani generando, anche in Italia, un'accanita lotta sui modi per raggiungere una competitività internazionale.

Lo dimostra lo scontro politico di questo ultimo periodo, quando da una parte si sosteneva la necessità di ricollegarsi al marco rientrando nel serpente monetario, dall'altra si pretendeva di diminuire le importazioni di alcuni prodotti quali petrolio e carne.

Queste varie ipotesi comportano un uso differente dello Stato e su questo si scontrano le due principali posizioni espresse rispettivamente dagli interessi del grande capitale privato e del capitale statale.

L'una tesa ad aumentare le esportazioni ed i consumi sociali, sostenuta dai gruppi industriali privati e quindi da Agnelli, l'altra, quella prevalente, che partendo dalla constatazione della degradazione dell'imperialismo italiano esige forti investimenti nei settori di punta energetico-chimici. Questa linea, espressa dalle posizioni di Cefis, poiché richiede immobilizzi di capitale molto alti ed a lunga scadenza, è appoggiata e può essere portata avanti solo dal capitalismo di Stato.

Questi maggiori investimenti però possono essere realizzati solo utilizzando prevalentemente a questo scopo il plusvalore prodotto in più dalla classe operaia attraverso il maggiore sfruttamento cui è sottoposta. Ma perché ciò avvenga è necessario che l'aumento della fetta di plusvalore consumato dagli strati parassitari sia costantemente inferiore all'aumento della massa del plusvalore.

La società capitalistica italiana, in sostanza, si trova nella condizione contraddittoria individuata scientificamente da Marx: da un lato, gli strati intermedi (mittelklassen) alimentandosi direttamente sul reddito "in proporzione sempre maggiore" determinano uno squilibrio nel processo di riproduzione del capitale, dall'altro sono necessari al sistema perché "accrescono la sicurezza sociale e il potere dei diecimila che stanno in alto".

Da qui nasce la necessità i del controllo politico sugli strati intermedi e soprattutto sulla classe operaia.

La campagna per il referendum abrogativo della legge sul divorzio abbinata alla propaganda ideologica su "legge e ordine", a cui tutti si inchinano, permette al grande capitale, manovrando su vecchie ideologie quali quelle dell'unità della famiglia e della sicurezza dei valori morali, di ribadire e accrescere questo controllo politico.


IL CAPITALISMO DI STATO SI AFFERMA

Occorre vedere ora quali gruppi capitalistici dirigano questo processo e di quali posizioni di preminenza economica sono espressione le forze politiche che manovrano in questa battaglia.

Dal 1951 al 1971 la struttura produttiva italiana è profondamente mutata. Innanzitutto il settore industriale è divenuto il settore prevalente come si può desumere confrontando il peso percentuale dei vari settori riferito al prodotto lordo privato. Difatti abbiamo:

tabella

Ma ancora più consistenti sono state le modificazioni all'interno dei settori industriali. Difatti, posto uguale a 100 tutta l'industria manifatturiera, abbiamo i seguenti pesi percentuali:

tabella

Se ne desume immediatamente quanto falsa è la tesi che pone la motorizzazione privata al centro dello sviluppo industriale italiano, mentre in realtà l'unico Settore in accentuato sviluppo, vero settore trainante tanto che in 20 anni ha più che raddoppiato il suo peso, è quello chimico e petrolchimico.

Ecco spiegata l'improvvisa (solo per gli ideologi dei nuovi modelli di sviluppo) importanza assunta dalla Montedison, e quindi da Cefis, che da questo sviluppo chimico ha tratto i maggiori frutti.

Difatti il processo di concentrazione e penetrazione del capitalismo di Stato nei settori trainanti è stato ancora più veloce; a dimostrarlo basta l'esame del rapporto reciproco fra gruppi pubblici e privati sul totale degli investimenti industriali. Ancora nel 1961 gli investimenti privati nell'industria erano 1'81% del totale, nel 1972 ne rappresentavano invece ormai solo la metà. Considerando, poi, solo i settori di punta dell'economia italiana, gli investimenti privati potevano essere calcolati per il 20%.

Il grande capitale industriale diventa così per 1'80% capitale statale.

 

L'OGGETTIVA POSIZIONE DEI PARTITI POLITICI
Vediamo ora come le forze politiche hanno corrisposto a questi processi. Possiamo affermare che oggi la DC si presenta prevalentemente come il partito che esprime gli interessi del capitalismo di Stato.

Nella DC la lotta fra le frazioni rappresentanti il capitale di Stato e quello privato si apre già negli anni '50 e vede impegnato Fanfani a fianco di Mattei contro De Gasperi e la Confindustria. Questa lotta va avanti negli anni '60 con il gruppo rappresentante il capitalismo di Stato impegnato nello scontro per la nazionalizzazione dell'energia elettrica. Infine, con il passaggio della Montedison sotto il controllo dell'IRI e dell'ENI si conclude un ventennio di lotte politiche che ha visto rafforzarsi ed affermarsi nella DC, a fianco delle correnti che esprimono gli interessi di tutte le frazioni borghesi, i gruppi politici che si battono in difesa degli interessi del capitale di Stato. In questo processo che vede affermarsi gli interessi del capitalismo di Stato, il PCI ha svolto e svolge un ruolo subordinato.

Il "compromesso storico", obbligato per la funzione subordinata del PCI, è il tentativo di rilanciare la strategia togliattiana di alleanza con la DC prevalsa a Salerno nel 1944 nell'odierna situazione politica che vede un quadro internazionale favorevole, non più determinato, cioè, dalla contrapposizione USA-URSS che negli anni '50 aveva causato la rottura. Questo tentativo, che esprime il ruolo socialimperialistico del PCI, è determinato dal peso che in questo partito hanno i ceti medi. Il PCI è un partito interclassista e come tale la sua linea politica viene determinata dal comportamento della piccola borghesia e quindi da quello che i grandi gruppi imperialistici vogliono fare degli strati intermedi.

Da qui deriva la posizione secondaria del PCI nella strategia del grande capitale oggi in Italia ed anche il necessario allineamento del PCI sulla linea di "legge e ordine" portata avanti da Fanfani.

L'unità di questo partito può essere mantenuta solo in mancanza di generalizzazione delle rivendicazioni operaie che si rivolgano necessariamente anche contro la piccola borghesia, l'unità può essere trovata solo sulle spalle degli operai.

Ciò spiega anche il controllo che questo partito tende a esercitare sulle rivendicazioni operaie ed, in parte, il fallimento di quella tendenza tradeunionista, emersa nel 1969, che doveva portare sotto la spinta congiunta delle forze sindacali e del grande capitale alla riforma dello Stato a danno delle rendite e dei settori piccolo, medio e grande borghese ad esse interessati.

 

IN DIFESA DEL PROLETARIATO
Il ridimensionamento, quindi, del peso degli strati intermedi, che doveva fornire capitale addizionale all'investimento e ad accelerare il ritmo di accumulazione, non c'è stato se non in modo relativo. Nel senso cioè che gli strati intermedi, rimasti ben solidi nelle loro posizioni, non hanno goduto e non godono del plusvalore addizionale prodotto dall'accresciuto sfruttamento operaio. Si è realizzato così una sorta di compromesso fra grande capitale e piccola borghesia a danno del proletariato.

La linea portata avanti dal grande capitale nei confronti degli strati intermedi è dunque quella dell'alleanza e del controllo.

Il capitalismo di Stato soprattutto poggia su una base di massa piccolo borghese e tende a utilizzarla come elemento di manovra.

La tendenza tradeunionista battuta dal peso degli strati intermedi all'interno dei partiti politici e del sindacato e dalla maggiore forza del capitalismo di Stato è abbandonata con il compromesso raggiunto dal grande capitale privato sulla base della spartizione dei 9.000 miliardi del "Piano di Emergenza". La lotta fra le frazioni del capitale si sposta così sullo scontro per accaparrarsi le maggiori commesse e quindi più soldi sancendo la vittoria tattica del capitale di Stato. Le stesse forze sindacali si collocano in questa lotta nel tentativo di acquisire posizioni di prestigio a fianco di alcuni gruppi industriali mentre continuano ad agitare ancora i temi della crisi e del necessario comune sacrificio per favorire la ripresa economica.

Nostro compito è riaffermare che non può essere il proletariato a pagare sempre e da solo.

E' necessario riprendere le rivendicazioni salariali in difesa delle condizioni di vita del proletariato.

Questa linea può essere portata avanti solo dalla organizzazione autonoma della classe operaia, può essere portata avanti solo dal Partito Leninista.

 

A CHI SERVE IL REFERENDUM
In questo contesto il referendum si colloca come un'operazione politica di tipo moderno che utilizza vecchie ideologie.

Si tratta in pratica di una manovra a carattere politico e ideologico nel contempo che ha per risultato l'adesione degli strati intermedi al sistema capitalistico statale.

Il problema della famiglia viene inserito cioè in una più ampia richiesta di legge e di ordine e quindi di stabilizzazione e conservazione che è particolarmente sentita dagli strati intermedi.

Il fatto che si ricorra al tema della famiglia per avere il risultato del rafforzamento del capitalismo di Stato su una base di massa e quindi un risultato che con la famiglia non ha nulla a che spartire, si spiega con la necessità di manipolare le masse sull'unico terreno possibile, quello ideologico cioè, non potendole muovere su quello reale, quello cioè della lotta per la spartizione di miliardi.

In questa operazione, che vede alla testa la frazione Fanfani-Cefis, sono coinvolti tutti i partiti parlamentari.

 

LA POSIZIONE MARXISTA SULLA FAMIGLIA
Lo scontro politico oggi ha quindi solo ideologicamente per tema la famiglia, mentre avviene sulla base di scelte di politica economica.

Questo implicherebbe già il rifiuto del referendum, il nostro NO al capitalismo di Stato con base di massa piccolo borghese.

Tuttavia dobbiamo sgombrare il campo da ogni equivoco.

La questione della famiglia non può essere vista, per il marxismo, in modo autonomo e separato dallo Stato e dalle forme storicamente determinate che questi assumono.

L'attuale famiglia quindi è necessariamente borghese ed è talmente collegata allo Stato da avere una morale e soprattutto un diritto statuale che la regolano.

Per il comunismo quindi, in primo luogo, non si pone il problema della trasformazione riformistica della famiglia considerata come istituto a parte e quindi staccata dai rapporti di produzione predominanti. Si pone invece il problema dell'abolizione della famiglia borghese così come dello Stato borghese. Per il comunismo si pone il problema dell'abolizione dell'istituto familiare borghese che ha per scopo la riproduzione della forza-lavoro.

Contro tutte le ideologie, favorevoli o contrarie al divorzio, riaffermiamo con Engels che "col passaggio dei mezzi di produzione in proprietà collettiva, la singola famiglia cessa di costituire l'unità economica della società. L'economia domestica privata si trasforma in industria sociale. La tutela e l'educazione dei bambini diventa una funzione pubblica . . .".

Perciò non si tratta di essere favorevoli o contrari al divorzio considerato come questione a lato del complesso dei rapporti di produzione, non è una questione di più o meno alta civiltà, ma, caso mai, di stabilire se questo sia strategicamente utile al proletariato nella sua lotta contro il capitale. Noi escludiamo che l'attuale istituto familiare in Italia costituisca un freno allo sviluppo delle forze produttive, essendo la crisi della famiglia un riflesso della crisi del capitale piuttosto che un residuo feudale. Escluso quindi che la riforma del diritto familiare si ponga nell'attuale fase in Italia come una questione strategica per il proletariato, rimane tuttavia la battaglia, inquadrata nella tattica di difesa degli interessi immediati degli operai, per migliorare le condizioni di vita della madre lavoratrice.

Su questa battaglia siamo i soli a impegnarci a riprova che, fuori dalle ideologie, solo un'autentica concezione del comunismo può permettere la difesa degli interessi reali più semplici ed immediati della classe operaia. Rifiutiamo quindi ogni tesi divorzista che partendo da basi ideologiche parli di generiche libertà da conquistare valide per ogni classe sociale, riaffermando che in questa società borghese possono esservi solo libertà borghesi mentre la questione di fondo permane nell'oppressione sistematica di una classe sull'altra, del capitale sul proletariato.

 

CONTRO IL CAPITALE DI STATO IL NOSTRO "NO"
Le attuali tesi divorziste non hanno quindi nulla da spartire con gli interessi immediati e storici del proletariato; altra cosa è, come abbiamo mostrato, la campagna condotta dalla DC in prima persona per l'abrogazione della legge sul divorzio.

Contro questa campagna e le sue motivazioni di fondo votiamo NO.

Il nostro voto è solo il primo passo nella lotta contro il tentativo del grande capitale di creare una base di massa piccolo borghese alla propria linea imperialista, peggiorando ancor più, nel contempo, le condizioni di vita del proletariato attraverso l'aumento dei ritmi di produzione e quindi dello sfruttamento.

A questa lotta ogni comunista deve partecipare conscio che solo con l'organizzazione autonoma del proletariato, solo con la generalizzazione della lotta per gli aumenti salariali possono essere difesi gli interessi immediati e storici della classe operaia.

 

 


Ultima modifica 31.3.2002