Una lezione di sceneggiatura

Sergej Ejzenstejn


Scritto nel 1932.

Pubblicato in "La forma cinematografica"


Stephen (guarda indietro) E quindi il gesto, non la musica,
e neppuregli odori, sarebbe un linguaggio universale,
il dono delle lingue che rende visibile non il senso corrente
bensì la prima entelechia, il ritmo strutturale.JAMES JOYCE
(1)

Le discussioni sul «divertimento» o «intrattenimento» mi irritano. Avendo passato un bel po' di tempo a studiare la questione dell'«entusiasmo» e della «partecipazione» del pubblico in un impulso unito e generale di assorbimento, la parola «divertimento» mi suona contraria, estranea e nemica. Quando sento dire che un film deve «intrattenere», odo una voce esclamare: «Serviti!»
Quando l'egregio Ivan Ivanovic Pererepenko «ti offre una presa di tabacco da annusare, prima lecca il coperchio della tabacchiera, poi ci batte su col dito, presentandotela, e, se sei un suo conoscente, dice: "Posso osare chiederle, caro signore, di servirsi?" e se invece non ti conosce, dice: "Posso osare chiederle, caro signore, benché non abbia l'onore di conoscere il suo titolo, nome e patronimico, di servirsi?"» Ma quando è Ivan Nikiforovie Dovgocchun a offrirti una presa di tabacco, «ti mette direttamente la tabacchiera in mano, limitandosi a dire: "Serviti!"».

Io preferisco Ivan Nikiforovic col suo semplice «Serviti!»

Il compito del cinema è di mettere il pubblico in condizione di «servirsi», non di «intrattenerlo». Di afferrare, non di divertire. Di fornire al pubblico cartucce, non di dissipare le polveri che ha portato in sala. «Intrattenimento» non è in realtà un termine innocuo: nasconde un processo assolutamente concreto e attivo. Ma divertimento e intrattenimento debbono essere intesi precisamente come un semplice potenziamento quantitativo dello stesso materiale tematico interno e non assolutamente come forza qualitativa. Quando avevamo film che «facevano presa», non parlavamo d'intrattenimento. Non avevamo il tempo di annoiarci. Ma questa capacità di far presa a un certo punto è andata perduta. S'è perduta la capacità di creare film che facciano presa. E abbiamo incominciato a parlare d'intrattenimento.

È impossibile raggiungere quest'ultimo scopo senza prima impadronirsi del metodo precedente.

Lo slogan in favore del divertimento fu considerato da molti come un modo di accettare un certo elemento reazionario e, nel senso peggiore, come un'interpretazione deformata delle premesse ideologiche dei nostri film. Ancora una volta dobbiamo saperci servire d'un metodo, d'una guida direttiva da concretare in stimolanti opere d'arte. Nessuno può aiutarci in questo. Dobbiamo farlo noi.

È proprio del modo di farlo - e del come prepararsi a farlo - che intendo parlare.

Riabilitare la premessa ideologica non è cosa che si possa imporre dall'esterno, «a piacere del Repertkom» ma dev'essere un processo fondamentale, possente e vivificante, capace di fecondare anche il più eccitante elemento nell'opera creativa della regia: la «sceneggiatura» del regista. Ecco quanto si propone questo saggio.

E abbiamo per questo un'occasione ben concreta, in rapporto cioè alla formulazione del lavoro pedagogico nella terza e ultima classe del corso per registi nell'Istituto cinematografico di Stato dove, secondo il programma d'insegnamento, gli studenti debbono ora passare alla parte creativa del lavoro di regista.

I talmudisti del metodo - gli accademici dell'alto marxismo - mi critichino pure; ma io voglio affrontare questo tema e questo insegnamento con semplicità, come vita, come lavoro. Perché oggi nessuno sa ancora concretamente come trattarne, si nasconda o meno dietro citazioni accademiche.

Per qualche tempo, per anni, mi sono preoccupato di quei certi poteri sovrannaturali, trascendenti il senso comune e la ragione umana, che sembravano indispensabili alla comprensione dei « misteri » della regia creativa cinematografica.

Sezionare la musica della regia creativa! Sezionare, ma non come si seziona un cadavere (alla maniera di Salieri), la musica della regia creativa: ecco il compito a cui si deve assolvere con gli studenti che si licenziano dall'Istituto.

Affrontiamo questo problema con semplicità e non da una posizione preconcetta di metodi scolastici. Non sarà nei cadaveri delle opere cinematografiche superate che studieremo i processi con cui produrre i nostri film. La sala anatomica e il tavolo di dissezione sono i campi di prova meno adatti per lo studio del teatro. E lo studio del cinema è inseparabile dallo studio del teatro. Costruire il cinema partendo dall'«idea del cinema» e da principi astratti è cosa barbara e assurda. Soltanto da un confronto critico con le prime forme più fondamentali di spettacolo è possibile imparare criticamente la specifica metodologia cinematografica. La critica deve consistere nel raffrontare, nel comparare un fatto determinato non con l'idea, ma con un altro fatto; per essa importa soltanto che entrambi i dati di fatto vengano indagati nel modo più esatto possibile e che costituiscano differenti momenti di sviluppo l'uno in confronto all'altro.

Studieremo questo argomento nel vivo del processo creativo. E lo faremo in un primo stadio così: creando contemporaneamente un procedimento di lavoro e un metodo. E procederemo non alla maniera di Plechanov, passando da posizioni preconcette di «metodo in generale» al caso concreto particolare; ma, attraverso un lavoro concreto su materiali particolari, speriamo di arrivare a un metodo di creazione cinematografica per il regista. Dobbiamo a questo scopo spiegare il processo creativo «interiore» del regista in tutte le sue fasi e nelle sue svolte, ed esporlo al pubblico «in piena luce».

Molte sorprese attendono il giovane pieno d'illusioni. Da un certo punto di vista posso, per un momento, schierarmi dalla parte dell'«intrattenimento»? Citiamo uno dei più grandi «intrattenitori»: Alexandre Dumas padre, parlando del quale suo figlio, Dumas figlio, diceva, per scusarlo: «Mio padre è un grosso bambinone, natomi quand'ero piccolissimo». Chi non è stato affascinato dalla classica armonia della struttura labirintica del Conte di Montecristo? Chi non è stato colpito dalla logica fatale che intreccia e intesse i personaggi e i fatti del romanzo, come se questi reciproci rapporti fossero esistiti sin dal momento in cui il romanzo fu concepito? E infine chi non ha immaginato quel momento d'estasi in cui di colpo, nel cervello di quel «grasso negro» di Dumas, balenò la futura architettura del romanzo in tutti i suoi particolari e le sue finezze, col titolo Le Comte de Monte-Christo in caratteri splendidi sulla copertina? Alla visione s'accompagnava la solidi eco: « Oh se potessi mai arrivare a una cosa simile! » E com'è piacevole e confortante riconoscere, gustando quella cucina, come un'opera così notevole sia stata concepita e realizzata: come la fabbricazione del libro sia avvenuta attraverso un'opera di diligenza feroce, non per un lampo divino d'ispirazione.

È un'opera da negro, d'un uomo costretto a un duro lavoro sotto la frusta d'un sorvegliante. Dumas era realmente di origine negra ed era nato a Haiti, come Toussaint Louverture, l'eroe d'un film che mi propongo di fare, Il console negro(3). Il soprannome del nonno di Dumas - il generale Tommaso Alessandro - era il «Diavolo nero». E lo stesso Dumas era chiamato «grasso negro» dai contemporanei e rivali invidiosi. Un certo Jacquot dal nome insignificante, nascosto dietro il più nobile suono di «Eugène de Mirecourt», pubblicò un attacco dal titolo Fabrique de romans: maison Alexandre Dumas & Cie in cui collegava le origini e i metodi di Dumas :

Grattate la pelle di Dumas e troverete il selvaggio... Il suo pasto preferito sono le patate tolte brucianti dalle ceneri del focolare, che divora senza nemmeno pelarle: un negro! [Poiché gli occorrono 200 000 franchi all'anno] ingaggia ex intellettuali e traduttori a condizioni degne di negri che lavorino sotto la sferza d'un mulatto!. «Suo padre era negro!» qualcuno gli gettò in faccia una volta. «Mio nonno era una scimmia», egli ribatté. Pare che fosse più sensibile all'accusa d'aver industrializzato la stesura dei romanzi. Una volta soltanto Dumas s'inquietò veramente. Béranger, a cui era sinceramente affezionato, gli scrisse pregandolo di accogliere un esule degno d'aiuto nel gruppo di «minatori di cui egli si serviva per scavare il minerale che trasformava poi in metallo pregiato»; e Dumas rispose: «Caro vecchio amico, il mio unico minatore è la mia mano sinistra che tiene aperto il libro, mentre la destra lavora dodici ore al giorno». Esagerava. Aveva i suoi collaboratori, « ma come Napoleone aveva i suoi generali» .

E' difficile lavorare in modo così frenetico. Ma è anche più difficile realizzare qualcosa di buono senza questa frenesia. Quelli che sembrano miracoli di composizione sono semplicemente il frutto di costanza e di economia del proprio tempo durante il «periodo d'addestramento» dell'autore. Dal punto di vista della produttività questo periodo di romanticismo si distingue per la velocità vertiginosa dei suoi ritmi creativi: in otto giorni (dal 17 al 26 settembre 1829) Victor Hugo scrisse i tremila versi dell'Hernani che capovolse il teatro classico, Marion Delorme in 23 giorni, le roi s'amuse in 20 giorni, Lucrèce Borgia in 11 giorni, Angelo in 19 giorni, Marie Tudor in 19 giorni, Ruy Blas in 34 giorni. Questo si riflette anche sul piano quantitativo. L'eredità letteraria di Dumas padre comprende 1200 volumi.

La possibilità di creare opere simili è ugualmente accessibile a tutti. Consideriamo Il conte di Montecristo. Lucas-Dubrelon ci racconta come fu composto:

Durante una crociera nel Mediterraneo, Dumas era passato vicino a un'isoletta dove non aveva potuto sbarcare perché «in contumacia». Era l'isola di Montecristo. Il nome lo colpì immediatamente. Alcuni anni dopo, nel 1843, si accordò con un editore per la pubblicazione di un'opera che doveva aver per titolo Impressions de voyage dans Paris, e aveva bisogno d'un intreccio romanzesco. Un giorno lesse per caso un racconto di venti pagine, Le diamant et la vengeance, la cui vicenda si svolgeva nel periodo della seconda Restaurazione, ed era incluso nel volume di Peuchet, La police devoilée. Gli colpì la fantasia. Ecco l'argomento che aveva sognato: Montecristo alla ricerca dei suoi nemici nascosti a Parigi! Poi a Macquet venne l'idea di raccontare la storia dell'amore tra Montecristo e la bella Mercedes e del tradimento di Danglard; e i due amici aprirono un nuovo filone: da impressioni di viaggio in forma romanzata, Montecristo divenne un romanzo puro e semplice. L'abate Faria, un pazzo nato a Goa che Chateaubriand aveva visto tentare vanamente di uccidere un canarino ipnotizzandolo, contribuì ad aumentare il mistero; e il Chateau d'If incominciò a delinearsi all'orizzonte....

Così si fanno le cose. E riesperimentare, partecipandovi, l'intero processo della creazione mi sembra utilissimo e proficuo per lo studioso. I «fautori del metodo», che la pensano diversamente e seguono altre «ricette», sciupano semplicemente il nostro tempo prezioso. Ma «il caso» è qui assai meno im­portante di quel che potrebbe sembrare, ed è possibile scorgervi e scoprirvi la «regolarità» del processo creativo. Il metodo esiste, ma il guaio consiste in questo: che da posizioni metodologiche preconcette non nasce nulla. E una corrente tempestosa di energia creativa non regolata dal metodo produce ancor meno.

Analizzare così, un passo dopo l'altro, la struttura delle opere d'arte, serve a chiarire con quale regolarità rigorosa, rintracciabile in ogni elemento della loro sovrastruttura, esse emergono da fondamentali premesse sociali e ideologiche. La febbre dell'oro, la smania di arricchire dell'epoca di Luigi Filippo è anch'essa un fattore determinante nell'aurea leggenda della favolosa ricchezza dell'ex marinaio divenuto un conte potentissimo, non meno determinante dei ricordi infantili di Dumas su Sheerazade e i tesori di Ali Babà. Il semplice fatto che un marinaio potesse diventare conte, significava che «chiunque» poteva diventarlo. Nella corsa generale all'oro e ai titoli nobiliari, il marinaio Dantès, diventato il ricchissimo conte di Montecristo, rappresentava uno splendido «ideale sociale» per i borghesi presi dalla febbre del denaro. Non senza ragione si attribuiscono a questa figura i lineamenti d'un idealizzato autoritratto. Che anche Dumas, come tutti gli altri, era immerso nel torbido mare d'oro accumulato con le equivoche speculazioni del regno del Roi bourgeois. «Un milione? È esattamente la somma che porto in tasca come denaro spicciolo! »

Una simile battuta era lo stesso irraggiungibile ideale tanto del « grasso negro », allora sovrano letterario del mondo parigino del giornalismo, del feuilleton e del dramma, che sperperava parole e denaro con la stessa indifferenza, quanto delle schiere sterminate di avidi truffatori e mascalzoni che dominavano la vita economica di Parigi. Ma per ben intendere fino a che punto queste premesse sociali, economiche e ideologiche determinino ogni minimo mutamento di forma e come siano inseparabilmente unite nei loro processi, bisogna seguire in modo indipendente e coscienzioso, dal principio alla fine, un ciclo creativo continuo e completo. Certo, la cosa più notevole sarebbe prendere un altro Goethe o un altro Gogol, metterlo davanti a un pubblico e fargli scrivere una terza parte del Faust o un secondo volume delle Anime morte. Purtroppo non abbiamo a nostra disposizione neanche un Alexandre Dumas vivente. Ecco perché noi del terzo corso dell'Istituto ci trasformiamo in un regista collettivo.

Il maestro non è che primus inter pares. Il collettivo (e più tardi ogni suo membro individualmente) si fa strada attraverso tutte le difficoltà e i tormenti dell'invenzione poetica, attraverso l'intero processo creativo, dal primo vago barlume del soggetto sino a una decisione particolare come quella riguardante la resa cinematografica dei bottoni sulla giacca di cuoio dell'ultima comparsa. Compito del maestro è soltanto spingere, con mossa abile e tempestiva, il collettivo verso difficoltà «normali» e «fruttuose» e verso una chiara ed esatta consapevolezza di quei problemi le cui soluzioni portano alla costruzione e non a vane chiacchiere «intorno» a essa. Così t'insegnano a far l'acrobata nel circo. Il trapezio è spietatamente trattenuto, oppure chi impara incontra, se sbaglia il tempo, un pugno invece d'una mano pronta ad aiutarlo. Poco male se cade due o tre volte fuori della rete di protezione sui sedili che circondano l'arena. La prossima volta non sbaglierà più. Occorre però, a ogni stadio dello sviluppo del processo creativo, mettere in mano ai «guerrieri» in imbarazzo l'opportuno materiale secondario e, al momento adatto, l'«eredità del passato». E questo non basta se non si ha sotto mano quell'esauriente e sintetico gigante che è il cinema e che, a ogni momento, è qualcosa di più della «eredità del passato» e dell'«erede vivente», ma crea nel proprio campo una solida tecnica. In soli tre anni un corso sistematico su argomenti specifici ha sostituito, all'Istituto, una vaga infarinatura di conferenze sporadiche tenute da cineasti «illustri». Costoro arrivavano all'Istituto di corsa, come si sale su un tram, estranei e disgiunti esattamente come i passeggeri d'un mezzo di trasporto pubblico, e si precipitavano fuori il più presto possibile dopo aver blaterato per 45 minuti su argomenti sconnessi e frammentari. Scomparivano poi turbinosamente dalla vista dei proseliti storditi, seguendo l'orbita delle loro attività private.

Anche questo «piccolo episodio di malcostume» doveva essere fondamentalmente riformato. Nel piano del corso generale gli specialisti sono invitati, al momento giusto, a trattare temi definiti e concreti, in uno stadio preciso del movimento generale di sviluppo della creazione: a trattare l'argomento particolare in cui ciascuno è esperto. Tutto questo tende a un progetto abbastanza ampio in cui il collettivo o, più tardi, l'individuo rimane responsabile sino alla fine. Liberandoci dai «piccoli episodi di malcostume» sul piano dell'insegnamento, abbiamo anche eliminato i pietosi «piccoli episodi», preparati dagli studenti laureandi. Queste brevi «esercitazioni», disordinate e meschine, destinate a soddisfare unicamente chi le fa, ancor più povere d'intelligenza di quanto siano brevi di durata, devono essere respinte come del tutto inefficaci. Dopo aver lavorato a un progetto sulla misura, diciamo, d'una cattedrale, il laureando in architettura finisce in genere col costruire qualcosa di accessibile a tutti: un gabinetto. Ma, dopo aver disegnato, per ottenere la laurea, un minuscolo pissoir, è pericoloso volgersi a chi sa cosa! E tuttavia è quello che abbiamo visto capitare, un anno dopo l'altro, ai laureati dell'Istituto. Questo sconcio deve assolutamente finire.

È vero che in pratica un film è diviso in episodi separati. Ma tutti questi episodi sono attaccati al tronco d'un unico tutto ideologico, compositivo e stilistico. L'arte cinematografica non consiste nel saper scegliere inquadrature fantasiose né nel riprendere gli oggetti da un'angolazione insolita. L'arte è in ogni frammento di film, essendo parte organica d'un tutto organicamente concepito. Queste esercitazioni devono essere segmenti d'un unico tutto, parti organicamente pensate e fotografate di un'ampia concezione generale ricca di significato, e mai esercitazioni disordinate e frammentarie. Sulla base di questi segmenti filmati, sugli episodi non filmati ma preparati che debbono precederli o seguirli, sullo sviluppo dei piani e dei fogli di montaggio in vista del posto che queste parti verranno a occupare nel tutto, su questa base sarà possibile veramente eliminare negli studenti la mancanza di responsabilità creativa.

Si esaminerà il loro lavoro dal principio alla fine, dimostrando contemporaneamente in modo responsabile fino a che punto essi siano in grado di realizzare nella pratica il concetto generale saldamente definito. Anche se a questo punto non si tratta ancora del concetto individuale dello studente ma del concetto creato collettivamente, tuttavia s'insegna così la difficile lezione dell'autodisciplina. Autodisciplina che sarà ancor più necessaria quando il concetto sarà suo, individuale. Ma, prima di giungere a quest'ultimo stadio, a quest'ultima frontiera che già sconfina nella produzione extrascolastica, gli studenti saranno esposti a lungo ai colpi e alle critiche degli «esperti» vivi e morti.

Si avrà, a un certo punto, una lunga discussione circa il tipo, la figura, e il carattere dei personaggi da lui previ­sti. Si smuoveranno in queste discussioni le ceneri di Balzac, Gogol', Dostoevskij e Ben Jonson. Si discetterà sulla personificazione d'un determinato tipo, immagine, carattere. Sentiremo da Kacalov come abbia lavorato alla sua interpretazione del «barone» nei Bassifondi, Batalov verrà a fare una chiacchierata con noi; oppure Maksim Strauch ci parlerà del meccanismo con cui ha creato Rbincik nel dramma di Natan Zarchi La via della gioia. Muovendo nella foresta della costruzione del soggetto, smonteremo con Aksenov gli scheletri degli elisabettiani, ascolteremo quanto Dumas padre e Viktor Sklovskij hanno da dirci circa il delinearsi degli intrecci e i metodi delle opere di Weltmann. Poi, avendo discusso a fondo le situazioni drammatiche con l'ombra di John Webster, con Natan Zarchi e Vol'kenstein, c'interesseremo al modo in cui queste situazioni sono espresse in parole.

Aleksej Maksimovic Gor'kij non si rifiuterà probabilmente d'iniziarci ai metodi da lui seguiti nello scrivere il dialogo dei Bassifondi o Egor Bulicèv e altri. Nikolaj Erdmann ci dirà come ha lavorato nelle sue opere. E Isaak Babe' ci parlerà della specifica testura di. immagine e parola e della tecnica della concisione estrema dei mezzi espressivi letterari: Babel' che, forse, conosce in pratica meglio di ogni altro il grande segreto per cui «non c'è; lama che possa entrare nel cuore umano con effetto più stupefacente d'una frase collocata al momento giusto»; E ci potrà dire anche come, con tale concisione, abbia creato in modo cosi inimitabile il suo mirabile (e tutt'altro che abbastanza apprezzato) dramma Tramonto. È questo forse il miglior esempio di dialogo drammatico che si sia avuto in questi ultimi anni.

Tutto questo avverrà agli stadi corrispondenti del singolo processo di creazione del nostro regista collettivo.

La fusione di questi stadi separati, sviluppati nel corso di digressioni analitiche indipendenti, non è poi troppo strana. La costruzione del tema e del soggetto possono a volte essere completamente indipendenti dallo sviluppo verbale. Tanto Il revisore quanto Le anime morte non sono forse brillanti esempi dello sviluppo di soggetti «posti» a Gogol dal di fuori?.

C'è poi la questione dell'accompagnamento musicale per il mezzo sonoro. C'è la questione dei mezzi materiali. C'è anche l'analisi d'un certo numero di esempi della nostra «eredità», anche in altri campi, ciascuno dal punto di vista di quella particolare esigenza in cui esso, ed esso in particolare, può essere doppiamente utile.

James Joyce ed Emile Zola.

Honoré Daumier ed Edgar Degas.

Toulouse-Lautrec o Stendhal.

E alla fine specialisti marxisti-leninisti analizzeranno in modo circostanziato la questione della corretta formulazione ideologica del problema nella sua impostazione tematica e sociale. Speriamo così di dare una certa sicurezza a quelli che, stimolati dall'esperienza e qualificati da una guida costante, saranno messi in grado di creare film.

La parte più seria e interessante di questo lavoro - la parte centrale dell'opera creativa del regista - è di addestrare gli studenti nel «trattamento» e di elaborarlo con loro. Noi lavoriamo in genere su un piano sperimentale così elementare e banale che non abbiamo neanche la possibilità di osservare opere originali, vive, creative, ricche di elementi sociali ben elaborati ed espressi in forma soddisfacente.

Le nostre opere sono a un tale livello di semplificazione che fanno pensare al famoso disegno animato della fabbrica automatica di salsicce: da una parte entrano grosse casse piene di porci e dall'altra vediamo uscire le stesse casse piene di salsicce. Tra il nudo scheletro schematico dello slogan e la pelle vuota della forma esterna non ci sono strati di carne e muscoli, vivi, tangibili. Non ci sono organi che agiscano in reciproco rapporto. E poi ci si meraviglia quando vediamo la pelle pendere floscia e informe. Attraverso la pietosa semplificazione sporgono le ossa aguzze d'una percezione meccanica dei temi «sociali». Non c'è abbastanza carne, non ci sono abbastanza muscoli.

Ecco perché l'Egor Bulicèv e altri di Gor'kij fu salutato con gioia così unanime. Anche se l'opera non ha dato risposta a un nostro problema fondamentale, e gli uomini e le donne che vi compaiono non sono ancora nostri, di oggi, continuiamo ad aspettare un tale risultato dalla mente di Aleksej Maksimovic. Però qui c'è carne, qui ci sono muscoli. E questa carne è stata creata oggi quando attorno a noi, sulla scena e sullo schermo, non vediamo neanche gli «uomini in un astuccio » di cui scrisse Cechov, ma semplici astucci senza uomini. Ben imbottite come sono di banali citazioni, le nostre opere fanno pensare al filo spinato di un'aspra verità coperto di percalle; e ci meravigliamo che il sangue non circoli attraverso il filo e che il percalle non palpiti di vita.

Dal sublime al ridicolo non c'è che un passo. Da una premessa ideale sublime, formulata in uno slogan, a un'opera d'arte viva ci sono diverse centinaia di passi. Se facciamo un passo soltanto otteniamo come unico ridicolo risultato la meschina robaccia di oggi. Dobbiamo imparare a far opere complete in tre dimensioni, uscendo dai piatti modelli bidimensionali, attraversati da un «filo diretto» che va dallo slogan al soggetto senza transizione. Come la posizione ideologica influisca sull'atteggiamento con cui si affronta un film, possiamo vederlo nella mia opera, anche se in circostanze sociali piuttosto insolite. Accadde a Hollywood, nel mondo della Paramount Pictures; e si trattava del trattamento e della sceneggiatura di un'opera di qualità eccezionale. Benché non privo di difetti ideologici, Una tragedia americana di Theodore Dreiser è un romanzo d'un certo livello che ha tutti i requisiti per rimanere tra le opere classiche del suo tempo e del suo paese. Che da esso potesse nascere il conflitto di due punti di vista inconciliabili - quello della direzione Paramount e il nostro - si vide fin dal primo momento, quando si presentò il primo e informe abbozzo di sceneggiatura.

«Secondo il vostro trattamento, Clyde Griffiths è colpevole o no? », fu la prima domanda che ci rivolse B. P. Schulberg, capo della Paramount.

«Non colpevole», rispondemmo.

«Allora la vostra sceneggiatura è una sfida mostruosa alla società americana...»

Spiegammo che, secondo noi, il delitto commesso da Griffiths era il risultato finale di quei rapporti sociali alla cui influenza egli era soggetto a ogni stadio dello svolgimento della sua vita e della sua personalità, durante tutto il film. In questo consisteva essenzialmente per noi l'interesse dell'opera.

«Avremmo preferito una semplice e concisa storia poliziesca centrata su un delitto...»

«...e sull'amore di due giovani», aggiunse qualcuno con un sospiro.

La possibilità di due trattamenti così fondamentalmente opposti della figura del protagonista non dovrebbe meravigliarvi. Il romanzo di Dreiser è ampio e sconfinato come il fiume Hudson; immenso come la vita stessa, e interpretabile secondo diversi punti di vista. Come ogni fenomeno «neutro» della natura stessa, il suo romanzo è fatto per il novantanove per cento di fatti obiettivi e per l'uno per cento del modo di considerarli. Da questo poema epico di verità e obiettività cosmica doveva venir fuori una tragedia: il che era impensabile senza una visione universale del suo significato e del suo scopo.

La questione della colpa o dell'innocenza del protagonista preoccupava invece i responsabili della produzione da un altro punto di vista: considerare il protagonista colpevole significava renderlo poco interessante. E come potevamo permetterci di rendere un eroe poco interessante? Che influenza avrebbe avuto la cosa sugli incassi? E se non era colpevole...

A causa delle difficoltà sorte intorno a «questo maledetto problema», Una tragedia americana rimase inutilizzata per cinque anni dopo che la Paramount ne ebbe acquistato i diritti. Le si accostarono — ma senza fare molto di più — lo stesso patriarca del cinema David Wark Griffith, Lubitsch e molti altri. Con la solita cauta prudenza, anche nel nostro caso i «capi» rimandarono la decisione. Dovevamo prima completare la sceneggiatura «a modo nostro», e poi si sarebbe visto...

Risulta evidente da quanto già ho detto che nel nostro caso, diversamente che in precedenti occasioni, la differenza di opinione non riguardava soltanto una situazione particolare, ma era assai più profonda, e investiva in modo completo e radicale il problema del trattamento dal punto di vista sociale. È curioso osservare come in questo modo la posizione presa determini sin dal principio l'elaborazione delle singole parti e come essa, ed essa sola, con le sue esigenze, permei tutti i problemi concernenti le situazioni decisive, dall'approfondimento psicologico agli aspetti «puramente formali» della costruzione come un tutto; e come spinga verso metodi completamente nuovi, «puramente formali», che, generalizzati, possono costituire una nuova concezione creativa delle principali norme del cinema in quanto tale.

Sarebbe difficile riassumere qui l'intreccio del romanzo: è impossibile fare in poche righe quello che Dreiser tentò di fare in due grossi volumi. Accenneremo soltanto al nodo centrale apparente dell'aspetto esteriore della tragedia, e cioè al delitto in sé, benché naturalmente la tragedia non consista in questo, ma nel tragico cammino seguito da Clyde spinto al delitto dalla struttura della società. Nella nostra sceneggiatura l'attenzione fondamentale si concentrava proprio su questo. Dopo aver sedotto una giovane operaia che lavora in un reparto da lui diretto, Clyde Griffiths non riesce a farla abortire - cosa severamente vietata negli Stati Uniti -e si vede costretto a sposarla. Ma questo rovinerebbe tutte le prospettive di carriera futura, mandando a monte il suo matrimonio con una ricca ragazza innamorata.

È questo il dilemma di Clyde: rinunciare per sempre alla carriera e al successo sociale, o... liberarsi della ragazza. A questo punto le vicende di Clyde e i suoi conflitti con la realtà americana hanno già deformato la psicologia del protagonista; e così, dopo una lunga lotta interiore (non coi principi morali, ma con la propria nevrastenica mancanza di carattere), sceglie la seconda alternativa. Minuziosamente elabora e prepara l'assassinio: una barca dovrà capovolgersi in modo apparentemente casuale. Tutti i particolari sono studiati con l'eccessivo scrupolo del criminale inesperto, che finisce col cadere in una rete fatale d'incontrovertibili prove.

Va in barca con la ragazza. Durante la gita il conflitto tra la pietà e l'avversione, tra la debolezza di carattere e l'avido desiderio d'un brillante e fortunato avvenire, giunge al massimo. Quasi in stato d'incoscienza, dominato da un folle panico interiore, fa capovolgere la barca. La ragazza annega. Abbandonandola, Clyde si salva secondo il piano previ­sto, e cade in quella stessa rete che aveva intessuto per liberarsi.

L'episodio della barca avviene come avvengono in genere incidenti analoghi: non completamente definito né chiaramente percepito, rimane un groviglio indifferenziato. Dreiser presenta la cosa in modo cosi «imparziale» che l'ulteriore sviluppo dei fatti è lasciato formalmente non al corso logico della storia, ma ai procedimenti giudiziari. Era indispensabile per noi accentuare l'innocenza reale e formale di Clyde nel momento stesso in cui commetteva il delitto. Soltanto così potevamo chiarire in modo sufficiente la «mostruosa» sfida lanciata a una società il cui meccanismo porta un giovane senza carattere a compiere un'azione simile e poi, in nome della morale e della giustizia, lo condanna alla sedia elettrica. La santità del principio formale nei codici dell'onore, della morale, della giustizia e della religione, è in America preponderante e fondamentale. Su di essa si fondano il gioco senza fine degli avvocati nei tribunali, le schermaglie dei giuristi tra loro, dei parlamentari l'un contro l'altro. L'essenza di ciò di cui si discute diventa una questione del tutto secondaria. Ciò che importa è l'abilità formale di chi discute.

La condanna di Clyde, benché essenzialmente giustificata dalla parte da lui svolta nella faccenda (e che riguarda lui solo), in America sarebbe apparsa, qualora si fosse dimostrata la sua innocenza formale, come qualcosa di «mostruoso»: un assassinio giudiziario. Era perciò necessario sviluppare la scena sulla barca in modo da dimostrare senza possibilità di equivoci l'innocenza formale di Clyde: ma senza minimamente assolverlo né attenuare in alcun modo il biasimo.

Scegliemmo questa via: Clyde vuole commettere il delitto, ma non può. Al momento in cui dovrebbe compiere il gesto decisivo, non ne ha la forza, gli fa difetto la volontà. Ma, prima di questa sua intima «sconfitta», egli suscita nella giovane Roberta tanta agitazione che, quando si tende verso di lei, già intimamente vinto e pronto a «tirarsi indietro», ella si ritrae atterrita. La barca, sbilanciata, oscilla. Quando, cercando di sostenerla, le sbatte senza volerlo la macchina fotografica in faccia, la ragazza finisce col perdere la testa e, atterrita, inciampa, cade, e la barca si capovolge.

Per aumentare la tensione, la facciamo ricomparire a galla. Arriviamo persino a far nuotare Clyde verso di lei nel tentativo di salvarla. Ma il meccanismo del delitto è ormai in moto e continua fino alla fine, anche contro la volontà di Clyde: Roberta getta un debole grido, cerca di ritrarsi da lui con terrore e, non sapendo nuotare, affoga. Clyde, che è invece un ottimo nuotatore, raggiunge la riva e, tornando in sé; continua ad agire secondo il piano fatale da lui preparato per il delitto e che per poco non era fallito.

Evidente è qui l'approfondimento psicologico e tragico della situazione. La tragedia si eleva a un piano quasi greco di «cieca Moira, o fato» che, una volta chiamata in vita, non rinuncia alla sua presa su chi l'ha invocata: ha una «causalità» tragica e tormentosa che, affermati i suoi diritti, porta alla sua logica conclusione un implacabile processo.

Proprio in questo annullamento dell'essere umano per opera d'un principio cosmico «cieco», per il meccanico procedere di leggi ch'egli non può dominare, consiste uno dei principi fondamentali dell'antica tragedia. Riflette la dipendenza passiva dell'uomo di quel tempo dalle forze della natura. Fa pensare a ciò che Engels, parlando d'un altro periodo storico, scrisse di Calvino:

La sua dottrina della predestinazione era l'espressione re­ligiosa del fatto che, nel mondo commerciale della concor­renza il successo o il falliménto non derivano dall'attività o dall'abilità dell'uomo, ma da circostanze indipendenti da lui. «Non si tratta dunque della volontà o dell'azione del singolo, ma della grazia» di superiori, ma sconosciute, forze economiche (2).

Risalire alle concezioni cosmiche primitive, viste attraverso le circostanze del nostro tempo, aiuta sempre a portare una scena drammatica all'altezza della tragedia. Ma il nostro trattamento non si limitava a questo: permetteva di dare un maggior significato e risalto alle tappe del corso ulteriore dell'azione.

Nel libro di Dreiser, «per salvare l'onore della famiglia» il ricco zio di Clyde gli fornisce un «apparato» di difesa. Gli avvocati difensori sono convinti che si tratti d'un delitto. Ciononostante, inventano un «intimo mutamento» che Clyde avrebbe avuto sotto l'influsso del suo amore e della sua pietà per Roberta. Inventato sotto la spinta del momento, l'espediente va abbastanza bene. Assai meno quando si pensi che c'è stato davvero un mutamento; che alla base di questo mutamento ci son stati motivi del tutto diversi; che in realtà non vi fu delitto, mentre gli avvocati sono convinti che il delitto sia stato commesso. E con una evidente menzogna, così vicina alla verità e al tempo stesso cosi lontana da essa, tentano compiacentemente di far assolvere e salvare l'imputato.

E il male si fa ancora più drammatico quando, poco dopo, il contenuto «ideologico» del trattamento viola le proporzioni e, in certi punti, l'indifferenza epica del racconto di Dreiser. Quasi tutto il secondo volume tratta del processo di Clyde per l'assassinio di Roberta e di quanto si fa per portarlo alla condanna, alla sedia elettrica. Solo da alcuni cenni si capisce però come il vero scopo del processo e della condanna di Clyde non abbia nulla a che fare con lui. Tende unicamente a rendere popolare presso la popolazione agricola dello stato (Roberta era figlia d'un contadino) il procuratore distrettuale Mason e a sostenere la sua candidatura a giudice.
La difesa si occupa del caso che sa disperato («nella migliore delle ipotesi dieci anni di galera») sullo stesso piano di lotta politica. Appartenendo alla corrente politica opposta, — ma alla stessa classe - tende essenzialmente con tutti i suoi sforzi a sconfìggere l'odiato accusatore. Per gli uni come per gli altri Clyde è soltanto un mezzo per raggiungere un fine.

Già un balocco nelle mani della «cieca» Moira, fato, «causalità» alla greca, Clyde diventa anche un balocco nelle mani del tutt'altro che cieco meccanismo della giustizia borghese, usata come strumento d'intrigo politico. Il caso particolare di Clyde Griffiths viene così tragicamente esteso e generalizzato sino a diventare una vera «tragedia americana in generale», la storia caratteristica d'un giovane americano all'inizio del secolo xx.

L'insieme degli intrighi che fa da sfondo al processo fu quasi interamente eliminato nella sceneggiatura e sosti­tuito dai maneggi preelettorali, visibili attraverso l'artificiosa solennità del tribunale, usato come semplice campo di manovra d'una campagna politica. Questa interpretazione fondamentale del delitto determina l'approfondimento tragico e la più acuta forza ideologica di un'altra parte del film e di un'altra figura: quella della madre.

La madre di Clyde dirige una missione religiosa. La sua fede è cieco fanatismo. È così convinta del suo assurdo dogma che la sua figura costringe a un involontario rispetto e diventa quasi monumentale; vediamo intorno a lei la luminosa aureola della martire. E questo benché essa sia la prima incarnazione della colpa della società americana nei riguardi di Clyde: i suoi insegnamenti e i suoi principi, il suo tendere al Cielo anziché preparare il figlio al lavoro, sono state le premesse della tragedia.
Dreiser ci fa vedere come lotti sino alla fine per dimostrare l'innocenza del figlio; lavora come cronista giudi­ziaria d'un giornale di provincia per poter assistere al processo, gira l'America facendo conferenze (come le madri e le sorelle dei ragazzi Scottsboro) per raccogliere denaro sufficiente a ricorrere in appello quando tutti lo abbandonano. E finisce coll'acquistare la grandezza di un'eroina. Nell'opera di Dreiser questa grandezza ispira simpatia per la dottrina morale e religiosa su cui si fonda.

Nella nostra versione, Clyde, nella cella della morte, confessa a sua madre (non al reverendo MacMillan, come nel romanzo) che, pur non avendo ucciso Roberta, aveva pensato di farlo. Sua madre, secondo la cui concezione ultracristiana la parola è il fatto e pensare un delitto equivale a compierlo, rimane stordita dalla confessione. In modo esattamente opposto a quello che fa la grandezza della madre nel romanzo di Gor'kij, anch'essa si fa traditrice di suo figlio. Quando va dal governatore per chiedergli la grazia, si sente perduta alla domanda diretta: «Ma lei crede all'innocenza di suo figlio?» In questo momento, decisivo per il destino del figlio, ella tace.

Il sofisma cristiano di un'unità ideale (di pensiero e di azione) e di un'unità materiale (de facto), parodia del procedimento dialettico, porta alla tragica soluzione finale. La domanda di grazia è respinta e vengono screditati al tempo stesso il dogma e il dogmatismo di chi l'aveva presentata. Il fatale momento di silenzio della madre non può neanche essere cancellato dalle sue lacrime quando prende per sempre congedo dal figlio ch'ella ha, con le proprie mani, collocato nelle fauci del Baal cristiano. Più viva è la tristezza di queste ultime scene, più amaramente esse condannano l'ideologia che l'ha creata.

Secondo me, nel nostro trattamento riuscivamo a strappar via alcune delle maschere — anche se non tutte — dalla figura monumentale della madre. E Dreiser fu il primo ad approvare tutte le nostre modifiche all'opera sua. Nel nostro trattamento la tragedia implicita nel romanzo era consumata assai prima che nelle ultime scene. Il finale - la cella, la sedia elettrica, la lucida sputacchiera (che ho visto coi miei occhi a Sing-Sing) ai suoi piedi -tutto questo non è che un esempio particolare di quella tragedia che continua a essere rappresentata negli Stati Uniti di ora in ora e di minuto in minuto molto al di là dei limiti del romanzo. Ma la scelta d'una formula d'interpretazione sociale così «secca» e «comune» serve a qualcosa di più che a una precisazione delle situazioni e a un approfondimento delle immagini e dei personaggi.

Un trattamento simile agisce anche profondamente sui metodi puramente formali. Fu in particolare grazie a questo, e da questo, che si formulò in modo definitivo il concetto di «monologo interiore» nel cinema, idea a cui pensavo da sei anni, prima ancora che l'avvento del sonoro ne rendesse possibile la realizzazione pratica.

Come abbiamo visto, ci voleva una nettezza straordinariamente differenziata nell'esposizione di quanto avveniva in Clyde prima dell'« incidente » della barca, e ci rendemmo conto che qualsiasi cosa da noi fatta per presentarla in modo esteriore non avrebbe risolto il problema. Tutto l'arsenale di sopracciglia aggrottate, occhi roteanti, respiro ansante, atteggiamenti stravolti, profili di pietra, o primi piani di mani che si contraggono in modo convulso, era inadeguato a esprimere in tutte le sue sfumature le sottigliezze della lotta interiore. La macchina da presa doveva penetrare «nell'intimo» di Clyde. Bisognava rappresentare in modo uditivo e visivo il febbrile succedersi di pensieri, alternato con la realtà esterna: la barca, la ragazza seduta di fronte a lui, le sue azioni. Era nata la forma del «monologo interiore»(3). Quegli abbozzi di montaggio erano meravigliosi. La letteratura stessa è quasi impotente in questo caso. Deve limitarsi o alla retorica primitiva usata da Dreiser per descrivere gli intimi mormorii di Clyde o alle anche peggiori tirate pseudoclassiche dei protagonisti di O'Neill in Strano interludio, che raccontano al pubblico, in «a parte», quello che pensano, per completare quello che si dicono l'un l'altro. In questo il teatro zoppica più della prosa letteraria ortodossa.

Soltanto il cinema possiede un mezzo per rappresentare in modo adeguato l'intero svolgimento del pensiero in una mente turbata. Anche quando la letteratura ci riesce, si tratta d'una letteratura che viola i limiti del terreno ortodosso. La cosa più brillantemente riuscita in questo campo sono stati gli immortali «monologhi interiori» di Leopold Bloom nell'Ulysses. Quando Joyce e io c'incontrammo a Parigi egli s'interessò vivamente ai miei piani per il monologo interiore filmato, al quale s'apre un campo assai più ampio di quello concesso dalla letteratura. Nonostante la sua quasi totale cecità, Joyce volle vedere quelle parti del Potèmkin e di Ottobre che, coi mezzi espressivi offerti dal cinema, seguono linee analoghe.

Il «monologo interiore», come mezzo letterario per abolire la disfinzione tra soggetto e oggetto nel rappresentare la ri-esperienza dell'eroe in forma cristallizzata, è stato scoperto dagli studiosi in esperimenti letterari che risalgono al 1888, nell'opera di Edouard Dujardin, pioniere del «flusso di coscienza», Les lauriers sont coupés. Come tema, come percezione del mondo, come «sensazione», come descrizione di un oggetto, ma non come metodo, lo si può trovare naturalmente anche prima. «Scivolare» dall'oggettivo al soggettivo e viceversa è caratteristico degli scritti dei romantici: E. T. A. Hofmann, Novalis, Gerard de Nerval. Come metodo di stile letterario, piuttosto che come legame nella storia, o forma di descrizione letteraria, lo troviamo usato per la prima volta da Dujardin, quale metodo specifico di esposizione, quale metodo specifico di costruzione; ma soltanto trentun anni dopo, con Joyce e Larbaud, raggiunse una vera perfezione letteraria.

Soltanto nel cinema però trova la sua completa espressione. Perché soltanto il film sonoro è in grado di ricostruire tutte le fasi e tutti gli elementi specifici del corso del pensiero. Che schizzi mirabili erano mai quei fogli di montaggio! Come il pensiero, procedevano a volte attraverso immagini visive. Attraverso il suono. Sincronizzato o non sincronizzato. Poi come suoni. Informi. O con immagini sonore: con suoni obiettivamente rappresentativi... Poi, di colpo, parole formulate in modo chiaramente intellettuale: «intellettuali» e spassionate come parole pronunciate. Con uno schermo nero, una precipitosa visività priva di immagini. Poi in un linguaggio appassionato e sconnesso. Soltan­to nomi. Oppure soltanto verbi. Poi interiezioni. Con moti alterni di forme senza scopo, turbinanti in sincronismo con esse. Poi immagini visive inseguentisi in completo silenzio. Poi legate a suoni polifonici. Poi immagini polifoniche. Poi, contemporaneamente, entrambe. Poi interpolate nel corso esteriore dell'azione, poi interpolando elementi dell'azione esterna nel monologo interno. Come se presentassero nell'interno dei personaggi l'intimo gioco, il conflitto dei dubbi, le esplosioni della passone, la voce della ragione, rapidamente o al rallentatore, segnando i diversi ritmi dell'uno e dell'altro e, al tempo stesso, mettendoli a contrasto con l'assenza quasi completa di azione esteriore: febbrile dibattito interno dietro la maschera di pietra del volto.

Com'è affascinante seguire il flusso del proprio pensiero, specie quando si è eccitati, allo scopo di coglier se stessi mentre si guarda e si ascolta la propria mente! Come si parla «a se stessi», in modo diverso da quando si parla «fuori di se stessi». La sintassi del discorso interno d'istinto dal discorso esterno. Le palpitanti parole interne che corrispondono alle immagini visive. Contrasti con le circostanze esterne. Come agiscono le une sulle altre...

Ascoltare e studiare, allo scopo di comprendere le leggi strutturali e fonderle nella costruzione di un monologo interiore teso al massimo per rendere il tormento dell'esperienza interiore tragica. Che cosa affascinante! E che campo aperto all'invenzione creativa e all'osser vazione. E come diventa ovvio che il materiale del cinema sonoro non è il dialogo.

Il vero materiale del cinema sonoro è naturalmente il monologo.

E come inaspettatamente, nell'incarnazione pratica d'un imprevisto e particolare caso concreto da esprimere, esso si richiama all'«ultima parola», teoricamente prevista da tempo, sulla forma del montaggio in generale. Che la forma del montaggio, in quanto struttura, è una ricostruzione delle leggi del processo del pensiero. Qui la particolarità del trattamento, fecondata da un metodo formale nuovo e non superato, va oltre i suoi limiti e generalizza originalmente la teoria della forma del montaggio come un tutto unico. (Ma questo non significa affatto che il processo del pensiero come forma di montaggio abbia necessariamente come soggetto il processo del pensiero! )

Gli appunti per questa rivoluzionaria svolta di 18o° nella cultura del cinema sonoro rimasero a languire in una valigia all'albergo e finirono seppelliti sotto una massa di libri come Pompei sotto la lava; e mentre aspettavano di venire realizzati...
Una tragedia americana fu affidata a Josef von Sternberg che immediatamente e letteralmente buttò via tutto ciò su cui si era fondato il nostro trattamento, rimettendoci tutto quello che avevamo buttato via. Quanto al «monologo interiore», non ci pensò neanche...Sternberg si preoccupò unicamente dei desideri dei produttori e fece un semplice film poliziesco. Dreiser, vecchio e canuto leone, si batté per la nostra «deformazione» della sua opera e citò in tribunale la Paramount che aveva filmato una versione del suo romanzo formalmente ed esteriormente corretta.
Due anni dopo, lo Strano interludio di O'Neill fu « adattato» per lo schermo: due o tre voci esplicative comparvero intorno al volto silenzioso dell'eroe, rendendo più pesante la drammaturgia cuneiforme dell'autore. Crudele parodia di quel che si sarebbe potuto ottenere con giusti processi di montaggio: col monologo interiore!

Lavoro di uno stesso tipo. Soluzione col trattamento dell opera in questione. Giudizio attraverso il trattamento. Ma di enorme significato, compito costruttivamente artistico e formalmente fecondo per questa «noiosa», «obbligatoria», «imposta» ideologia e limitazione ideologica. Non realizzazione schematica, ma organismo vivo di produzione: ecco il compito fondamentale che deve affrontare il collettivo di regia del terzo corso dell'Istituto cinematografico di Stato. E con tutti i metodi possibili cercheremo i temi per questo lavoro nel multiforme oceano tematico che ci circonda.
[1932]

 

 

NOTE

 

1James Joyce, Ulysses, London 1922 (trad. it. Ulisse, Milano i960, p,586).

2 F.Engels, L'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza

3Ecco un esempio: «Puoi salvarla, ma puoi anche non farlo! Guarda come si agita! E stordita. Da sola è incapace di salvarsi e se tu ti avvicini a lei ora, nel suo cieco terrore, può trascinare anche te alla mòrte. Ma tu desideri vivere! E la sua vita renderebbe, d'ora in poi, insopportabile la tua. Rimani immobile un momento... la frazione di un minuto! aspetta... aspetta... non ascoltare! non avere orecchi per l'orrore di quel­l'invocazione e poi... e poi... Ma ecco, guarda. È' finita. Non la vedrai mai più... mai più viva, mai più» Theodoke Dreiser, An American Tragedy, New York 1925 (trad. it. Una tragedia americana, Milano 1973, p. 434).[La copia di Ejzenstejn di quest'opera, usata nella preparazione del film, si trova nella collezione Ejzenstejn del Museum of Modem Art, New York].


Ultima modifica 21.05.2009