AMORE, MATRIMONIO, FAMIGLIA E COMUNISMO

Alexandra Kollontai

 


Si ringrazia Santo Graziano per la trascrizione.

LA FINE DEL MATRIMONIO MONOGAMICO

L'AMORE E LA NUOVA MORALE

RAPPORTI TRA I SESSI E LOTTA DI CLASSE

RIVOLUZIONE NELLA VITA QUOTIDIANA

LA FINE DEL MATRIMONIO MONOGAMICO

 

Passiamo all'esame di un altro aspetto della questione femminile: il problema della famiglia. C'è bisogno di dire quale importanza assuma ai nostri giorni, per l'emancipazione reale della donna, la soluzione di questo scottante e complesso problema? Va da sé che l'aspirazione delle donne all'uguaglianza dei diritti non potrebbe essere pienamente soddisfatta dalla lotta per l'emancipazione politica, per il conseguimento di una laurea, di altri attestati scientifici o di un salario uguale per un uguale lavoro. Per diventare realmente libera la donna deve sbarazzarsi delle catene che l'attuale forma della famiglia, sorpassata e costrittiva, fa pesare su di lei. Per la donna la soluzione del problema familiare non è meno importante della conquista dell'uguaglianza politica e del raggiungimento della sua piena indipendenza economica.

Le attuali forme della struttura familiare, stabilite dalla legge e dal costume, fanno sì che la donna soffra non solo come essere umano ma anche come sposa e madre. Nella maggior parte dei paesi civili, il codice civile pone la donna in una situazione di maggiore o minore dipendenza rispetto all'uomo e riconosce al marito non solo il diritto di disporre dei beni della moglie, ma anche quello di dominarla moralmente e fisicamente. È sufficiente ricordare il Codice civile francese, secondo il quale, dal giorno della firma del contratto matrimoniale, la donna perde ogni capacità civile. I suoi beni passano sotto l'amministrazione del marito; ella non può compiere alcun atto giuridico senza il consenso del coniuge; perfino affittare un appartamento esige un certificato del «signore e padrone», le leggi più severe proteggono il carattere sacro del focolare domestico, sanzionando così in maniera definitiva una doppia morale: l'adulterio del marito - e per di più in condizioni particolari - viene punito dalla legge con una semplice ammenda, mentre per la donna infrangere la fedeltà coniugale equivale a due anni di prigione. Sulla donna non sposata pesa il potere paterno, sebbene non sposandosi ella resti un po' più libera e indipendente. In compenso le leggi francesi sorvegliano con vigilanza la sua «verginità» e puniscono duramente la ragazza-madre, nel senso che su di lei sola ricadono tutte le conseguenze del concubinaggio: come si sa, in base all'articolo 350 del Codice civile francese, «è proibita la ricerca della paternità».

Se in altri paesi le leggi sono meno severe nei confronti della donna, non di meno esse affermano, in modo più o meno accentuato, il principio della subordinazione legale della donna al suo sposo e signore. Da noi, in Russia, le donne sposate non possono contrarre un prestito personale senza il consenso del marito. Allo stesso modo, le cambiali che firmassero senza l'accordo del coniuge sarebbero dichiarate senza valore. Secondo le nostre leggi la moglie deve obbedire al marito e l'autorità di quest'ultimo è posta al di sopra di quella dei genitori. La moglie ha anche il dovere di condividere la dimora dello sposo e questi, ancora recentissimamente, poteva far ricondurre "manu militari" la «sposa ribelle» che avesse voluto sottrarsi a lui perché essere odioso e a volte francamente perfino detestabile.

Laddove termina l'asservimento familiare ufficiale e legalizzato della donna, è - come dire - l'«opinione pubblica» che comincia a esercitare i suoi diritti. Questa opinione pubblica viene creata e mantenuta dalla borghesia allo scopo di proteggere la «sacra istituzione della proprietà». Essa serve a sanzionare un'ipocrita «doppia morale».

La società borghese stringe la donna in una morsa economica insopportabile, pagando il suo lavoro con un salario irrisorio; essa la priva del diritto, che ogni cittadino ha, di protestare per difendere i propri interessi calpestati e ha appena la bontà di offrirle questa scelta: o il giogo coniugale oppure la stretta della prostituzione, apertamente disprezzata e condannata, ma segretamente incoraggiata e appoggiata.

C'è bisogno di insistere ancora sugli aspetti tetri dell'odierna vita coniugale, sulle sofferenze della donna, strettamente legate alle attuali strutture familiari? Si è già parlato e scritto abbastanza a questo proposito. La letteratura è piena di neri quadri del nostro disordine coniugale e familiare. Quante tragedie psicologiche sono cresciute su questo terreno, quante vite spezzate, quante esistenze avvelenate! Per il momento, ci interessa rilevare soltanto che l'attuale struttura della famiglia opprime le donne di tutte le classi e di tutti gli strati della popolazione. Le abitudini e le tradizioni perseguitano la ragazza-madre alla stessa maniera, quale che sia lo strato della popolazione al quale appartenga; le leggi pongono sotto la tutela del marito tanto la borghese quanto la proletaria e la contadina.

In fin dei conti non abbiamo trovato in questo modo un punto della questione femminile in base al quale le donne di tutte le classi possono effettivamente tendersi la mano e lottare insieme contro le condizioni del proprio asservimento? È possibile che le comuni sofferenze e il comune dispiacere eliminino il fossato dell'antagonismo di classe e creino una comunanza di aspirazioni e di compiti per le donne dei diversi campi? È possibile che, sul terreno dei desideri e dei fini comuni, sia realizzabile una collaborazione di donne borghesi e proletarie? Dopo tutto, le femministe borghesi lottano al tempo stesso per forme più libere di matrimonio e per il «diritto alla maternità»: esse parlano in difesa della prostituta, che tutti perseguitano. Guardate come la letteratura femminista è ricca di ricerche di nuove forme di unione dell'uomo e della donna e di sforzi audaci per l'«uguaglianza morale» dei sessi. Se, infatti, sul terreno della liberazione economica le borghesi si trascinano alla coda dell'esercito di milioni di proletari che nella lotta per la soluzione del problema della famiglia aprono loro la via verso la «donna nuova», la palma non spetta alle militanti femministe?

Da noi, in Russia, le donne della media borghesia - vale a dire quell'esercito di donne che avevano una posizione indipendente e che negli anni sessanta si sono trovate d'un colpo gettate sul mercato del lavoro - hanno praticamente risolto da lungo tempo, a titolo individuale, molti aspetti ingarbugliati della questione matrimoniale, passando audacemente sopra il matrimonio religioso tradizionale e sostituendo la forma consolidata della famiglia con un'unione facile da rompere, che meglio corrisponde ai bisogni dello strato intellettuale, mobile, della popolazione.

Ma le soluzioni individuali, soggettive, del problema non mutano affatto la questione e non abbelliscono in nulla il fosco quadro della vita familiare. Se qualcosa può distruggere l'attuale forma della famiglia, non sono certo gli sforzi titanici di personalità più o meno forti, bensì le forze produttive, apparentemente inerti ma tuttavia potenti, che instancabilmente, passo passo, ricostruiscono la vita su basi nuove...

Tentiamo allora di rispondere a questo punto a due domande fondamentali:

1) grazie agli sforzi di chi - proletarie o femministe - la donna si libererà progressivamente dal giogo della famiglia?

2) esiste effettivamente una comunanza di aspirazioni fra i proletari e le militanti femministe sul terreno della questione familiare oppure, qui come su tutti gli altri terreni, esiste un antagonismo di classe che divide nettamente le donne in due campi opposti, perfino ostili?

C'è bisogno inoltre di dimostrare che non tutto va bene nell'odierna struttura familiare, che la forma sedicente monogamica della famiglia risulta costantemente disgregata e distrutta alla radice stessa? Stabilita e fissata nell'interesse della proprietà borghese, da un codice civile complesso, la famiglia contemporanea perde giorno dopo giorno la sua stabilità, la sua antica solidità. I legami naturali, che al loro tempo univano la famiglia in una cellula sociale indivisibile, si indeboliscono e si rompono, mentre muoiono contemporaneamente le forme economiche che li avevano generati. Un'unione familiare solida, salda, indistruttibile, in cui tutto il potere apparteneva a colui che, da solo, procurava il reddito - il marito e padre -: tale era l'ideale di vita familiare che rispondeva ai bisogni del terzo stato nascente. Nell'epoca in cui il terzo stato cominciava appena a compiere la sua grande missione - l'accumulazione di favolose ricchezze in seno alla famiglia - la solidità e la stabilità delle organizzazioni familiari erano una delle condizioni di successo della borghesia nella lotta per l'esistenza contro gli altri strati della popolazione. Non è senza ragione che la borghesia dei secoli diciassettesimo e diciottesimo si gloriava della propria moralità e opponeva, compiacendosene, le proprie virtù familiari ai costumi di una nobiltà depravata e frivola che non aveva compreso il grande segreto dell'accumulazione capitalistica e considerava la famiglia non come la custode ma come la dissipatrice delle ricchezze accumulate. Per rafforzare la solidità della famiglia, per sollevare più in alto il prestigio delle virtù familiari, il terzo stato ha fatto tutto ciò che da esso dipendeva. Ha fatto intervenire la religione che predica l'indissolubilità del sacramento del matrimonio; la legge, che punisce l'adulterio della moglie; la morale, che esalta il carattere «sacro del focolare domestico». Quando la borghesia ebbe conquistato una posizione sociale egemone, quando tutti i fili della produzione mondiale furono riuniti nelle sue mani, la sua morale, le sue regole di condotta e i suoi codici civili, che avevano il fine preciso di proteggere i suoi interessi di classe, divennero a poco a poco la legge obbligatoria anche per gli altri strati della popolazione. La morale del terzo stato fu riconosciuta come la morale dell'intera umanità. Interessi strettamente materiali e di classe obbligarono la borghesia a preoccuparsi della «purezza» del letto nuziale e a dare la caccia ai «figli illegittimi», vale a dire a coloro che non potevano né dovevano ereditare foss'anche un frammento dei tesori accumulati dalla famiglia; questi interessi materiali contribuirono al consolidamento della norma della «doppia morale» e all'istituzione di «severe» disposizioni di legge nel campo del diritto familiare. E noi tutti, educati secondo norme artificiali di morale sessuale, che avevano l'unico scopo di proteggere gli interessi della borghesia, noi ci inchiniamo ancora davanti a questi principi di classe come davanti a categorie altamente ideologiche, noi siamo pronti a riconoscerli come i principi normativi della vita morale!

Il matrimonio monogamico venne dichiarato istituzione sociale permanente e intangibile, mentre contemporaneamente il modo di produzione capitalistico fu proclamato forma definitiva ed eterna della vita economica dell'umanità. Qualsiasi punto di vista evoluzionistico sul matrimonio fu perseguitato e condannato con lo stesso accanimento e lo stesso odio che si metteva nel contestare e nel negare l'evoluzionismo nella vita economica della società. La proprietà e la famiglia sono legate troppo strettamente: se uno di questi pilastri del mondo borghese è stato scosso, la solidità dell'altro diviene incerta. Per questo la borghesia ha difeso sempre così accuratamente le proprie basi familiari; per questo essa ha difeso e continua a difendere con tale alacrità le forme vetuste dell'odierna struttura familiare.

Ma l'evoluzione economica subita dall'umanità - declino della piccola produzione artigianale, trionfo del lavoro meccanicizzato, crescita colossale delle città, ritmo febbrile della loro attività industriale e commerciale - non poteva non riflettersi sulle forme di vita della famiglia e doveva scuotere le basi, che si credevano incrollabili, della famiglia borghese.

Da un secolo ormai un dibattito ininterrotto oppone i difensori delle vecchie idee sulla famiglia, considerata come istituzione sociale intangibile, e i sostenitori delle nuove teorie; secondo i quali l'attuale forma della vita matrimoniale è solo una categoria storica transitoria. Ancor più degli esempi storici e degli studi etnografici, la realtà viva conferma di giorno in giorno l'instabilità della famiglia attuale e la sua ineluttabile disgregazione. Sempre più rare si fanno le voci per affermare che la famiglia attuale è un'istituzione intangibile e permanente, e il dibattito stesso concernente i rapporti familiari si è ormai spostato su di un altro piano. Ora gli ideologi borghesi sono alle prese con il seguente problema: quali «riforme» permetteranno di conservare nella sua integrità la cellula familiare borghese, quali misure bisogna mettere in opera per impedire la sua futura decomposizione?

Nulla irrita tanto la borghesia quanto l'affermazione dei seguaci del socialismo scientifico, secondo la quale nella vita familiare sono inevitabili dei cambiamenti radicali, in connessione con la riorganizzazione completa della vita economica della società su basi nuove, collettivistiche. Con raddoppiato ardore, gli ideologi borghesi si mettono ora a gridare che la famiglia, qual è attualmente, può adattarsi, conservando intatta la sua integrità, a qualsiasi riforma sociale e che un cambiamento dei rapporti di produzione non comporta assolutamente la necessità di una rivoluzione nelle forme di convivenza dei sessi. Le cose stanno realmente così?

Qualsiasi forma di rapporti sociali fra gli uomini esige, per essere solida, l'esistenza di cause economiche che, al loro tempo, abbiano fatto nascere precisamente questa forma di rapporti sociali e non un'altra. Nell'epoca in cui dominava l'economia naturale la famiglia era prima di tutto una cellula economica, produttrice di tutti i beni indispensabili al gruppo di persone che la componeva.

A mano a mano che si sviluppava e si rafforzava l'economia di scambio, i membri della famiglia erano sempre maggiormente in grado di soddisfare i propri bisogni senza l'aiuto di essa in quanto cellula economica; non di meno, fino al diciannovesimo secolo, fino all'alba cioè della grande produzione capitalistica, la famiglia conservò tutta una serie di piccole funzioni economiche, che recavano l'elemento materiale determinante e decisivo nella morale dell'unione matrimoniale. Finché nella famiglia risiedeva, in misura più o meno grande, un valore produttivo, la sua esistenza sociale era assicurata; potenti legami vitali univano i suoi membri più solidamente di quanto non potessero fare le leggi più severe e le norme morali più coercitive. Ma dal momento in cui la grande produzione capitalistica strappò di mano alla famiglia le sue prerogative economiche, la famiglia perdette il proprio valore di cellula economica necessaria e al tempo stesso fu condannata a una lenta ma ineluttabile disgregazione.

Dove sono infatti, oggi, questi solidi legami economici che rendevano la famiglia così tenace e così stabile? Tanto per cominciare prendiamo la famiglia borghese e vediamo quali sono, tra le funzioni che da lunghi secoli le competevano, quelle che ha conservato al suo interno fino ai giorni nostri.

L'attività produttrice della famiglia nel senso della fabbricazione della lunga lista di oggetti di prima necessità, è ridotta al minimo; il campo dell'economia domestica si è ristretto fino a diventare irriconoscibile. Dove trovereste oggi una famiglia borghese che si occupi di fabbricare le proprie candele, il sapone e la birra, il filo e il tessuto, di conservare i prodotti per l'inverno, di cuocere il pane, di cucire i vestiti? Non c'è necessita né profitto a consumare le forze dei membri della famiglia per produrre o fabbricare oggetti - fossero anche di prima necessità - che ci si può procurare a buon mercato in qualsiasi negozio. Uno dopo l'altro i rami della produzione sono sfuggiti di mano all'economia domestica per diventare oggetti di speculazione industriale. Con lo sviluppo e il trionfo della grande produzione capitalistica la famiglia perde il suo antico ruolo di cellula produttrice e, cessando di svolgere un ruolo di unità economica indipendente perde poco a poco la sua importanza nella vita economica della società.

Ma se all'interno della famiglia sono cessate la fabbricazione e la produzione di oggetti di uso corrente, la famiglia ha forse conservato, tuttavia, altre funzioni economiche? Perché, dopo tutto, nel corso dei numerosi secoli della sua esistenza, la famiglia non è stata soltanto creatrice indipendente di ricchezze ma anche la fedele custode di esse. La casa, la mobilia, il tesoro familiare: tutto era protetto e conservato devotamente dalla famiglia. Poco mobile, attaccata alla proprietà, alla terra, alla casa, nel recente passato la famiglia costituiva lo strumento più sicuro per la conservazione delle ricchezze familiari e, in queste condizioni, la solidità dei legami familiari era strettamente connessa agli interessi materiali della stirpe. Se la famiglia si fosse disgregata, le ricchezze familiari sarebbero state disperse, dilapidate.

Oggi le cose vanno in altro modo: le banche e altri istituti di risparmio si sono assunti in maniera totale l'incarico, che adempiva la famiglia, di conservare i beni, sono questi istituti - e non le unioni morali e sessuali delle coppie - che si assumono la custodia e la conservazione delle ricchezze familiari già accumulate. Inoltre, sempre più spesso queste ricchezze assumono la forma di titoli al portatore i quali non esigono assolutamente nessun incarico particolare da parte dei membri della famiglia. Con la mobilità continuamente crescente della vita, con lo sviluppo dei mezzi di comunicazione, che permette alle famiglie di traslocare più frequentemente, una mobilia voluminosa diventa un fardello; in queste condizioni, l'unica forma di ricchezza che non sia onerosa è il denaro e i titoli. È così che l'antica, abituale funzione della famiglia - la conservazione delle ricchezze familiari accumulate - sfugge al cerchio degli obblighi familiari.

Ma il consumo - questa condizione indispensabile della vita della famiglia - si pratica nella stessa misura di un tempo in seno al focolare? Il focolare domestico ha ceduto il posto ai ristoranti, ai club, alle case ammobiliate, agli hotel. L'alta borghesia ricca passa metà della sua vita andando a zonzo per le stazioni eleganti e godendo dei servizi degli "hotels-palaces"; la media e piccola borghesia, per sbarazzarsi delle noiose responsabilità familiari e ridurre le spese «domestiche», abita nelle case ammobiliate, mangia nei ristoranti, lavora nelle biblioteche e nei laboratori pubblici, nei musei e nelle gallerie nazionali.

A mano a mano che, in seguito alla domanda crescente di forza-lavoro a buon mercato in tutti i campi, la donna viene attirata fuori della sua stretta cellula familiare e congiunta al fiume della popolazione attiva, questo genere di vita si diffonde sempre di più. Finché l'unico che nutriva la famiglia era il marito, finché con il suo salario egli era il solo a portare in casa i beni accessibili alla famiglia, finché il benessere della moglie e dei figli dipendeva essenzialmente da lui, la famiglia era serrata e strettamente unita da un tessuto di legami che sono spesso completamente sconosciuti alle famiglie d'oggi. Adesso, nella piccola e anche nella media borghesia, la donna copre sempre più spesso, grazie al suo salario, una parte dei bisogni domestici; la dipendenza della moglie nei confronti del marito e della figlia nei confronti del padre ne risulta distrutta alla radice e, uno dopo l'altro, si rompono i potenti legami che un tempo stringevano i membri della famiglia borghese fra di loro.

Che cosa resta alla famiglia, ai giorni nostri? Quali funzioni le spettano ancora, quali legami stringono ancora i suoi membri? Forse l'educazione dei figli? Ma dove sono le madri e i padri borghesi che si occupano loro stessi dell'educazione e dell'istruzione della propria prole? Non solo la piccola e media borghesia, ma anche l'alta borghesia non disdegna più gli istituti di insegnamento pubblico. Le scuole materne e primarie conoscono un'espansione senza precedenti, per non parlare degli istituti di insegnamento secondario e superiore. La funzione dell'educazione - esattamente come gli altri ruoli della famiglia - è uscita fuori della cellula familiare per passare a carico della società e dello Stato.

Che resta dopo di ciò alla famiglia? Qual è il suo compito nella struttura individualistica e di classe della società contemporanea? Unicamente la trasmissione in linea diretta del patrimonio acquisito. I molteplici ostacoli attualmente opposti al divorzio hanno il fine di favorire l'adempimento di quest'unico compito della famiglia d'oggi - famiglia che non è al servizio dei bisogni morali della persona, ma a quello degli interessi della proprietà. L'intera cronistoria del matrimonio contemporaneo ci mostra solo che questa istituzione è stata messa sotto i piedi per ragioni puramente utilitaristiche e che solo in rari casi, dovuti a una combinazione particolarmente felice, vi si è introdotto un elemento morale sotto forma di affetto reciproco degli sposi.

Una volta affermato il suo potere, la borghesia ha lasciato cadere la maschera dell'ipocrisia e apertamente ha messo in mostra i suoi matrimoni come una sorta di transazioni commerciali, di «fruttuosi» affari. In luogo di quell'unione di «due cuori amanti», che gli ideologi della borghesia si dilettano a descrivere, il matrimonio diventa sempre più spesso, nelle condizioni attuali, un cinico acquisto di dote o vendita dei titoli di nobiltà. I matrimoni realizzati attraverso piccoli annunci sono diventati un fatto così corrente che il senso morale del più esigente borghese non si sogna affatto di turbarsene. Quanto all'esito felice di simili «matrimoni ragionevoli», il numero senza sosta crescente dei divorzi è sufficiente a testimoniarne. Le domande di scioglimento di matrimonio sono diventate così numerose che un giudice viennese ha esclamato con disperazione: «Presto le denunce per le rotture matrimoniali saranno altrettanto frequenti delle denunce per vetri rotti».

Le statistiche non sono ancora in grado di fornire un quadro esatto del numero delle rotture matrimoniali, per il fatto che un numero grandissimo di sposi che si separano non ha fatto ricorso alle formalità del divorzio. Non bisogna nemmeno dimenticare che le leggi di tutti gli Stati ostacolano con tutti i mezzi lo scioglimento dei matrimoni, e in questo modo, impedendo con la forza la separazione degli sposi, evitano spesso la rottura di unioni utili come quella dei milioni con i titoli di nobiltà, o quella della terra con il capitale...

Se, tuttavia, nella classe borghese la famiglia si disgrega ineluttabilmente, se giorno dopo giorno scompaiono i legami che assicuravano la sua vitalità, ciò significa che in tutti gli altri strati della popolazione si compie lo stesso inevitabile processo di declino della famiglia? Sappiamo che, a suo tempo, la famiglia della nobiltà feudale cadde in completa decadenza e si disgregò nel modo più palese e irrimediabile; in quella stessa epoca, però, il terzo stato nascente vegliava devotamente sulle tradizioni familiari, vedendo giustamente nell'integrità del principio della famiglia un baluardo sicuro per proteggere la propria crescente potenza sociale. Forse che anche oggi è soltanto la famiglia della media e alta borghesia a disgregarsi, mentre invece nella piccola borghesia - la classe contadina per esempio - i principi familiari sono rimasti vivi?

Senza parlare della classe contadina dell'Europa occidentale, che subisce completamente quegli influssi sotto la cui azione la famiglia si disgrega presso gli altri strati della popolazione, anche nella nostra «retrograda» classe contadina russa, si assiste a una brutale evoluzione dei rapporti familiari. Il solo fatto del passaggio dalla «grande» famiglia - il clan - alla «piccola» famiglia, il solo fatto delle numerosissime spartizioni della proprietà costituisce già una prova evidente della disgregazione delle antiche forme della struttura familiare contadina. La «piccola» famiglia, come si sa, è fondata su basi economiche assolutamente diverse; in essa la donna riceve all'improvviso una maggiore libertà d'azione e la possibilità di conquistare una situazione indipendente di «padrona», di governante della casa. Nella «grande» famiglia - il clan - la donna è soltanto uno dei numerosissimi esecutori meccanici della volontà altrui, quella del capo di famiglia; in assenza di una ben definita divisione del lavoro non le spetta alcuna iniziativa; avrà un bell'affaticarsi nel lavoro: non c'è alcuna possibilità di valutare quantitativamente il suo apporto alle ricchezze dell'economia familiare. Da ciò deriva la devalorizzazione del suo lavoro, il suo stato di totale dipendenza.

Nella «piccola» famiglia, la donna non lavora di meno, talvolta anzi lavora di più, in cambio però è lei ad avere la direzione di questo o quel campo della produzione familiare e la qualità e la quantità del suo lavoro possono essere facilmente valutate. Su di lei poggia l'economia domestica, nel senso più ampio del termine compresa la filatura, la tessitura, la cura del bestiame e la vendita stessa dei risultati della produzione, è unicamente nei periodi di punta che la moglie è soltanto l'aiutante di suo marito nei lavori dei campi. D'altra parte, il marito non si ritiene in diritto di immischiarsi nella gestione di sua moglie. «Nella Piccola Russia - nota Aleksandra Efimenko - dove, come conseguenza di costumi e condizioni storiche particolari la famiglia-clan si è dispersa molto più in fretta che nella Grande Russia, questa divisione del lavoro, dei doveri e dei diritti. ha raggiunto un grado notevole. Il marito non si immischia mai nell'attività di sua moglie, lasciandola libera di giudicare e di agire come crede: "Son fatti di donna", dicono i piccoli-russi». Giustamente, però, nella Piccola Russia la vita quotidiana della contadina è molto più sopportabile che nella Grande Russia, dove regna ancora il vecchio principio familiare.

Questa indipendenza relativamente grande di cui gode la donna nella «piccola» famiglia, ne fa naturalmente una partigiana accanita di questa forma di rapporti familiari e spinge la contadina a usare tutti i mezzi di cui può disporre per ottenere la divisione; allora entrano in gioco tanto la calunnia quanto l'adulazione o la selvatichezza. «Il popolo - afferma Aleksandra Efimenko - presso i grandi-russi come presso gli altri slavi, non nasconde che la donna è un pericoloso avversario della vita comunitaria del clan e ritiene che ella sia la causa principale della decadenza dell'antico ordine di cose». Se quest'affermazione non è completamente esatta, nondimeno essa è caratteristica; è certo che esistono cause più profonde della decadenza della vita del clan che non la «selvatichezza» o l'«umore bisbetico» delle donne. Anche prima le comari si bisticciavano; non è questo tuttavia che ha condotto alla generalizzazione della divisione e al passaggio dalla «grande» alla «piccola» famiglia.

È un fatto ben noto che laddove la classe contadina non è stata ancora attirata nella corrente mondiale degli scambi commerciali, laddove domina ancora l'antica economia chiusa, naturale, la vecchia forma della famiglia patriarcale si conserva in tutta la sua arcaica immunità. In questo caso, la famiglia resta anzitutto una cellula economica, produttrice di tutti i beni necessari alla vita, una cellula importantissima e addirittura indispensabile per ciascuno dei suoi membri. I legami economici che uniscono la famiglia contadina garantiscono la sua stabilità e la sua vitalità; in questo caso, il divorzio è fuori discussione. È vero che qui il matrimonio non è un '«unione morale» ma poggia interamente sulla base reale dei rapporti di produzione. La nostra famiglia contadina russa - il clan - con tutte le sue mostruose vestigia del passato, con la sua condanna senza appello della donna alla schiavitù, con il suo potere illimitato del «padrone» su tutta la famiglia, ha potuto sopravvivere senza cambiamenti fino ai nostri giorni grazie unicamente al fatto che la nostra classe contadina ha conservato fino al diciannovesimo secolo le antiche forme di rapporti economici, da lungo tempo superate e abbandonate dagli altri popoli.

Tuttavia le vecchie norme congelate della vita patriarcale perdono la loro stabilità, dal momento in cui l'economia contadina è stata trascinata nella corrente generale degli scambi mondiali delle merci. I principi morali della vita familiare, che sembravano così intangibili e immutabili ancora qualche decina di anni fa, diventano sempre meno imperativi e tanto desueti quanto la tessitura in casa delle camicie di lino e la fabbricazione dell'aratro.

Il passaggio dalla «grande» alla «piccola» famiglia contadina - passaggio le cui cause economiche abbiamo indicato - non fa che accelerare il processo del futuro smembramento della famiglia. I costumi popolari hanno un bel trasportare nel seno della «piccola» famiglia i principi che privano la donna di ogni diritto e la fanno dipendere dal capofamiglia, la pratica della vita entra brutalmente in contraddizione con questi principi. Le condizioni economiche stesse della «piccola» famiglia assicurano alla donna una certa indipendenza economica e generano negli strati più oscuri della classe contadina un conflitto fra gli antiquati costumi e i rapporti reali della vita. Già questo è un primo passo verso la comparsa della «questione femminile» nell'ambiente contadino.

Il considerevole moltiplicarsi dei voti monastici femminili testimonia che il malcontento delle donne della classe contadina cresce con l'evoluzione delle forme familiari. Nel 1855 si contavano 7091 novizie; nel 1902 se ne contavano ormai 32029. Incontestabilmente, l'attrazione verso il convento esprime per le contadine (è principalmente fra di loro che si reclutano le novizie) il desiderio crescente di sfuggire ai pesi della vita familiare contadina, con la sua perpetua precarietà economica e il suo opprimente lavoro. La preferenza per il «velo», quale si diffonde tra le ragazze di campagna, testimonia del medesimo fenomeno. Le future religiose, facendo ufficialmente voto di celibato, non rifiutano tuttavia l'amore; al contrario, avendo conquistato una certa indipendenza nella famiglia (i loro guadagni sono considerati sacri e nessuno oserebbe toccarli), esse godono ugualmente della propria libertà nel campo dei sentimenti. Quest'aspirazione alla vita monastica, alla religione, così come il desiderio di andare in città, nel centro industriale per «guadagnarsi la vita», esprime lo sviluppo della coscienza delle contadine che cominciano ad averne «fin sui capelli», del loro asservimento familiare. Lo smembramento della famiglia contadina è particolarmente sensibile da noi, in Russia, nelle località che gettano donne in abbondanza sul mercato del lavoro agricolo.

La donna che se ne va a centinaia di verste, che cambia provincia per guadagnare un salario agricolo, la donna che prende parte ai lavori stagionali è già un nuovo tipo di contadina, la cui psicologia ricorda piuttosto quella dell'operaia di fabbrica che quella della «comare» rassegnata del villaggio, la quale docilmente si carica di tutte le fatiche della vita domestica, consacrate dalla tradizione della vita patriarcale. In queste circostanze la famiglia stessa assume un altro aspetto, perde il suo carattere chiuso e fossilizzato per diventare mobile, tesa e di conseguenza più atta a rompersi. Penetrando negli angoli più remoti della campagna, i nuovi rapporti di produzione sottomettono a sé e modificano le antiche forme di coabitazione sociale. Introducendosi nel villaggio, invadendo tutti i rapporti agrari locali, il capitalismo non solo modifica la fisionomia della famiglia contadina dell'Europa occidentale, ma assesta dei colpi decisivi ai costumi patriarcali della nostra classe contadina russa. Lentamente ma costantemente, vediamo compiersi nella famiglia contadina una serie di profondi cambiamenti, i quali distruggono la sua secolare e incrollabile stabilità...

Resta lo strato più numeroso della società contemporanea - la classe dei proletari. Come si presenta la questione della famiglia in questa classe della popolazione? Non troveremo, almeno qui, condizioni tali da assicurare la vitalità dell'attuale struttura familiare? D'altra parte, si può porre seriamente questa domanda? Dov'è la famiglia per l'operaio moderno, per colui che vende la propria forza-lavoro? L'alba spunta appena quando marito e moglie si affrettano a lasciare il loro stretto e povero alloggio per obbedire docilmente all'appello della sirena della fabbrica e sottomettersi con rassegnazione al potere del loro padrone senz'anima ma onnipotente - la macchina. Gli sposi restano fuori casa fino a una tarda ora della serata; i figli sono affidati alle cure del buon dio; nel migliore dei casi è una vicina anziana oppure una che ha perduto la capacità di lavoro ad occuparsi di loro... La strada, la strada rumorosa, sporca, depravata: ecco la loro educatrice, ecco la prima scuola dei figli dei proletari... Se l'officina è lontana dalla casa i genitori, all'ora di pranzo, non hanno il tempo di andare a dare un'occhiata alla loro abitazione abbandonata a se stessa. Gli inquilini, uomini e donne, i malati, gli alcolizzati, i vecchi e i bambini, tutti gli intrusi e gli estranei distruggono l'ultima illusione dell'isolamento familiare. La miseria, ossessionante, bussa alla finestra e spia con occhi avidi la disgrazia improvvisa - malattia, disoccupazione, morte di un membro della famiglia, nascita di un figlio - per conficcare le sue unghie uncinate nella famiglia proletaria, per dilaniarla e disperderla da qualche parte... In tali condizioni il matrimonio, quand'anche sia il risultato di una reciproca inclinazione, si trasforma ben presto in un giogo intollerabile, che ciascuno dal canto suo cerca di dimenticare nella vodka...

Il basso salario del marito, la domanda continua, da parte del capitale, di mani femminili a buon mercato spingono la moglie nelle grandi braccia aperte della produzione capitalistica. Ma dal momento in cui le porte della fabbrica si sono richiuse sulla donna lavoratrice la sorte della famiglia proletaria è decisa. Lentamente ma inesorabilmente la vita familiare dell'operaio va verso la propria rovina. Il focolare si spegne e cessa di essere il centro d'unione dei membri della famiglia.

Quale beffa, quale bestemmia in tutte quelle esclamazioni sentimentali della borghesia sul «carattere sacro» del «focolare domestico» e della «maternità», quando milioni, decine di milioni di madri non sono neppure in grado di adempiere ai propri obblighi più elementari. All'appello imperativo del capitale le madri strappano dal proprio seno il figlio, che ancora non distingue il giorno dalla notte, e docilmente vanno a bussare alle porte della fabbrica. I difensori borghesi del matrimonio e della maternità sanno perfettamente come, nel ventre stesso della madre, i figli siano deformati o storpiati dalle emanazioni dei gas nocivi (1); come milioni di bambini muoiono per aver assorbito sostanze tossiche insieme al latte materno; come, nelle isbe del bosco, nei periodi di punta, centinaia di bambini abbandonati al loro destino muoiono carbonizzati; come delle madri avvelenino con l'oppio i propri figli, affinché i loro pianti non impediscano loro di portare a termine qualche commissione urgente. Ma l'ipocrisia della borghesia non ha limiti. Che importanza può avere per essa che i figli delle operaie impiegate nelle fabbriche di fiammiferi o di mercurio, nelle vetrerie o nelle fabbriche di bianco di cerussa, nascano con lo scheletro deformato, una debole attività vitale, o che nascano solo per morire tra dolorose convulsioni? Che importanza può avere per essa il fatto che gli aborti e i figli nati morti siano l'inevitabile risultato del rivoltante sistema di sfruttamento del lavoro delle donne nell'industria? Che importanza può avere per essa il fatto che, spinte al furore dalla fame e dalla miseria, le madri si sbarazzino dei propri figli presso le «mammane», che le statistiche rivelino la crescita continua degli aborti e che, tra queste «madri criminali», si contino non solo ragazze abbandonate dai propri fidanzati, ma anche mogli legittime di proletari, rispettabili madri di famiglia?

Malgrado tutto l'orrore lampante di questi fatti quotidiani, gli ipocriti difensori borghesi della famiglia attuale continuano a cantare, con un entusiasmo che non cala di tono, l'inno della «funzione sacra della madre» e partono in guerra contro il lavoro delle donne come professione (soltanto a parole, naturalmente), il quale allontana la madre dalla culla del neonato. «Il sacro dovere della maternità»! Ma come può manifestarsi questa funzione della donna, nella classe operaia, tenuto conto delle attuali condizioni del lavoro salariato femminile? Dov'è la cura indispensabile alla salute del bambino? Dov'è quel minimo di condizioni igieniche necessarie a salvaguardare la vita del neonato? La mortalità infantile, soprattutto durante il primo anno di vita, raggiunge nel proletariato proporzioni sbalorditive. «Quando, durante il primo anno di vita, muore l'8% dei figli della classe borghese - dice Lily Braun - muore quasi il 30% dei figli degli operai della medesima età. Nei quartieri ricchi di Friedrichstadt, a Berlino, su 1000 neonati ne muoiono 148. Nel quartiere povero di Wedding, su 1000 ne muoiono 348! [...] La mortalità infantile nei centri industriali dimostra la stretta relazione che esiste tra questa mortalità e lo sviluppo del lavoro femminile» (2).

A questo proposito, l'industria del tabacco è uno dei rami più nocivi: è tra gli operai di questa industria che si trova il maggior numero di bambini nati morti e, quand'anche il bambino nasca vivo, egli deve attendersi un lento avvelenamento attraverso il latte della madre, impregnato di nicotina. La mortalità infantile è ugualmente enorme quando le madri lavorano nell'industria della carta; in Germania essa raggiunge il 48%. I figli degli operai del settore tessile sono votati allo stesso destino; in Inghilterra, tra le madri impiegate nel trattamento delle materie fibrose, la mortalità dei bambini di età inferiore a un anno è del 22%; in Germania del 38%.

Quand'anche i bambini delle famiglie proletarie siano riusciti a sfuggire a tutti i pericoli mortali disseminati a piene mani sulla loro strada, prima e dopo la nascita, che cosa li aspetta? La fame, il freddo, la miseria, i rabbuffi collerici, le botte di una mano stanca, il desiderio causato dalla disperazione: «Potessi crepare!»; poi gli anni cupi dell'apprendistato e dell'officina e, nelle ore di tempo libero, la strada, le risse, i tafferugli, e molte, molte botte... Ecco ciò che nella società attuale si chiama l'educazione «sotto l'occhio vigile della madre»!

No, le teneri mamme della borghesia avranno un bel chiudere gli occhi sulla futura società collettivistica, con i suoi principi di educazione sociale; avranno un bell'accusare i socialisti di essere «senz'anima» e di voler barbaramente togliere loro quei «piccoli cari»; comunque, si può prevedere che qualsiasi forma di educazione, purché sia differente dalla forma attuale, salverà milioni di giovani vite... Perlomeno non ci saranno più quei disgraziati bambini che le madri legano al letto prima di andare a lavorare, né quel martirologio, cui siamo abituati, dovuto a tragici incidenti - il tale bambino è stato schiacciato da una macchina, oppure è caduto dalla finestra, oppure è annegato in una vasca d'acqua...

La vita dei figli dei proletari è così ripugnante, così piena di barbare privazioni e di sofferenze che non sono della loro età, che per loro perdere i propri genitori o la propria famiglia è spesso un bene. Gli orfanotrofi, costruiti da filantropi o dallo Stato, malgrado i loro enormi difetti sono molto spesso la via della salvezza per i figli dei proletari.

Le teneri mamme borghesi che s'indignano contro i socialisti con il pretesto che essi vogliono «strappare i piccoli dalle braccia delle loro madri» confessino sinceramente quante madri proletarie possono, oggi, nella società borghese, restare accanto alla culla del neonato. È impossibile, infatti, chiudere gli occhi sulla crescita incessante del lavoro delle donne sposate. In Germania, in dodici anni, il numero delle operaie sposate è cresciuto di 300 mila; nel 1882 c'erano in Germania, su 1000 operaie, 173 sposate; nel 1895 ce n'erano 215. In base alle ultime stime, su 1000 operaie ce ne sono 450 sposate in Austria, quasi 220 in Germania, circa 200 in Francia; nei fatti le cifre sono molto più alte, perché le statistiche fanno entrare nella categoria di donne sposate soltanto quelle il cui matrimonio è stato consacrato dalla legge e dalla Chiesa, mentre tra i proletari sono sempre più frequenti le libere unioni, in cui la donna - in quanto moglie e madre - ha a suo carico tutti gli abituali obblighi familiari.

L'insicurezza materiale della famiglia proletaria spinge la donna sposata al lavoro di fabbrica e finché esisterà il sistema del lavoro salariato, finché il capitale avrà interesse ad attirare nella produzione una manodopera più a buon mercato, non ci sarà alcuna ragione di sperare in una diminuzione del lavoro in fabbrica tra le proletarie sposate.

Secondo le testimonianze raccolte dagli ispettori del lavoro in Alsazia-Lorena, l'82% delle operaie sposate si sono fatte assumere nell'industria per mancanza di altri mezzi di sussistenza; a Aix-la- Chapelle la proporzione di donne sposate, spinte verso la fabbrica da una miseria senza sbocchi, era ancora più alta: l'88%; nello Schleswig essa raggiunge il 96%! I signori imprenditori, che spesso sono gli avversari più accaniti dell'emancipazione della donna e della sua indipendenza, quando si tratta di donne della propria classe, riconoscono con cinica franchezza che la donna sposata è l'oggetto di sfruttamento più caro al loro cuore. Come no! Che cosa non sopporterebbe l'operaia madre di famiglia, che cosa non sarebbe pronta ad accettare, quali condizioni di lavoro, quando anche fossero le più draconiane e le più ripugnanti, non sopporterebbe, purché soltanto non rientri a casa con le mani vuote, purché non senta più quei gridi dei figli affamati che straziano il cuore!... Le ragazze, per i gusti del padrone, sono troppo indipendenti, troppo audaci e insolenti, e per di più si lasciano influenzare dalla propaganda delle idee perniciose molto più facilmente delle donne sposate, con la famiglia a carico. Niente di stupefacente, dunque, nel fatto che i padroni facciano tutto ciò che è in loro potere per attirare nelle loro imprese le operaie sposate. In questa situazione, quando da una parte la necessità economica spinge la donna ad andarsi a guadagnare la vita, e quando dall'altra l'impresa capitalistica l'accoglie a braccia aperte, non ci si potrebbe stupire affatto se la famiglia proletaria andasse rapidamente e irresistibilmente verso la disgregazione completa.

Così la borghesia avrà un bel gridare che i principi familiari sono immutabili e intangibili; la famiglia - la famiglia attuale, chiusa, autarchica e strettamente individualistica - è condannata allo smembramento e alla morte. Agli occhi del mondo intero il focolare domestico si spegne presso tutte le classi e tutti gli strati della popolazione e, beninteso, nessuna misura artificiale potrà rianimare la sua fiamma morente...

 

L'AMORE E LA NUOVA MORALE

 

Verso il 1910, quando l'interesse della Russia era diretto verso i problemi sessuali, comparve in Germania uno studio psicologico di Greta Meisel-Hess, "La crisi sessuale".

Questo libro non ebbe successo presso il vasto pubblico: il romanzo di Karin Michaelis, "L'età pericolosa", privo di grande valore artistico e la cui audacia non andava al di là dei limiti permessi dalle convenienze delle «belle maniere» letterarie, sommerse con immeritato scalpore l'opera di Meisel-Hess, comparsa poco prima. «Il libro è scritto con talento, ma non è scientifico»: tale fu il giudizio. Soltanto sulle vette intellettuali, nella «crema» della società tedesca, questo libro fu salutato dagli applausi entusiastici degli uni, dai fischi e dall'indignazione degli altri. Destino comune a ogni sincero ricercatore della verità.

Il fatto che il libro di Meisel-Hess sia privo di tutta una serie di qualità scientifiche - un metodo di analisi, un procedimento sistematico -: che il suo pensiero scivoli e vacilli, tornando spesso su cose già dette, non diminuisce assolutamente il valore del suo lavoro. Un soffio di freschezza si alza dal libro, la ricerca della verità infonde di sé l'esposizione viva e ardente, nella quale si riflette una fremente anima di donna, ricca di conoscenza della vita. Le idee di Meisel-Hess non sono nuove, nel senso che esse fluttuano nell'aria, che l'intera nostra atmosfera morale ne è satura.

Ciascuno, da parte sua, ha meditato, ha dolorosamente vissuto i problemi che ella esamina; ogni uomo che abbia riflettuto è giunto, per una via o per l'altra, alle conclusioni che sono stampate sulle pagine della "Crisi sessuale", ma, obbedienti all'ipocrisia che c'è dentro di noi, continuiamo ancora a inchinarci pubblicamente davanti al vecchio idolo morto: la morale borghese. Il merito di Meisel-Hess è il medesimo di quello del figlio del conte di Andersen: ella ha osato gridare con coraggiosa calma alla società che «il re non porta la camicia», che la morale sessuale contemporanea non è che una "vuota finzione".

Infatti, le norme morali, che regolano la vita sessuale dell'uomo, possono avere soltanto due scopi, due destinazioni:

1) assicurare all'umanità una discendenza sana, normalmente sviluppata, favorire la selezione sessuale nell'interesse della razza,

2) contribuire affinché la psicologia umana si raffini, si arricchisca di sentimenti di solidarietà, di cameratismo, di collettività.

L'attuale morale, che serve unicamente gli interessi della proprietà, non adempie né all'uno né all'altro di questi compiti. Tutto il complicato codice della morale sessuale contemporanea, con il matrimonio monogamico indissolubile, che solo raramente ha come base l'amore, con l'istituzione largamente diffusa della prostituzione, non solo non contribuisce al risanamento e al miglioramento della razza, ma favorisce addirittura la «selezione sessuale in senso inverso». La morale contemporanea conduce l'umanità sulla via di una continua e lenta degenerazione.

I matrimoni tardivi e i riflussi forzati dal periodo più favorevole per il parto; il ricorso alla prostituzione, «inutile» dal punto di vista della razza; l'assenza, nel matrimonio di convenienza, nel matrimonio legale indissolubile, del fattore, così importante per la discendenza, dell'«estasi d'amore»; la sottrazione degli «esemplari femminili più belli», i più capaci di produrre le emozioni erotiche degli uomini, riservati alla sterile prostituzione; la condanna a morte per i «figli dell'amore», questi prodotti illegali della razza, spesso i più preziosi, i più sani e i più floridi, eccetera: di tal genere sono i diretti risultati della morale corrente, che porta all'abbrutimento, all'avvilimento, alla degenerazione fisica e morale della razza umana. Il tentativo di Meisel-Hess di accordare la morale sessuale con i compiti dell'«igiene della razza» merita la massima attenzione, tentativo particolarmente interessante per i fautori della concezione materialistica della storia. La difesa della giovane generazione lavoratrice, la protezione della maternità e dell'infanzia, la lotta contro la prostituzione e le altre rivendicazioni dei programmi socialisti perseguono fondamentalmente l'«igiene della razza», nel senso più ampio. Strappare alla morale sessuale l'aureola dell'inviolabile «imperativo categorico», accordarla con i bisogni pratici vitali e con le esigenze dell'avanguardia dell'umanità: questo è il compito all'ordine del giorno ed esso reclama imperiosamente l'attenzione meditata e consapevole di tutti i socialisti.

Per quanto su questo problema le idee di Meisel-Hess siano preziose, dedicarsi all'analisi di questa parte specifica del suo lavoro significherebbe uscir fuori dal quadro di un breve schizzo. Ci limiteremo perciò all'esame dell'altro aspetto del problema sessuale, studiando le risposte di Meisel-Hess, non meno preziose e interessanti, alla domanda: le attuali forme della morale sessuale adempiono almeno al secondo compito che incombe loro; sono utili come fonte di arricchimento della psicologia umana, quanto a sentimenti di solidarietà, di cameratismo?

Dopo aver sottoposto a un'analisi sistematica le tre forme fondamentali dell'unione tra i sessi - il matrimonio legale, la libera unione e la prostituzione - Meisel-Hess giunge alla pessimistica ma inevitabile conclusione che nell'ordine capitalistico tutte queste forme, l'una al pari dell'altra, insudiciano e deformano l'anima umana, spezzando ogni speranza in una felicità solida e durevole, in una comunanza spirituale profondamente umana. Nella situazione invariabile, stazionaria, della psicologia umana contemporanea, non c'è via d'uscita per la crisi sessuale.

Soltanto una trasformazione fondamentale della psicologia umana, il suo arricchimento di «potenziale d'amore» può aprire la porta proibita che conduce all'aria aperta, a rapporti tra i sessi impregnati di maggior amore, di reale parentela e, di conseguenza, più felici. Ciò però esige inevitabilmente una trasformazione fondamentale dei rapporti socio-economici, in altre parole il passaggio al comunismo.

Quali sono le principali imperfezioni, gli aspetti foschi del "matrimonio legale"? Alla base del matrimonio legale si trovano due principi ugualmente falsi: da una parte l'indissolubilità; dall'altra, l'idea della «proprietà», del possesso assoluto, l'uno dell'altro, degli sposi.

L'indissolubilità del matrimonio si fonda sull'idea, contraria a tutta la scienza psicologica, dell'invariabilità della psicologia umana nel corso di una lunga vita. La morale contemporanea impone all'uomo di trovare a ogni costo «la propria felicità»; essa lo costringe a scoprire in un sol colpo e senza ingannarsi, tra i milioni di esseri a lui contemporanei, l'anima in armonia con la sua, questo secondo «io», il quale soltanto assicura la felicità nel matrimonio.

Se un essere umano, una donna soprattutto, vaga brancolando alla ricerca dell'ideale, straziando il suo cuore con le aguzze spine della delusione, la società, deformata dalla morale contemporanea, invece di soccorrere il suo sfortunato membro si mette a perseguitarlo, come una furia vendicatrice, con la sua condanna. «La felicità oggetto della "costrizione" sociale»: ecco il fior fiore della nostra morale sessuale. «Un leale cambiamento d'unione amorosa viene considerato dalla società attuale, preoccupata degli interessi della proprietà (e non della specie o della felicità individuale), come la più grande offesa che possa esserle inflitta». «Tuttavia - osserva giustamente Meisel-Hess - il matrimonio è simile a un appartamento: i suoi aspetti brutti appaiono soltanto nel corso dell'occupazione. Naturalmente, è una specie di 'persecuzione della sorte' dover lasciare di frequente appartamenti scomodi e imperfetti, ma la situazione è ancora peggiore se si è nella necessità di restare in un insediamento difettoso». «Il cambiamento delle unioni nel corso di una lunga vita umana - dice - rientra nel processo di evoluzione di un'individualità, è un fatto che deve essere riconosciuto dalla società come qualcosa di normale e di inevitabile».

«L' indissolubilità» diventa ancora più assurda se si pensa che la maggioranza dei matrimoni legali avviene nelle «tenebre», che le parti contraenti hanno solo una confusissima idea l'una dell'altra. Non solo l'una non sa nulla della natura psicologica dell'altra, ma c'è di più: tutte e due ignorano se tra di loro esiste quella parentela fisica, quella consonanza dei corpi, senza la quale la felicità è irrealizzabile. «Le notti di prova - dice Meisel-Hess - ampiamente praticate nel Medioevo, sono lontane dall'essere un'assurdità sconveniente; in condizioni sociali diverse, possono avere diritto di cittadinanza, nell'interesse della razza, per assicurare la felicità degli individui».

L'idea della proprietà, dei diritti di «possesso assoluto» degli sposi l'uno sull'altro è il secondo fattore che avvelena il matrimonio legale. In realtà si giunge al più grande non senso: due esseri, le cui anime non si sfiorano che in rari punti, sono «costretti» ad adattarsi l'uno all'altro, in tutti gli aspetti del loro molteplice «io». L'assolutismo del possesso conduce a una continua presenza dell'uno accanto all'altro, disagevole per tutti e due. Non c'è più «tempo per sé», non c'è più volontà propria, e spesso, sotto la pressione della dipendenza economica, non c'è più neppure un «cantuccio per sé». La presenza costante, «le esigenze» inevitabili nei confronti dell'oggetto «posseduto» trasformano in indifferenza persino un amore ardente, comportano attriti meschini e insopportabili. Infatti, non si può non essere d'accordo con Meisel- Hess sul fatto che una vita in comune troppo ristretta faccia perire il delicato fiore primaverile dell'affetto più puro; quanta «precauzione» per l'anima di un altro e quali immense riserve di caldo affetto non sono necessarie per poter sperare di cogliere verso l'autunno i frutti saporiti di un profondo, indissolubile affetto dell'anima?

I fattori dell'indissolubilità e della proprietà nel matrimonio legale hanno un effetto nocivo sull'anima umana, perché essi non richiedono che pochi sforzi psichici per conservare l'affetto del proprio compagno di vita, legato da catene esterne. L'attuale forma del matrimonio legale impoverisce l'anima e non contribuisce in alcun modo all'accumulazione nell'umanità delle riserve di quel «grande amore», che fu la profonda nostalgia di Tolstoj.

Ma la psicologia umana è ancora più deformata da un altro aspetto dell'unione sessuale: "la prostituzione".

«L'atto d'amore abbassato al livello di una professione: che cosa può esserci di più mostruoso?».

Lasciando da parte tutte le miserie sociali legate alla prostituzione, le sofferenze fisiche, le malattie, le deformità e la degenerazione della razza, fermiamoci soltanto sul problema dell'influenza della prostituzione sulla psicologia umana. Nulla inaridisce maggiormente l'anima quanto il vendere forzatamente e comprare carezze estranee. La prostituzione spegne l'amore nei cuori.

Essa deforma le idee normali degli uomini, impoverisce e avvelena l'anima, toglie loro la cosa più preziosa: la capacità di un sentimento di amore appassionato, il quale espanda e arricchisca la personalità con l'apporto dei sentimenti vissuti. Essa deforma le nostre nozioni, portandoci a vedere in uno dei fattori essenziali della vita umana, l'atto d'amore - questo finale comporsi di molteplici sensazioni psichiche - qualcosa di vergognoso, di basso, di volgarmente bestiale. Il vuoto psicologico delle sensazioni nella compera delle carezze ha ripercussioni particolarmente infelici sulla psicologia maschile: l'uomo abituato alla prostituzione, dove mancano tutti i fattori psicologici che nobilitano con la vera estasi erotica, impara ad accostarsi alla donna soltanto con bisogni «ridotti», con una psicologia semplicistica e scolorita. Abituato a carezze sottomesse e forzate, egli non cerca più di comprendere le molteplici sfumature che vengono alla luce nell'anima della donna; egli cessa di «ascoltare» i suoi sentimenti e di coglierne le sfumature. Quanti drammi femminili sono nati da questa psicologia semplicistica degli uomini, formatasi nelle case di tolleranza! La prostituzione estende inevitabilmente le sue fosche ali sulla testa della donna «liberamente amata» come su quella della sposa candidamente innamorata, e perciò intuitiva ed esigente. Essa avvelena implacabilmente le gioie d'amore delle donne che cercano nell'atto sessuale la composizione finale di una passione armoniosa e onnipotente.

La donna normale cerca nell'unione amorosa la pienezza e l'armonia; l'uomo invece, formato dalla prostituzione, che sopprime la vibrazione molteplice delle sensazioni amorose, cede solo al suo pallido e uniforme desiderio fisico, non lasciando altro, da una parte come dall'altra, che la sensazione dell'insoddisfazione e della fame psichica. L'incomprensione reciproca aumenta e quanto più forte è l'individualità della donna, tanto più acuta è la crisi sessuale. La prostituzione è pericolosa precisamente per il fatto che la sua influenza si estende ben al di là del suo campo specifico.

Bisogna pensare inoltre al fattore psicologico, che offusca gli impulsi morali, insudiciando e deformando la coscienza erotica e facendo sì che l'uomo e la donna si capiscano sempre meno, sappiano sempre meno amarsi reciprocamente, senza abusare l'uno dell'altro; per non parlare poi della questione della degenerazione fisiologica dell'umanità, dice Meisel-Hess, delle malattie veneree, dell'indebolimento fisico della razza.

Ma la terza forma, la libera unione, comporta anch'essa numerosi aspetti oscuri. Le imperfezioni di questa forma di unione sono caratteri riflessi: l'uomo moderno introduce nella libera unione una psicologia già deformata da una morale falsa, malsana, frutto del matrimonio legale da una parte, dell'abisso buio della prostituzione dall'altra. Il libero amore urta contro due ostacoli inevitabili: "l'impotenza in amore", che è l'essenza del nostro mondo individualista, e la mancanza di tempo indispensabile a veri godimenti morali.

L'uomo moderno non ha il tempo di «amare».

Una società fondata sul principio della concorrenza, della durissima lotta per l'esistenza, dell'implacabile inseguimento sia di un semplice pezzo di pane, sia del profitto o della carriera, non ha posto per il culto dell'esigente e delicato Eros.

La povera Aspasia, oggi, attenderebbe invano, sul suo letto cosparso di rose, i «compagni» delle sue gioie d'amore: certamente ella non acconsentirebbe a dividere il suo letto con un uomo volgare, il cui livello morale sarebbe indegno di lei, e un uomo «moralmente nobile» non avrebbe il tempo di passare le proprie serate da Aspasia.

Meisel-Hess osserva giustamente un fatto diffuso: l'uomo moderno considera l'amore-passione come la «massima disgrazia» che possa capitargli, come un ostacolo alla realizzazione dei compiti essenziali: la conquista di una posizione, di un capitale, di un posto sicuro, della gloria eccetera. L'uomo teme i legami di un amore forte e sincero che potrebbe distrarlo dalla cosa «principale» della vita. Tuttavia la libera unione, nell'assoluta complicazione della vita circostante, esige un dispendio di tempo e di forze morali infinitamente maggiori che in un matrimonio legale o nella compera di carezze fuggitive.

I soli appuntamenti assorbono tante ore preziose per gli «affari»! Migliaia di demoni minacciano la coppia unita esclusivamente dai legami dell'amore: basta un caso, un disaccordo momentaneo ed ecco la rottura. Il libero amore, nelle attuali condizioni, si conclude sia con la separazione, sia sotto la forma del matrimonio legale. L'uomo forte e consapevole, capace di integrare l'amore nell'insieme dei propri compiti vitali, non è ancora apparso - pensa Meisel-Hess. È per questo che gli uomini d'oggi, assorbiti da faticosi lavori, preferiscono aprire il portafoglio e mantenere un'amante oppure sdebitarsi con una donna offrendole il proprio «nome», assumendosi il peso di una famiglia legale, piuttosto che perdere il proprio tempo «prezioso», la propria energia in ore d'amore...

Anche le donne, però, soprattutto quelle che vivono con un lavoro indipendente (e ce ne sono dal 30 al 40% nei paesi civilizzati), vengono poste davanti al medesimo dilemma: l'amore o la professione? La situazione della donna lavoratrice si complica ulteriormente a causa di un fattore supplementare: la maternità. Basta infatti ripercorrere la biografia delle donne di valore per convincersi dell'inevitabile conflitto tra l'amore e la maternità da una parte, la professione e la vocazione dall'altra. Forse è proprio perché la donna nubile e indipendente depone sulla bilancia della felicità del libero amore non solo la propria anima ma altresì il lavoro amato, che le sue esigenze nei confronti dell'uomo aumentano; in cambio ella aspetta da lui un ampio compenso, «il dono più ricco», la sua anima.

La libera unione soffre per l'assenza del fattore morale della coscienza del «dovere interiore»: nello stato complicato dei rapporti sociali, non c'è motivo di pensare che questa forma di unione farà uscire l'umanità dall'impasse della crisi sessuale, come credono gli adepti del libero amore. L'uscita è possibile solo alla condizione di una fondamentale rieducazione della psicologia, rieducazione che è realizzabile solo attraverso la trasformazione dell'intera base sociale che condiziona il contenuto morale dell'umanità.

Tutte le misure e le riforme nel campo della politica sociale indicate da Meisel-Hess non presentano nulla di essenzialmente nuovo. Esse corrispondono interamente alle rivendicazioni del programma socialista: indipendenza economica della donna, vasta protezione e sicurezza della maternità e dell'infanzia, lotta sul terreno economico contro la prostituzione, soppressione della nozione stessa di figli legittimi e illegittimi, sostituzione del matrimonio religioso con il matrimonio civile facilmente annullabile, ricostruzione dalle fondamenta della società su base comunista. Il merito di Meisel-Hess non consiste in queste rivendicazioni sociopolitiche, analoghe a quelle dei socialisti. È molto più essenziale il fatto che nella sua attenta ricerca della verità sessuale ella sia sboccata inconsapevolmente, senza essere una socialista militante, sull'unica via della possibile soluzione del problema sessuale. Tutte le riforme sociali - condizioni indispensabili di nuovi rapporti tra i sessi - sono incapaci di risolvere la crisi sessuale, se al tempo stesso non cresce una potente forza creatrice che porti all'aumento del «potenziale d'amore» nell'umanità. Meisel-Hess, grazie al suo talento penetrante, è giunta intuitivamente alla medesima conclusione. Ella ha capito che tutta l'attenzione della società, riguardo all'educazione e alla formazione spirituale nel campo dei rapporti sessuali, deve essere volta da questa parte. L'unione dei sessi nel senso di Meisel-Hess - unione fondata su una profonda compenetrazione reciproca, sull'armoniosa consonanza delle anime e dei corpi - resterà anche l'ideale dell'umanità futura. Ma nel matrimonio fondato su di un «grande amore» non bisogna dimenticare che il grande amore è un dono raro del destino, il quale tocca in sorte solo a qualche eletto; il potente incantatore, il grande amore che inonda dei suoi raggi luminosi la nostra vita, tocca solo pochi cuori con la sua bacchetta magica; milioni di uomini non hanno mai conosciuto l'onnipotenza dei suoi incantesimi. Che ne è di questi diseredati? Saranno votati ai freddi amplessi del matrimonio senza amore? Alla prostituzione? Verranno posti - come nella presente società - davanti al crudele dilemma: un grande amore o la fame sessuale?

Meisel-Hess cerca di scoprire un'altra strada: laddove manchi il grande amore, esso viene sostituito dall'«amore-gioco». Perché il grande amore divenga parte dell'intera umanità bisogna passare attraverso una difficile ma nobilitante «scuola dell'amore».

L'amore- gioco è anche una scuola, un mezzo di accumulazione, nella psicologia umana, del «potenziale d'amore».

Che cos'è dunque questo amore-gioco su cui Meisel-Hess fonda così grandi speranze? L'amore-gioco, nelle sue diverse forme, è stato presente in tutto il corso della storia umana. Nei rapporti tra l'antica etera e il suo «amico», nell'amore galante tra la cortigiana dell'epoca rinascimentale e il suo «amante-protettore», nell'amicizia erotica tra la "grisette", libera e incosciente come l'uccello, e il suo «compagno» - lo studente - è facile ritrovare gli elementi principali di questo sentimento. Non è l'Eros travolgente, dal volto tragico, il quale esige il possesso, pieno e assoluto, ma non è neppure la sessualità brutale, ridotta all'atto fisiologico. L'amore, nei limiti di una psicofisiologia semplicistica, non sarebbe l'amore-gioco quale lo dipinge Meisel-Hess.

L'amore-gioco è esigente: esseri che si avvicinino unicamente sulla base di una simpatia reciproca, che si aspettano l'uno dall'altro soltanto i sorrisi della vita, non permetterebbero che si torturasse impunemente la loro anima, non ammetterebbero che si trascurasse la loro personalità o che si ignorasse il loro mondo interiore. L'amore- gioco, che esige un atteggiamento molto più attento, delicato, meditato, dell'uno nei confronti dell'altro, farebbe disimparare gradualmente agli uomini l'egoismo senza fondo che oggi è il marchio di tutti i sentimenti d'amore. «Un atteggiamento attento dell'uno nei confronti dell'altro, mentre stimola i sentimenti di simpatia sviluppa pure l'intuizione, la sensibilità, la delicatezza». In terzo luogo l'amore-gioco, non partendo dal principio del possesso assoluto, abitua gli uomini a dare solo quella parte del loro «io» che non è di peso all'altra, ma che, al contrario, contribuisce a rendere più luminosa la vita.

Questo inizierebbe gli uomini, pensa Meisel-Hess, a una verginità superiore: non darsi completamente che in presenza della profondità e della costanza del sentimento. Attualmente siamo tutti troppo inclini, «fin dal primo bacio», ad attentare all'intera personalità dell'altro, a caricarla di «tutto» il nostro cuore, nel momento in cui quell'altro non ne prova ancora alcun bisogno. Bisogna ricordarsi che solo il sacramento del grande amore dà dei «diritti».

L'amore-gioco, o l'amicizia erotica, ha ancora altri vantaggi: preserva dalle caratteristiche micidiali dell'amore, insegna agli uomini a resistere alla passione che asserve e che schiaccia l'individuo. Contribuisce più di ogni altra forma d'amore alla conservazione dell'individuo, dice Meisel-Hess. L'atto orribile, che chiamiamo penetrazione violenta nell'«io» altrui, in questo caso non ha luogo. «L'amore-gioco esclude il massimo peccato: la perdita della propria personalità tra i flussi della passione. L'umanità contemporanea vive sotto il segno fosco della passione, sempre avida di inghiottire l'altro 'io'». Rispondendo alle pretese amorose, che le venivano rivolte dall'abitante della Terra, un'abitante di Marte (romanzo di Lasswitz) dice: «Bisognerebbe che io cadessi dal gioco alato dei sentimenti sotto il potere della passione che rende schiavi: perdere la mia libertà e scendere con te sulla Terra. [...] La vostra Terra è forse più grande e più bella, ma io morirei nella sua greve atmosfera. Pesanti come la vostra aria sono i vostri cuori. E io, io sono solo Numa».

La nostra epoca si distingue per l'assenza dell'«arte di amare». Gli uomini ignorano assolutamente l'arte di intrattenere relazioni limpide, luminose, ariose; non conoscono tutto il valore dell'amicizia amorosa. L'amore è una tragedia che strazia l'anima oppure un banale "vaudeville". Bisogna far uscire l'umanità da questa impasse, bisogna abituare gli uomini a vivere ore belle, luminose, senza pesanti preoccupazioni. Soltanto dopo essere passata attraverso la scuola dell'amicizia amorosa, la psicologia dell'uomo sarà adatta ad accogliere il grande amore, purificato dai suoi aspetti foschi. Ogni amore (naturalmente non si tratta dell'atto fisiologico brutale) non impoverisce ma al contrario arricchisce l'anima umana. Un cuore umano sano e ricco, dice Meisel-Hess, capace di amare non è un pezzo di pane che diminuisce man mano che lo si mangia. «L'amore è una forza che cresce man mano che la si consuma. Amare sempre più profondamente, sempre più spesso, con sempre maggiore abnegazione: tale è il cammino ardente di ogni grande cuore». L'amore è di per sé una grande forza creatrice; esso espande e arricchisce l'anima di chi lo prova come quella di chi l'ispira.

Senza l'amore l'umanità si sentirebbe derubata, diseredata, miserabile. Senza alcun dubbio l'amore sarà il culto dell'umanità futura. Già oggi l'uomo, per lottare, per vivere, per lavorare e creare ha bisogno di sentirsi «affermato», «riconosciuto». Chi si sente amato si sente anche riconosciuto. Da questa consapevolezza nasce la suprema gioia di vivere. Ma proprio questo riconoscimento dell'«io» e questa vittoria sul fantasma che perpetuamente minaccia di brutale solitudine, si ottengono solo tramite la brutale soddisfazione del desiderio psicologico. «Soltanto il sentimento di un'armonia piena con l'essere amato può estinguere questa sete». Solo il grande amore offre la soddisfazione piena. Tanto più acuta è la crisi amorosa, quanto minori sono le riserve di potenziale d'amore nell'anima umana, quanto più limitati sono i legami sociali, quanto più povera di sentimenti di solidarietà è la psicologia umana.

Accrescere quel potenziale d'amore, educare, preparare la psicologia umana a ricevere il grande amore: tale è il compito che compete all'amicizia amorosa.

L'amore-gioco, evidentemente, è solo un sostituto del grande amore, «insufficiente» diranno taluni. In questo caso, risponde Meisel-Hess, gettino intorno a loro uno sguardo e vedano da che cosa è sostituito oggi l'amore: dalla prostituzione travestita da grande amore! Quale ipocrisia senza fondo, quale riserva di menzogne sessuali s'accumula su questo terreno! Prendiamo un esempio tratto a caso dalla vita. Due fidanzati sono posseduti da un medesimo desiderio, ma la severa morale grida: «Non ancora!». Allora il fidanzato va dalla prostituta, che non desidera affatto le sue carezze ma che deve darsi a lui mentre la fidanzata, che lo ama, è costretta ad aspettare l'autorizzazione legale. Quanto sarebbe più naturale e "morale" se questi due esseri, spinti dal medesimo desiderio, cercassero soddisfazione l'uno nell'altro invece di votare al servizio della loro carne una terza persona, completamente estranea a questa situazione. Oltre a fondamentali elementi economico-sociali, la prostituzione comporta un fattore psicologico che la determina, profondamente impresso nell'anima umana: la soddisfazione del bisogno erotico senza la necessità di pagarla con la libertà della propria anima, del proprio futuro, senza dover mettere ai piedi dell'essere interiormente estraneo tutto il proprio «io». Bisogna lasciar passare questo istinto naturale. Non si può gettare al collo di ogni innamorato maldestro la briglia del matrimonio. L'amore-gioco indica la strada cercata. «Se si vuole essere sinceri, se si rifiuta l'ipocrisia della morale e la menzogna sessuale, non c'è alcun motivo di negare la possibilità di tale esito per l'umanità, situata a un grado superiore dell'evoluzione culturale», dice Meisel-Hess. Infatti, alla presenza di una serie di riforme sociali (Meisel-Hess le sottolinea come la condizione indispensabile di tutte le sue conclusioni morali), che c'è di criminale nel fatto che l'estasi erotica getti due esseri l'uno nelle braccia dell'altro?

Infine, i limiti dell'amicizia erotica sono molto elastici. È possibilissimo che due esseri, che si siano avvicinati sulla base di una attrazione, di una libera simpatia, si «trovino» l'un l'altro: che dal gioco nasca un grande amore. Si tratta solo di creare per esso le possibilità oggettive. Quali sono le conclusioni e le rivendicazioni pratiche di Meisel-Hess? Assolutamente in primo luogo, la società deve imparare a riconoscere tutte le forme di unione tra i sessi, quali che siano i contorni insoliti che esse possano presentare, a due condizioni: che esse non nuocciano alla razza e non siano determinate dal giogo del fattore economico.

L'ideale resta l'unione monogamica, fondata su un grande amore, ma non «invariabile» e fissa. Più è molteplice la psicologia di un uomo, più è inevitabile il cambiamento. Il «concubinato» o la «monogamia succedentesi»: tale è la forma fondamentale del matrimonio. Ma, accanto, c'è un'intera gamma di aspetti differenti di unione amorosa, nei limiti dell'amicizia erotica.

La seconda esigenza è il riconoscimento, non solo a parole ma nei fatti, del carattere sacro della maternità. La società ha l'obbligo di costruire sulla strada della vita della donna, in tutte le forme possibili, dei «posti di pronto soccorso» allo scopo di sostenerla moralmente e materialmente nel periodo più pesante della sua vita.

Infine, perché dei rapporti più liberi non comportino per la donna «lo spavento del crollo», è indispensabile rivedere tutto il bagaglio morale di cui si fornisce la ragazza che si affaccia alla vita. Tutta l'educazione contemporanea della donna tende a rinchiudere la sua vita nei sentimenti d'amore.

Di qui i «cuori spezzati», le figure di donne disperate, abbattute dalla prima tempesta. Bisogna aprire dinanzi alla donna le ampie porte della vita molteplice, indurire il suo cuore, temprare la sua volontà. È tempo di insegnare alla donna a considerare l'amore solo come un gradino, come un mezzo per rivelare il suo «io» e non come la base della sua vita. Che apprenda anche lei, come l'uomo, a uscire da un conflitto d'amore senza le ali spiegazzate, ma con l'anima più forte.

«Saper respingere il passato al momento opportuno e accogliere la vita come se fossimo appena nati»: era la massima di Goethe. Già risplende la luce, già si delineano tipi femminili nuovi, le «donne nubili», per le quali i tesori della vita non si limitano all'amore. Sul terreno dei sentimenti d'amore esse non permettono ai flutti della passione di dirigere la loro barca: il timone è nelle mani di un pilota esperto, la loro volontà si tempra nella lotta della vita. L'esclamazione: «Ha un passato!» viene parafrasata dalla donna nubile: «Non ha un passato! Che strano destino!».

Certamente, queste donne non saranno così presto un fatto normale, non sarà certo domani che comincerà la nuova era sessuale, frutto di una più perfetta organizzazione sociale, e l'opprimente crisi sessuale non si risolverà d'un sol colpo, cedendo il posto alla morale del futuro, la strada però è stata trovata: in lontananza risplende, spalancata, la porta desiderata. Il libro di Meisel-Hess ci offre il filo di Arianna nel complesso labirinto dei rapporti sessuali e dei drammi psicologici. Non resta che mettere in corrispondenza le sue conclusioni con i compiti essenziali della classe in ascesa, rifiutare alcuni dettagli, eliminare delle piccole inesattezze e tentare di distinguere anche su questo terreno - il terreno dei rapporti tra i sessi, della psicologia dell'amore - i germi della nuova cultura in marcia, il cui trionfo è inevitabile: "la cultura proletaria".  

 

RAPPORTI TRA I SESSI E LOTTA DI CLASSE

 

Tra i molteplici problemi che turbano oggi l'intelligenza ed il cuore dell'umanità, uno dei primi in ordine di importanza è senza dubbio quello sessuale. Non vi sono paesi, né popoli, esclusi i leggendari «insulari», nei quali la questione sessuale non abbia assunto un carattere sempre più scottante e doloroso. L'umanità odierna attraversa una crisi sessuale non solo acuta nelle sue forme, ma (il che è molto peggio e forse maggiormente pericoloso) che si prolunga nel tempo.

Forse, lungo tutto l'arco della storia dell'umanità non si troverà un'epoca in cui i problemi sessuali abbiano rivestito nella vita sociale un ruolo così centrale, in cui i rapporti tra i sessi abbiano catalizzato su di sé, come per magia, gli sguardi tormentati di milioni di uomini, in cui i drammi sessuali abbiano costituito a tal punto una fonte inestinguibile d'ispirazione per i rappresentanti di tutti i generi e di tutte le forme d'arte.

Quanto più la crisi si prolunga, quanto più assume carattere cronico, tanto più la presente situazione sembra senza sbocchi e tanto più ardentemente l'umanità si getta su tutti i possibili mezzi di risoluzione di questa «dannata questione». Ma, ad ogni nuovo tentativo, la complessa matassa dei rapporti sessuali non fa che aggrovigliarsi ulteriormente e sembra che il filo, grazie al quale si riuscirebbe a sciogliere il nodo ostinato, resti invisibile. L'umanità spaventata oscilla disperatamente tra un estremo e l'altro ma il cerchio magico della questione sessuale resta sempre chiuso.

«Occorre tornare ai vecchi tempi, ristabilire le antiche norme familiari, rinforzare le regole tradizionali della morale», decide la parte conservatrice dell'umanità. «Occorre distruggere tutte le ipocrite difese dell'antiquato codice della morale sessuale; è giunta l'ora di gettare alle ortiche quest'anticaglia inutile e fastidiosa [...]. La coscienza individuale, la volontà individuale di ognuno, ecco l'unico legislatore in questa sfera intima», si sente dire da parte dell'individualismo borghese. «La soluzione dei problemi sessuali si avrà con l'istituzione di un ordine economico e sociale totalmente riformato», assicurano i socialisti; ma questo rinviare al futuro non indica forse che neppure noi abbiamo in mano il filo conduttore?

Esiste la possibilità di scoprire già oggi o almeno di indicare, il filo magico che permetta di sciogliere il nodo?

Il metodo per affrontare questa ricerca ci è dato dalla storia stessa della società umana, storia della ininterrotta lotta di classi e di gruppi sociali diversi, opposti gli uni agli altri dai loro interessi e dalle loro tendenze. Non è la prima volta che l'umanità attraversa un periodo di crisi sessuale acuta; non è la prima volta che la precisione e la chiarezza dei precetti morali correnti nel campo dell'unione sessuale vengono meno sotto il frangersi dell'ondata di nuovi ideali morali. L'umanità ha vissuto una crisi sessuale particolarmente acuta all'epoca del Rinascimento e della Riforma, nel momento in cui un imponente spostamento sociale fece indietreggiare l'aristocrazia feudale, fiera della sua nobiltà, abituata al dominio incontrastato, e spianò il terreno all'avvento di una nuova potenza sociale, crescente in numero ed in forze: la borghesia in ascesa. Il codice della morale sessuale del mondo feudale, nato dal seno della vita aristocratica, con la sua economia comune, i suoi autoritari principi di casta, si trovò di fronte il nuovo, avverso codice della morale sessuale della classe borghese in formazione. La morale sessuale della borghesia discendeva da principi radicalmente opposti ai principi morali essenziali del codice feudale; invece del principio di casta, appariva una severa "individualizzazione", i limiti chiusi della famiglia nucleare; al posto del fattore di «collaborazione», caratteristico tanto dell'economia comune quanto dell'economia regionale, appariva quello della "concorrenza". Le ultime vestigia delle idee comuniste, proprie a livelli diversi di tutte le tappe evolutive della vita di casta, furono travolte dal principio trionfante della "proprietà privata" individualizzata, isolata. L'umanità disorientata oscillò per secoli tra i due codici sessuali, così differenti nello spirito informatore, cercando di adattarsi alla situazione, fino al momento in cui la complessa fucina della vita non ebbe fuso le norme antiche nello stampo nuovo e raggiunto almeno un'armonia di forme.

Ma, in quest'epoca di sconvolgimenti, vivace e policroma, la crisi sessuale, malgrado tutta la sua acutezza, non presentava il carattere minaccioso che ha assunto oggi. La causa è da ricercarsi nel fatto che nei grandi giorni del Rinascimento, in questo secolo nuovo in cui i luminosi raggi di una nuova cultura spirituale riempirono di vivi colori la vita povera di contenuti del mondo medievale in agonia, solo una parte relativamente ristretta della società risentiva della crisi della morale sessuale. Lo strato quantitativamente più esteso della popolazione del tempo, il mondo contadino, non ne veniva toccato che indirettamente, solamente nella misura in cui, attraverso un lento processo secolare, la trasformazione delle basi economiche avveniva anche lì, nella misura in cui cioè i rapporti economici si evolvevano.

Ai vertici più alti della scala sociale, al contrario, s'ingaggiava una dura lotta tra due mondi sociali dalle tendenze opposte; lì, gli ideali e le norme delle due concezioni avverse lottavano; lì, la crisi sessuale crescente e minacciosa mieteva le sue vittime. Il mondo contadino, ostile alle innovazioni, dalla base stabile, continuava a essere attaccato saldamente ai collaudati pilastri delle tradizioni ancestrali, modificando, diluendo ed adattando alle innovate condizioni della propria vita economica il codice fisso della morale sessuale tradizionale. La crisi sessuale, nell'epoca della dura lotta tra mondo borghese e mondo feudale, non toccava lo «strato tributario» e quanto più le vecchie forme si spezzavano ai vertici, tanto più solidamente, in apparenza, il mondo contadino restava legato alle proprie tradizioni ancestrali. Malgrado le tempeste che passavano sulla loro testa e scuotevano il suolo anche sotto i loro piedi, i contadini ed in particolar modo i contadini russi, riuscirono a conservare, per secoli interi, i principi essenziali del loro codice di morale sessuale allo stato primitivo.

Il quadro di oggi è ben diverso. Questa volta la crisi sessuale non risparmia neppure il mondo contadino. Come una malattia infettiva, non riconoscendo «né gradi né rango», essa si sposta dai palazzi e dalle ville ai popolosi quartieri operai, penetra nelle placide abitazioni borghesi, si fa strada nel solitario villaggio russo, scegliendo le sue prede tanto nella villa del borghese europeo quanto nelle cantine umide della famiglia operaia e nella capanna piena di fieno del contadino. Contro la crisi sessuale, non vi sono «né difese, né catenacci». Sarebbe un grave errore ritenere che solo i rappresentanti degli strati sociali dall'esistenza materialmente sicura ne siano colpiti. I vaghi disordini della crisi sessuale varcano sempre più di frequente la soglia delle abitazioni operaie, creandovi drammi che per la loro dolorosa acutezza non sono certo inferiori ai conflitti psicologici del mondo raffinato della borghesia.

Ma proprio perché la crisi sessuale non tocca solamente gli interessi dei «possidenti», perché i problemi sessuali investono allo stesso modo uno strato sociale così considerevole come l'odierno proletariato, è incomprensibile e imperdonabile che questa essenziale e dolorosa questione incontri una simile indifferenza. Tra i molteplici e numerosi compiti che incombono alla classe operaia nella sua offensiva per costruire l'avvenire si trova anche, senza alcun dubbio, il compito dell'edificazione di più sani e più felici rapporti tra i sessi.

Da dove viene la nostra imperdonabile indifferenza nei confronti di uno dei compiti essenziali della classe operaia? Come spiegarsi l'ipocrita collocazione del problema sessuale nel cassetto degli «affari di famiglia», sottratto alla necessita di uno sforzo collettivo? Come se i rapporti tra i sessi e l'elaborazione di un nuovo codice morale regolatore di questi rapporti non apparissero in tutto il corso della storia come fattori invariabili della lotta sociale; come se i rapporti tra i sessi, nell'ambito di un gruppo sociale determinato, non avessero un'influenza fondamentale sull'esito della lotta tra classi sociali antagoniste.

Il dramma dell'umanità odierna consiste non solo nel fatto che, davanti ai nostri occhi, si spezzano le usuali forme di unione tra i sessi ed i principi che le regolano, ma anche nel fatto che dai bassifondi della società esalano i freschi profumi sconosciuti di una nuova forma di vita, che riempiono l'animo umano di desiderio di ideali futuri, ancora irrealizzabili al giorno d'oggi. Noi, uomini di un secolo caratterizzato dalla proprietà capitalistica, di un secolo di aspre lotte di classe e di morale individualistica, viviamo e pensiamo ancora sotto il funesto segno di un'inevitabile solitudine morale. Questa solitudine in mezzo ad immense città popolose, tentatrici e rumorose, questa solitudine, anche tra amici e compagni, conduce l'uomo d'oggi ad aggrapparsi con malsana avidità all'illusione dell'«anima gemella», dell'anima appartenente ad un essere dell'altro sesso, in quanto solo l'amore possiede il magico potere di scacciare, almeno per un certo periodo, le tenebre della solitudine.

Mai forse, in nessuna epoca, la solitudine morale è stata avvertita con una così dolorosa acutezza e una tale persistenza come oggi. È impossibile che sia altrimenti. La notte sembra molto più impenetrabile quando un lumicino brilla in lontananza. E davanti agli occhi degli individualisti contemporanei che sono ancora labilmente legati alla collettività, ad altri individui, brilla una nuova luce: la trasformazione dei rapporti tra i sessi in cui il fattore cieco, fisiologico, cede il passo al fattore creatore: la solidarietà tra compagni.

La morale della proprietà individualistica odierna comincia a sembrare particolarmente soffocante. Nella sua critica dei rapporti sessuali, l'uomo moderno giunge molto più lontano della semplice negazione delle antiquate forme esteriori e del codice della morale corrente. Il suo animo solitario cerca la rigenerazione dell'essenza stessa di questi rapporti, desidera ardentemente il grande amore, forza calda e creatrice che sola ha il potere di scacciare il freddo fantasma della solitudine morale che tormenta gli individualisti contemporanei. Se la crisi sessuale è per tre quarti condizionata da rapporti esterni di natura socioeconomica, un quarto della sua gravità è sicuramente dovuto alla nostra raffinata psicologia individualistica, coltivata con tanta cura dall'ideologia borghese dominante.

L' umanità contemporanea è effettivamente, come dice la scrittrice tedesca Meisel-Hess, povera in «potenziale d'amore». I rappresentanti dei due sessi si cercano vicendevolmente, ciascuno nel desiderio di ricevere "dall'altro, tramite l'altro", la maggior parte di godimenti spirituali e fisici solo "per se stesso". L'amante o il fidanzato si curano molto poco dei sentimenti, del travaglio in atto nella donna amata.

Il grezzo individualismo che contraddistingue il nostro secolo si esprime molto chiaramente nell'ambito dei rapporti tra i sessi, come forse in nessun altro settore. L'uomo, fuggendo la solitudine morale, crede candidamente che sia sufficiente amare, rivendicare i propri "diritti su" di un'altra anima, per riscaldarsi nei raggi di una rara felicità, l'affinità morale e la comprensione. Noi, individualisti, dall'animo reso grossolano dal costante culto del nostro «io», crediamo di cogliere la felicità totale, il grande amore in noi e nei nostri simili, senza dare in cambio i tesori della nostra anima!

Pretendiamo sempre la totalità indivisa dell'essere amato, e noi stessi siamo incapaci di rispettare la più elementare norma dell'amore: avvicinare l'animo altrui con il massimo rispetto. Questa norma ci sarà gradualmente inculcata dai nuovi rapporti che già si delineano tra i sessi, rapporti fondati su due nuovi principi: piena libertà, uguaglianza e autentica solidarietà tra compagni. Ma, per il momento, l'umanità sente ancora il gelo della solitudine morale e non può che sognare questo secolo migliore, in cui tutti i rapporti umani saranno penetrati da sentimenti di solidarietà, generati da nuove condizioni di vita. La crisi sessuale è irresolubile senza una riforma fondamentale della psicologia umana, senza l'accrescimento del «potenziale d'amore». Ma questa riforma della psiche dipende interamente dalla riorganizzazione fondamentale dei nostri rapporti socioeconomici su basi comuniste. Al di fuori di questa «vecchia verità», non c'è via d'uscita.

Infatti, malgrado tutte le forme di unione tentate dall'umanità odierna, la crisi sessuale non si attenua minimamente. La storia non ha mai conosciuto una simile molteplicità di forme di unione: il matrimonio indissolubile con la famiglia stabile e, accanto, la libera unione passeggera; l'adulterio in segreto nel matrimonio e la vita in comune della giovane con il suo amante, il matrimonio «selvaggio», il matrimonio a due ed il matrimonio a tre, e anche la forma complicata del matrimonio a quattro, per non parlare delle molteplici varianti della prostituzione. E l'una accanto all'altra, nel contadino e nel piccolo borghese, troviamo (residui dei vecchi costumi di casta mescolati ai principi in decomposizione della famiglia borghese individualistica) la vergogna dell'adulterio e la vita matrimoniale tra il suocero e la propria nuora, la libertà per la giovanetta, e sempre la stessa «doppia morale».

Le forme attuali di unione sono contraddittorie e problematiche, e non possiamo fare a meno di chiederci come l'uomo, che ha conservato nel suo intimo la fede nella fermezza dei principi morali, riesca a ritrovarsi in queste contraddizioni e a destreggiarsi fra tutti questi precetti i morali inconciliabili che si distruggono l'un l'altro. Persino la solita giustificazione: «Vivo secondo la nuova morale» non regge, in quanto questa «nuova morale» si trova ancora nella sua fase di formazione. Il compito consiste precisamente nel mettere infine in evidenza questa morale in embrione, nel cogliere, nel caos delle contraddittorie norme sessuali odierne, i contorni dei principi corrispondenti allo spirito della classe rivoluzionaria in ascesa.

Oltre che a causa del difetto fondamentale della psicologia attuale (l'estremo individualismo, il culto dell'egocentrismo), la crisi sessuale si aggrava ulteriormente per la presenza di due altri fattori tipici della psicologia contemporanea: l'idea dei diritti di "proprietà" di un essere sull'altro e il secolare pregiudizio circa l'ineguaglianza dei sessi in tutte le sfere della vita, compresa la sfera sessuale. L

'idea della proprietà inviolabile degli sposi è stata accuratamente coltivata dal codice morale della classe borghese, con il suo ideale di famiglia individualistica ripiegata su se stessa, interamente costruita sulle basi della proprietà privata. Nell'inoculazione di quest'idea nella psicologia umana, la borghesia ha raggiunto la perfezione. La concezione della proprietà nel matrimonio è attualmente molto più estesa di quanto non fosse nel codice aristocratico dei rapporti sessuali. Nel corso del lungo periodo storico svoltosi sotto il segno del principio di casta, l'idea del possesso della donna da parte del marito (la donna, da parte sua, non aveva diritti assoluti di proprietà sul marito) non si estendeva al di là del mero possesso fisico. La sposa doveva essere fisicamente fedele al marito, mentre il suo animo le apparteneva ancora.

Anche i signori riconoscevano alle loro spose il diritto di avere degli amanti platonici e di ricevere l'«adorazione» dei cavalieri e dei menestrelli. L'ideale del possesso assoluto, non solo dell'«io» fisico, ma anche dell'«io» spirituale di uno sposo, l'ideale che ammette una rivendicazione di diritti di proprietà sul mondo spirituale e morale dell'essere amato, è un ideale che è stato interamente formato, coltivato dalla classe borghese allo scopo di rinforzare le fondamenta familiari che assicuravano la sua stabilità e la sua forza durante il periodo di lotta per l'egemonia sociale. E non solo abbiamo ereditato quest'ideale, ma siamo persino pronti a considerarlo un «assoluto» morale incrollabile!

L'idea della proprietà si estende ben di là dei confini del matrimonio legale; essa è un fattore inevitabile, che si insinua persino nell'unione amorosa più «libera». Gli attuali amanti dei due sessi, malgrado tutto il loro rispetto «teorico» della libertà, non si contenterebbero minimamente della mera fedeltà fisiologica della persona amata. Per scacciare da noi il fantasma minaccioso della solitudine, penetriamo brutalmente, con una crudeltà ed un'indelicatezza che saranno incomprensibili all'umanità futura, nell'animo dell'essere amato e rivendichiamo i nostri diritti sul suo più segreto «io» interiore. L'amante contemporaneo perdonerà con molta più facilità un'infedeltà fisica che non una morale, e ogni particella d'animo, prodigata al di là dei limiti della "sua" libera unione, gli appare come un furto imperdonabile, commesso ai suoi danni, dei tesori di cui è unico proprietario.

Per non parlare poi dell'ingenua e costante indelicatezza, a questo proposito, degli amanti nei confronti di un terzo! Ciascuno di noi ha senza dubbio potuto osservare un fatto curioso: due amanti, che hanno appena avuto il tempo di conoscersi passabilmente l'un l'altro, si affrettano ognuno a stabilire i propri diritti sulle relazioni personali antecedenti dell'altro, ad intervenire nella sua vita più intima, più sacra. Due esseri, estranei fino a ieri, legati unicamente da sensazioni erotiche comuni, si affrettano a mettere le mani sull'animo dell'altro, a disporre di quest'animo sconosciuto, misterioso, in cui il passato ha scolpito immagini incancellabili, a stabilirvisi infine come a casa propria.

L'idea del possesso reciproco da parte dei componenti della coppia è così estesa che non siamo quasi più colpiti da fatti anomali come questo: due giovani sposi vivevano fino a ieri ciascuno la propria vita; oggi, ognuno di loro apre senza scrupoli la corrispondenza dell'altro, e le lettere di un terzo, vicino solo ad uno dei coniugi, divengono così di proprietà comune. Una simile «intimità» non può essere acquisita che al prezzo di una vera e propria unione di anime nel corso di una lunga vita di comune amicizia a tutta prova. Ma, in genere, ciò che avviene è la più sleale sostituzione di questa intimità, una sostituzione prodotta dall'idea erronea che l'intimità fisica tra due esseri sia una ragione sufficiente per estendere il diritto di proprietà anche sull'essere morale.

Il secondo fattore che deforma la mentalità dell'uomo contemporaneo e che accresce la crisi sessuale è la concezione dell'ineguaglianza dei sessi, ineguaglianza dei loro diritti, ineguaglianza del valore delle loro sensazioni psico-fisiologiche. La doppia morale, propria del codice borghese e di quello aristocratico, ha così avvelenato da tanti secoli la psicologia degli uomini e delle donne che è ancora più difficile sbarazzarsi del suo veleno che delle idee ereditate dall'ideologia borghese a proposito della proprietà degli sposi.

La concezione dell'ineguaglianza dei sessi, anche nel campo della psico-fisiologia, obbliga costantemente a usare misure diverse per un atto identico, a seconda del sesso che lo compie. E persino l'uomo «più evoluto» della classe borghese, che ha superato da molto tempo i precetti del codice della morale corrente, potrà agevolmente constatare che su questo punto egli mette un diverso giudizio, a seconda che si tratti della condotta di un uomo o di una donna. Un esempio brutale sarà sufficiente: immaginate che un intellettuale borghese, uno scienziato, un politico, un uomo che svolge una rilevante attività sociale, in una parola una «personalità», si leghi con la sua cameriera (fatto abbastanza comune) e giunga fino a sposarsi con lei. Questo fatto modificherà l'atteggiamento della società borghese nei confronti della «personalità» in questione, getterà forse la minima ombra sulle sue qualità morali? Naturalmente no! Ora immaginate un altro caso: una donna borghese rispettata (professoressa, medico, scrittrice) si lega con un lacchè e, per completare lo «scandalo», consolida quest'unione con un matrimonio legale. Quale sarà l'atteggiamento della società borghese nei confronti dell'atto della persona fino ad ora rispettata? Naturalmente, la colpirà col suo «disprezzo». E notate bene: se per sventura suo marito, il lacchè, possiede un gradevole aspetto o altre «notevoli caratteristiche fisiche», il fatto sarà ancora più grave! «Com'è caduta in basso quella donna!», sarà allora il giudizio dell'ipocrita borghesia.

La società borghese non perdona alla donna di fare delle scelte di carattere spiccatamente individuale. Si tratta di una sorta di atavismo; secondo la tradizione ereditata dai costumi di casta, questa società vuole ancora che la donna tenga conto, nelle sue scelte, dei gradi e dei ranghi, delle prescrizioni della famiglia e degli interessi di questa. Essa non sa liberare la donna dalla cellula familiare e considerarla come un'individualità, al di fuori del circolo chiuso delle virtù e dei doveri familiari.

Nella sua tutela della donna, la società contemporanea si spinge anche più lontano del vecchio ordine, le prescrive non solo di sposarsi, ma anche di amare unicamente degli uomini «degni» di lei. Incontriamo ad ogni passo uomini di elevato livello morale ed intellettuale che hanno scelto come compagna di vita un essere insignificante e vuoto, assolutamente non corrispondente al valore dello sposo. Consideriamo questi fatti come cose normali, senza nemmeno prestarvi attenzione; tutt'al più succede che «gli amici compatiscano qualche Ivan o Boris per aver sposato una donna così insopportabile». Ma nel caso della donna, esclamiamo con aria di rimprovero: «Come ha fatto una donna così notevole come X O Y ad amare una simile nullità. C'è veramente da dubitare dell'intelligenza di questa X o Y!».

Donde viene questo doppio criterio? Cos'è che lo determina? Esso è certamente dovuto al fatto che l'idea della ineguaglianza dei valori tra i due sessi, inoculata per secoli nell'umanità, è entrata organicamente a far parte della nostra mentalità. Ci siamo abituati a valutare la donna non come una "personalità", con delle qualità e dei difetti propri, indipendenti dalle sue sensazioni psico-fisiologiche, bensì unicamente come un accessorio dell'uomo. L'uomo, il marito o l'amante, proietta sulla donna la sua luce riflessa; è lui, e non lei stessa, che consideriamo come l'elemento determinante della struttura spirituale e morale della donna. Nella valutazione che la società compie della personalità dell'uomo, si fa sempre astrazione dei suoi atti collegati alla sfera sessuale. La personalità della donna, al contrario, si evolve in stretto collegamento con la sua vita sessuale. Questo genere di apprezzamento discende dal ruolo svolto dalla donna nel corso dei secoli, e soltanto per gradi si fa, o meglio "si indica", la revisione dei valori in questo ambito essenziale. Solo la trasformazione del ruolo economico della donna, il suo ingresso nella vita del lavoro indipendente contribuiranno all'attenuazione di queste false ed ipocrite concezioni.

Quei tre fattori fondamentali che deformano la psicologia contemporanea (un estremo egocentrismo, l'idea dei reciproci diritti di proprietà degli sposi, la concezione dell'ineguaglianza dei sessi nella sfera psico-fisiologica) sbarrano la strada che porta alla soluzione del problema sessuale. L'umanità potrà trovare la chiave per aprire questo cerchio magico unicamente quando avrà accumulato nella propria psicologia sufficienti riserve di sensazioni, quando il «potenziale d'amore» si sarà accresciuto nel suo animo, quando la concezione della libertà nel matrimonio e nella libera unione si sarà di fatto consolidata, quando il principio della solidarietà tra compagni avrà trionfato sulle tradizionali concezioni dell'ineguaglianza e della subordinazione nelle relazioni tra i sessi. Senza una rieducazione fondamentale della nostra psicologia il problema sessuale è irresolubile.

Ma una simile condizione preliminare non è forse una utopia senza basi concrete, e non bisogna forse abbandonarla a dei sognatori idealisti? Infatti, provate un po' ad accrescere il «potenziale d'amore» dell'umanità! I saggi di tutte le epoche non si sono forse dedicati a questo compito sin dai tempi più antichi, da Budda a Confucio fino a Cristo? E ciononostante chi oserà dire che il potenziale d'amore si è accresciuto in seno all'umanità? Ridurre la questione della crisi sessuale a simili sogni pieni di buone intenzioni non significa forse confessare la propria impotenza e rinunciare alla ricerca della chiave magica? Ma è proprio così? La rieducazione fondamentale della nostra psicologia nel campo dei rapporti sessuali è veramente così irrealizzabile, così lontana dalla pratica della vita? Non si osservano, al contrario, proprio nell'ora presente, proprio nel momento in cui si verifica un possente spostamento, sociale ed economico, condizioni nuove nel campo dei sentimenti, in accordo con le esigenze indicate più sopra?

Detronizzando la borghesia e la sua ideologia di classe, il suo codice individualistico di morale sessuale, un'altra classe, un nuovo gruppo sociale avanza. Questa classe in ascesa, d'avanguardia, porta necessariamente in sé i germi di nuovi rapporti tra i sessi, strettamente collegati con i suoi compiti sociali di classe.

La complessa evoluzione dei rapporti economico-sociali che avviene sotto i nostri occhi, che sconvolge tutte le nostre concezioni circa il ruolo della donna nella vita sociale e spezza tutte le basi della morale sessuale borghese, ha come conseguenza due fatti apparentemente contraddittori. Da un lato, osserviamo gli sforzi indefessi dell'umanità che tenta di adattarsi alle nuove condizioni della economia sociale, sforzi tendenti sia alla conservazione delle vecchie forme, riempite di nuovi contenuti (il mantenimento della forma esteriore del matrimonio indissolubile, severamente monogamico, pur riconoscendo di fatto la libertà degli sposi), sia, al contrario, all'accettazione di forme nuove comportanti però tutti gli elementi del codice morale del matrimonio borghese (l'unione libera, in cui il principio dei diritti di proprietà degli sposi «liberi» l'uno sull'altro ha un'estensione maggiore che non nel matrimonio legale). Dall'altro lato, constatiamo la lenta ma invincibile apparizione di nuove forme di unione tra i sessi: nuove non tanto esteriormente, quanto per lo spirito informatore delle loro norme basilari. L'umanità sonda con esitazione questi nuovi ideali, ma basta esaminarli da vicino per riconoscere in loro, malgrado l'assenza di contorni netti, i tratti caratteristici che li collegano strettamente con i compiti della classe operaia, cui incombe la conquista della fortezza dell'avvenire. Colui che intende, nel labirinto di norme sessuali contraddittorie, trovare i germi di rapporti futuri più sani tra i sessi, di rapporti che promettano di liberare l'umanità dalla crisi sessuale, deve abbandonare i quartieri «colti» con la loro raffinata psicologia individualistica e gettare uno sguardo nelle anguste abitazioni degli operai in cui, malgrado l'oscurità e l'orrore prodotti dal capitalismo, malgrado le lacrime e le imprecazioni, cominciano a sgorgare sorgenti di acqua pura.

Proprio lì in seno alla classe operaia, sotto la pressione di dure condizioni economiche, sotto il giogo dell'implacabile sfruttamento del capitale, si nota questo doppio processo di cui abbiamo appena parlato: il processo di adattamento passivo e di resistenza attiva alla realtà presente. La influenza distruttrice del capitalismo, spezzando tutte le fondamenta della famiglia operaia, obbliga il proletariato ad adattarsi istintivamente alle condizioni ambientali e provoca, nel campo delle relazioni tra i sessi, tutta una serie di fatti analoghi a quelli che avvengono nelle altre classi sociali. Sotto la spinta dei bassi salari, l'età del matrimonio dell'operaio aumenta continuamente ed inevitabilmente. Se vent'anni fa l'età media del matrimonio dell'operaio oscillava tra i ventidue ed i venticinque anni, oggi il proletario forma una famiglia soltanto verso i trent'anni. E quanto più sviluppati sono i bisogni culturali dell'operaio, quanto più egli apprezza la possibilità di seguire il ritmo della vita culturale, di frequentare teatri, conferenze, di leggere i giornali, di dedicare il proprio tempo libero alla lotta sindacale, alla politica o ad un lavoro preferito (arte, lettura, eccetera) tanto più l'età del matrimonio dell'operaio si fa alta. Ma i bisogni fisiologici non tengono conto delle condizioni della borsa: non si lasciano dimenticare. L'operaio celibe, così come lo scapolo borghese, si rivolge alla prostituzione. Questo tipo di cose può essere fatto rientrare nell'adattamento passivo della classe operaia alle condizioni sfavorevoli della propria esistenza. Altro esempio: un operaio si sposa. Ma sempre lo stesso ostacolo, il basso livello dei salari obbliga la famiglia operaia a regolare la questione delle nascite così come fanno le famiglie borghesi.

L'aumento degli infanticidi, la crescita della prostituzione sono fatti che appartengono al medesimo ordine: si tratta dei mezzi di adattamento "passivo" all'infernale realtà che circonda l'operaio. Ma, in questo processo, non v'è nulla di peculiare al proletariato: un simile adattamento è egualmente proprio di tutte le altre classi e strati sociali che fanno parte del processo mondiale della evoluzione capitalistica. La linea di demarcazione comincia laddove i "principi attivi, creatori" entrano in gioco: laddove si ha non più un adattamento ma una reazione contro la realtà opprimente, laddove nuovi ideali nascono e si esprimono, laddove si delineano timidi tentativi di rapporti sessuali informati ad uno spirito nuovo. "Questo processo di reazione attiva ha luogo unicamente nella classe operaia".

Ciò non significa che le altre classi e strati sociali (gli intellettuali borghesi in particolare, che si trovano più vicini alla classe operaia a causa delle condizioni della loro esistenza sociale) non riprendano questi elementi nuovi che la classe operaia in ascesa crea e sviluppa nel suo seno. Spinta dall'istintivo desiderio di infondere nuova linfa nelle sue forme morenti, e quindi impotenti, di unione tra i sessi, la borghesia si appropria delle forze nuove che il proletariato porta in sé. Ma né gli ideali né il codice di morale sessuale gradualmente elaborati dal proletariato corrispondono alle esigenze borghesi di classe. Mentre la morale sessuale, nascente dai bisogni della classe operaia, diviene uno strumento nuovo di lotta sociale per questa classe, le «novità» riprese dalla borghesia non fanno che distruggere definitivamente le basi del suo dominio sociale. Facciamo un esempio di quanto abbiamo detto.

Il tentativo degli intellettuali borghesi di sostituire il matrimonio indissolubile con i vincoli più liberi, più facilmente risolvibili del matrimonio civile scuote le fondamenta indispensabili della stabilità sociale della borghesia: la famiglia monogamo-proprietaria. Al contrario, per la classe operaia, una maggiore elasticità, un consolidamento minimale dell'unione dei sessi concordano completamente e discendono persino direttamente dai compiti fondamentali di questa classe. La negazione del fattore di subordinazione nel matrimonio rompe anche gli ultimi vincoli artificiali della famiglia borghese. Al contrario, il fattore della subordinazione di un membro di una classe ad un altro, così come il fattore proprietà, è di per sé contrario alla psicologia del proletariato. Non è negli interessi della classe rivoluzionaria vincolare uno dei suoi membri, un suo rappresentante indipendente, al quale incombe innanzi tutto il dovere di servire gli interessi della propria classe e non quelli di una cellula familiare separata ed isolata. I frequenti conflitti tra gli interessi della famiglia e quelli della classe (negli scioperi, ad esempio, nella partecipazione alla lotta) e la misura morale che il proletariato applica in questi casi caratterizzano con sufficiente chiarezza la base della nuova ideologia proletaria.

Immaginatevi un finanziere rispettato che ritira dagli affari il suo capitale, in un momento critico per l'impresa, nell'interesse della propria famiglia. È chiaro che la morale borghese apprezzerà il suo gesto. «Gli interessi della famiglia» sono in primo piano. Ponete ora, come paragone con questo modo di vedere, l'atteggiamento degli operai nei confronti di un crumiro, che va al lavoro durante uno sciopero, contro i suoi compagni per salvare la propria famiglia dalla fame. Gli interessi della "classe" sono qui in primo piano. Pensate ora ad un marito borghese che è riuscito, con il suo amore e la sua abnegazione verso la famiglia, ad allontanare sua moglie da tutti gli interessi al di fuori di quelli della casa ed a legarla definitivamente alla cura dei bambini e della cucina. «Un marito ideale che ha saputo creare una famiglia ideale», sarà il giudizio borghese. Ma quale sarà l'atteggiamento degli operai nei confronti di un membro cosciente della loro classe che tentasse di distogliere la propria moglie dalla lotta sociale? A spese della felicità individuale, a spese della famiglia, la morale della classe operaia esigerà la partecipazione della donna alla vita al di fuori delle mura di casa. Vincolare la donna alla casa, mettere in primo piano gli interessi della famiglia, propagare l'idea dei diritti assoluti di proprietà di uno sposo sull'altro, sono azioni che violano il principio fondamentale dell'ideologia della classe operaia, della solidarietà tra compagni, che rompono la catena che vincola alla classe. La concezione del possesso di una individualità da parte di un'altra, l'idea della subordinazione e dell'ineguaglianza dei membri di una sola e medesima classe sono contrari all'essenza del principio proletario fondamentale: la solidarietà tra compagni. Questo principio, base dell'ideologia della classe in ascesa, colora e determina il nuovo codice in formazione della morale sessuale del proletariato, grazie al quale la psicologia dell'umanità si trasforma nel senso dell'accumulazione dei sentimenti di solidarietà, di libertà in luogo dei sentimenti di proprietà; dei sentimenti di solidarietà tra compagni in luogo della ineguaglianza e della subordinazione. È una vecchia verità che ogni nuova classe in ascesa, nata da una cultura materiale distinta da quella dello stadio precedente dell'evoluzione economica, arricchisce "l'intera umanità" d'una ideologia nuova, propria di questa classe.

Il codice della morale sessuale è parte integrante di ogni ideologia. Ciononostante, basta pronunciare i termini «etica proletaria» e «morale sessuale proletaria» per scontrarsi con la solita replica banale: la morale sessuale proletaria è una mera sovrastruttura: finché tutta la base economica non è trasformata, non può esservi posto per essa. Come se l'ideologia di qualsiasi classe si formasse solo quando si è già prodotto lo sconvolgimento nei rapporti socio-economici, che assicurano il dominio di questa classe! Tutta l'esperienza della storia ci insegna che l'elaborazione dell'ideologia di un gruppo sociale, e di conseguenza anche della morale sessuale, si fa "nel processo stesso" della lotta di quel gruppo contro le forze sociali antagoniste.

Soltanto con l'ausilio dei nuovi valori spirituali creati nel suo intimo, rispondenti ai compiti della classe in ascesa, una classe in lotta può rafforzare le proprie posizioni sociali; è unicamente attraverso norme e ideali nuovi che essa può conquistare trionfalmente il potere sui gruppi sociali avversari. Il compito che incombe agli ideologi della classe operaia è di ricercare il criterio morale fondamentale, prodotto dagli interessi specifici di questa classe, e di accordare con esso le nascenti norme sessuali.

È tempo di capire che unicamente dopo aver riconosciuto il processo creatore che avviene nel profondo della società e che genera nuovi bisogni, nuovi ideali e nuove forme, che unicamente dopo aver messo a punto le basi della morale sessuale della classe d'avanguardia in ascesa, sarà possibile distinguere il cammino che essa deve compiere nel caos contraddittorio dei rapporti tra i sessi e sciogliere la matassa ingarbugliata del problema sessuale.

È ora di ricordarsi che il codice della morale sessuale, accordato con i nuovi compiti della classe in ascesa, può divenire un potente strumento per rafforzare la posizione di combattimento della classe. L'esperienza della storia ce lo insegna. Perché non servirsi di questo strumento nell'interesse della classe operaia, in lotta per l'ordine comunista e per rapporti nuovi, migliori e più felici, tra i sessi?

 

RIVOLUZIONE NELLA VITA QUOTIDIANA

 

[...] Allo stesso modo, il nuovo sistema economico nel suo complesso ha giocato un ruolo, durante gli anni del comunismo di guerra, nella modificazione della vita quotidiana, dei costumi, delle idee e delle opinioni delle persone.

Chiunque sappia vedere e osservare riconosce che la vita quotidiana si modifica sotto i nostri occhi. In pochi anni, da quando gli operai sono i padroni, le radici stesse dell'asservimento secolare della donna sono state estirpate. Da una parte la repubblica dei lavoratori fa partecipare la donna al lavoro produttivo e dall'altra essa si sforza di organizzare la vita quotidiana sulle basi nuove che pongono i fondamenti del comunismo, essa inculca nelle persone abitudini, punti di vista e concezioni collettivistiche.

La modificazione della vita quotidiana si è manifestata, in modo particolarmente chiaro, nei primi anni della rivoluzione, durante il periodo del comunismo di guerra. I fondamenti degli antichi costumi dell'antico modo di vita, sono andati in frantumi e, sotto il fragore delle scariche di fucileria, sui fronti della guerra civile, sotto il peso della disorganizzazione senza posa crescente dell'intera economia del paese, si è visto costituirsi con straordinaria chiarezza un modo di vita adeguato ai germi della futura società comunista.

Una delle basi del nuovo sistema di produzione comunista è l'organizzazione e il controllo non solo della produzione stessa ma altresì del consumo. Sottoporre a regolamento il consumo significa tener conto dei consumatori, non tanto nel senso di una ripartizione uniforme di tutti i prodotti e le ricchezze del paese, quanto nel senso di un'organizzazione del consumo su basi nuove: comuniste.

La prima preoccupazione dello Stato operaio è stata quella di mettere in piedi un'organizzazione del consumo il più possibile sensata e razionale, rigorosa ed economa. L'instaurazione dell'alimentazione "collettiva" rispondeva, in primo luogo, a questo scopo.

Unicamente con questo mezzo, riportando cioè il consumo a forme sociali collettive si è potuto, almeno in una certa misura, tenuto conto della nostra miseria attuale e della nostra carenza di riserve, lottare contro il generale impoverimento e contro la carestia.

È a partire dalla primavera del 1918 che, sotto la pressione della necessità, la repubblica dei lavoratori ha adottato in tutte le città il principio dell'"alimentazione collettiva". Le mense municipali e i pasti gratuiti per i ragazzi hanno soppiantato l'economia familiare. Beninteso, la nostra povertà, la nostra penuria di prodotti alimentari hanno ostacolato lo sviluppo dell'alimentazione collettiva e impedito che essa fosse ampiamente introdotta. Si sono create le apparecchiature, si sono approntati i canali attraverso i quali il centro poteva distribuire i rifornimenti popolari, mancavano, però, i prodotti che si sarebbe potuto introdurvi...

Il paese era ridotto alla miseria, regnava la carestia. Inoltre il blocco persistente e pieno di odio delle potenze imperialistiche impediva che le merci degli altri paesi arrivassero fino ai depositi popolari centrali. Tuttavia, malgrado tutti i suoi difetti, malgrado la penosa qualità delle nostre mense, malgrado la carenza di derrate e la cattiva utilizzazione di quelle che esistevano, l'alimentazione collettiva ha preso posto nella mente della popolazione della città come fattore indispensabile della vita quotidiana. A Pietrogrado, nel 1919-20, quasi il 90% degli abitanti era iscritto all'alimentazione collettiva. A Mosca più del 60% della popolazione frequentava regolarmente le mense; nel 1920 gli organismi di alimentazione collettiva servirono, in un modo o nell'altro, 12 milioni di cittadini, compresi i bambini. Va da sé che questo solo fatto ha comportato un notevole cambiamento nella «vita quotidiana», nelle condizioni di esistenza della donna. La cucina, per la donna ancor più vincolante della maternità, cessava di essere una condizione necessaria dell'esistenza della famiglia. Certamente, essa giocò inoltre un ruolo importante durante il periodo di transizione, quando c'erano ancora da porre i punti-base sulla strada del comunismo, quando le forme borghesi della vita comune non erano ancora completamente eliminate e le basi dell'economia non erano state ancora modificate in modo radicale. Perfino in questo periodo di transizione, però, il focolare domestico cominciò a essere relegato in secondo piano: esso non fu più che un appoggio, un complemento dell'alimentazione collettiva, nella misura in cui la povertà, la disorganizzazione e la carestia non ci permettevano di elevare le mense municipali al livello desiderato. Ogni operaia cominciò a rendersi conto del numero di ore che le faceva risparmiare il pasto già pronto della mensa e, se ella protestava, era contro l'insufficienza e il basso valore nutritivo di questi pasti, i quali costringevano, volenti o nolenti, a integrarli, a «cucinare dei supplementi». Se l'alimentazione collettiva fosse stata migliore, è dubbio che si sarebbero trovate molte donne desiderose di rimettersi davanti ai loro fornelli. Del resto, se nella società capitalistica la donna si preoccupava a tal punto di preparare il pranzo al suo sposo- balia, ciò avveniva perché egli era effettivamente la sua «balia».

Al contrario, nello Stato operaio, dove la donna è riconosciuta in quanto persona indipendente e cittadina, è poco probabile che si possano trovare molte donne inclini ad affaccendarsi per ore davanti ai fornelli, al fine di meritarsi la benevolenza del marito. Che dunque gli uomini imparino ad amare e ad apprezzare la propria moglie non per la sua capacità di lavorare bene la pasta, ma per quel che ella ha di prezioso dentro di sé, per le sue qualità personali, per il suo io umano... La «separazione della cucina e del matrimonio» ecco una grande riforma, non meno importante della separazione della Chiesa e dello Stato, almeno nel destino storico della donna. Certamente negli anni del comunismo di guerra questa separazione ha appena preso forma, ma è già importante il fatto che la repubblica dei lavoratori, mettendo alla prova la linea generale di sviluppo delle nuove forme economiche, abbia dovuto far ricorso all'alimentazione collettiva quale forma di consumo più economica e più razionale, la quale esige meno dispendio di lavoro, di combustibile e di prodotti alimentari. Più difficile era la situazione economica della repubblica, più pressante si rivelava la necessità di organizzare l'alimentazione collettiva.

La trasformazione della vita quotidiana e, di conseguenza, delle condizioni di esistenza della donna fu, allo stesso modo, influenzata dalle nuove condizioni di abitazione che la repubblica dei lavoratori instaurò. L'appartamento comunitario - la casa comune per famiglie e soprattutto per persone sole - è ampiamente diffuso da noi. In nessun paese ci sono tanti focolari comunitari come nella repubblica dei lavoratori. Ognuno aspira a installarsi in una casa comune. Non per «principio», evidentemente, non per convinzione, come facevano gli utopisti della prima metà del diciannovesimo secolo, i quali, seguendo i precetti di Fourier, organizzavano dei «falansteri» artificiali e non suscettibili di sviluppo, ma semplicemente perché è molto più facile e più comodo vivere in una casa comune.

Le case comuni sono sempre meglio attrezzate degli appartamenti privati; luce e combustibile vi sono assicurati. Non è raro che vi si trovi una riserva di acqua calda, una cucina centrale. La pulizia viene fatta da lavoratrici di professione. In talune case c'è una lavanderia centrale, in altre un nido o un giardino d'infanzia. Più si facevano sentire con acutezza l'alto costo della vita, la penuria di combustibile e la disorganizzazione, più si faceva insistente il desiderio di installarsi in una casa comune, in un focolare comunitario. Quelli che vivevano in appartamenti privati invidiavano gli abitanti delle case comuni. La lista dei candidati ai focolari comunitari si allungava costantemente. Certamente, le case comuni sono ancora lontane dall'aver soppiantato gli appartamenti privati; la grandissima maggioranza della popolazione delle città si contenta ancora di vivere nelle condizioni dell'installazione individuale e dell'economia domestica. Ma è già un gran passo in avanti il fatto che l'economia domestica abbia cessato di essere l'unica norma di vita. Sebbene sia sotto la pressione delle condizioni economiche che le famiglie e le persone sole vogliono installarsi nei focolari comunitari, quel che importa a questo punto è la consapevolezza che, se perfino nelle circostanze più sfavorevoli la casa comune presenta una serie di vantaggi, allora naturalmente, quando la produzione avrà spiccato il volo, quando i focolari comunitari potranno raggiungere un livello elevato, essi sosterranno facilmente la concorrenza con l'economia familiare privata, poco economica, la quale esige un grande dispendio di lavoro femminile.

Sono soprattutto le donne - tutte quelle che sono costrette a conciliare il lavoro con la famiglia - che hanno pienamente coscienza dei vantaggi del focolare comunitario. Per queste donne lavoratrici la casa comune è il massimo beneficio, è la salvezza. La donna economizza le sue forze grazie alle domestiche di professione, alla cucina comune, alla lavanderia centrale e grazie al fatto che la casa è provvista di luce, di combustibile e di acqua calda. Oggi, ogni donna che lavori non desidererebbe altro che questo: che tali case fossero le più numerose possibile e che esse includessero definitivamente tutti gli aspetti dell'estenuante e infruttuosa economia domestica. Beninteso, ancora oggi ci sono donne che si abbarbicano ostinatamente al passato: è quel tipo abituale di «donna alla mano» per la quale l'intera esistenza è concentrata intorno ai fornelli. Perfino nelle case comuni queste mogli legittimamente mantenute dai loro mariti si sforzano di votare la loro vita al culto delle pentole e dei tegami... Il futuro non sta, però, dalla loro parte. Inutili per la collettività lavoratrice, questi esseri sono condannati dalla storia a un'inevitabile scomparsa, nella misura in cui sull'insieme del fronte economico si consoliderà l'edificazione del modo di vita comunista.

L'esperienza della nostra rivoluzione conferma che le case comuni non solo sono la soluzione più razionale, ma incontestabilmente facilitano anche la vita delle donne che lavorano, creando condizioni tali che la donna può, nell'attuale periodo di transizione, conciliare la famiglia e il lavoro come professione. Nella misura in cui aumenterà il numero dei focolari comunitari, di vario tipo e rispondenti a bisogni e gusti diversi, è naturale e inevitabile che l'economia familiare si atrofizzi e scompaia; e la scomparsa di questa economia individuale, chiusa nel quadro degli appartamenti privati avrà come conseguenza l'indebolimento dei legami fondamentali dell'attuale famiglia borghese.

Avendo cessato di essere un'unità di consumo, la famiglia non potrà più esistere nella sua forma attuale... Essa si disgregherà, svanirà. Questa affermazione, tuttavia, non faccia paura ai fautori della famiglia borghese, con la sua economia individuale, il suo piccolo mondo chiuso ed egoista: ci manca ancora un bel po', sfortunatamente, alla vittoria del modo di consumo comunista. Nel periodo di passaggio dal capitalismo al comunismo, all'epoca della dittatura della classe operaia, ha luogo ancora una lotta aspra tra le forme di consumo sociale e le economie familiari private. Quanto ad accelerare la vittoria del primo, questo lo può fare solo, affrontando consapevolmente il problema, quella parte della popolazione che è più direttamente interessata: le donne lavoratrici.

Le statistiche dell'URSS sono ancora poverissime di dati concernenti la questione dell'abitazione e le sue soluzioni. Tuttavia già durante il periodo del comunismo di guerra le cifre testimoniavano che le case comuni giocavano un ruolo notevole nella nostra economia urbana, almeno nelle grandi città. Così nel 1920 a Mosca su 23000 case si contavano più di 8000 focolari e case comuni; ciò significa che quasi il 40% delle case era composto di focolari comunitari. Dunque, fin dai primi anni della sua esistenza la repubblica dei lavoratori, trasformando radicalmente il sistema di produzione e l'economia, ha creato le condizioni necessarie affinché, gradualmente ma ineluttabilmente, la donna venga affrancata dai compiti domestici improduttivi.

Ma la riduzione del lavoro improduttivo della donna nell'economia domestica è solo un aspetto del problema della liberazione della donna. Ella è altresì inchiodata alla casa, asservita alla famiglia da un fardello non minore: la cura e l'educazione dei figli. Il potere dei soviet con la sua politica nel campo della protezione della maternità e dell'educazione sociale alleggerisce notevolmente la donna da questo fardello incaricandone la collettività, lo Stato operaio. Nella sua ricerca di nuove forme di vita e di economia, capaci di rispondere ai bisogni del proletariato, la repubblica sovietica ha inevitabilmente commesso una serie di errori, essa ha dovuto più di una volta modificare e correggere la sua linea. Ma nel campo dell'educazione sociale e della protezione della maternità la repubblica dei lavoratori ha di primo acchito scelto la strada giusta. È appunto in questo campo che oggi si compie la più grande e la più profonda rivoluzione dei costumi e delle opinioni. Problemi che erano insolubili nel regime borghese sono stati risolti in modo semplice e naturale in un paese in cui tutta la politica è dettata dalla volontà di elevare il livello economico e di rafforzare le strutture socialiste.

La Russia sovietica ha affrontato il problema della protezione della maternità, partendo dal punto di vista del compito fondamentale della repubblica dei lavoratori: lo sviluppo delle forze produttive del paese, l'aumento e il progresso della produzione. Per realizzare questo compito in primo luogo bisogna liberare il maggior numero possibile di forza-lavoro da una attività improduttiva, utilizzare razionalmente tutte le braccia disponibili per assicurare la riproduzione economica e, in secondo luogo per garantire in futuro alla repubblica dei lavoratori un afflusso costante di nuove forze operaie, cioè un normale aumento della popolazione.

Dal momento in cui si parte da questo punto di vista, la questione della protezione razionale della maternità si risolve di per sé. Lo Stato operaio formula un principio completamente nuovo: la cura dei figli, per la generazione che viene su, non è un problema privato, familiare, bensì un problema sociale, una questione di Stato. La maternità deve essere salvaguardata e protetta non solo nell'interesse stesso della donna, ma inoltre a partire dai compiti dell'economia nazionale, all'epoca del passaggio alla società del lavoro: la donna non deve più fare uso delle sue forze per la famiglia, perché è improduttivo, ma deve poterle utilizzare in modo più efficace per la collettività; necessario proteggere la sua salute garantendo così per il futuro, alla repubblica dei lavoratori, un afflusso di operai che stiano bene.

Nello Stato borghese questo modo di porre il problema è inconcepibile; ad esso sono di ostacolo le contraddizioni di classe, l'assenza di unità tra gli interessi economici privati e gli interessi economici di tutto il popolo. Al contrario nella repubblica dei lavoratori, dove nella misura in cui progredisce l'edificazione del socialismo gli interessi economici individuali devono sciogliersi a poco a poco negli interessi economici generali, quella soluzione del problema della maternità è dettata dalla necessità della vita stessa.

La repubblica dei lavoratori considera la donna anzitutto come una forza-lavoro, come un'unità di lavoro vivente; essa considera la funzione materna come un compito importantissimo ma complementare e inoltre non soltanto privato, familiare, ma anche "sociale".

«Ciò che guida la nostra politica di protezione della maternità e dell'infanzia - dice giustamente Vera Pavlovna Lebedeva - è il fatto che noi abbiamo sempre presente la donna nel quadro del processo lavorativo».

Ma per dare alla donna la possibilità di partecipare al lavoro produttivo senza violentare la propria natura, senza obbligarla a rompere con la maternità, bisognava fare un secondo passo: togliere dalle spalle della donna tutte le preoccupazioni connesse alla maternità e caricarle sulle spalle della collettività, accettando appunto in questo modo il fatto che l'educazione dei figli esca fuori dal quadro della struttura familiare per diventare un'istituzione sociale, una faccenda dello Stato.

La maternità comincia a essere considerata da un nuovo punto di vista: il potere dei soviet riconosce che essa costituisce un problema sociale. Partendo da questo principio il potere dei soviet sta prendendo una serie di misure destinate a sgravare la donna dal fardello della maternità per trasmetterlo allo Stato. La cura dell'infanzia, la protezione materiale dei fanciulli, una giusta organizzazione dell'educazione sociale: il potere sovietico si incarica di tutto ciò attraverso la sottosezione della Protezione della maternità e dell'infanzia e attraverso il settore dell'Educazione sociale del Commissariato del popolo per l'educazione. Sgravare la donna dalla croce della maternità e lasciarle solo il sorriso di gioia che genera in lei il contatto personale con suo figlio: tale è il principio adottato dal potere dei soviet per risolvere il problema della maternità.

Beninteso, questo principio è lungi dall'essere completamente realizzato. Nella pratica siamo in ritardo rispetto alle nostre intenzioni. Nella costruzione di nuove forme di vita, suscettibili di affrancare la donna lavoratrice dagli obblighi familiari, noi urtiamo sempre contro il medesimo ostacolo: il nostro ritardo economico, la nostra sottoproduzione. Ma le fondamenta sono gettate, i punti basilari che indicano la strada che conduce alla soluzione del problema della maternità sono stati fissati, non resta che impegnarsi fermamente e risolutamente sul cammino tracciato.

La repubblica dei lavoratori non si limita a una protezione finanziaria della maternità, al versamento dei sussidi alle madri. Essa si sforza anzitutto di cambiare la vita, di trasformare le condizioni di esistenza in modo tale che la donna sia pienamente in grado di assumersi la responsabilità della propria maternità, proteggendo al tempo stesso il ragazzo per il bene della repubblica, circondandolo di tutte le cure necessarie.

Fin dai primi mesi di esistenza della dittatura del proletariato in Russia, il potere operaio e contadino si è impegnato a ricoprire la repubblica dei lavoratori con una rete di organismi per la protezione della maternità e l'educazione sociale. Madre e figlio sono diventati oggetto di particolare cura per la politica sovietica. Nei primi mesi della rivoluzione il compito principale del Commissariato del popolo alla previdenza sociale - allora Commissariato del popolo all'assistenza pubblica - è stato di tracciare la strada sulla quale doveva svilupparsi la politica della repubblica dei lavoratori nel campo della protezione degli interessi della donna, in quanto al tempo stesso lavoratrice e madre.

Dal mese di gennaio 1918 al Commissariato del popolo per la previdenza sociale è stata formata una commissione incaricata della protezione della maternità ed è stata messa in cantiere la costruzione di un esemplare palazzo della maternità. Da allora, sotto l'energica direzione della compagna Vera Pavlovna Lebedeva, la protezione della maternità ha messo solidamente le radici e si è sviluppata.

Il potere dei soviet viene in aiuto alle donne lavoratrici fin dal momento in cui sono incinte. Gli ambulatori medici per le donne incinte e per i neonati sono diffusi in tutta la repubblica; nella Russia zarista se ne contavano appena sei, mentre adesso ce ne sono migliaia; altrettanto vale per i centri di allattamento.

Va da sé, però, che il compito principale consiste nello sgravare la donna che lavora dall'improduttiva fatica costituita dalle cure fisiche praticate ai figli. La maternità non consiste affatto nella necessità di lavare da sé il proprio figlio, di cambiarlo, di starsene inchiodata alla culla. Il dovere sociale della maternità consiste prima di tutto nel mettere al mondo figli sani e pieni di vita. Per questo la società dei lavoratori deve porre la donna incinta nelle condizioni più favorevoli, e la donna, dal canto suo, deve osservare tutte le regole igieniche prescritte durante la gravidanza, ricordandosi che per nove mesi cessa di appartenere a se stessa, che è al servizio della collettività, che «produce», con la propria carne e con il proprio sangue, un nuovo lavoratore, un nuovo membro della repubblica del lavoro.

Il secondo dovere della donna dal punto di vista del compito sociale della maternità, consiste nell'allattare lei stessa suo figlio. Soltanto la donna, membro della collettività lavoratrice, che abbia allattato lei stessa suo figlio, ha il diritto di dire di aver compiuto il proprio dovere sociale nei suoi confronti. Le altre cure richieste dalla nuova generazione possono essere messe a carico della collettività. Certamente l'istinto materno è forte, non bisogna lasciare che esso si dilegui. Ma perché questo istinto dovrebbe limitarsi strettamente all'amore e alle cure praticate unicamente al proprio figlio? Perché non dare a questo istinto, prezioso per l'umanità lavoratrice, la possibilità di germogliare abbondantemente e di fiorire fino al suo stadio superiore: la cura dei figli che non sono i propri ma che sono altrettanto bisognosi, le tenere carezze per i figli altrui?

La parola d'ordine: «sii una madre non solo per tuo figlio ma per tutti i figli degli operai e dei contadini» deve insegnare alle donne lavoratrici una maniera nuova di concepire la maternità. È ammissibile per esempio che una madre spesso perfino comunista, rifiuti il proprio seno a un bimbo che deperisce per mancanza di latte unicamente perché non è suo figlio? L'umanità futura, comunista nelle sue concezioni e nei suoi sentimenti, sarà altrettanto stupefatta da un tale atto di egoismo antisociale quanto lo siamo noi stessi quando leggiamo che una selvaggia la quale amava teneramente suo figlio, mangiava con appetito i figli delle donne di un'altra tribù.

Altra anomalia: è ammissibile che una madre privi suo figlio del latte del suo seno per non prendersi questo incarico? In URSS è un fatto evidente che il numero dei trovatelli è ancora grandissimo. Certamente questo fenomeno è dovuto al fatto che da noi il problema della maternità non è ancora risolto, ma in via di risoluzione. Nel nostro difficile periodo di transizione centinaia di migliaia di donne sono oppresse da questo duplice fardello: il lavoro salariato e la maternità. Non ci sono abbastanza nidi d'infanzia, case per bambini, case di maternità, i sussidi in denaro non seguono l'ascesa dei prezzi sul mercato, e tutto ciò costringe l'operaia e l'impiegata a temere il fardello della maternità, obbliga parecchie madri ad «abbandonare» allo Stato i propri figli. Ma questo aumento del numero dei bambini abbandonati testimonia altresì il fatto che le donne della repubblica dei lavoratori non hanno ancora preso coscienza, in modo fermo, del fatto che la maternità "non è una faccenda privala bensì un dovere sociale".

I compagni che militano tra le donne dovranno concentrare la loro attenzione su questo problema: bisognerà che spieghino alle operaie, alle contadine, alle impiegate quali sono i doveri che comporta la maternità nella nuova situazione della nostra repubblica. Al tempo stesso, però, bisognerà rafforzare il lavoro di sviluppo della rete per la protezione della maternità e l'educazione sociale. Più facilmente le madri potranno conciliare il lavoro e la maternità, meno fanciulli abbandonati ci saranno. La maternità non significa affatto che il figlio debba restare costantemente accanto alla madre, che sia lei a consacrarsi alla sua educazione fisica e morale. Mettere i bambini nelle condizioni più normali e più sane per la loro crescita e il loro sviluppo: di tal genere è la giusta concezione dei doveri della madre nei confronti dell'infanzia.

In quale classe della società borghese si trovano i bambini più sani, i più floridi? Nella classe dei benestanti, ma in qualche caso in quella dei poveri. A che cosa è dovuto ciò? Al fatto che le madri borghesi si sono completamente consacrate all'educazione dei loro figli? Niente affatto. Le mamme borghesi scaricano volentieri le cure per i figli sulla forza-lavoro salariata: balie, bambinaie governanti. È solo nelle famiglie prive di denaro che le madri portano tutto il peso della maternità, ma allora i figli sono generalmente abbandonati a se stessi, i loro educatori sono il caso e la strada. Nella classe operaia e in generale negli stati poveri della popolazione dei paesi borghesi, i figli restano accanto alla madre ma muoiono come mosche; quanto a una educazione normale, non se ne parla neppure. Perfino nella società borghese una madre cosciente e progressista si affretta a trasmettere alla società almeno una parte delle cure per il figlio: lo manda al giardino d'infanzia, a scuola, nella colonia estiva. Una madre cosciente comprende che l'educazione sociale offre al figlio proprio ciò che non può dargli l'amore più esclusivo, l'amore materno. Negli strati ricchi della società borghese, nei quali si attribuisce un grande valore all'educazione normale dei bambini - beninteso nello spirito borghese - i genitori affidano i loro figli nelle mani di bambinaie specializzate, infermiere, pedagoghi, igienisti. Persone salariate hanno sostituito la madre nelle cure fisiche e nell'educazione morale fornita ai bambini; in realtà le madri hanno conservato un unico obbligo, naturale e inevitabile: mettere i figli al mondo.

La repubblica dei lavoratori non strappa con la forza i figli alle madri - come asserivano al loro tempo i paesi borghesi quando descrivevano gli orrori del regime bolscevico - ma essa si sforza di creare istituzioni che diano, non solo alle donne ricche ma a tutte le madri, la possibilità di educare i loro figli in condizioni sane, normali, felici per loro. Invece del fatto che la madre scarichi la cura dei figli su una balia salariata, la repubblica dei soviet vuole che ogni madre, operaia o contadina, possa andare al lavoro serenamente, sapendo che il suo piccolo è al nido d' infanzia, alla scuola materna o all'asilo-nido.

Nell'atmosfera sana degli istituti di educazione sociale - educazione che in URSS va dalla prima infanzia fino all'età di sedici anni - sotto la direzione di pedagoghi e di medici e sotto il controllo delle madri stesse (c'è l'obbligo, nei nidi d'infanzia, di un periodo di permanenza della madre), i fanciulli crescono nelle condizioni necessarie alla formazione dell'uomo nuovo. I costumi e l'atmosfera che regnano nei nidi, nelle case e nei giardini d'infanzia inculcano loro gli aspetti del carattere e le abitudini che saranno necessarie ai costruttori del comunismo. L'uomo formato in questi istituti di educazione sarà decisamente più adatto a vivere in una comunità di lavoratori di chi ha trascorso la sua infanzia nella chiusa sfera delle egoistiche abitudini della famiglia.

I bambini che, fin dai primi anni della rivoluzione, sono stati messi nei nidi e nelle case d'infanzia non assomigliano a quelli che sono stati educati da una mamma individualista e traboccante d'amore. Nei primi le abitudini collettive sono solidamente introdotte: essi sono anzitutto esseri le cui strutture mentali sono strutture «di gruppo». Scenetta - abituale in una casa d'infanzia: il «nuovo» rifiuta di fare quello che fa il gruppo cui appartiene; il gruppo circonda il «nuovo», gli fornisce delle spiegazioni. Si può non andare a passeggio quando tutto «il nostro gruppo» ci va? Ci si può rifiutare di pulire e di rassettare quando «il nostro gruppo» è di servizio? Si può far rumore quando «il nostro gruppo» lavora? Non si sviluppa in loro il senso della proprietà. «Da noi non esiste il tuo e il mio: tutto è di tutti», spiega con aria seria un marmocchio di quattro anni. In cambio, un atteggiamento economico verso chi appartiene al «gruppo» è una regola fondamentale della vita dei bambini. E i bambini puniscono da se stessi quelli che sperperano i «nostri» beni, i beni della casa d'infanzia.

Allo scopo di proteggere la donna in quanto generatrice di discendenza, la repubblica dei lavoratori ha creato fin dai primi anni della rivoluzione delle case di maternità in ogni luogo in cui se ne sentiva bisogno in modo acuto. Queste case di maternità permettono non solo alla donna sola di trovare un rifugio nel periodo più difficile della sua vita, ma anche alle donne che hanno una famiglia, durante gli ultimi mesi di gravidanza e i primi mesi di vita del bambino, di sfuggire per qualche tempo alla casa, alla famiglia, alle sue inevitabili, meschine preoccupazioni, per consacrarsi completamente al ristabilimento delle proprie forze e all'attenzione per il bimbo durante le prime settimane - le più importanti - della sua esistenza. Più tardi gli occhi della madre contano molto meno ma sembra che durante le prime settimane esista ancora tra madre e figlio una specie di legame fisiologico, e, in questo periodo, non è razionale separarli.

Per le madri operaie e impiegate ci sono nidi d'infanzia organizzati dall'azienda e dall'amministrazione, o semplicemente nidi d'infanzia municipali, di quartiere. Inutile sottolineare che questi nidi arrecano alle donne che lavorano un sollievo considerevole. Per nostra disgrazia, non ne abbiamo abbastanza, non possiamo soddisfare neppure la decima parte dei bisogni delle madri con istituzioni di aiuto di questo tipo.

Oltre ai nidi e alle case d'infanzia - dove sono allevati gli orfani e i fanciulli abbandonati fino all'età di tre anni - la rete di educazione sociale, destinata ad alleggerire le madri di opprimenti preoccupazioni, comprende ancora: i giardini d'infanzia per bambini dai tre ai sette anni, i pensionati per l'infanzia per fanciulli in età prescolastica, i club per l'infanzia e infine le case comuni e le colonie di lavoro per i giovani. Rientrano in questa rete di educazione sociale, destinata a trasferire la cura dei bambini dai genitori allo Stato, anche le mense gratuite per scolari e fanciulli in età prescolastica, delle quali fu l'anima la compagna Vera Velitchkina, morta nel 1919 al suo posto di rivoluzionaria. Questa misura ci ha molto aiutati nei duri anni della guerra civile, e ha salvato non pochi figli di proletari dall'inedia e dalla morte. La sollecitudine dello Stato nei confronti dell'infanzia si completa inoltre con le distribuzioni gratuite di latte, l'assegnazione di razioni supplementari ai bambini, la fornitura di vestiti e di scarpe a quelli che più ne hanno bisogno.

Evidentemente, tutte queste imprese sono lungi dall'essere state portate a termine in pratica; finora non abbiamo toccato che un cerchio molto ristretto della popolazione. In quel che facciamo per alleggerire la coppia del pesante compito di educare i figli, la nostra principale insufficienza non deriva dal fatto che abbiamo scelto una via sbagliata, ma dal fatto che non siamo in grado, data l'ancor considerevole mancanza di organizzazione della nostra economia, di realizzare completamente il piano di educazione sociale tracciato dal potere dei soviet. La linea definita dalla repubblica dei lavoratori per risolvere il problema della maternità è giusta. Ma la condizione delle nostre risorse è di ostacolo alla sua realizzazione.

Per il momento si tratta solo di esperimenti di modesta ampiezza. Tuttavia essi hanno già fornito dei risultati. Queste misure hanno rivoluzionato il modo di vita familiare e apportato un cambiamento radicale nelle relazioni tra i sessi.

Così, uno dei compiti del potere sovietico consiste nel porre la donna in condizioni tali che la sua attività non sia assorbita da un lavoro improduttivo di mantenimento della casa e dei figli, ma sia consacrata alla creazione di nuove ricchezze, allo Stato, alla collettività lavoratrice Nel tempo stesso bisognava salvaguardare gli interessi della donna e la vita dei figli, dando alla donna la possibilità di conciliare il lavoro e la maternità. Fin dai primi giorni della rivoluzione il potere dei soviet si è sforzato di creare condizioni di vita tali che in ogni caso la moglie non si trovi incatenata a un marito - divenutole odioso - semplicemente perché con i figli sulle braccia non ha posto in cui andare, e tali che la madre nubile non debba più temere di perdere suo figlio e di morire lei stessa solo perché non sa dove sbattere la testa. Nella nostra repubblica non spetta né ai filantropi né all'umiliante carità di aiutare la donna che lavora, ma sono i suoi compagni che lottano per la creazione di una società nuova, gli operai e i contadini che devono sforzarsi di alleviare la donna del fardello della maternità. La donna, che porta allo stesso modo dell'uomo il peso del riassestamento economico, la donna che ha preso parte alla guerra civile, ha il diritto di esigere a sua volta dalla repubblica dei lavoratori che in un grave momento della sua vita - nel momento in cui sta per dare un nuovo membro alla società - la collettività si prenda l'incarico della sua salute e del futuro del suo piccolo cittadino. Di tal genere è la nostra politica nel campo della protezione delle madri. Evidentemente però, nella pratica, siamo ancora fortemente in ritardo rispetto all'ideale.

Nondimeno, le attività e le realizzazioni del servizio di protezione della maternità e del settore dell'educazione sociale aumentano e si ampliano. Ma non è ancora abbastanza. Il periodo di transizione della dittatura del proletariato pone la donna in condizioni particolarmente difficili: l'antico è distrutto, ma il nuovo è ancora solo in via di creazione. Il partito e il potere dei soviet devono accordare doppia attenzione al problema e ai mezzi per risolverlo. Se esso sarà risolto nella giusta maniera non sarà solo la donna a guadagnarci, ma la produzione intera della repubblica, tutta l'economia nazionale.

Restano da dire alcune parole a proposito di una questione strettamente connessa al problema della maternità, vale a dire l'atteggiamento della repubblica sovietica nei confronti dell'aborto. Con la legge del 20 novembre 1920 la repubblica dei lavoratori ha riconosciuto che l'aborto non è un delitto. Questa legge è stata promulgata grazie all'iniziativa e all'ardente partecipazione della sezione femminile. Qual è la motivazione di tale atteggiamento in questa questione? Riconosciamo che l'URSS non soffre certo per sovrabbondanza di forza- lavoro, ma piuttosto per scarsità. L'URSS non è un paese sovrappopolato, bensì sottopopolato. Da noi la forza-lavoro è contata. Come si è potuto, allora, decretare che l'aborto non era condannabile? Nella sua politica il proletariato non ama l'ipocrisia, né la tartuferia. L'aborto è un fenomeno connesso al problema della maternità, è conseguenza della precaria situazione delle donne (non parliamo della classe borghese, in cui l'aborto ha cause diverse: disgusto di «dividere l'eredità», disgusto, da parte di donne avide di un'esistenza senza preoccupazioni, di sopportare le sofferenze della maternità, di sfigurare la loro silhouette, di essere tenute in disparte, per qualche mese, da una «stagione di piaceri» eccetera).

L'aborto esiste e prospera in tutti i paesi, e né leggi, né misure di repressione hanno potuto estirparlo. Esistono sempre dei mezzi per aggirare la legge. Ma l'«aiuto clandestino» finisce solo col mutilare le donne, col farne per lungo tempo un peso per lo Stato dei lavoratori, e col diminuire in fin dei conti la quantità di forza- lavoro. Un aborto praticato nelle condizioni di un normale intervento chirurgico è molto meno nocivo, molto meno pericoloso. La donna può, in questo caso, tornare rapidamente al suo lavoro. Il potere dei soviet, consapevole che l'aborto scomparirà solo quando da una parte la repubblica disporrà di un'ampia rete di istituti di protezione della maternità e di educazione sociale e dall'altra le donne saranno ben ancorate all'idea che mettere al mondo un figlio sano è per loro un dovere sociale, ha quindi ammesso la pratica dell'aborto alla luce del sole, in condizioni cliniche sane. La necessità dell'aborto sarà egualmente diminuita dalle misure igieniche di regolamentazione delle nascite.

Il compito della repubblica dei lavoratori consiste nel consolidare nelle donne, attraverso un ampio sviluppo della protezione della maternità, un sano istinto materno, nel rendere compatibile la maternità con il lavoro per la collettività. eliminando così la necessità dell'aborto. Tale è il modo in cui la repubblica dei lavoratori ha affrontato la soluzione di questo problema, che ancora si pone, in tutta la sua ampiezza, alle donne dei paesi borghesi.

Le donne degli Stati borghesi si dibattono nella penosa situazione generata dalla guerra mondiale, soccombono sotto un duplice fardello: il lavoro salariato per il capitale e la maternità. Nella Russia dei lavoratori, al contrario, l'operaia e la contadina, aiutando il partito comunista a costruire le basi di una nuova economia, distruggono il vecchio modo di vita che faceva della donna una schiava. Dal momento in cui la donna sarà diventata, dal punto di vista dell'economia nazionale, un'indispensabile individualità lavoratrice, sarà trovata la chiave che permetterà di risolvere le complesse e fondamentali questioni della sua esistenza. Nella società borghese, in cui l'economia domestica è parte integrante del sistema economico capitalistico, in cui la proprietà privata genera la stabilità del chiuso quadro familiare, le donne che lavorano non hanno via d'uscita.

La liberazione della donna non può compiersi che attraverso una trasformazione radicale della vita quotidiana. E la vita quotidiana stessa non sarà trasformata che attraverso una ricostruzione radicale di tutta la produzione, sulle nuove basi dell'economia comunista.

Una rivoluzione nella vita quotidiana si sta effettuando sotto i nostri occhi: essa si espande e si approfondisce, e con essa vediamo entrare nella vita, nella pratica, la liberazione della donna.

 
Note

1. Nei feti abortiti dei proletari si trovano spesso tracce di piombo, mercurio, radio, fosforo, nicotina e altri veleni.

2. L. Braun, "Professione e maternità".

 


Ultima modifica 18.05.2010