Bipartitismo di Stato

Arrigo Cervetto (luglio 1975)

 


Scritto nel luglio 1975
Pubblicato per la prima volta su Lotta Comunista, N°59
Trascritto per internet da Antonio Maggio (Primo Maggio), marzo 2002

 

La crisi politica dell'imperialismo italiano sta scontando tutta una serie di effetti ritardati. Nella misura in cui il gigantesco processo di ristrutturazione del mercato mondiale approda ad alcuni primi risultati, modificando anche se parzialmente i rapporti di forza tra vecchie e nuove potenze capitalistiche, una reazione a catena di effetti si abbatte sulla metropoli italiana aggravandone quella crisi di squilibrio, quella non corrispondenza della sovrastruttura al movimento della struttura economica, che da anni si trascina senza soluzione.

I grandi gruppi industriali, privati e statali, da un lato hanno sempre più la necessità di riformare lo Stato per farne uno strumento adatto alla improrogabile opera di ristrutturazione dell'apparato produttivo e, dall'altro, risentono sempre più della situazione bloccata da un sistema di rapporti tra classi e strati che ha caratterizzato lo sviluppo della formazione economico-sociale italiana e la caratterizza, con estrema rigidità, anche nelle sue espressioni politiche. Il Sistema imperialistico italiano, dopo un periodo di forte dinamismo proprio a causa delle sue sproporzioni interne che il dinamismo ha alimentato, proprio a causa di uno squilibrio interno che la dinamica precedente ha esasperato, viene oggi a trovarsi come un corpo paralizzato nei suoi movimenti fondamentali e, nello stesso tempo, agitato in tutti i suoi organi interni.

Il ritmo impetuoso di sviluppo, determinato dal mercato mondiale nel quale si era inserito, che aveva permesso a questo corpo di crescere in poco tempo ha finito con il deformarlo profondamente.

Questa paralisi aggrava ancora di più l'indebolimento della metropoli italiana nei confronti delle altre metropoli che hanno meno appesantimenti nel ristrutturarsi. L'indebolimento relativo dell'imperialismo italiano si ripercuote, a sua volta, all'interno della metropoli.

Questa situazione oggettiva fa risaltare ancora di più il divario tra la necessità della ristrutturazione dell'economia e della stratificazione sociale e l'impotenza ad impostarla non solo praticamente ma anche teoricamente .

Mai come in questo momento politici e ideologhi hanno fatto discorsi a vuoto e macinato parole. Non è tanto, come si dice, mancanza di fantasia politica quanto incapacità o impossibilità di porre la questione fondamentale della ristrutturazione nei suoi termini essenziali.

Eppure è una questione estremamente chiara. L'imperialismo italiano deve adeguarsi al livello dei suoi diretti concorrenti francese e tedesco. Con questo non vogliamo ritenere che sia in grado di farlo. Vogliamo solo indicare quello che avrebbe necessità di fare. La struttura del capitalismo è una struttura di proporzioni tra settori e tra strati sociali. La ristrutturazione è, sotto questo aspetto, un processo che porta a nuove proporzioni. La ristrutturazione dell'imperialismo italiano comporta, quindi, un gigantesco movimento di determinazione di nuove proporzioni, cioè di un rapporto tra i settori che sia come quello esistente nelle metropoli concorrenti. Sommariamente, queste nuove proporzioni dovrebbero essere:

1) Raddoppio della concentrazione industriale, con conseguente rafforzamento dei grandi gruppi e, in particolare del capitalismo statale.
2) Dimezzamento delle piccole industrie e delle industrie artigianali, con conseguente espansione delle medie imprese.
3) Riduzione massiccia di settori industriali, a bassa composizione organica di capitale, già vecchi o che diventeranno inevitabilmente vecchi nella misura in cui l'ondata di investimenti, alla quale partecipa anche l'Italia, nei giovani capitalismi (es. siderugia, automobilistica, chimica), si tradurrà in produzione. E' questione di pochi anni. Le metropoli più dinamiche si stanno già ristrutturando in questo senso. La Germania lo ha già fatto per l'industria automobilistica, mentre lo Stato italiano sovvenziona in varie forme, FlAT ed ALFA contando di allargare la presenza sul mercato tedesco.
4) Sviluppo di nuovi settori industriali, ad alta composizione organica di capitale e, quindi, con pochi addetti, per aumentare la produttività industriale e renderla competitiva con le nuove produttività industriali che si vanno determinando nelle altre metropoli.
La riduzione dei vecchi e lo sviluppo dei nuovi settori industriali provocherebbe un raddoppio della disoccupazione, cioè dall'attuale 5% al 10% della popolazione attiva.
Comunque, con una industria ristrutturata in tal modo anche un tasso di crescita del 5% annuo del PNL non riuscirebbe a portare la disoccupazione al di sotto del 5% della popolazione attiva. E' una ulteriore conferma, dopo quella centennale, della teoria di Marx sull'esercito industriale di riserva, cioè sulla disoccupazione organica al sistema capitalistico. Non è la mancanza d'investimento capitalistico a creare la disoccupazione, come affermano gli economisti borghesi e i loro imitatori opportunisti, ma proprio il contrario, come ci spiega Marx e come la realtà dimostra.
5) Concentrazione agricola. ln pratica: dimezzare la popolazione attiva agricola e raddoppiarne la produttività. Ciò comporta che un 5-10% della popolazione attiva esca dall'agricoltura. Anche in questo caso, la ristrutturazione in questo settore avrebbe un costo annuo, in varie forme di sovvenzioni, sostegni, premi, di circa il 5% del PNL e necessiterebbe uno Stato attrezzato allo scopo, un tipo di Welfare State funzionante e non uno Stato come l'attuale che funziona solo con strumenti clientelari che non hanno alcuna efficacia ristrutturante, anzi alimentano la sopravvivenza della vecchia struttura.
6) Concentrazione commerciale. In pratica dimezzare le piccole imprese commerciali e svilupparne le medie e le grandi.

In definitiva, una ristrutturazione con nuove proporzioni sarebbe una ristrutturazione di classi e di strati sociali incentrata sulla riduzione della piccola borghesia agricola, industriale e commerciale e sull'aumento degli strati salariali impiegatizi e commerciali. La piccola borghesia si troverebbe ridotta dall'attuale 30% al 15% della popolazione attiva, mentre gli strati impiegatizi, inclusi i tecnici, tenderebbero a portarsi dall'attuale 17% al 30% della popolazione attiva. Gli strati salariali, addetti al lavoro intellettuale e al lavoro materiale, nel loro complesso arriverebbero al livello delle metropoli avanzate e tra essi si costituirebbe quella disoccupazione organica, che abbiamo già visto.

Al centro della ristrutturazione o delle tendenze alla ristrutturazione si trova la piccola borghesia che è sottoposta a tensioni e oscillazioni di tre tipi, tensioni e oscillazioni oggi limitate dato che questi strati intermedi non sono ancora investiti dai processi di fondo.

Il primo tipo riguarda l'utilizzo della piccola borghesia da parte di gruppi del grande capitale industriale privato per stabilire una egemonia sul capitale statale o per condizionare questo, o, infine, per stabilire un compromesso. Dato che il capitalismo statale si è ulteriormente rafforzato, l'utilizzo della piccola borghesia per una egemonia del grande capitale privato oggi non è possibile. Rimane un suo utilizzo per il condizionamento e il compromesso.

Un secondo tipo riguarda l'utilizzo della piccola borghesia da parte del capitalismo statale per condizionare il grande capitale privato, per stabilire con esso un compromesso e per rafforzare l'egemonia del settore statale. E' quello che sta avvenendo e le elezioni i regionali ne sono state una manifestazione con l'ulteriore - spostamento di strati piccolo-borghesi, collegati prima al centro e alla destra, sotto - l'influenza della DC, che attualmente è il massimo partito parlamentare del capitalismo di Stato.

 

Un terzo tipo concerne l'utilizzo della piccola borghesia da parte di gruppi di grande borghesia espressione della rendita. Questo utilizzo di una base di massa piccolo-borghese non può ovviamente porsi l'obiettivo della lotta per l'egemonia, data la ridotta incidenza della borghesia urbana e rurale espressione della rendita, ma si pone il fine di condizionare le frazioni industriali dominanti, statali e private, e di stabilire con esse un compromesso. Di fatto, questo compromesso vige da anni, da quando, cioè, ogni tentativo di ridurre la rendita è stato abbandonato. E' significativo di questo dato il fatto che mentre lo scontro elettorale tra PCI e DC è avvenuto su temi riguardanti sostanzialmente il capitalismo di Stato, cioè è stato una manifestazione politica dello scontro interno al capitalismo statale, il problema della riduzione sostanziale della rendita o di un suo sostanziale trasferimento allo Stato non sia stato sollevato e non abbia costituito termine di confronto.

Il problema, per quanto riguarda l'oscillazione della piccola borghesia, non è secondario e non può essere ridotto alla effettiva consistenza della borghesia della rendita rispetto alle altre frazioni della classe dominante. Siccome la piccola borghesia detiene, in forma capillare, una quota consistente di rendita, ossia una ampia massa di piccole rendite, la grande borghesia della rendita ha oggettivamente una forte capacità di mobilitazione su questo terreno. In termini politici è quello spostamento fascista della piccola borghesia, paventato da Amendola quando richiama l'esperienza di Weimar o da Berlinguer quando si riferisce al Cile o, ancora, da alcuni dirigenti DC per teorizzare la funzione di recupero sulla destra. In realtà, se la piccola borghesia può essere la base di massa del fascismo non è questa base di massa che caratterizza la natura sociale di questa forma di dittatura borghese. Quindi è solo il grande capitale privato e statale a determinare la forma fascista. Oggi più che mai. L'egemonia attuale del capitalismo statale ha stabilito il controllo sugli strati intermedi e ne ha fatta la sua base di massa nella forma democratica.

Tra capitalismo privato e capitalismo statale si è stabilita una soluzione temporanea, un compromesso precario come già lo abbiamo definito, sulla base di una posizione inalterata della rendita e della piccola borghesia. Questo compromesso tattico è fatto sulle spalle del monte stipendi (parzialmente) e sul monte salari (assolutamente). In altre parole: il grande capitale industriale privato accetta la egemonia del capitalismo statale e ne riceve in cambio la possibilità di accedere al credito e alle sovvenzioni per gli investimenti.

La frazione collegata alla rendita non viene intaccata e le posizioni complessive della piccola borghesia rimangono inalterate. Lo spostamento di redditi e consumi avviene nei riguardi degli impiegati ma, soprattutto, degli operai.

Questa soluzione temporanea, però, aggrava l'indebolimento relativo dell'imperialismo italiano perché non permette una vera ristrutturazione basata sulla concentrazione, indebolisce ulteriormente la produttività generale, non permette a questa di compensarsi con l'aumento della produttività industriale, mantiene il peso del parassitismo, che è già sproporzionato alla forza della metropoli italiana, costringe comunque l'imperialismo italiano a cedere ai suoi concorrenti, siano essi imperialismi o giovani capitalismi, un 5 % del suo prodotto nazionale. Ma, soprattutto, senza una profonda ristrutturazione questa quota ceduta all'estero è destinata ad aumentare.

Quindi, la compressione del monte salari (e, parzialmente, del monte stipendi) non è sufficiente a ricomporre il precedente equilibrio con il mercato mondiale. Rimane, irrisolto per la strategia riformistica dell'imperialismo italiano, il problema di fondo della piccola borghesia. Il fatto che questa, nell'arco di un anno, si sia allontanata sempre più dalla prospettiva dell'alternativa, agitata allora dalla linea Agnelli, e dalla strumentalizzazione della frazione della rendita non è una soluzione strategica.

Come prevedemmo in un nostro editoriale, lo scontro interno al capitalismo statale, che trova una base oggettiva nel fatto che la proprietà statale dei mezzi di produzione non elimina la dinamica concorrenziale delle imprese, si è accentuato. Anzi, ha raggiunto un tale grado di intensità da essere pubblicizzato per coinvolgere strati salariati, impiegatizi e piccolo-borghesi. Propagandato, dai vari gruppi in lotta, in forme semplificate ha assunto la veste ideologica della morale di gestione.

E' chiaro che quando uno scontro assume queste forme di volgarizzazione pubblica determina tutta una serie di conseguenze politiche, conseguenze oggettive in parte ma, in gran parte, volute proprio per influenzare i meccanismi di adesione ideologica ai partiti parlamentari. Lo scontro tra le imprese e, in questo caso, tra le imprese statali avviene su terreni che non possono essere ridotti a formule ideologiche e avviene con strumenti di intervento per l'uso dell'apparato statale che esulano da ogni tipo di volgarizzazione pubblica.

Se di colpo viene portato in piazza è segno che i gruppi in lotta si propongono di utilizzare certe forme pubbliche di lotta politica. E' nello scontro interno al capitalismo di Stato che risiede la causa di fondo del delinearsi della tendenza ad un bipartitismo DC-PCI, un bipartitismo del capitalismo statale. E' una tendenza che si delinea e non è ancora un risultato; comunque il PCI si va attestando come il bipartito del capitalismo statale cioè come uno dei due poli della dialettica di scontro e di compromesso tra due schieramenti capeggiati da gruppi statali ma aggreganti gruppi privati, schieramenti che potremo definire misti ma ad egemonia capitalistico-statale. Ripetiamo, è una tendenza che si delinea, e che può essere anche invertita, ma è una tendenza significativa perché sostanzia, cioè dà nuovi contenuti, le stesse formule governative. Si può dire che è l'ampiezza dello scontro a determinare il contenuto delle formule governative.

L'ampiezza dello scontro è data non dal "nuovo feudalesimo" ma dalle necessità di sviluppo dei nuovi settori, e in particolare dal settore della chimica e della energia. Questi settori sono determinanti e ancor più lo saranno nel futuro. Lo scontro, aperto e non ancora definito, vede degli schieramenti misti, capeggiati da gruppi statali che comprendono Montedison, Eni, Sir, Liquigas, Fiat, Iri, Spin, Enel, solo per citare i gruppi capofila e che sono, non a caso, tutti i gruppi fondamentali dell'imperialismo italiano.

Lo scontro, in questo momento, vede un utilizzo dei partiti parlamentari e, difatti, tutti i partiti vi sono coinvolti anche se mascherano la loro reale funzione sotto una spessa cortina fumogena di propaganda ideologica.

La DC, partito centrale del capitalismo statale, è al centro dell'utilizzo dei meccanismi politici da parte dei contendenti ma quello che è interessante notare è che l'involucro DC non è più sufficiente a contenere l'ampiezza dello scontro che, per importanza, supera scontri precedenti, avvenuti nei decenni scorsi sulla siderurgia, sugli idrocarburi sull'industria elettrica che avevano trovato, sostanzialmente, nella DC uno strumento sufficiente ed un involucro adeguato.

Da questo punto di vista, la DC è effettivamente logora ma lo è perché è divenuta insufficiente e non abbastanza capiente. Il PCI è stato in Italia l'alfiere del capitalismo statale. E' potuto sembrare, per un certo tempo, che avesse fatto da battistrada alla DC e che non ne avesse ricavato un vantaggio proporzionale alla sua azione trentennale. In effetti, pur essendo il partito del capitalismo statale programmaticamente tanto da definire socialista il capitalismo di Stato russo, il PCI era diventato uno strumento secondario dello sviluppo del capitalismo di Stato in Italia. Ciò ha finito con fare prevalere nel PCI la componente piccolo-borghese, addirittura con una crescente influenza degli strati intellettuali, non solo nei confronti della aristocrazia operaia, in riduzione per le difficoltà di crescita in Italia, ma nei confronti dello stesso capitalismo statale. Se la componente piccolo-borghese poteva rappresentare per il PCI un certo peso parlamentare, strategicamente, nel pieno del processo di sviluppo del capitalismo statale, rappresentava un fallimento. Difatti, nella misura in cui la DC diventava il partito del capitalismo statale non solo riusciva a controllare più piccola borghesia ma riusciva a diventare il partito egemone. Non era tanto questione di bipartitismo imperfetto quanto di strategia politica collegata allo sviluppo delle forze produttive. Essendo la DC divenuta l'espressione parlamentare del capitalismo statale il ruolo del PCI veniva inevitabilmente ridimensionato. Si creava una situazione di immobilismo parlamentare che per il PCI si traduceva m una profonda crisi di prospettiva strategica in cui di realizzabile rimaneva solo l'uso dei sindacati e la difesa di strati piccolo-borghesi destinati storicamente a ridimensionarsi.

E' lo scontro interno al capitalismo statale che ha ridato una prospettiva strategica al PCI, prospettiva che oggi si presenta con la formula governativa del compromesso storico e che domani si può presentare con quella dell'alternativa, prospettiva che, comunque, è quella di diventare il bipartito del capitalismo statale, sempre che questi ne abbia la necessità. Comunque, si può dire che l'immobilismo parlamentare non corrisponde più alle esigenze della dinamica del capitalismo statale e ciò riaggancia il PCI alla tendenza fondamentale di sviluppo.

Caso mai la paralisi dell'imperialismo italiano, il cui asse portante diviene il capitalismo statale, è causata dal forte peso della piccola borghesia ed è proprio su questo punto che risiede la maggiore contraddizione della tendenza al bipartito capitalistico-statale. Più il PCI diventa importante per il capitalismo statale più lo diventa anche per la piccola borghesia che può disporre di uno strumento valido di difesa alternativo alla DC. Il controllo, in forma bipartitica, della piccola borghesia può presentare al capitalismo statale forti vantaggi ma anche forti svantaggi. Comunque, il problema prioritario, in questo momento, diventa per lo scontro interno al capitalismo statale quello di poter disporre di un secondo partito. Il PCI si sta adeguando a questa situazione proponendo una generica nuova gestione del capitalismo di Stato. Mentre partecipa ad una superficiale campagna morale-ideologica sulla gestione, accentua ancor più la difesa del sistema capitalistico-statale e nel concreto è ultra differenziato ed ultravariabile sui problemi specifici che riguardano le scelte e gli appoggi a questo o quest'altro gruppo.

Solo se si tiene presente questa situazione generale si può analizzare il significato sociale della svolta parlamentare avvenuta con le elezioni regionali.

 

Gli spostamenti elettorali in sé non hanno alcun significato per la scienza marxista. Lo hanno solo nella misura in cui registrano o non registrano movimenti sociali più profondi, dislocazioni di frazioni della classe dominante, oscillazioni di strati sociali, emersione di nuovi strati, spinte di lotta di classe.

La svolta delle elezioni regionali sotto questo aspetto, è in realtà una mezza svolta perché di significativo registra solo il delinearsi di una tendenza al bipartitismo statale. Come abbiamo spiegato, il fatto che ora questa tendenza possa trasformarsi in una realtà non dipende dalla sovrastruttura partitico-parlamentare ma dal movimento della struttura, cioè dal capitalismo in generale e dal capitalismo statale, in particolare. Questo è il punto

dell'analisi e non altro. Se poi scendiamo ad un esame sovrastrutturale possiamo vedere che di fronte a due partiti interclassisti come la DC e il PCI che presentano la caratteristica di avere ciascuno una quota equivalente, con più forte prevalenza nel PCI, dell'elettorato degli strati salariati, mentre la DC ha più del doppio di quota dell'elettorato della piccola borghesia e ha circa una volta e mezza la quota che ha il PCI dell'elettorato degli strati impiegatizi, il fenomeno più rilevante è quello che riguarda lo spostamento di voti salariati dalla DC al PCI.

Si può calcolare che circa la metà di voti che, nel 1974, hanno abbandonato il fronte antidivorzista sia rientrata confluendo nella DC. Una quota equivalente che aveva votato allora per la DC, questa volta è uscita per confluire, in gran parte, nel PCI. Questa quota è composta da elettorato salariato, colpito dalla compressione dei consumi operai e dalla situazione economica. La spinta salariale per il recupero del potere d'acquisto che, per l'azione di freno opposta dai sindacati industriali controllati dal PCI oltre che per altre ragioni, non è riuscita a tradursi in movimento salariale in questo ultimo anno si è manifestata, per ora ancora parzialmente, in movimento elettorale. Perdurando una situazione di questo genere il movimento elettorale potrebbe farsi più consistente beneficiando il PCI. In questo movimento il ruolo bipartitico statale del PCI c'entra relativamente perché il PCI ne potrebbe beneficiare comunque dato l'aggravamento delle condizioni di lavoro e di vita della classe operaia. C'entra, invece, l'egemonia crescente del PCI nei sindacati industriali.

La spontaneità delle lotte operaie degli anni '60, spontaneità a carattere tradeunionistico e non rivoluzionario, poteva esprimere una direzione sindacale tradeunionista che avrebbe stabilito nuovi rapporti con i due maggiori partiti interclassisti i quali hanno usato ed usano i sindacati per rafforzare le loro posizioni parlamentari e difendere le loro basi elettorali piccolo-borghesi per ottenerne la rappresentanza.

Per una serie di ragioni collegate alla durata e alla intensità delle lotte, il cui ciclo si è rivelato troppo breve e poco profondo in confronto a cicli di altri paesi e di altri momenti storici, una direzione sindacale tradeunionistica non si è espressa. Di fronte al riflusso tradeunionistico era inevitabile quasi automatico, il recupero dei partiti interclassisti. In alcuni anni si è delineata chiaramente la sconfitta della corrente sindacale DC, divisa e frammentata, di fronte alla corrente sindacale PCI. Il recupero della cinghia di trasmissione ha avvantaggiato elettoralmente il PCI che si è rafforzato su questo terreno e ha modificato a suo favore i precedenti rapporti di forza con la DC. Ora la partita si gioca sul problema dell'unità sindacale organica ed ha per posta i sindacati dei pubblici dipendenti, dove la DC conserva ancora la egemonia ma dove un calo di elettorato impiegatizio si è registrato per questo partito interclassista.

Per Lenin e per noi leninisti non esiste nè può esistere l'autonomia del sindacato. La questione è semplice: il sindacato è diretto dal partito rivoluzionario oppure cade sotto la direzione dei partiti controrivoluzionari, siano essi reazionari o riformisti. Quindi, quello che sta accadendo nei sindacati italiani è una piena conferma della teoria leninista ed il fatto che un partito parlamentare si avvantaggi nei confronti di un altro non cambia minimamente il nostro lavoro all'interno delle organizzazioni sindacali e la nostra lotta per la loro unificazione. Oltre al fenomeno dello spostamento di elettorato salariato dalla DC al PCI, che viene a modificare la precedente parità in questo settore, un secondo spostamento è da riscontrare nell'elettorato impiegatizio.

Valutando complessivamente lo spostamento, le acquisizioni e le perdite, e tenendo presente che i ritmi dei voti giovanili sono difformi dai ritmi dei voti adulti sempre considerando che i voti vanno valutati per appartenenza sociale e non per sesso o generazione, si può dire che lo spostamento dalla DC al PCI sia costituito per circa la metà da voti salariati, per circa un terzo da voti impiegatizi e per circa un sesto da voti piccolo-borghesi.

Lo spostamento totale riguarda perció, circa un decimo della popolazione italiana e vede una tendenza della piccola borghesia a confluire sulla DC, dato che l'uscita verso il PCI è compensata dal recupero DC e una tendenza dei salariati a confluire sul PCI. Anche gli strati impiegatizi ed intellettuali tendono a spostarsi elettoralmente sul PCI, ma anche un loro più consistente spostamento non è decisivo, dato che sono solo circa un sesto della popolazione italiana. Le due carte fondamentali del gioco elettorale rimangono gli strati salariati, che sono circa la metà, e gli strati piccolo-borghesi che sono circa un terzo.

Se un ulteriore spostamento di elettorato salariato dalla DC al PCI può gettare le basi di un grande partito socialdemocratico, per la definizione completa di un bipartitismo del capitalismo statale è indispensabile e decisivo lo spostamento di almeno un terzo della piccola borghesia e non di un decimo come si è verificato nelle regionali e di cui il PCI ha avuto solo una parte.

Solo la confusione ideologica ha impedito di vedere i reali spostamenti sociali. L'analisi marxista serve, invece, non alla conta delle teste ma alla ricerca dei problemi sociali e politici che agitano una società divisa in classi e differenziata in strati.

Da questa analisi il partito leninista ricava i compiti specifici di fronte al delinearsi della tendenza al bipartitismo sotto l'egemonia del capitalismo statale.

Mentre individua nel quadrilatero del Nord l'epicentro degli spostamenti degli strati salariati e dove, non a caso, il PCI ha quasi la metà delle sue nuove acquisizioni, il partito leninista riconferma la necessità e la possibilità che la spinta salariale si trasformi in movimento salariale, in movimento rivendicativo.

Il partito leninista deve sviluppare i quadri operai nella estrema, inflessibile e granitica fedeltà ai principi del comunismo, a quei principi che sono alla base dell'astensionismo strategico, punto fermo della crescita organizzativa, di fronte a movimenti sempre meno organizzati e quindi, sempre più oscillanti.

E' la dinamica sociale ad accentuare la dinamica elettorale. E' la stessa dinamica sociale a permettere di organizzare nel partito leninista gli operai più coscienti che sentono sempre più il bisogno della scienza marxista, della teoria rivoluzionaria.

 


Ultima modifica 2.4.2002