[ Archivio di Cervetto ]

L'involucro politico

Capitolo secondo

L'ILLUSIONE DEL PRIMATO DELLA POLITICA

La crisi della teoria politica borghese
Teoria e pratica della politica
Caso politico ed istanza economica
Il pluralismo del potere economico
La teoria marxista sulla violenza
La disfunzione dei partiti parlamentari
La politica delle generazioni del marxismo
Il risultato della lotta politica

La crisi della teoria politica borghese

Il momento che vede propagandata la presunta crisi del marxismo è, invece, quello della crisi di ristrutturazione e, di riflesso, della crisi della teoria della pianificazione e della programmazione.

Da sempre gli anticomunisti proclamano che il marxismo è in crisi. Non potrebbero fare altrimenti. Periodicamente i democratici, che sono gli anticomunisti più conseguenti, cercano di apportare nuovo materiale e nuove formulazioni alla costante campagna antimarxista. Puntualmente falliscono perché di nuovo non riescono a portare proprio niente. I conti teorici tra comunismo e democrazia sono già stati tirati dai giganti del pensiero proletario e del pensiero borghese. I conti nel registro della storia li ha già annotati la lotta di classe nel 1848, nel 1871, nel 1917. Il libro è ancora quasi tutto da scrivere e penne e inchiostro non mancheranno.

L’ironia della storia, che poi altro non è se non la dislocazione ineguale e sproporzionata delle forze produttive, ha voluto che noi comunisti, in determinati momenti e situazioni, dovessimo appoggiare al massimo i democratici per fare progredire la lotta delle classi. In questo senso, anche se per principio siamo per il comunismo e non per la democrazia, non abbiamo per principio quello di non appoggiare la democrazia. Appoggiamo, per esempio, la rivoluzione democratico-borghese perché sviluppa le forze produttive. Combattiamo la democrazia delle metropoli imperialistiche perché le porta alla distruzione.

I democratici, invece, sono per principio teorico e per principio tattico anticomunisti. Hanno avuto, su di noi comunisti, il vantaggio tattico perché si sono fatti appoggiare con il proposito di eliminarci. Infatti tutte le rivoluzioni democratico-borghesi sono finite in questo modo. Ma con l'esaurirsi del movimento di indipendenza in tutte le aree del mondo anche il vantaggio tattico ritorna al comunismo il quale, ormai, non è più costretto ad appoggiare la democrazia. Questa è sempre più obbligata a mostrare il suo volto anticomunista. Ecco perché, periodicamente, si trova impegnata in prima fila nell'attacco al marxismo e al comunismo.

La crisi di ristrutturazione che produce questo attacco è, nello stesso tempo, una crisi della politica e della teoria politica dell'imperialismo, una crisi della politica e della teoria democratica che, in quanto forma politica pura del modo di produzione capitalistico, è la forma politica pura dell'imperialismo, il suo migliore involucro.

L’attacco al marxismo viene condotto con la pretesa che il marxismo manchi di una teoria politica. Siccome i democratici non possono più affermare, come hanno fatto per decenni, che il marxismo non è valido perché ha una teoria della crisi economica, oggi, a crisi convalidata, devono negare che il marxismo abbia una teoria politica. Solo la profonda crisi della politica imperialistica e della sua teoria può spiegare la inconsistenza di questa posizione.

Lo sviluppo capitalistico è ineguale, contraddittorio e ciclico. Dato questo carattere già dal suo inizio si scontrano due posizioni sullo sviluppo capitalistico. L’una ritiene che sia uno sviluppo equilibrato o, comunque, il massimo di equilibrio naturale. L’altra ritiene che sia, invece, uno sviluppo squilibrato o, comunque, equilibrabile. Marx, affrontando le due teorie o concezioni, dimostrerà scientificamente che lo sviluppo capitalistico non può che essere squilibrato e proprio per questa contraddizione non correggibile è destinato a finire. Da questa analisi dello sviluppo capitalistico Marx deriva la sua teoria politica la quale, di conseguenza, non è frutto del pensiero politico come tale ma dell'anatomia della società.

Le due vecchie posizioni borghesi sullo sviluppo capitalistico riflettono, in sostanza, i rapporti di forza sul mercato mondiale. Quella liberistica, anglosassone, è espressione del rapporto favorevole, quella interventista, tedesca, di quello sfavorevole. La prima ha come corollario una teoria dello Stato incentrata sul primato dell'economia, la seconda, invece, ha una teoria dello Stato basata sul primato della politica.

Con il ciclo di stagnazione dello sviluppo capitalistico tra le due guerre mondiali, stagnazione che, è bene sottolinearlo, riguarda più le metropoli che le altre zone, anche sulla teoria politica grande borghese finisce con il prevalere la condizione strutturale. Emerge la concezione dell'interventismo statale nell'economia atto a correggere lo squilibrio del ciclo. Tutta una serie di ideologie piccolo-borghesi, specchio permanente della debolezza, dell'impotenza e della velleità degli strati sociali intermedi, forniscono lo sfondo culturale alla esigenza grande borghese dello Stato imperialista e costituiscono le varianti, da quella russa con lo stalinismo a quella socialdemocratica con la teoria del "capitalismo organizzato", di una tendenza mondiale.

La teoria grande borghese è quella che prende corpo nelle più grandi metropoli nel nome del keynesismo e del dirigismo. Il terreno culturale era già stato preparato dai sociologi del potere i quali, per combattere il marxismo, avevano tentato di capovolgere il fondamento della concezione materialistica della politica, cioè della teoria marxista dello Stato. Per costoro è la politica che determina l'economia: le classi non sono il prodotto dei rapporti sociali di produzione ma dei rapporti giuridici di potere, la divisione sociale non è tra sfruttatori e sfruttati ma tra dirigenti e diretti, tra governanti e governati, tra organizzatori ed organizzati, ecc. Vecchie teorie sul "primato della politica" espresse già nell'Ottocento dai capitalismi tedesco e francese, più deboli e sconfitti dal capitalismo anglosassone più forte, ripartono dall'area tedesca, dalla quale non erano mai scomparse, e vengono riadattate nell'area anglosassone che ne abbisogna.

è proprio l'area tedesca, la quale esprime un imperialismo "protezionistico" in ascesa contro l'imperialismo "liberista" anglosassone, che incuba una rivoluzione culturale grande borghese per la teoria politica del periodo della stagnazione delle metropoli. Il principio di questa rivoluzione culturale della stagnazione è che la politica, e la sua espressione organizzata, lo Stato, determina l'economia. Mentre la rivoluzione culturale illuminista che aveva stabilito il principio opposto ed iniziato l'analisi scientifica, completata dal marxismo, della determinazione economica della politica, rifletteva la forza della borghesia in ascesa, la rivoluzione culturale della fase imperialistica riflette la decadenza e l'imputridimento di questa classe.

Essa ha ora bisogno dell'ideologia dirigista per mascherare l'intervento dello Stato nella guerra imperialista e nella lotta per la spartizione del mercato mondiale che si va allargando con lo sviluppo ineguale del capitalismo. Essa deve nobilitare il ruolo dello Stato imperialistico e fare apparire come una scelta quella che è, invece, una volontà condizionata, una funzione condizionata, un intervento condizionato e necessario. Deve fare di necessità virtù. Deve fare apparire come scelta, piano, progetto, ossia libera volontà politica, quello che altro non è se non necessità politica determinata dal movimento incontrollato ed incontrollabile della economia mondiale.

Il fatto è che lo stesso processo molecolare dell'economia mondiale, che nel ciclo tra gli anni Trenta e Quaranta ha reso necessaria la teoria del primato della politica all'azione degli Stati imperialisti, oggi ha provocato una crisi di ristrutturazione nelle metropoli ed una gigantesca nuova divisione internazionale del lavoro o composizione organica del capitale.

Negli ultimi 15 anni la produzione mondiale è più che raddoppiata ed il commercio internazionale è più che triplicato.

Nessun piano, nessuna volontà politica, nessuna politica di Stato lo ha determinato. è una dimostrazione inconfutabile del primato dell'economia ed una smentita clamorosa del primato della politica.

Interi settori economici entrano in crisi nelle metropoli e si espandono vertiginosamente nei giovani capitalismi. Entrano in crisi tutte le politiche economiche degli Stati imperialisti.

Entrano in crisi tutte le teorie economiche dirigistiche. Entrano in crisi le teorie riformiste ed opportunistiche. La teoria politica di due cicli della fase imperialistica crolla miseramente. Nelle sue varianti piccolo-borghesi questo crollo vorrebbe prendere il nome di "crisi del marxismo", affibbiando l'etichetta marxista al capitalismo statale. In realtà è la scienza politica marxista a segnare una vittoria, per ora solo sul fronte teorico.

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Teoria e pratica della politica

Con la crisi di ristrutturazione, che ha colpito le principali metropoli imperialistiche, un ciclo mondiale è terminato e se ne è aperto un altro che vede consolidata la tendenza, operante allo scoppio della stessa crisi, ad un divario tra il ritmo lento di sviluppo dei paesi capitalistici maturi ed il ritmo rapido di sviluppo dei paesi di giovane capitalismo. Un sommovimento economico e sociale di tale portata provoca inevitabilmente modificazioni e squilibri nei rapporti politici tra gli Stati e nel rapporti politici tra le classi e frazioni di classe.

La scena internazionale ha registrato subito questa nuova dinamica politica, corrispondente ad una più profonda e meno appariscente nuova dinamica economica. è una conferma ulteriore della teoria marxista della politica. Se riteniamo, come riteniamo, valida questa teoria, possiamo con sicurezza prevedere che tale dinamica è destinata ad accentuarsi e a gettare nello sconcerto tutti quei cultori di ideologia che si atteggiano a strateghi.

La determinazione economica dei nuovi rapporti politici tra gli Stati e tra le classi e frazioni di classe provoca, per la rapidità e la estensione con cui opera, un vero e proprio sconquasso nelle concezioni politiche e nelle teorie politiche borghesi, piccolo borghesi ed opportuniste. Mentre l'azione politica non ammette ritardi, le teorie politiche che dovrebbero ispirarla perdono il passo e non riescono ad adattarsi rapidamente. La teoria democratica annaspa nella rincorsa delle camicie che deve cambiare per giustificare la ragione di Stato, l'antica e predemocratica ragione di Stato. Necessariamente dovrà abbandonare i bottoni degli ideali ed acconciarsi con il più crudo pragmatismo.

Quello che vale in senso generale vale ancor più per l'Italia, dove il movimento strutturale è stato ancora più dinamico e dove, di conseguenza, i nodi della ristrutturazione si sono ancora più accumulati. Un ciclo trentennale, mai verificatosi in tali dimensioni e rapidità, ha tolto alla popolazione attiva agricola ben cinque milioni di unità, ha aumentato quella industriale di due milioni e quella terziaria di tre. L’esportazione ha raddoppiato la sua incidenza sul reddito nazionale passando dal 12 per cento al 26.

Nessuna teoria politica borghese, piccolo borghese ed opportunista è stata in grado di seguire, interpretare, analizzare i movimenti politici determinati dal profondo movimento strutturale. Ancor meno è in grado di seguirli nell'attuale crisi di ristrutturazione che ha investito la metropoli italiana. La teoria politica marxista, che nel laboratorio bolscevico di Lenin aveva dato per la Russia saggi insuperati di analisi, ha risentito per l'Italia del ritardo storico di attestazione del leninismo e deve ora impegnare tutte le forze, capacità ed energie per recuperarlo.

Poca importanza ha per noi la considerazione sulla incapacità delle teorie politiche borghesi e piccolo borghesi. Il marxismo è una scienza e non si consola dell'altrui insipienza. Il marxismo è un'arma teorica e pratica che combatte sì le teorie politiche sul fronte teorico, ma soprattutto le azioni politiche sul fronte pratico. Il vantaggio che il marxismo ha nell'analisi dei movimenti politici non significa ancora vantaggio pratico se a livello scientifico non estende il suo laboratorio di ricerca e se a livello organizzativo non diventa ampio strumento di lotta quotidiana. Il proletariato ha bisogno della scienza marxista della politica in qualsiasi momento, ma ne ha maggiormente bisogno quando l'influenza opportunista genera confusione.

La complessità delle tendenze oggettive operanti su scala mondiale e delle lotte politiche derivate allarga inevitabilmente la confusione nel movimento operaio. Data l'estensione dei fattori che entrano in gioco, altrettanto ampia diventa la loro combinazione multiforme. Ancor più diffusa è destinata, quindi, a divenire la confusione nel movimento operaio. Il compito di propaganda dei principi comunisti assume, in questo contesto, la inderogabile necessità di fissare alcuni punti di orientamento, base indispensabile per giungere alla scienza marxista della politica. Se è vero che il processo di formazione della coscienza comunista è un processo materialistico, altrettanto vero è che ciò non avviene meccanicisticamente. I fatti, la realtà, le conseguenze della realtà portano alla consapevolezza ma non in modo immediato.

Illusorio è pensare che le crisi oggettive determinino una crisi oggettiva dell'opportunismo come ideologia di massa. Così come non vi è un crollo automatico del capitalismo così non vi è un crollo dell'opportunismo. Già nel 1845, nel suo libro su "La situazione della classe operaia in Inghilterra", Engels scrive: "I pregiudizi di tutta una classe non si possono deporre come un abito vecchio". Sono questi pregiudizi a rimanere come gli abiti vecchi della confusione.

Non si può confondere la politica con l'analisi scientifica della politica. La politica in sé non è scienza come non lo è il movimento dell'economia o il movimento della materia. Gli uomini e le classi agiscono nel movimento della materia, nel movimento della economia e nel movimento della politica indipendentemente dalla conoscenza scientifica che essi hanno di questi fenomeni e vi agiscono per il semplice fatto che essi sono parte integrante di questi movimenti. è il marxismo che analizza scientificamente questi movimenti e, quindi, i movimenti politici. Con ciò fonda scientificamente la propria politica, la propria azione di classe. Nella misura in cui vi riesce, la scienza marxista della politica diventa una efficace arma di classe e non una frase o un semplice concetto.

Ricorda W. Liebknecht, uno dei seguaci di Marx ed Engels e per molti anni ad essi vicino: "La politica era lo studio per Marx. Odiava a morte i politicanti da strapazzo e la loro ciarlataneria... La storia è il prodotto di tutte le forze che agiscono all'interno degli uomini e della natura, il prodotto del pensiero, delle passioni, dei bisogni umani. La politica è, teoricamente, la conoscenza dei milioni e milioni di fattori che tessono la "tela della storia" e, praticamente, l'azione determinata da questa conoscenza. La politica è dunque scienza e scienza applicata. La scienza politica o scienza della politica è in certo modo l'essenza di tutte le scienze, poiché abbraccia tutta la sfera dell'attività dell'uomo e della natura, attività che costituisce lo scopo di ogni scienza. Eppure ogni pagliaccio è convinto di essere un grande politico o addirittura un grande uomo di Stato...".

Da allora pagliacci ne sono sfilati tanti e tanti ne sfilano sul palcoscenico della politica, ma intatta è rimasta, anche per questo, l'esigenza di classe così efficacemente fissata da W Liebknecht. L'avanguardia del proletariato deve essere capace, sul piano teorico, di conoscere i milioni di fattori della storia in atto e, sul piano pratico, di determinare la sua azione su questa conoscenza. è un compito gigantesco. Ma solo nell'assolverlo sta la garanzia del futuro comunista, poiché la scienza marxista della politica è la scienza della rivoluzione proletaria e internazionalista.

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Caso politico ed istanza economica

L’attacco al marxismo condotto da tutte le correnti borghesi e con particolare accanimento dalle correnti democratico-imperialiste ed opportuniste, mira ad impedire che il proletariato assuma la scienza rivoluzionaria nella sua lotta di emancipazione. L’attacco al marxismo non può, certo, impedire il fatto oggettivo della lotta di classe; ma senza teoria il movimento di classe è destinato ad incagliarsi negli scogli dei sussulti o della rassegnazione, dell'esasperazione o dello scoraggiamento, del corporativismo o dell'utopia. In tutti i casi, è destinato, senza scienza, ad essere una classe dominata.

L’attacco al marxismo, d'altra parte, non può impedire alla scienza marxista di continuare a vivere nel suo corpo naturale, nel corpo del partito leninista composto dalle cellule operaie capaci di riprodursi in questo ciclo di riflusso. Anzi, più l'attacco è virulento e più l'organismo di avanguardia riproduce gli anticorpi e si irrobustisce. è la dialettica del corso storico-naturale a far sì che, nella dura selezione delle specie politiche, il partito proletario sopravviva più forte di prima agli attacchi poiché sono proprio gli attacchi a costringerlo a meglio attrezzarsi teoricamente, politicamente, organizzativamente. Se non fosse così, il marxismo sarebbe già scomparso ed oggi non sarebbe più oggetto di attacco. Sta il fatto che, dopo ogni presunta "crisi del marxismo", la scienza rivoluzionaria del proletariato ha sempre conosciuto una fiorente stagione. La terra sociale gira attorno al sole della storia: ad ogni inverno dell'opportunismo segue una primavera della coerenza proletaria e dei principi comunisti.

La verità è che l'attacco al marxismo, indipendentemente dai propositi, non può cancellare né la lotta di classe né il marxismo ma può creare ulteriori ostacoli al processo materialistico di consapevolezza politica negli strati salariati.

La crisi di ristrutturazione che la metropoli italiana attraversa rappresenta un oggettivo ritardo nella formazione di una consistente aristocrazia operaia, vera e propria forza dell'opportunismo dal punto di vista del partito rivoluzionario. Solo con una base sociale di questo tipo, l'imperialismo sarà più forte nello scontro strategico che le condizioni oggettive internazionali porranno. Una forza opportunistica che abbia la sua consistenza negli strati piccolo-borghesi non rappresenta un problema arduo per la strategia leninista poiché questa non si pone l'obiettivo, in un capitalismo maturo, di spostare le masse piccolo-borghesi ma, al limite, di neutralizzarle.

Una forza opportunistica senza una consistente aristocrazia operaia, che all'attuale livello di proletarizzazione può comprendere anche strati impiegatizi, è un gigante dai piedi d'argilla nel momento storico nel quale la strategia leninista può fare leva sugli ampi strati del proletariato e conquistare la maggioranza rivoluzionaria.

L’esigenza di ristrutturazione dell'imperialismo italiano è anche l'esigenza, indotta dalla concorrenza internazionale, di avere una più solida base opportunistica. Se oggi esso può fare leva sulla protezione alla piccola-borghesia e, quindi, logorare lo stesso opportunismo, non può di certo proiettare tale soluzione tattica all'infinito. O si ristruttura, riducendo la piccola borghesia ed allargando la proletarizzazione, o decade in assoluto e non solo in relativo.

Ma il processo sociale e politico, che al suo sbocco prevede anche un'aristocrazia operaia più estesa ed un opportunismo più solido, ha richiesto decenni in altre metropoli e li richiede anche in quella italiana. Su questa previsione noi, agli inizi degli anni '60, formulammo la possibilità di sviluppo del partito leninista in una condizione di capitalismo maturo. In ciò risiedeva e risiede, per noi, la "specificità" italiana, a differenza di altre metropoli dove il processo sociale e politico è già avvenuto negli scorsi decenni e dove la riapertura di crisi di squilibrio e di ristrutturazione non ha ancora, per l'espansione del mercato mondiale, incrinato profondamente le aristocrazie operaie. Nella metropoli italiana la partita è ancora aperta e lo sarà per anni.

Ecco perché l'attacco al marxismo sulla teoria politica ha una particolare importanza. Mancando, per ora, di strumenti economici per legare a sé consistenti strati salariati, l'imperialismo italiano, tramite l'opportunismo, è costretto ad usare solo strumenti politici ed ideologici. Ma, soprattutto, tenta di impedire che ampi strati di salariati tirino conclusioni razionali e scientifiche, ossia marxiste, dalla crisi che stanno vivendo e pagando. è forte nelle masse proletarie il bisogno di vederci chiaro e di capire perché tutto ciò sta avvenendo. è diffuso il bisogno di marxismo, anche se anni saranno richiesti perché si precisi.

Perciò più generale diventa la campagna di confusione sul marxismo. Viene detto che non esiste od è insufficiente la teoria marxista sulla politica, sullo Stato, sulle istituzioni politiche. Non è vero! Esiste una ben precisa teoria marxista ed esistono ben precise analisi marxiste sulla politica. Il marxismo è una autentica miniera di scienza della politica, come abbiamo dimostrato e come avremo ulteriore occasione di dimostrare. Tutta una serie di strumenti concettuali che servono per analizzare il movimento della politica, delle sue istituzioni, dei suoi poteri, sono stati elaborati ed applicati per la prima volta dal marxismo e, come tali, sono ormai consegnati allo sviluppo storico. Se, in certi momenti, questi strumenti non sono stati usati è colpa non del marxismo ma del revisionismo e della controrivoluzione socialdemocratica e staliniana. Anche l'infantilismo e l'immaturità del movimento rivoluzionario hanno contribuito ad un ritardo nell'applicazione della scienza. è sulla scienza e non sui suoi travisamenti o ritardi che va fatto il confronto.

E il principio della determinazione strutturale della politica che si cerca di oscurare nella polemica antimarxista e proprio perché è destinato, ogni giorno di più, ad essere dimostrato dai fatti concreti. La teoria marxista della politica non è un eclettismo pluricausale che può essere, come ogni sociologia, stirato da ogni parte per coprire le contraddizioni di una società irrimediabilmente antagonistica.

Nemmeno può essere ridotto, come si cerca di fare, ad una teoria che ripiega sulla struttura come "ultima istanza" nella determinazione della politica. Nella lettera a Bloch del 1890, Engels è chiaro in proposito: "Secondo la concezione materialistica della storia il fattore che in ultima istanza è determinante nella storia è la produzione e la riproduzione della vita reale. Di più non fu mai affermato né da Marx né da me".

Aggiunge Engels che dire che il "fattore economico sarebbe l'unico fattore determinante" non è esatto perché "la situazione economica è la base" ma le "forme politiche della lotta di classe", "i suoi risultati", "le forme giuridiche" e "persino i riflessi di tutte queste lotte reali nel cervello di coloro che vi partecipano", "esercitano pure la loro influenza nel corso delle lotte storiche e in molti casi ne determinano la forma in modo preponderante. Vi è azione e reazione reciproca di tutti questi fattori, ed è attraverso di essi che il movimento economico finisce per affermarsi come elemento necessario in mezzo alla massa infinita di cose accidentali (cioè di cose e di avvenimenti il cui legame intimo reciproco è così lontano e difficile a dimostrare che possiamo considerarlo come non esistente, che possiamo trascurando). Se non fosse così, l'applicazione della teoria a un periodo qualsiasi della storia sarebbe più facile che la soluzione d'una semplice equazione di primo grado" [1].

La tesi della azione e reazione reciproca tra base economica e sovrastruttura è stata, a volte, interpretata in termini di relativismo e di doppia causalità. Invece è un esempio profondo di dialettica materialistica e, per quanto ci interessa, di scienza della politica. Essa spiega il reale processo, ossia un processo complesso, di determinazione economica della politica. Questa determinazione non avviene perché il fattore economico è l'unico determinante. In questo caso non vi sarebbe determinazione ma identità organica, dato che tutto sarebbe base, tutto economia, tutto struttura. La determinazione avviene, invece, perché la sovrastruttura reagisce sino a dare la forma, ma non il contenuto, alle lotte storiche di lungo periodo.

Azione e reazione reciproca di tutti i fattori strutturali e sovrastrutturali creano una massa infinita di cause accidentali o casuali per cui è proprio attraverso i fattori sovrastrutturali e politici che "il movimento economico finisce per affermarsi come elemento necessario", ossia come elemento regolare e causale di fronte alla accidentalità e al caso. La scienza marxista ci consegna, in questa pagina di Engels, uno strumento insuperabile di teoria e di lotta per comprendere i nostri giorni e per assolvere ai nostri compiti.

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Il pluralismo del potere economico

Una delle tradizionali critiche al marxismo è quella di una presunta insufficienza dell'analisi dello Stato capitalistico e della cosiddetta "democrazia rappresentativa moderna". In particolare si addebita al marxismo e al leninismo di non aver approfondito l'analisi del ruolo dei partiti nella "democrazia rappresentativa", del rapporto tra i vari "poteri", del ruolo della burocrazia, della funzione dello Stato nel ciclo economico. In sostanza, questa critica mira a sostenere una ben definita concezione della politica la quale, con varie gradazioni e accentuazioni, afferma la autonomia della economia e della politica.

Quello che viene attaccato nel marxismo non è la presunta insufficienza di analisi della sovrastruttura ma il principio materialistico-storico per il quale la politica è espressione della economia. Per cercare di negare questo principio lo si vuol fare apparire come rozzo, semplicistico, economicistico, ossia come frutto di una concezione che non sa vedere altro che l'economia e che all'economia riconduce tutta la complessa vita sociale. Anche se fosse così non sarebbe poco: già i fondatori del marxismo hanno più volte dimostrato come le maggiori difficoltà d'analisi riguardino più la struttura che la sovrastruttura. Ma non è qui il punto.

Il punto è che proprio partendo dall'analisi economica delle classi il marxismo è riuscito a fornire un'analisi scientifica della lotta politica delle classi e delle frazioni di classi, un'analisi scientifica che guida, nei meandri della sovrastruttura, la strategia rivoluzionaria del proletariato. Ed è proprio questa possibilità di una strategia della classe dominata che i teorici borghesi, piccolo borghesi e opportunisti tentano di combattere. Se il marxismo mancasse di una teoria politica, scientificamente fondata, e se il principio di determinazione economica della politica fosse proprio così rozzo, per i nemici borghesi ed opportunisti del marxismo non vi sarebbero problemi. Dovrebbero dimostrarne solamente la non validità.

Non ci sono riusciti in tanti anni e non ci riescono neppure adesso. Non sono mai riusciti a dimostrare che è la politica a determinare l'economia, le classi, la lotta delle classi e delle frazioni di classe, non sono mai riusciti a fornire l'unica prova che possa invalidare il principio marxista e chiudere per sempre la partita. Si sono arrabattati e si arrabattano, al massimo, nel proclamare l'autonomia della economia e l'autonomia della politica e nel negare ogni rapporto di determinazione.

In un tale universo eclettico è possibile dire tutto e il suo contrario, ma solo al prezzo di falsificare, di omettere e di travisare. Un esempio: l'accusa al marxismo di mancare di una analisi dei partiti e dei poteri. Invece di dire che combattono la teoria marxista dei partiti e dei poteri, i tirapiedi dell'imperialismo sono ormai costretti a negare l'esistenza di tale teoria. L’imputridimento del parassitismo intellettuale e politico li ha degradati ad essere, oltre che apologeti, falsari o incompetenti.

"Come ogni teorico, Marx cominciò ad isolare le tendenze fondamentali nella loro forma pura; diversamente sarebbe stato del tutto impossibile comprendere il destino della società capitalistica", dice Trotsky nel suo saggio su Marx.

Isolare le tendenze nella forma pura è, appunto, ciò che Marx ed Engels fecero per poter comprendere il ruolo dei partiti, dei poteri, dello Stato. Non si può capire questa analisi complessa se non se ne afferra il metodo di astrazione delle tendenze nella forma pura, così come non si può ridurre tutto il marxismo alla enunciazione delle tendenze fondamentali. L’analisi marxista è permessa da un metodo specifico, ma non si esaurisce in esso. Il confronto va fatto sia col metodo che con i suoi risultati.

Contro la teoria marxista dello Stato quale istituzione particolare la cui funzione è la difesa del predominio di una classe nella società, gli apologeti democratici hanno tentato di contrapporre una teoria dell'equilibrio dei poteri. Per questi apologeti vi sono solo gruppi sociali che hanno interessi concorrenti e la cui competizione è garantita dallo Stato. In questo modo il potere è generalizzato ed equilibrato perché nessun gruppo sociale particolare ha una influenza determinante sullo Stato. Avremo occasione di riprendere la critica che già Lenin fece a questa teoria pluralistica di origine austro-tedesca. Per ora ci interessa dimostrare tutta la sua inconsistenza analitica. Per affermare che non vi è una classe dominante occorre dimostrare che nella struttura economica non vi è un ruolo sociale dominante. Siccome il democratico pluralista non lo può dimostrare, tira fuori dal cilindro la colomba della politica e la lascia librare nella alta sfera della autonomia dei poteri.

è impossibile negare che nell'economia vi è una classe dominante. Infatti il democratico pluralista non lo nega in assoluto. Afferma, invece, che è mancanza di analisi sostenere che la classe dominante l'economia domina anche la politica poiché la politica ha una sua relativa autonomia. Solo con questo concetto di relativa autonomia della politica e della economia è possibile alla teoria democratica suddividere nella classificazione per reddito le classi fondamentali in tanti gruppi sociali e spezzettare la loro rappresentanza politica in una pluralità di poteri. A questo punto le istituzioni diventano dominanti perché dipende da loro se i poteri sono equilibrati e garantiscono la pluralità o democrazia. L’aggiornamento, nella fase imperialistica, della teoria dell'equilibrio dei poteri nella democrazia pluralistica può essere considerato come rispondente all'esigenza di dare una teoria alla lotta delle frazioni borghesi.

Il marxismo ha sempre considerato lo schema concettuale della pluralità e dell'equilibrio dei poteri. Marx ed Engels hanno studiato a fondo, per tutta la vita, le lotte politiche in Francia, in Inghilterra e in Germania. Quasi un secolo di lotte politiche delle frazioni borghesi nei paesi industrialmente più avanzati è passato sotto la loro lente teorica e fenomeni politici come il bonapartismo, il conservatorismo, il liberalismo e il bismarckismo hanno trovato la più completa analisi materialistica. Definizioni come equilibrio di poteri, potere politico, potere governativo hanno avuto nel marxismo la loro sistematizzazione scientifica. Lenin ha potuto applicarle con successo nell'analisi della situazione russa. Altrettanto può e deve essere fatto per la situazione attuale.

Per il marxismo esiste una pluralità di poteri economici che diventano poteri politici. Il potere è tale se ha una base reale, ossia se è una potenza reale economica. L’equilibrio dei poteri è, quindi, l'equilibrio in determinate e specifiche istituzioni delle volontà politiche delle frazioni borghesi. Pluralità di poteri economici dei gruppi capitalistici ed equilibrio delle loro volontà politiche nello Stato: ecco la forma politica pura, la forma democratica, del capitale sociale.

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La teoria marxista sulla violenza

La concezione materialistica della politica si è formata storicamente nel superamento e nella critica alla concezione soggettivistica della politica. Una parte di rilievo nello sviluppo della scienza marxista è assunta dalla critica alla teoria soggettivistica della violenza. Solo con il marxismo si è giunti a porre scientificamente il ruolo della violenza nella storia, solo con il marxismo si è giunti alla comprensione reale di una manifestazione della vita sociale che tutta la cultura, prima e dopo Marx, vorrebbe attribuire alla natura biologica della specie umana. Scoprendo le basi economiche della violenza, il marxismo ha svelato un mistero che per millenni ha ottenebrato la mente degli uomini, anche di quelli più liberi dai pregiudizi.

Attingendo alle migliori forme dell'illuminismo razionale e materialistico, il marxismo ha proseguito la grandiosa battaglia contro le tenebre, quella battaglia che la borghesia giunta al potere non aveva più l'interesse e la possibilità di portare avanti. Spettava, ormai, al proletariato il compito storico di liberare l'umanità anche dalle catene della violenza e della ideologia della violenza, ossia da quelle catene che solo il proletariato poteva perdere.

Demolendo la concezione del "primato della politica" il marxismo ha demolito la concezione del "primato della violenza", poiché, in definitiva, ogni concezione del "primato della politica" è, nello stesso tempo, una concezione del "primato della violenza". Non può essere altrimenti. Se si pensa che la politica possa modificare le leggi economiche si pensa, nello stesso tempo, che si possa esercitare una forza non economica sul movimento economico storico-naturale. In altri termini, si concepisce di poter esercitare una violenza, ritenuta un'azione soggettiva, su un processo oggettivo, o, ancor più, si concepisce di poter creare con un atto ritenuto soggettivo una realtà oggettiva. Questa è essenzialmente la concezione dei pianificatori del capitalismo, anche se poi lo svolgimento reale dell'economia dimostra ampiamente, in tutto il corso storico, che i loro progetti rimangono tali.

I democratici sostengono che l'esercizio della forza politica deriva loro dal consenso. Noi marxisti dimostriamo che la loro forza politica ed il consenso collegantesi derivano dalla forza economica di cui sono espressione. Anche la teoria di Gramsci, basata sulla distinzione tra coercizione e consenso, non ha, sotto questo particolare aspetto, una seria consistenza. Coercizione e consenso non sono altro che gradi di sviluppo nell'evoluzione del rapporto fra potere economico e potere politico derivato, ossia nell'evoluzione del rapporto tra il contenuto capitalistico puro e la forma politica pura del capitalismo. La grande scoperta di Marx del rapporto tra economia e politica sta proprio nell'avere individuato le leggi di movimento del capitalismo depurandole da ogni interferenza sovrastrutturale, ossia da ogni manifestazione della politica e, quindi, della violenza.

Ai fini della legge del movimento del capitalismo, coercizione e consenso non sono nient'altro che espressioni politiche derivate. Non è la coercizione o il consenso che determinano il funzionamento del movimento economico. Se fosse così il capitalismo non si sarebbe mai affermato come modo di produzione predominante poiché aveva contro la coercizione e il consenso. è piuttosto la legge di movimento del capitalismo a determinare i gradi di coercizione e di consenso, ossia le forme politiche della società borghese. Solo la comprensione della legge oggettiva di movimento della società ha permesso la conoscenza del movimento della politica e della violenza. Il marxismo ha dovuto combattere una dura battaglia teorica contro la concezione soggettivistica della politica, contro la concezione soggettivistica della violenza, contro il terrorismo.

Il terrorismo moderno, il terrorismo degli ultimi due secoli, è fondamentalmente democratico e discende dalla concezione giacobina dell'azione politica. La concezione comunista della politica elaborata da Marx e da Engels, dopo aver criticato il Terrore della grande rivoluzione francese per la presunzione fallita di voler imporre una "testa politica" ad un diverso corpo sociale, doveva inevitabilmente scontrarsi con gli epigoni della concezione democratica terroristica che hanno imperversato per decenni ed influenzato il movimento operaio.

Data l'influenza democratica, la concezione soggettivistica della violenza ha dominato per lungo tempo il movimento operaio ed oggi lo domina nella versione imperialistica della democrazia, il socialimperialismo. Spesse volte il marxismo si è scontrato con gli effetti pratici di tale concezione, il terrorismo, e, soprattutto, l'atteggiamento del movimento operaio verso la guerra. Infatti se il movimento operaio non giunge alla concezione materialistica della politica e della guerra è incapace di individuarne le cause economiche ed è costretto a seguire i vari gruppi borghesi nella loro azione e nella loro competizione bellica.

Tappa fondamentale della lotta marxista contro la concezione soggettivistica della violenza è I’ "Anti-Dühring" di Engels. Dühring sosteneva che "la formazione delle relazioni politiche è il fatto storico fondamentale e i fatti economici che ne dipendono sono soltanto un effetto o un caso speciale e perciò sono sempre fatti di second'ordine. [...] il fatto primitivo è da ricercarsi nella violenza politica immediata e non solamente in una indiretta potenza economica".

Per Dühring è la "violenza politica immediata" ad avere il primato nella vita sociale. Se l'economia è effetto della "violenza politica immediata" ne deriva, anche per il democratico terrorista, che una "violenza politica immediata" di segno opposto, risultato di una "volontà libera", può cambiare l'effetto, cioè l'economia. Tutto lo scontro sociale è ridotto allo scontro di "violenze politiche immediate". Concezioni di questo tipo possono essere funzionali a borghesie in ascesa nelle loro rivoluzioni democratiche quando anche la "violenza politica immediata" più semplice, quella terroristica, è meno "condizionata" e più "libera". Portate nelle metropoli sono le ideologie della guerra imperialistica, perché sono funzionali alle borghesie concorrenti nella loro opera di mobilitazione del proletariato.

In testa al proletariato, tale concezione lo porta solo al suicidio perché si trova sempre a rimorchio delle altre classi e non riesce a fondare una strategia la quale, analizzando le cause della politica, della guerra, della crisi, lo conduca alla rivoluzione. La scienza della rivoluzione può dare una "arte dell'insurrezione", ma una "arte dell'insurrezione" non darà mai la scienza della rivoluzione.

La scienza della rivoluzione può astrarre, nella sua analisi di fondo, dalla politica e dalla violenza perché sa che sono fenomeni derivati, perché sa che politica e violenza sono "condizionate" e non "libere". Ecco cosa Engels risponde a Dühring nel 1878, un secolo fa, sottolineando che ne "Il Capitale" di Marx "... tutto il processo viene spiegato da cause puramente economiche senza che neppure una sola volta ci sia stato bisogno della rapina, della violenza, dello Stato, o di qualsiasi interferenza politica. La 'proprietà fondata sulla violenza' si dimostra qui semplicemente come una frase da spaccone destinata a coprire la mancanza di intelligenza dello svolgimento delle cose. Questo svolgimento, espresso storicamente, è la storia dello sviluppo della borghesia. Se le "condizioni politiche sono la causa decisiva dell'ordine economico" è d'uopo che la borghesia moderna non si sia sviluppata in lotta col feudalesimo, ma sia la sua diretta creatura, da esso volontariamente generata. Ognuno sa che è accaduto il contrario".

Lo sfruttamento del proletariato e la lotta di classe vengono spiegate da cause puramente economiche. Solo a questa condizione è possibile comprendere il ruolo della sovrastruttura, dello Stato, della politica, della violenza nella lotta delle classi. Non può mai essere l'inverso. Dalla scienza non si può tornare indietro, alla superstizione.

Il faticoso cammino di emancipazione del proletariato, il cammino della assimilazione della scienza della rivoluzione, parte anche dal principio stabilito da Engels. Se il Bolscevismo giunge all'appuntamento dell'Ottobre è anche perché intere generazioni di marxisti si sono formate a quel principio, lo hanno difeso contro il revisionismo, hanno imparato a considerare scientificamente le cause della violenza, hanno superato il timore e il culto della violenza, hanno forgiato la loro capacità di guidare la violenza sgorgante dalle classi oppresse, e non dal proprio cervello, verso obiettivi strategici generali.

La triplice ondata controrivoluzionaria della socialdemocrazia, del fascismo e dello stalinismo, che ha bloccato la rivoluzione mondiale iniziata in Russia massacrando migliaia di quadri internazionalisti, ha spazzato via anche una esperienza teorica e pratica, accumulata in decenni, di politica comunista, di metodo materialistico applicato ai fenomeni della violenza. Il balzo indietro, anche in questo terreno specifico, è stato enorme.

La concezione soggettivistica della violenza ha avuto campo libero anche nel movimento operaio e ha trovato ampia applicazione nel massacro della seconda guerra mondiale imperialistica, quando proletari vennero gettati a milioni contro altri proletari senza che potesse sorgere un'iniziativa internazionalista di solidarietà di classe, senza che un partito bolscevico si ergesse ad utilizzare scientificamente quella enorme massa di violenza partorita dall'imperialismo per trasformarla in violenza rivoluzionaria per il comunismo. Rimasero cinquanta milioni di corpi sotto la terra e la devastazione ideologica nei cervelli.

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La disfunzione dei partiti parlamentari

Il risultato dei referendum [2] ha posto chiaramente in rilievo la crisi irrimediabile del parlamentarismo che, per la verità, non aveva bisogno di una consultazione per essere riscontrata poiché essa è storica e si trascina ormai, con alterne vicende, da quasi un secolo, da quando il capitalismo è maturato in imperialismo. è un fenomeno che la concezione materialistica della politica, che fa derivare i fenomeni di superficie dal profondo della struttura economica, ha da tempo individuato.

La scuola marxista ha al suo attivo, dai suoi inizi, l'analisi scientifica dei partiti parlamentari e tutti i fasti e i nefasti delle assemblee rappresentative non hanno fatto che aumentare il suo materiale d'archivio. Il ruolo generale dei partiti parlamentari nello Stato democratico è determinato dai poteri economici delle frazioni della classe dominante, ma il ruolo particolare riflette storicamente la stratificazione sociale portata dallo sviluppo storico di un dato paese.

Kautsky accusa i bolscevichi di avere instaurato una dittatura bonapartistica perché hanno soppresso la democrazia parlamentare. Trotsky in "Terrorismo e comunismo", che resta uno dei più importanti contributi della critica comunista alle teorie democratiche, attacca a fondo il sofisma kautskyano.

Per Trotsky il successo dello Stato democratico dipende dalla estensione della piccola borghesia, dalla sua importanza nella vita economica del paese e dal grado di sviluppo della lotta di classe. Più forte è il peso economico della piccola borghesia, meno acuta, di conseguenza, è la lotta proletaria e più lo Stato democratico riesce a funzionare efficacemente nel comprimere gli antagonismi sociali. Per Lenin, si può dire, è l'inverso: più sviluppato è il capitalismo e più lo Stato democratico è il suo migliore involucro. Noi siamo leninisti perché riteniamo che la storia abbia confermato più la tesi di Lenin che quella di Trotsky sulla natura dello Stato democratico.

Il contributo di Trotsky che ci interessa sottolineare riguarda perciò il ruolo particolare della piccola borghesia nello Stato democratico nelle sue forme parlamentari. Sotto questo aspetto l'analisi di Trotsky è importante e non implica necessariamente una differenziazione dalla teoria generale leninista.

Dice Trotsky che la riduzione della piccola borghesia "non avviene con la rapidità prevista dalla scuola marxista" e che, di conseguenza, questa classe media conserva una "considerevole proporzione numerica" anche se diminuisce il peso dei valori da essa prodotti sul totale nazionale dei valori. Anzi, la produzione della piccola borghesia diminuisce, "molto più rapidamente della sua forza numerica"; ne risulta diminuita anche "la sua importanza sociale, politica e culturale"."La longevità della piccola borghesia" si esprime, però, "nelle statistiche elettorali del parlamentarismo" e diventa "fatale perfino per le forme esterne della democrazia politica".

"L'eguaglianza formale di tutti i cittadini in quanto elettori (un voto "uguale" per il proletario, per il contadino e per il direttore di un trust), ci offre solamente una chiara prova della incapacità del parlamentarismo di individuare i problemi di fondo dell'evoluzione storica".

"Occupando nella politica parlamentare un posto che ha perso nella produzione, la classe media ha compromesso il parlamentarismo e lo ha trasformato in una istituzione di ciance confuse e di ostruzionismo legislativo", conclude Trotsky indicando nel superamento della democrazia parlamentare un compito storico del proletariato nella sua rivoluzione socialista.

Il ruolo particolare dei partiti parlamentari oggi in Italia rispecchia molti dei caratteri individuati da Trotsky. La statistica elettorale li condiziona fortemente, l'influenza della piccola borghesia, specie intellettuale, nei loro gruppi dirigenti, ad ogni livello, li trasforma davvero in istituzioni di ciance confuse e "le impotenti contorsioni" di questi strati sociali si riflettono nella pratica di "ostruzionismo legislativo", come lo definisce Trotsky, ossia nella non corrispondenza dell'attività legislativa alle esigenze dello sviluppo capitalistico.

Questi caratteri dei partiti parlamentari a prevalente personale piccolo-borghese aggravano quella che noi, dieci anni fa, indicammo essere una crisi di squilibrio tra il movimento della struttura economica ed il ritardo della sovrastruttura politica, crisi di squilibrio che sussiste sino a produrre fenomeni di terrorismo, da un lato, ed ampi distacchi tra masse elettorali fluttuanti ed apparati partitici. è proprio "una chiara prova dell'incapacità del parlamentarismo di individuare i problemi di fondo dell'evoluzione storica".

Ma lo Stato democratico non è solo democrazia parlamentare. Se il ruolo particolare dei partiti parlamentari presenta i caratteri piccolo-borghesi che li rendono sempre più inefficaci e che accentuano la crisi irrimediabile del parlamentarismo, i poteri economici sviluppano e rafforzano altri strumenti di poteri politici ed altri apparati di "consenso". L’apparato clericale, ad esempio, sta emergendo come l'apparato politico che più è riuscito ad adattarsi al movimento strutturale intercorso nell'ultimo trentennio e che più può proiettarsi nelle future esigenze, sociali e demografiche, del capitalismo italiano.

"Il Mondo" ha compiuto una inchiesta sui partiti parlamentari da cui risulta che hanno 4 milioni e mezzo di iscritti, 42 mila sezioni, 200 miliardi di lire di spesa. In realtà la spesa è superiore se si considera tutto ciò che i partiti parlamentari utilizzano, da vari enti, in mezzi e uomini. Sylos Labini valuta, ad esempio, in centomila le unità addette a tempo pieno al lavoro politico. Prendiamo solo la spesa ufficiale, poiché quella aggiuntiva non deriva dagli apparati e, quindi, i vari enti possono sempre toglierla.

Ne risulta che il fatturato di tutti i partiti parlamentari non riesce a superare il fatturato di uno solo dei grandi gruppi editoriali, ossia di uno dei grandi gruppi che, per l'investimento di capitali che rappresenta, organizza sul serio il "consenso", orienta le fluttuazioni elettorali, influenza la sovrastruttura politica. Tutto il fatturato editoriale può essere valutato in circa 1.500 miliardi, ossia più di sette volte il fatturato dei partiti parlamentari. Il fatturato del PCI, compresa "L’Unità", raggiunge a malapena il fatturato de "Il Corriere della Sera".

Si potrebbe continuare in questa analisi comparata. Si arriverebbe comunque alla conclusione che i poteri economici, i grandi gruppi e le frazioni borghesi, hanno strumenti ben più potenti dei partiti parlamentari per determinare il loro Stato democratico, per sorreggerlo, per guidarlo. I partiti parlamentari non sono altro che apparati di minoranze organizzate, poiché, come ricorda Lenin, in una società divisa in classi solo un centesimo della popolazione attiva partecipa alla vita politica. In alternativa a queste minoranze organizzate e all'opportunismo che cerca di mascherarsi dietro la demagogia sulle masse che non rappresenta nei loro interessi storici ed immediati, può essere organizzata la minoranza del proletariato cosciente e comunista. Anche nell'attuale fase di riflusso.

Nel 1908, in un analogo momento di ritirata, Lenin ricordava: "Nella primavera del 1905 il nostro partito era una unione di circoli clandestini, nell'autunno è diventato il partito di milioni di proletari... Ma questo è avvenuto "di colpo" signori, oppure un decennio di lavoro lento, tenace, invisibile, silenzioso ha preparato e garantito questo risultato?".

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La politica delle generazioni del marxismo

Per Engels il maggior pericolo per il movimento rivoluzionario è l'autoinganno, il non essere in grado di "tirare fuori nulla" dall'enorme materiale che la realtà fornisce, il non ricavare il senso profondo degli avvenimenti. Rimanere alle apparenze è, appunto, autoingannarsi poiché non si vede il proprio ruolo effettivo e, in definitiva, non si è in grado di portare avanti una azione efficace, quella necessaria e possibile in una situazione data.

L’idea fondamentale che i rapporti politici di potere dipendano da quelli economici se, da un lato, permette al movimento rivoluzionario di superare l'ostacolo dell'autoinganno, dall'altro può rimanere solo un’idea generale se non ispira una continua analisi specifica della situazione e se non obbliga ad un conseguente atteggiamento. Solo a questa condizione l'azione politica di un movimento rivoluzionario supera il contingente e si colloca nell'arco di tempo plurigenerazionale.

Il processo mondiale di ristrutturazione del capitale è un processo che investe i poteri economici e li spinge in una lotta internazionale. Questo processo profondo appare ormai anche alla superficie ogni giorno. L’intensità della lotta interimperialistica è cronaca quotidiana, ma non ci si può fermare al movimento apparente perché questo non può ancora indicare la sua effettiva portata politica. La ristrutturazione del capitale ha già dato alcuni riflessi politici ma, indubbiamente, non li ha ancora dati tutti. è una questione di tempo e proprio nella dimensione tempo deve saper operare il partito leninista nella sua analisi scientifica e nella sua azione politica.

Se il movimento politico è determinato dal movimento economico è proprio nella visione strategica della dimensione tempo che si ha la saldatura tra la validità di un principio e la necessaria possibilità di applicazione pratica.

Dalla profondità della ristrutturazione capitalistica, dalla sua crisi, e dal suo andamento ciclico, dalla sua durata, dalle sue convulsioni, tutti i movimenti politici determinati usciranno sconvolti e modificati. Il riflusso delle lotte operaie lo dimostra.

Solo un saldo partito leninista, che abbia fermezza di analisi strategica e di organizzazione e che abbia una chiara visione del tempo storico dei cicli delle lotte proletarie, può affrontare i compiti del riflusso e rimanere un fattore costante nella generale modificazione delle forme politiche, dei movimenti politici, dei rapporti politici che il profondo processo di ristrutturazione provoca. Un saldo partito leninista può farlo perché applica la concezione materialistica della politica, la scienza marxista della politica, alla dinamica degli avvenimenti, a tutti i fattori presenti e in divenire, quindi anche a se stesso. Anzi, li prevede perché sa che sono determinati e cerca di analizzare e di individuare le fonti e i meccanismi di determinazione.

Il partito leninista è scienziato politico nella misura in cui riesce a definire i modi, i tempi ed i ritmi della determinazione della sua azione. E più è in grado di conoscere quanto la sua azione politica è determinata, tanto più affina la sua volontà politica, potenzia la sua energia politica, opera efficacemente le sue scelte tattiche. Può fare questo, può avere consapevolezza della determinazione della sua azione, se ha una preliminare coscienza della determinazione della sua teoria che non è prodotto di individui ma prodotto storico di generazioni. Critici superficiali rimproverano ai marxisti conseguenti il richiamo persistente a testi elaborati in altri periodi e in altre condizioni e ritengono che la necessaria continuità teorica nasconda, o causi, una incapacità di analizzare la specificità della situazione contingente. è, invece, proprio la verifica del costante che permette alla concezione materialistica della politica di cogliere, analizzare, individuare ed affrontare, teoricamente e praticamente, lo specifico. Altrimenti non è dato parlare di specifico. Ogni fatto, ogni fenomeno politico diventa così, nella concezione soggettivistica della politica, un fatto ed un fenomeno irripetibile. La lotta politica è ridotta ad una lotta di personalità e non di classi e generazioni di classe.

Dal punto di vista proletario, la concezione soggettivistica della politica significa impossibilità di lotta politica autonoma di classe. Solo la classe dominante l'economia, la borghesia, non ha bisogno di una scienza politica. La sua economia complessiva determina, comunque, la sua politica complessiva, indipendentemente dalla sorte delle singole personalità politiche. Nel tempo storico della dominazione di classe ha poca importanza, per la borghesia nel complesso, la specificità della contingenza politica poiché permane la costanza del modo di produzione capitalistico e dei rapporti sociali ad esso inerenti.

Le forme politiche liberali, fasciste, democratiche, nel loro susseguirsi storico, con la loro specificità non cambiano la continuità della base economica della classe borghese e la costante riproduzione sociale delle sue generazioni.

Per il proletariato, invece, la costante riproduzione sociale delle generazioni borghesi significa costante riproduzione sociale delle generazioni di forza-lavoro. Solo se conosce questa continuità storica, e lo può fare esclusivamente tramite lo strumento della teoria organizzata in partito, può fondare la sua autonoma azione politica nel momento contingente e specifico. Il tempo storico di azione politica proletaria, sulla base di una continuità teorica, è un tempo di generazioni e non di individui. Le generazioni possono corrispondere solo ai cicli medi della riproduzione sociale del capitale. Se non si restaura, nel senso che Marx concepisce come processo storico-naturale del capitale, il tempo come tempo calcolato in generazioni, e non in singolo, si limita fortemente la teoria e la storia del marxismo.

Inevitabilmente, il tempo storico di generazione è affrontato dalla singola generazione in termini politici. Ogni singola generazione vive e affronta politicamente gli zig-zag della storia e non può affrontare la linea secolare plurigenerazionale come l'affronta la teoria. Un movimento pratico non può direttamente risolvere teoricamente ciò che solo la teoria continuata da più generazioni può risolvere nel lungo periodo. Questa è la dialettica del processo storico-naturale, scoperto dal marxismo.

In questo processo ci sono fenomeni che si dispiegano su parecchie generazioni. La legge della dittatura del proletariato, enunciata completamente nel 1852, è dimostrata praticamente nel 1917, 65 anni dopo, alla terza generazione marxista. Altre leggi, enunciate da Marx e da Engels, richiedono ancor più tempo per dispiegarsi completamente con la pratica rivoluzionaria. Il proletariato è una classe giovane. Lo è anche la sua scienza politica, teorizzata dal marxismo. Con essa, il Partito leninista delle generazioni rivoluzionarie prepara la battaglia del presente e la vittoria del futuro.

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Ilrisultato della lotta politica

La battaglia che il marxismo ha condotto per affermare la politica conseguente di classe ha dovuto sempre scontrarsi con la concezione soggettivistica dell'azione politica stessa. L'opportunismo nel proletariato si è sempre fatto strada attraverso l'impostazione soggettivistica e non scientifica dei problemi politici che la lotta di classe pone. Dentro questo varco si è, poi, insediata e, infine, imposta l'influenza della borghesia sino a stabilire il controllo di organizzazioni politiche nate dalle lotte proletarie.

Di fronte al falso dilemma "agire o non agire", "fare o non fare", Lenin pone il "che" fare. Infatti, non si tratta di scegliere se il proletariato debba avere una sua politica, ma di stabilire quale debba essere questa politica. In altri termini è in gioco la questione se il proletariato debba fare la sua politica o debba continuare a fare la politica della borghesia, di una o più frazioni della borghesia.

Lo scontro tra il marxismo rivoluzionario e l'opportunismo è proprio su questo punto. L’opportunismo, in tutte le sue varianti, ha sempre portato a giustificazione della sua azione la complessità della situazione, la complessità della politica, la complessità della contingenza. è un argomento che si ritorce contro chi lo impiega. Ogni situazione è complessa e non può essere altrimenti perché è il risultato di più fattori. Dire che la politica è complessa significa fare un discorso superficiale. Ogni realtà è complessa perché ha mille aspetti. Ma è dalla analisi di questi aspetti e dei loro nessi reciproci che si individuano i nodi fondamentali, i nodi semplici della lotta tra le classi.

Complessa è la rete dei rapporti reciproci, dei rapporti sociali e delle loro espressioni politiche. Semplice è l'obiettivo contingente di azione, la scelta tattica sui compiti immediati della lotta proletaria. La concezione soggettivistica della politica capovolge i termini della questione. Ritiene complessa la scelta contingente perché essa manca degli strumenti teorici per elaborare la strategia. Quando Gramsci ritiene che la situazione in Occidente sia più complessa che in Oriente dimostra tutta la impostazione soggettivistica e idealistica della sua concezione politica. Ricerca una teoria della politica perché non ha mai trovato quella materialistica di Marx e di Engels. La concezione materialistica ha, invece, risolto il problema della complessità della politica.

Dice Engels: "Nulla accade, in questo campo, senza intenzione cosciente, senza uno scopo voluto... Solo di rado ciò che si vuole riesce. Nella maggior parte dei casi i molti fini voluti si incrociano e si contraddicono". La lotta politica, appunto perché è azione cosciente che persegue uno scopo, diventa un processo aggettivo. Solo chi conosce superficialmente il marxismo può meravigliarsi delle conclusioni che tira Engels: "Gli scontri tra le innumerevoli volontà e attività singole creano, sul terreno storico, una situazione che è assolutamente analoga a quella che regna nella natura incosciente". La lotta di volontà coscienti produce un processo analogo a quello naturale. Il soggettivista smarrito non riesce a capirlo.

Noi, intanto, proseguiamo nella grande lezione scientifica della pagina engelsiana: "Gli scopi delle azioni sono voluti, ma i risultati che succedono effettivamente alle azioni non sono voluti oppure, anche se sembrano a tutta prima corrispondere allo scopo voluto, in conclusione hanno delle conseguenze del tutto diverse da quelle volute... In qualsiasi modo si svolge la storia degli uomini, sono gli uomini che la fanno, perseguendo ognuno i suoi propri fini consapevolmente voluti, e sono precisamente i risultati di queste numerose volontà operanti in diverse direzioni, i risultati delle loro svariate ripercussioni sul mondo esteriore, che costituiscono la storia". Il risultato della lotta politica è, quindi, la conseguenza oggettiva dello scontro di diverse volontà politiche.

La scienza della politica non può essere quella che si limita a teorizzare l'intervento cosciente. Questo non ha bisogno di essere teorizzato poiché avviene comunque. Gli interessi economici-sociali determinano le volontà politiche e ne condizionano gli scopi e la consapevolezza degli scopi. La scienza della politica è, invece, quella che analizza, studia, valuta e calcola le conseguenze della lotta politica, il risultato dello scontro delle volontà politiche. Ma può fare ciò solo se ha la consapevolezza teorica che il risultato è il vero scopo. La validità della strategia rivoluzionaria si misura sul risultato e non sulle volontà contingenti. Ecco perché la strategia si elabora sui decenni e non sugli anni.

Lenin è un profondo marxista perché ha assimilato la lezione scientifica di Engels e la ha applicata nella strategia rivoluzionaria che abbraccia tre decenni, due rivoluzioni in Russia, una guerra mondiale ed una crisi economica internazionale. Se la strategia leninista non è stata attuata nella crisi del 1929, ossia in una delle sue previste scadenze, è dovuto anche al fatto che il movimento rivoluzionario non è stato in grado di comprenderne il suo impianto teorico e scientifico.

Il principio della conseguenza oggettiva della pluralità delle volontà politiche, ereditato da Engels, che aveva permesso a Lenin di impostare scientificamente la strategia rivoluzionaria a lungo termine e di superare il condizionamento delle scelte tattiche dettate dalla pura contingenza, è stato smarrito nel formalismo del dibattito tra tatticismo e programmismo. Come se una scelta tattica avesse valore in sé e non andasse collocata in una prospettiva strategica! Come se una scelta tattica dovesse essere prefissata e sottoposta all'esame di un programma che crede di essere una strategia ed invece è un insieme di principi, valido in quanto codificazione di scoperte scientifiche ma incapace di per sé di assolvere al compito di regolare l'azione politica del Partito!

Compito della strategia è, invece, quello di analizzare e valutare le conseguenze oggettive della lotta politica; quindi anche dell'intervento tattico. In questo senso Lenin ricorda che il fine giustifica il mezzo.

Ma il "fine" sta qui, per ritornare a Engels, non per "scopo voluto" ma per "risultato".

Quando Lenin intraprende la lotta politica contro il populismo esprime una "intenzione cosciente" ed uno "scopo voluto". Opera indubbiamente una scelta tattica e si ricongiunge al programma marxista del 1848. Ma la sua lotta immediata la vede in una prospettiva strategica che calcola il risultato della lotta politica in Russia tra zarismo, populismo, liberalismo, democrazia e marxismo e, inoltre, valuta quali conseguenze internazionali saranno provocate dal risultato oggettivo di un lungo corso di lotte politiche nelle quali il partito proletario interviene attivamente e coscientemente.

Ogni analisi politica di Lenin, dal 1905 al 1908 e al 1917, indica chiaramente gli scopi immediati "voluti" dal partito e altrettanto chiaramente indica i "risultati" "non voluti" che si avranno dal corso delle lotte politiche. Quando gli elementi di analisi non permettono una valutazione univoca, Lenin indica i due probabili sbocchi e in base a questi regola l'intervento tattico, rapportando vantaggi e svantaggi per ogni singolo sbocco.

La tattica del "disfattismo rivoluzionario" e della rivoluzione del 1917 è un esempio magistrale di strategia e di scienza marxista della politica proprio perché tiene conto dei "risultati" rivoluzionari "non voluti" dai belligeranti imperialisti e delle "conseguenze" internazionali della iniziativa bolscevica. Bisogna arrivare ad una falsa discussione sul leninismo, che in realtà è una discussione sui rapporti tra l'URSS ed il PCI, per sentire Berlinguer dire che Lenin è vivente e valido perché esalta "il momento soggettivo della autonoma iniziativa del partito"! Se questa fosse la lezione di Lenin oggi non se ne discuterebbe più. In realtà è la lezione di Togliatti. Ma è una lezione per il passato e non per l'avvenire.

 

Note

1. Lettera a J. Bloch del 21 settembre 1890

2. Sull'abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti e della legge "Reale" sull'ordine pubblico, del giugno 1978.

 

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Ultima modifica 30.12.2000