Riforma Sociale o Rivoluzione?

 

Parte Prima [*]

 

 

Il titolo del presente scritto può a tutta prima sorprendere. Riforma sociale o rivoluzione? La socialdemocrazia può dunque essere contro la riforma sociale? O può contrapporre la rivoluzione sociale, il rovesciamento dell'ordine esistente, che costituisce il suo scopo finale, alla riforma sociale? Sicuramente no. Al contrario, per la socialdemocrazia la lotta pratica quotidiana per delle riforme sociali, per il miglioramento della condizione del popolo lavoratore anche sul terreno dell'ordine esistente, per delle istituzioni democratiche, costituisce la sola via per condurre la lotta di classe proletaria e per lavorare in vista dello scopo finale, che è la presa del potere politico e l'abolizione del salariato. Fra riforma sociale e rivoluzione sociale esiste per la socialdemocrazia un nesso indissolubile, in quanto la lotta per le riforme costituisce il mezzo ma lo scopo è la trasformazione della società.

Una contrapposizione di questi due momenti del movimento operaio noi troviamo per la prima volta nella teoria di E. Bernstein come egli l'ha esposta nei suoi articoli Problemi del socialismo nella Neue Zeit 1897-98 e particolarmente nel suo libro Presupposti del socialismo. Tutta questa teoria non conclude ad altro che al consiglio di rinunciare alla trasformazione della società, cioè allo scopo finale della socialdemocrazia, e di fare viceversa della riforma sociale lo scopo anziché un mezzo della lotta di classe. Bernstein stesso ha formulato i suoi punti di vista nel modo più preciso e incisivo quando ha scritto: "Lo scopo finale, qualunque esso sia, per me è nulla, il movimento è tutto".

Ma poiché lo scopo finale socialista è il solo momento decisivo che distingue il movimento socialdemocratico dalla democrazia e dal radicalismo borghesi e che trasforma tutto il movimento operaio da un'inutile rattoppatura per la salvezza dell'ordine capitalistico in una lotta di classe contro quest'ordine e per la sua abolizione, la domanda "riforma sociale o rivoluzione" nel significato bernsteiniano equivale per la socialdemocrazia alla domanda: essere o non essere? Nella controversia con Bernstein e i suoi seguaci non si tratta in ultima analisi di questo o quel metodo di lotta, di questa o quella tattica, ma dell'intiera esistenza del movimento socialdemocratico.

Comprendere ciò è doppiamente importante per gli operai, perché qui si tratta proprio di loro e della loro influenza nel movimento, perché è la loro pelle che qui si porta al mercato. L'indirizzo opportunistico nel partito, formulato teoricamente da Bernstein, non è altro che l'inconscia aspirazione ad assicurare il predominio agli elementi piccolo-borghesi affluiti al partito e a rimodellare secondo il loro spirito la prassi e gli scopi del partito. Il problema della riforma sociale e della rivoluzione, dello scopo finale e del movimento è l'altra faccia del problema del carattere piccolo-borghese o proletario del movimento operaio.

 

Indice

1. Il metodo opportunista

2. Adattamento del capitalismo

3. Instaurazione del socialismo per mezzo delle riforme sociali

4. Politica doganale e militarismo

5. Conseguenze pratiche e carattere generale del revisionismo

 


 

 

1. Il metodo opportunistico

 

 

Se le teorie sono immagini dei fenomeni del mondo esterno riflesse nel cervello umano, bisogna in ogni caso aggiungere, quando si tratta della teoria di Eduard Bernstein, che sono sovente immagini capovolte. Una teoria dell'instaurazione del socialismo mediante riforme sociali, dopo che sono state messe definitivamente a dormire le riforme sociali tedesche; del controllo dei sindacati sul processo produttivo, dopo la sconfitta dei, meccanici inglesi [1]; della maggioranza parlamentare socialdemocratica, dopo la revisione della costituzione sassone e gli attentati al suffragio universale per le elezioni al Reichstag [2]. Ma il centro di gravità delle argomentazioni di Bernstein non sta, a nostro parere, nelle sue opinioni sui compiti pratici della socialdemocrazia, bensì in ciò che egli dice sul corso dello sviluppo obiettivo della società capitalistica, con cui quelle opinioni sono in strettissimo rapporto.

Secondo Bernstein un crollo generale del capitalismo diventa sempre più improbabile a mano a mano che esso si sviluppa, perché da un lato il sistema capitalistico dimostra una sempre maggior capacità di adattamento e dall'altro la produzione si differenzia sempre di più. La capacità di adattamento del capitalismo secondo Bernstein si manifesta in primo luogo nella scomparsa delle crisi generali, grazie allo sviluppo dei sistema creditizio, delle organizzazioni imprenditoriali e delle comunicazioni come pure del servizio di informazioni; in secondo luogo nella tenace sopravvivenza dei ceto medio in seguito alla costante differenziazione delle branche di produzione e all'ascesa di larghi strati del proletariato nel ceto medio; in terzo luogo infine nel miglioramento della situazione economica e politica del proletariato in seguito alla lotta sindacale.

Ne deriva, per la lotta pratica della socialdemocrazia, il concetto generale che essa non debba indirizzare la propria attività alla conquista del potere politico, ma al miglioramento della situazione della classe operaia e all'instaurazione del socialismo non attraverso una crisi sociale e politica, bensì estendendo progressivamente il controllo sociale ed attuando gradualmente il principio della cooperazione.

Bernstein stesso non vede nulla di nuovo nelle cose che espone, ed anzi pensa che esse concordino tanto con singole asserzioni di Marx ed Engels, quanto con l'indirizzo generale seguito sino ad ora dalla socialdemocrazia. A nostro avviso invece sarebbe difficile negare che la concezione di Bernstein sia in realtà in assoluto contrasto con l'orientamento del socialismo scientifico.

Se tutta la revisione di Bernstein si riassumesse nella tesi che il corso dello sviluppo capitalistico è molto più lento di quanto siamo abituati ad ammettere, ciò in realtà significherebbe soltanto un differimento della conquista del potere politico da parte del proletariato rispetto a quanto si prevedeva fino ad ora, e praticamente ne potrebbe derivare tutt'al più un ritmo più calmo della lotta. Ma non si tratta di questo. Ciò che Bernstein ha messo in discussione non è la rapidità dello sviluppo, ma il corso stesso dello sviluppo della società capitalistica e conseguentemente il passaggio all'ordinamento socialista.

Se la teoria socialista ha ammesso fino ad ora che il punto di partenza della rivoluzione socialista sarebbe stato una crisi generale distruttrice, bisogna, a nostro modo di vedere, distinguere a questo proposito due cose diverse: l'idea fondamentale che vi è contenuta e la sua forma esteriore. L'idea fondamentale consiste nel ritenere che l'ordinamento capitalistico farà maturare da sé, grazie alle proprie contraddizioni, il momento in cui cadrà in sfacelo, in cui esso diventerà semplicemente impossibile. Che questo momento sia stato concepito sotto forma di una crisi economica generale e catastrofica non è accaduto naturalmente senza buone ragioni, ma nondimeno rimane per l'idea fondamentale un fatto marginale e non essenziale. La base scientifica del socialismo infatti si appoggia notoriamente su tre risultati dello sviluppo capitalistico: anzitutto sulla crescente anarchia della economia capitalistica, che porta inevitabilmente alla sua scomparsa; in secondo luogo sulla progressiva socializzazione del processo produttivo, che crea le condizioni positive del futuro ordine sociale; e in terzo luogo sulla crescente organizzazione e coscienza di classe del proletariato che costituisce il fattore attivo del rivolgimento immanente.

E' il primo di questi pilastri del socialismo scientifico che Bernstein elimina. Egli afferma cioè che lo sviluppo capitalistico non andrebbe incontro a un crollo economico generale. Ma con ciò egli non nega semplicemente quella certa forma di rovina del capitalismo, ma il fatto stesso della rovina. Egli dice testualmente: "Si potrebbe obiettare ora che, quando si parla del crollo della società odierna, si ha in mente qualche cosa di più di una crisi economica generalizzata e più grave delle precedenti, cioè un crollo totale del sistema capitalistico per le sue proprie contraddizioni". E a ciò egli risponde: "Un crollo pressoché contemporaneo e totale dell'odierno sistema produttivo, non diviene, con l'evoluzione progressiva della società, più, probabile, ma più improbabile, perché tale evoluzione accresce da un lato la capacità di adattamento e dall'altro, in pari tempo, la differenziazione della industria" [*1].

Ma sorge allora il grave problema: perché e come arriveremo noi in generale alla meta finale dei nostri sforzi? Dal punto di vista del socialismo scientifico la necessità storica della rivoluzione socialista si manifesta anzitutto nell'anarchia crescente del sistema capitalistico, che lo spinge in un vicolo cieco. Se invece si ammette con Bernstein che lo sviluppo capitalistico non va verso la propria rovina, il socialismo cessa di essere obiettivamente necessario. Delle pietre basilari delle sue fondamenta scientifiche rimangono soltanto le due altre conseguenze dell'ordinamento capitalistico: la socializzazione del processo produttivo e la coscienza di classe del proletariato. Bernstein ha presente anche questo quando dice: "La concezione socialista non perde (con l'eliminazione della teoria del crollo) assolutamente nulla della sua forza persuasiva. Perché, che cosa sono, esaminati più da vicino, tutti i fattori da noi annoverati, che hanno contribuito ad eliminare o modificare le vecchie crisi? Fenomeni tutti che rappresentano al tempo stesso premesse, e in parte persino prodromi della socializzazione della produzione e dello scambio" [*2].

Ma basta riflettere un momento per dimostrare che anche questo è un sofisma. In che consiste l'importanza dei fenomeni indicati da Bernstein come mezzi capitalistici di adattamento: i cartelli, il credito, il perfezionamento dei mezzi di comunicazione, l'elevamento della classe operaia, ecc.? Evidentemente nel fatto che essi eliminano o per lo meno attenuano le contraddizioni interne dell'economia capitalistica impedendone lo sviluppo e l'inasprimento. Così la eliminazione delle crisi significa la soppressione del contrasto tra produzione e scambio su ;base capitalistica, il miglioramento della condizione della classe operaia, in parte come tale, in parte in quanto entra a far parte del medio ceto, significa un'attenuazione del contrasto fra capitale e lavoro. Ora, se i cartelli, il credito, i sindacati, ecc. sopprimono le contraddizioni capitalistiche, e quindi salvano dalla rovina il sistema capitalistico, conservano il capitalismo - e perciò appunto Bernstein li chiama "mezzi di adattamento" - come possono rappresentare al tempo stesso "premesse e in parte addirittura prodromi" del socialismo? Evidentemente solo nel senso che essi esprimono più nettamente il carattere sociale della produzione. Ma in quanto la conservano nella sua forma capitalistica, essi al contrario rendono in pari misura vano il passaggio di questa produzione socializzata alla forma socialista. Essi possono quindi rappresentare prodromi e premesse dell'ordinamento socialista in senso soltanto concettuale e non storico, in quanto cioè fenomeni di cui noi sappiamo, sulla base della nostra concezione del socialismo, che gli sono affini, ma che in realtà non solo non portano alla trasformazione socialista, ma anzi la vanificano. Resta dunque unicamente come fondamento del socialismo la coscienza di classe del proletariato. Ma anch'essa è, nel caso specifico, non un semplice riflesso spirituale dei contrasti sempre più acuti dei capitalismo e della sua imminente caduta - la quale sarebbe ormai evitata dai mezzi di adattamento - ma un mero ideale, la cui forza di persuasione riposa unicamente sulla sua supposta perfezione.

In una parola ciò che noi otteniamo su questa strada è una motivazione del programma socialista mediante la "conoscenza pura", cioè, in parole più semplici, una motivazione idealistica, mentre viene a cadere la necessità obiettiva, cioè la motivazione basata sul corso dello sviluppo materiale della società. La teoria revisionistica si trova davanti a un dilemma. O la trasformazione socialista continua ad essere la conseguenza delle contraddizioni interne dell'ordinamento capitalistico e allora insieme con quest'ordinamento si sviluppano anche le sue contraddizioni, e un crollo, in questa o in quella forma, ne consegue a un certo momento inevitabilmente, ma in questo caso i "mezzi di adattamento" sono inefficaci e la teoria del crollo è giusta. Oppure i "mezzi di adattamento" sono realmente in grado di impedire un crollo del sistema capitalistico, e quindi di rendere vitale il capitalismo e di eliminare le sue contraddizioni, ma in questo caso il socialismo cessa di essere una necessità storica, e può essere tutto ciò che si vuole, ma non un risultato dello sviluppo materiale della società. Da questo dilemma ne deriva un altro: o il revisionismo ha ragione a proposito dello sviluppo capitalistico, e allora la trasformazione socialista della società non è più che un'utopia, o il socialismo non è un'utopia, ma allora la teoria dei "mezzi di adattamento", non può essere sostenibile. That is the question [3], questo è il problema.


 

 

2. Adattamento del capitalismo

 

 

I mezzi più importanti, che secondo Bernstein determinano l'adattamento dell'economia capitalistica, sono il sistema creditizio, il miglioramento dei mezzi di comunicazione e le organizzazioni imprenditoriali.

Per cominciare dal credito, esso assolve nell'economia capitalistica molteplici funzioni, ma la più importante consiste notoriamente nell'accrescere la capacità di espansione della produzione e nel mediare e facilitare lo scambio. Perché là dove la tendenza della produzione capitalistica all'espansione illimitata urta contro i limiti della proprietà privata, contro le dimensioni ristrette del capitale privato, il credito si presenta come il mezzo atto a superare questi limiti in forme capitalistiche, a fondere in uno molti capitali privati - società per azioni - e a far sì che un capitalista possa disporre dei capitali altrui - credito industriale. D'altro lato esso accelera, come credito commerciale, lo scambio delle merci, quindi il riflusso del capitale alla produzione, e conseguentemente l'intiero ciclo del processo produttivo. E' facile rendersi conto dell'influenza di queste due principali funzioni del credito sul determinarsi delle crisi. Se le crisi, com'è noto, traggono origine dalla contraddizione tra la capacità e la tendenza espansiva della produzione e la limitata capacità di consumo, il credito. per quanto si è detto, è il mezzo più idoneo a portare tanto più spesso questa contraddizione alla fase critica. Anzitutto esso accresce enormemente la capacità di espansione della produzione e costituisce la forza motrice interna, che la spinge continuamente a oltrepassare i limiti del mercato. Ma esso agisce in due sensi. Dopo avere, come :fattore del processo produttivo, provocato la superproduzione, durante la crisi, nella sua qualità di intermediario dello scambio, dà il colpo di grazia alle forze produttive, che esso medesimo ha risvegliato. Al primo segno di un ristagno, il credito si contrae, pianta in asso lo scambio là dove sarebbe necessario, si dimostra inefficace e senza scopo là dove si offre ancora e riduce così al minimo durante la crisi la capacità di consumo.

Oltre questi due risultati più importanti, il credito agisce ancora in diversi altri modi in relazione coi determinarsi delle crisi Non soltanto esso offre il mezzo tecnico per mettere dei capitali altrui a disposizione di un capitalista, ma lo sprona ad impiegare con audacia e senza scrupoli la proprietà degli altri persino in speculazioni arrischiate. Non soltanto acuisce la crisi come mezzo infido di scambio delle merci, ma ne facilita lo scoppio e l'estensione in quanto trasforma tutto lo scambio in un meccanismo artificioso ed estremamente complesso, con una quantità minima di moneta aurea come base reale, e provoca così una perturbazione per ogni minimo motivo.

Così il credito, ben lungi dall'essere un mezzo per evitare o anche solamente per attenuare la crisi, è tutt'al contrario un fattore determinante particolarmente importante delle crisi. E dei resto, non potrebbe essere altrimenti. La funzione specifica del credito - esprimendoci in termini generali - non è altro infatti che quella di eliminare da tutti i rapporti capitalistici ciò che ancora rimaneva in fatto di stabilità, di introdurre dovunque il massimo possibile di elasticità e di rendere A massimo grado malleabili, relative e sensibili tutte le forze capitalistiche. Che in tal modo le crisi, le quali non sono altro che il cozzo periodico delle forze reciprocamente contrastanti dell'economia capitalistica, non possano essere che facilitate ed acuite, è cosa che salta agli occhi.

Ma queste considerazioni ci portano in pari tempo all'altro problema, cioè come mai il credito in generale possa apparire come un "mezzo di adattamento" del capitalismo. In qualunque condizione e sotto qualunque forma si immagini l'"adattamento" con l'aiuto del credito, l'essenza dì questo adattamento evidentemente può consistere soltanto nel comporre qualche rapporto antagonistico dell'economia capitalistica, nel toglier di mezzo o attenuare alcune delle sue contraddizioni, e nel concedere così in qualche punto libero gioco alle forze che altrimenti sarebbero soffocate. Ma invece, se esiste nella odierna economia capitalistica un mezzo capace di accrescere al massimo le contraddizioni questo è proprio il credito. Esso accresce la contraddizione tra modo di produzione e modo di scambio in quanto tende al massimo la produzione e paralizza per il minimo motivo gli scambi. Accresce la contraddizione tra modo di produzione e modo di appropriazione in quanto separa la produzione dalla proprietà, trasformando nella produzione il capitale in un capitale sociale, e per contro una parte del profitto in interesse del capitale, cioè in tiri mero titolo di proprietà. Aumenta la contraddizione tra i rapporti di proprietà e quelli di produzione riunendo in poche mani, mediante l'espropriazione di molti piccoli capitalisti, enormi forze produttive. Accresce la contraddizione tra il carattere sociale della produzione e la proprietà privata capitalistica, rendendo necessaria l'intromissione dello Stato nella produzione (società per azioni).

In una parola il credito riproduce tutte le contraddizioni cardinali del mondo capitalistico, le porta all'acme, accelera il cammino lungo il quale esso va incontro al proprio annientamento, al crollo. Il primo mezzo di adattamento del capitalismo nei riguardi del credito dovrebbe essere dunque quello di abolire il credito, di farlo retrocedere. Così com'è adesso non rappresenta un mezzo di adattamento, ma di annientamento, di valore altamente rivoluzionario. Ma proprio questo carattere rivoluzionario del credito, che trascende lo stesso capitalismo, ha indotto persino a progetti di riforma ispirati al socialismo, ed ha fatto apparire grandi rappresentanti dei credito, come Isaac Péreire in Francia, metà profeti e metà furfanti, secondo l'espressione di Marx.

Fragile del pari si dimostra, osservato più da vicino, anche il secondo "mezzo di adattamento" della produzione capitalistica, le unioni di imprenditori. Secondo Bernstein, esse, regolando la produzione, dovrebbero metter fine all'anarchia e prevenire le crisi. Lo sviluppo dei cartelli e dei trusts è certamente un fenomeno non ancora studiato nei suoi molteplici effetti economici. Esso costituisce anzitutto un problema, che può essere risolto soltanto con la guida della dottrina di Marx. Ad ogni modo è chiaro che si potrebbe mettere in discussione la possibilità di arginare l'anarchia capitalistica per mezzo dei cartelli solo nella misura in cui i cartelli, i trusts, ecc. diventassero una forma di produzione dominante in modo press'a poco generale. Ma proprio questo è escluso dalla natura stessa dei cartelli. Lo scopo economico ultimo e il risultato delle unioni di imprenditori consistono nell'influire, mediante l'abolizione della concorrenza in una determinata branca della produzione, sulla ripartizione della massa dei profitti ottenuti sul mercato in modo da accrescere la quota spettante a tale branca industriale. Ma l'organizzazione può innalzare la quota dei profitti in una branca dell'industria soltanto a spese delle altre, e perciò non può assolutamente assumere carattere generale. Estesa a tutti i più importanti rami della produzione, essa elimina autonomamente la propria efficacia.

Ma anche nei limiti della loro applicazione pratica, le unioni di imprenditori agiscono in senso esattamente contrario all'eliminazione dell'anarchia industriale. Generalmente i cartelli ottengono l'aumento suaccennato della quota dei profitti sul mercato interno, in quanto fanno produrre per l'estero, con un tasso di profitto più basso, le porzioni eccedenti di capitale, che non si possono adoperare per il consumo interno, cioè vendono le loro merci all'estero a prezzo molto più basso che nel proprio paese. Ne risulta un'acuita concorrenza all'estero, una maggiore anarchia sul mercato mondiale, e cioè proprio il contrario di ciò che si voleva ottenere. Ne troviamo un esempio nella storia dell'industria internazionale dello zucchero.

Infine, come forma fenomenica del modo di produzione capitalistico, le unioni di imprenditori possono essere concepite soltanto come uno stadio transitorio, una fase determinata dell'evoluzione capitalistica, in quanto sono precisamente un mezzo adottato dal modo di produzione capitalistico per arrestare in singole branche della produzione la fatale caduta dei tasso di profitto. Ma qual è il metodo seguìto dal cartelli a questo scopo? Non è altro, in fondo, che lasciare inattiva una parte del capitale accumulato, cioè lo stesso metodo che sotto altra forma si applica nelle crisi. Ma un simile metodo di cura assomiglia alla malattia come si assomigliano due gocce d'acqua e solo fino a un determinato momento può essere considerato il male minore. Non appena il mercato comincia a contrarsi, in quanto il mercato mondiale viene sviluppato al massimo ed esaurito dai paesi capitalistici concorrenti - ed evidentemente non si può negare che un simile momento debba presentarsi presto o tardi - la forzata inattività parziale del capitale assume una tale estensione, che la medicina stessa si converte in malattia ed il capitale già reso sociale in misura sensibile dal l'organizzazione si ritrasforma in capitale privato. Nella diminuita possibilità di trovare un posticino per sé sul mercato, ogni porzione di capitale privato preferisce tentare la fortuna per proprio conto. E allora le organizzazioni devono scoppiare come bolle di sapone e far nuovamente posto a una libera concorrenza, in forma potenziata [*3].

In definitiva dunque anche i cartelli, come già il credito, si manifestano come fasi determinate dell'evoluzione economica, che in ultima analisi non fanno che accrescere l'anarchia del mondo capitalistico e determinare il manifestarsi e il maturare delle sue interne contraddizioni. Essi acuiscono le contraddizioni tra il modo di produzione e lo scambio, portando all'acme il duello tra produttori e consumatori, come possiamo vedere particolarmente negli Stati Uniti d'America. Acuiscono inoltre la contraddizione tra il modo di produzione e n modo di appropriazione, in quanto contrappongono nella forma più brutale alla classe operaia la forza schiacciante del capitale organizzato e così accrescono al massimo l'antagonismo tra capitale e lavoro.

Acuiscono infine la contraddizione tra il carattere internazionale dell'economia capitalistica e il carattere nazionale dello Stato capitalistico, in quanto portano con sé, come fenomeno collaterale, una guerra doganale generale e così portano all'estremo gli antagonismi tra i singoli Stati capitalistici. C'è inoltre la funzione diretta, altamente rivoluzionaria, dei cartelli sulla concentrazione della produzione, perfezionamenti tecnici e così via.

Così i cartelli e trusts nel loro effetto finale sull'economia capitalistica, non soltanto non ci appaiono come "mezzi di adattamento" che cancellano le sue contraddizioni, ma anzi come uno dei mezzi che essa stessa ha creato per accrescere la propria anarchia, esasperare le proprie interne contraddizioni e affrettare il proprio tramonto.

Ma se il credito, i cartelli e simili non eliminano l'anarchia della economia capitalistica, come avviene che da vent'anni - dal 1873 - non abbiamo più avuto una crisi economica generale? Non è questo un segno che il modo di produzione capitalistico si è "adattato" almeno nei fatti principali alle necessità della società e che è superata l'analisi fatta da Marx?

La risposta seguì immediatamente alla domanda. Bernstein aveva appena gettato nel 1898 tra i ferri vecchi la teoria marxistica delle crisi, quando nel 1900 scoppiò una violenta crisi generale e sette anni più tardi, nel 1907, una nuova crisi dilagò dagli Stati Uniti sul mercato mondiale. Così con l'eloquenza stessa dei fatti fu distrutta la teoria dell'"adattamento" del capitalismo. E con ciò contemporaneamente si dimostrò che coloro che avevano ripudiato la teoria delle crisi di Marx solo perché essa era mancata a due pretese "scadenze", avevano scambiato il nocciolo di questa teoria con un particolare non essenziale della sua forma esterna - il ciclo decennale. La formula dell'andamento ciclico dell'industria capitalistica moderna come di un periodo decennale non fu per Marx ed Engels negli anni tra il '60 e l'80 altro che una semplice constatazione di fatti, che a loro volta non erano basati su alcuna legge naturale, ma su un complesso di determinate circostanze storiche, che erano in connessione con l'espansione saltuaria della sfera di attività del giovane capitalismo.

In realtà la crisi del 1825 fu il risultato dei grandi investimenti in costruzioni di strade, canali ed officine del gas, che avevano avuto luogo nel decennio precedente soprattutto in Inghilterra, come del resto anche la crisi stessa. La crisi successiva del 1836-1839 fu ugualmente conseguenza di imprese colossali per la costruzione di nuovi mezzi di trasporto. La crisi del 1847 fu notoriamente provocata dalle febbrili costruzioni di strade ferrate inglesi (tra il 1844 e il 1847, cioè in tre anni soltanto vennero assegnate dal parlamento concessioni per nuove ferrovie per circa un miliardo e mezzo di talleri!). In tutti e tre i casi furono dunque forme diverse del riassestamento della economia capitalistica, della fondazione di nuove basi per lo sviluppo capitalistico, che produssero come conseguenza le crisi. Nell'anno 1857 è l'improvvisa apertura di nuovi mercati di smercio perle industrie europee in America e in Australia in seguito alla scoperta di miniere d'oro, in Francia particolarmente è la costruzione di strade ferrate, per cui essa marcia sulle orme dell'Inghilterra (tra il 1852 e il 1856 furono costruite nuove ferrovie in Francia per un miliardo e 1/4 di franchi). Infine la grande crisi del 1872 è notoriamente conseguenza diretta della nuova organizzazione, del primo slancio impetuoso della grande industria in Germania ed in Austria, che seguì agli avvenimenti politici del 1866 e 1871.

Fu dunque ogni volta l'improvviso estendersi del terreno della economia capitalistica e non il restringersi del suo campo d'azione, non il suo esaurirsi, che finora diede il via alle crisi. Che quelle crisi internazionali si siano ripetute proprio a distanza di dieci anni, è un fenomeno puramente esteriore, casuale. Lo schema marxistico dello sviluppo delle, crisi, come fu descritto da Engels nell'Antidúhring e da Marx nel I e III libro dei Capitale, riguarda tutte le crisi soltanto in quanto mette in luce il loro meccanismo intimo e le loro cause generali profonde. Queste crisi possono ripetersi ogni dieci, ogni cinque, come pure ogni venti od otto anni. Ma ciò che dimostra nel modo più evidente l'inconsistenza della teoria di Bernstein è il fatto che la crisi più recente negli anni 1907-1908 ha infuriato proprio in quel paese dove sono più sviluppati i famosi "mezzi di adattamento" capitalistici: il credito, il servizio di informazioni ed i trusts.

La supposizione che la produzione capitalistica possa "adattarsi" al commercio, parte da una di queste due premesse: o che il mercato mondiale aumenti illimitatamente e all'infinito o al contrario che le forze produttive vengano ostacolate nella loro crescita, in modo da non oltrepassare i limiti del mercato. La prima è fisicamente impossibile, all'altra si oppone il fatto che ad ogni passo avvengono trasformazioni tecniche in tutti i campi della produzione le quali svegliano ogni giorno nuove forze produttive.

Ancora un fenomeno contraddice secondo Bernstein al corso sopra delineato del capitalismo: la "falange quasi incrollabile" delle medie imprese, sulla quale richiama la nostra attenzione. In ciò egli vede un segno che lo sviluppo della grande industria non produce effetti così rivoluzionari nel senso della concentrazione capitalistica, come ci si sarebbe dovuto aspettare in base alla "teoria del crollo". Ma anche in questo egli è vittima di un malinteso. Sarebbe un comprendere dei tutto falsamente lo sviluppo della grande industria se ci si aspettasse che le medie industrie debbano scomparire gradualmente dalla scena.

Nell'andamento generale dell'evoluzione capitalistica, proprio secondo l'assunto di Marx, i piccoli capitali rappresentano la parte dei pionieri della rivoluzione tecnica, da due punti di vista e cioè tanto in rapporto a nuovi metodi di produzione nelle branche antiche e consolidate, ben radicate, quanto in rapporto alla creazione di nuove branche di produzione non ancora sfruttate da grandi capitali. E' completamente falsa l'interpretazione secondo la quale la storia della media impresa capitalistica vada in linea retta verso il suo graduale declino. Il decorso reale dell'evoluzione anche qui è piuttosto dialettico e si muove costantemente tra due opposti. Il medio ceto capitalistico, si trova, proprio come la classe operaia, sotto l'influenza di due opposte tendenze, una che tende ad innalzarlo ed una che tende ad abbassarlo.

La seconda è nel caso in questione il costante elevarsi del livello della produzione, che supera periodicamente i limiti dei capitali medi e li esclude sempre da capo dalla concorrenza. La prima è data dal deprezzamento periodico del capitale esistente, che abbassa sempre da capo per un lasso di tempo il livello della produzione a seconda della entità del necessario capitale minimo, come pure dall'estendersi della produzione capitalistica a nuove sfere. Il duello della media azienda col grande capitale non dev'essere immaginato come una battaglia regolare, nella quale la truppa della parte più debole si riduce sempre di più, direttamente e quantitativamente, ma piuttosto come una falciatura periodica dei piccoli capitali, che poi sempre rapidamente ricrescono per essere nuovamente falciati dalla falce della grande industria. Delle due tendenze che giocano a palla con il medio ceto capitalistico, in ultima analisi vince - in opposizione con lo sviluppo della classe operaia - la tendenza depressiva. Ma essa non ha assolutamente bisogno di manifestarsi nell'abolizione numerica assoluta della media azienda, bensì in primo luogo nell'aumento progressivo del capitale minimo, necessario alla sopravvivenza delle imprese nelle vecchie branche, in secondo luogo nel periodo di tempo sempre più breve durante il quale i piccoli capitali possono sfruttare per conto loro le branche nuove. Ne deriva per il piccolo capitale individuale un periodo di vita sempre più breve e un trasformarsi sempre più rapido dei metodi di produzione e dei modi d'impiego, e per la classe nel suo complesso un ricambio sociale sempre più rapido.

Quest'ultimo fatto Bernstein lo sa assai bene e lo stabilisce egli stesso. Ma sembra dimenticare invece che in tal modo è stabilita anche la legge medesima del movimento delle medie aziende capitalistiche. Se i piccoli capitali sono le truppe di avanguardia del progresso tecnico, e se il progresso tecnico è il polso vitale dell'economia capitalistica, i piccoli capitali costituiscono evidentemente un fenomeno collaterale inseparabile dallo sviluppo capitalistico, che può scomparire soltanto insieme con quest'ultimo. La scomparsa graduale delle medie aziende - nel senso della statistica assoluta sommaria di cui parla Bernstein - significherebbe non, come Bernstein pensa, il processo di sviluppo rivoluzionario del capitalismo, ma proprio al contrario il suo ristagnare e il suo intorpidirsi."Il saggio del profitto, ossia l'incremento proporzionale di capitale, è particolarmente importante per tutti i capitali di nuova formazione che si raggruppano indipendentemente. E non appena la formazione di capitale diventasse monopolio di pochi grandi capitali già affermatisi ( ... ) si spegnerebbe il fuoco vivificatore della produzione e questa cadrebbe in letargo." [*4]


 

 

3. Instaurazione del socialismo per mezzo di riforme sociali

 

 

Bernstein respinge la "teoria del crollo" come la via storica per la realizzazione della società socialista. Qual è la via che conduce a tale risultato, dal punto di vista della teoria dell'"adattamento del 'capitalismo"? Bernstein risponde a questa domanda solo in modo allusivo, ma Conrad Schmidt ha tentato di farlo più esaurientemente nel senso di Bernstein [*5]. Secondo lui, "la lotta sindacale e la lotta politica per le riforme sociali" porteranno "un controllo sociale sempre più esteso sulle condizioni della produzione" e con la legislazione "degraderanno sempre più il proprietario capitalista limitandone i diritti fino a ridurlo al ruolo di un gerente", finché in conclusione "sottrarranno al capitalista, reso ormai umile, che vede diventare il suo possesso sempre più inutile per sé, la direzione e l'amministrazione dei suoi capitali" e cosi infine si instaurerà la gestione sociale.

Dunque, sindacati, riforme sociali ed anche, come aggiunge Bernstein, la democratizzazione politica dello Stato, sono i mezzi dell'instaurazione progressiva dei socialismo.

Per cominciare dai sindacati, la loro funzione più importante - e nessuno l'ha dimostrato meglio dello stesso Bernstein nella Neue Zeit dell'anno 1891 - consiste nel fatto che essi sono nelle mani del lavoratori il mezzo di realizzare la legge capitalistica del salario, cioè la vendita della forza di lavoro al prezzo vigente di volta in volta sul mercato. I sindacati giovano al proletariato in quanto sfruttano le congiunture del mercato in ogni periodo di tempo. Ma quelle stesse congiunture, cioè da un lato la richiesta di forza di lavoro condizionata dallo stadio della produzione, dall'altro l'offerta di forza di lavoro determinata dalla proletarizzazione dei medi ceti e dalla naturale moltiplicazione della classe lavoratrice, e infine anche il grado della produttività del lavoro in ogni momento, sono al di fuori della sfera di influenza dei sindacati. Perciò essi non possono rovesciare la legge dei salari; nel migliore dei casi possono mantenere lo sfruttamento capitalistico nel limiti che si considerano "normali" per un determinato periodo, ma in nessun modo possono eliminare gradualmente lo sfruttamento stesso.

Conrad Schmidt veramente designa l'attuale movimento sindacale come "un debole stadio iniziale" e si ripromette dal futuro che "i sindacati abbiano un'influenza sempre crescente sulla regolazione della produzione". La regolazione della produzione può però essere intesa soltanto in due modi: l'ingerenza nella parte tecnica del processo produttivo e la determinazione del volume della produzione stessa. Di quale natura può essere l'influenza dei sindacati in questi due problemi?

E' chiaro che per quanto concerne la tecnica della produzione, l'interesse dei capitalista coincide in determinati limiti coi progresso e lo sviluppo dell'economia capitalistica. t la necessità sua propria che lo sprona a miglioramenti tecnici.La posizione dei singolo lavoratore invece è esattamente opposta: ogni trasformazione tecnica contrasta con gli interessi del lavoratore direttamente toccato e peggiora la sua situazione immediata deprezzando la forza di lavoro e rendendo il lavoro stesso più intensivo, monotono, penoso. Nella misura in cui il sindacato può ingerirsi nel lato tecnico della produzione, può agire evidentemente solo in quest'ultimo senso, cioè nel senso dei singoli gruppi operai direttamente interessati, e quindi avversare le innovazioni. In questo caso però esso non agisce nell'interesse della classe operaia nel suo complesso e della sua emancipazione, il quale coincide piuttosto col progresso tecnico, cioè con l'interesse del singolo capitalista, ma tutt'al contrario agisce nel senso della reazione. E in realtà noi troviamo un'aspirazione ad influire sugli aspetti tecnici della produzione non nel futuro, dove la cerca Conrad Schmidt, ma nel passato dei movimento sindacale. Essa contrassegna la fase più antica del tradunionismo inglese (fino al decennio 1860-70), in cui esso si riannodava ancora a tradizioni medievali-corporative ed era retto in modo caratteristico dal principio antiquato del "diritto acquisito a un lavoro adeguato" [*6]. L'aspirazione dei sindacati a fissare i limiti della produzione ed i prezzi delle merci è invece un fenomeno di data recentissima. Appena negli ultimissimi tempi vediamo affiorare - e ancora soltanto in Inghilterra - tentativi in questo senso [*7]. Tuttavia per il carattere e la tendenza queste agitazioni equivalgono interamente a quelle. A che cosa infatti si riduce necessariamente la parte attiva presa dai sindacati nello stabilire l'ampiezza ed i prezzi della produzione delle merci? A un cartello degli operai con gli imprenditori contro i consumatori e addirittura con l'impiego di misure coercitive contro gli imprenditori concorrenti che non sono in nulla da meno dei metodi delle regolari unioni di imprenditori. In fondo questa non è più una lotta tra lavoro e capitale, ma una lotta solidale del capitale e della mano d'opera contro la società consumatrice. Dal punto di vista del suo valore sociale è un atteggiamento reazionario che perciò non può costituire una tappa nella lotta del proletariato per la propria emancipazione, ma rappresenta piuttosto il contrario preciso di una lotta di classe. Dal punto di vista del suo valore pratico è un'utopia, che non può mai - come lo dimostra un momento di riflessione - estendersi a branche più vaste che producono per il mercato mondiale.

L'attività dei sindacati si limita dunque principalmente, alla lotta per i salari e per la riduzione dell'orario di lavoro, cioè semplicemente alla regolamentazione dello sfruttamento capitalistico secondo le condizioni di mercato: dalla natura stessa delle cose rimane loro preclusa ogni influenza sul processo di produzione. Anzi, tutto il corso dell'evoluzione sindacale si dirige al contrario, come ammette anche Conrad Schmidt, verso lo svincolo completo del mercato del lavoro da ogni rapporto immediato col mercato delle altre merci. A questo proposito bisogna rilevare soprattutto il fatto che persino gli sforzi di portare il contratto di lavoro almeno passivamente in rapporto immediato con la situazione generale della produzione mediante il sistema della scala mobile sono superati dall'evoluzione e le trade unions se ne staccano sempre più [*8].

Ma anche nei limiti reali della sua azione, il movimento sindacale non va incontro, come presuppone la teoria dell'adattamento del capitale, a un'estensione illimitata. Tutt'al contrario! Se si prendono in considerazione più larghe zone dello sviluppo sociale, non si possono chiudere gli occhi davanti al fatto che nel complesso non andiamo incontro a un vittorioso spiegamento di forze -ma a crescenti difficoltà del movimento sindacale. Una volta che lo sviluppo dell'industria abbia raggiunto il culmine e che per il capitale cominci sul mercato mondiale la "curva discendente" la lotta sindacale diventa doppiamente difficile:- anzitutto peggiora per la mano d'opera la congiuntura oggettiva dei mercato, perché la domanda aumenta più lentamente e l'offerta più rapidamente di quanto avviene ora, e in secondo luogo il capitale stesso, per indennizzarsi delle perdite subite sul mercato mondiale, si rifarà tanto più ostinatamente sulla porzione del prodotto spettante al lavoratore. La riduzione del salario è uno dei mezzi principali di arrestare la caduta del saggio di profitto [*9]. Già l'Inghilterra ci offre il quadro dell'incipiente secondo stadio del movimento sindacale. Per necessità esso si riduce sempre più alla semplice difesa dei risultati già ottenuti, ed anche questa diviene sempre più difficile. Contropartita di questo corso generale delle cose deve essere un nuovo vigore della lotta di classe politica e socialista. Conrad Schmidt commette lo stesso errore di invertire la prospettiva storica nei confronti della riforma sociale, dalla quale si ripromette che, "dando la mano alle coalizioni sindacali operaie, detti alla classe capitalistica le condizioni alle quali soltanto le sia consentito impiegare forza di lavoro". Nel senso della riforma sociale così concepita Bernstein chiama la legislazione di fabbrica un pezzo di "controllo sociale" e - come tale - un pezzo di socialismo. Anche Conrad Schmidt, dovunque parla della protezione statale degli operai, adopera l'espressione "controllo sociale" e dopo aver così felicemente trasformato lo Stato in società aggiunge con notevole ottimismo "cioè la classe operaia in ascesa", e con questa operazione le innocenti norme sulla protezione degli operai del Bundesrat tedesco diventano provvedimenti socialisti di transizione presi dal proletariato tedesco.

Qui la mistificazione è palese. Lo Stato odierno non è una "società" nel senso della "classe operaia in ascesa", ma il rappresentante della società capitalistica, cioè uno Stato di classe. Perciò anche la riforma sociale da esso adottata non è una realizzazione del "controllo sociale", cioè del controllo della libera società lavoratrice sul proprio processo lavorativo, ma un controllo dell'organizzazione di classe del capitale sul processo produttivo del capitale. Qui, cioè negli interessi dei capitale, la riforma sociale trova anche i suoi limiti naturali. E' vero che Bernstein e Conrad Schmidt anche a questo riguardo vedono nel presente solo un "debole stadio iniziale"e si ripromettono dall'avvenire una riforma sociale che si sviluppi all'infinito a favore della classe operaia. Ma compiono con ciò lo stesso errore che avevano fatto ammettendo uno spiegamento di forze illimitato dei movimento sindacale.

La teoria dell'instaurazione graduale dei socialismo a mezzo di riforme sociali presuppone - e questo è il punto essenziale - un determinato sviluppo obiettivo tanto della proprietà capitalistica quanto dello Stato. Riguardo alla prima, lo schema dello sviluppo futuro, com'è presupposto da Conrad Schmidt, tende ad "abbassare sempre di più il proprietario del capitale, limitando i suoi diritti, fino al ruolo di un semplice gerente".In vista della supposta impossibilità che l'espropriazione di tutti i mezzi di produzione avvenga improvvisamente in una volta sola, Conrad Schmidt crea una teoria sua dell'espropriazione graduale. A questo scopo si costruisce, come necessaria premessa, una divisione del diritto di proprietà in una "superproprietà", che attribuisce alla "società", che secondo lui sarebbe sempre più estesa, e in un diritto di usufrutto che nelle mani dei capitalisti si riduce sempre più, fino a divenire una semplice gestione della propria azienda. Ma questa costruzione o non è che un ingenuo gioco di parole, che non racchiude alcun pensiero importante, e perciò la teoria dell'espropriazione graduale rimane senza dimostrazione. Oppure è uno schema seriamente pensato dell'evoluzione del diritto, ma allora è completamente sbagliato. La divisione delle diverse facoltà comprese nel diritto di proprietà, alla quale si appoggia Conrad Schmidt per la sua "espropriazione graduale" del capitale, è un fenomeno caratteristico della società a economia feudale-naturale, nella quale la suddivisione del prodotto tra le diverse classi sociali avviene in natura e in base a rapporti personali tra i signori feudali ed i loro sudditi. La divisione della proprietà in diversi diritti parziali fu qui l'organizzazione preliminare della ripartizione della ricchezza sociale. Col passaggio alla produzione di merci e con la dissoluzione di ogni legame personale tra i singoli partecipanti al processo di produzione, si rafforzò invece il rapporto tra uomo e cosa - la proprietà privata. Non compiendosi più la ripartizione mediante rapporti personali, ma mediante lo scambio, i diversi diritti di partecipazione alla ricchezza sociale non si misurano più in frazioni del diritto di proprietà rispetto a un oggetto comune, ma nel valore portato da ciascuno sul mercato. Il primo radicale cambiamento nei rapporti giuridici, che accompagnò l'insorgere della produzione di merci nei comuni cittadini del medioevo, fu anche il nascere della proprietà privata assoluta, chiusa, nel grembo dei rapporti giuridici feudali a proprietà ripartita. Ma nella produzione capitalistica questo sviluppo procede più oltre. Quanto più il processo di produzione viene reso sociale, tanto più il processo di ripartizione si basa sul semplice scambio, tanto più intangibile e chiusa diventa la proprietà privata capitalistica e tanto più la proprietà capitalistica si trasforma da un diritto sul prodotto del proprio lavoro in un puro diritto di appropriazione rispetto al lavoro altrui. Finché il capitalista in persona dirige la fabbrica, la ripartizione si ricollega ancora, fino a un certo punto, a una partecipazione personale al processo di produzione. A misura che la direzione personale del fabbricante diviene superflua, e definitivamente nelle società per azioni, la proprietà del capitale come titolo a una pretesa nella ripartizione si separa completamente dai rapporti personali con la produzione e si manifesta nel la sua forma più pura e più chiusa. Soltanto nel capitale azionario e nel capitale creditizio industriale il diritto di proprietà capitalistica arriva al suo pieno sviluppo.

Lo schema storico dell'evoluzione del capitalista, come lo tratteggia Conrad Schmidt "da proprietario a semplice gerente" appare così come un capovolgimento dell'evoluzione reale, che al contrario conduce da proprietario e gerente a semplice proprietario. Succede così a Conrad Schmidt come dice Goethe: "Ciò che possiede, lo vede come in lontananza e ciò che è scomparso diventa per lui una realtà" [4].

E, come il suo schema storico dal punto di vista economico ritorna indietro dalla moderna società per azioni alla manifattura o persino alle botteghe artigiane, così dal punto di vista giuridico vuol riportare il mondo capitalistico nel guscio d'uovo dell'economia feudale naturale.

Da questo punto di vista anche il "controllo sociale"appare sotto una luce diversa da come lo vede Conrad Schmidt. Ciò che funziona oggi da "controllo sociale" - la protezione degli operai, la sorveglianza sulle società per azioni, ecc. - in realtà non ha nulla a che fare con una compartecipazione al diritto di proprietà, con una "superproprietà". Esso si manifesta non come limitazione della proprietà capitalistica, ma al contrario come sua difesa. Oppure, per esprimerci in termini economici, esso non rappresenta un attentato allo sfruttamento capitalistico, ma una regolamentazione, un ordinamento di questo sfruttamento. E quando Bernstein pone il problema se in una legge sulle fabbriche c'è più o meno socialismo, possiamo assicurargli che nella migliore di tutte le leggi sulle fabbriche c'è altrettanto "socialismo"quanto nelle ordinanze municipali sulla pulizia delle strade e l'accensione dei fanali a gas, che sono anch'esse manifestazioni di un "controllo sociale".


 

 

4. Politica doganale e militarismo

 

 

La seconda premessa dell'instaurazione graduale del socialismo secondo Bernstein è l'evoluzione dello Stato a società. E' già divenuto un luogo comune che lo Stato attuale è uno Stato di classe. Ma a nostro avviso anche questo concetto, come tutto ciò che ha qualche rapporto con la società capitalistica, non dovrebbe essere preso nel suo significato rigido, assoluto, bensì nel senso fluido dell'evoluzione.

Con la vittoria politica della borghesia lo Stato è diventato uno Stato capitalistico. Naturalmente lo stesso sviluppo capitalistico altera in modo essenziale la natura dello Stato, allargando sempre più la sfera della sua attività, attribuendogli sempre nuove funzioni e, particolarmente in rapporto alla vita economica, rendendo sempre più necessaria la sua ingerenza ed il suo controllo. In questo modo si prepara gradualmente la futura fusione dello Stato con la società, cioè la devoluzione delle funzioni statali alla società. Da questo punto di vista si può anche parlare di un'evoluzione dello Stato capitalistico a società e indubbiamente in questo senso Marx dice della protezione degli operai che essa è la prima intromissione cosciente "della società" nel suo processo vitale sociale, frase alla quale si richiama Bernstein.

Ma d'altra parte nell'essenza dello Stato si compie, attraverso lo stesso sviluppo capitalistico, un'altra trasformazione. Anzitutto lo Stato odierno è un'organizzazione della classe capitalistica dominante. Se esso, nell'interesse dell'evoluzione sociale assume diverse funzioni di interesse generale, lo fa esclusivamente perché e fintantoché questi interessi e l'evoluzione sociale coincidono con gli interessi della classe dominante. La protezione degli operai p. es. è tanto nell'interesse immediato dei capitalisti come classe, quanto della società nel suo complesso. Ma questa armonia dura soltanto fino a un certo momento dello sviluppo capitalistico. Quando lo sviluppo ha raggiunto un determinato grado, gli interessi della borghesia come classe e quelli dei progresso economico cominciano a divergere, anche in senso capitalistico. Noi crediamo che questa fase sia già stata raggiunta e ciò si !manifesta nei due fenomeni più importanti della vita sociale odierna: la politica doganale ed il militarismo. Nella storia del capitalismo entrambi questi fenomeni - politica doganale e militarismo - hanno avuto una funzione indispensabile e pertanto progressista e rivoluzionaria. Senza la protezione doganale sarebbe stato quasi impossibile il sorgere della grande industria nei singoli paesi. Ma oggi le cose stanno diversamente. Oggi il dazio protettivo non serve a permettere lo sviluppo di industrie giovani, ma a mantenere artificialmente forme di produzione antiquate. Dal punto di vista dello sviluppo capitalistico, cioè dal punto di vista dell'economia mondiale, oggi è completamente indifferente se la Germania esporta più merci in Inghilterra o l'Inghilterra in Germania.

Dal punto di vista dello stesso sviluppo, il negro ha dunque compiuto il suo lavoro e potrebbe andarsene. Anzi, dovrebbe andarsene. Per la reciproca dipendenza attuale di diversi rami d'industria i dazi protettivi imposti su alcune merci devono rincarare la produzione di altre merci all'interno, e quindi inceppare nuovamente l'industria. Ma non così dal punto di vista degli interessi della classe capitalistica. L'industria non ha bisogno della protezione doganale per svilupparsi, bensì l'imprenditore per proteggere il suo smercio. E ciò significa che i dazi oggi non hanno più la funzione di mezzi protettivi di una produzione capitalistica in fase ascendente di fronte ad una più matura, ma di mezzi di lotta di un gruppo capitalistico nazionale contro un altro. Inoltre i dazi non sono più necessari come mezzi protettivi dell'industria, per creare e conquistare un mercato interno, bensì come mezzi indispensabili per la cartellizzazione dell'industria, cioè per la lotta del produttore capitalista con la società consumatrice. Infine, ciò che mette in rilievo nel modo più evidente il carattere specifico dell'odierna politica doganale è il fatto che ora dappertutto non è l'industria ma l'agricoltura che svolge la funzione determinante in materia di dazi, cioè che la politica doganale è divenuta addirittura un mezzo per plasmare ed esprimere interessi feudali in forma capitalistica.

La stessa trasformazione si è verificata per il militarismo. Se noi consideriamo la storia, non come avrebbe potuto o dovuto essere, ma come fu in realtà, dobbiamo constatare che la guerra è stata il fattore necessario dell'evoluzione capitalistica. Gli Stati Uniti del Nordamerica e la Germania, l'Italia e gli Stati balcanici, la Russia e la Polonia, devono tutti alle guerre, fossero esse vittoriose o no, le premesse o l'impulso alla evoluzione capitalistica. Finché esistettero paesi, di cui bisognava superare il frazionamento interno o l'isolamento di un'economia naturale, anche il militarismo ebbe una funzione rivoluzionaria in senso capitalistico. Ma oggi anche in questo campo le cose stanno diversamente. Se la politica mondiale è divenuta teatro di minacciosi conflitti, non si tratta tanto dell'apertura di nuovi paesi per il capitalismo, quanto di antagonismi europei già esistenti che si sono trapiantati nelle altre parti dei mondo e là portano alla rottura. Quelli che marciano oggi l'un contro l'altro con le armi in pugno - è indifferente se in Europa o in altre parti del mondo - non sono paesi capitalistici da una parte e paesi a economia naturale dall'altra, bensì Stati che vengono spinti al conflitto proprio dall'omogeneità dei loro alto sviluppo capitalistico. Naturalmente se scoppia un conflitto in queste circostanze, esso non può non avere conseguenze fatali proprio per questo sviluppo, in quanto porterà al più profondo sovvertimento e rivolgimento della vita economica in tutti i paesi capitalistici. Ma le cose stanno diversamente dal punto di vista della classe capitalistica. Per essa il militarismo è divenuto oggi indispensabile sotto tre aspetti: primo, come mezzo di lotta per interessi "nazionali" concorrenti contro altri gruppi nazionali; secondo, come il principale modo di impiegare tanto il capitale finanziario quanto quello industriale e, terzo, come strumento del dominio di classe all'interno di fronte al popolo lavoratore interessi tutti che non hanno niente a che fare col progresso del modo di produzione capitalistico in sé. E ciò che meglio tradisce ancora una volta questo carattere specifico del militarismo odierno è anzitutto il suo crescere generale in tutti i paesi a gara, per così dire, per una forza propulsiva propria,- interna, meccanica, fenomeno completamente sconosciuto ancora una ventina di anni fa; e poi l'inevitabilità, la fatalità dell'esplosione che sta avvicinandosi, insieme con una completa incertezza della causa determinante, degli Stati immediatamente interessati, dell'oggetto del conflitto e di ogni altra circostanza. Per effetto della forza propulsiva dello sviluppo capitalistico anche il militarismo è diventato una malattia capitalistica.

Nel prospettato disaccordo tra lo sviluppo sociale e gli interessi della classe dominante, lo Stato si mette dalla parte di quest'ultima. Lo Stato, come la borghesia, si mette con la sua politica in contrasto con lo sviluppo sociale, perde con ciò sempre di più il suo carattere di rappresentante di tutta la società e in egual misura diventa sempre più un mero Stato di classe. O, meglio, per esprimerci più esattamente, queste due sue proprietà si separano l'una dall'altra e si acuiscono in una contraddizione all'interno dell'essenza dello Stato. E questa contraddizione diventa ogni giorno più acuta. Perché da un lato aumentano le funzioni dello Stato di carattere generale, la sua ingerenza e i suoi "controlli" nella vita sociale. D'altro lato il suo carattere classista lo costringe sempre più a spostare il centro di gravità della sua attività ed i mezzi del suo potere in campi che presentano qualche utilità soltanto per gli interessi di classe della borghesia, ma hanno solo un valore negativo nei riguardi della società, come il militarismo e la politica doganale e coloniale. In secondo luogo anche il suo "controllo sociale" viene permeato e dominato sempre più dal carattere classista (si veda come viene attuata la protezione dei lavoratori in tutti i paesi).

Al mutamento descritto nell'essenza dello Stato non contraddice, ma piuttosto corrisponde perfettamente lo sviluppo della democrazia, nella quale Bernstein vede ugualmente il mezzo di instaurare gradualmente il socialismo.

Come chiarisce Conrad Schmidt, il raggiungimento di una maggioranza socialdemocratica in parlamento dovrebbe essere addirittura la via diretta di questa socializzazione graduale della società. Ora le forme democratiche della vita politica sono indubbiamente un fenomeno che esprime al massimo grado lo sviluppo dello Stato a società e correlativamente segna una tappa verso la trasformazione socialista. Ma nel moderno parlamentarismo viene tanto più crudamente in luce il dissidio nell'essenza dello Stato capitalistico che noi abbiamo descritto. E', vero che, formalmente, il parlamentarismo deve servire ad esprimere nell'organizzazione statale gli interessi di tutta la società. Ma d'altro lato esso è un'espressione soltanto della società capitalistica, cioè di una società nella quale sono preponderanti gli interessi capitalistici. Le istituzioni formalmente democratiche diventano con ciò sostanzialmente strumenti degli interessi della classe dominante. E questo si palesa in modo evidente nel fatto che, non appena la democrazia tende a smentire il suo carattere classista ed a -trasformarsi in uno strumento dei reali interessi del popolo, le stesse forme democratiche vengono sacrificate dalla borghesia e dalla sua rappresentanza statale. L'idea di una maggioranza parlamentare socialdemocratica appare pertanto un calcolo che rimane completamente nello spirito del liberalismo borghese, tien conto soltanto di un lato formale della democrazia, ma trascura completamente l'altro lato, il suo contenuto reale. E il parlamentarismo nel suo complesso non appare come un elemento immediatamente socialistico, che imbeve a poco a poco la società capitalistica, come ritiene Bernstein ma al contrario come un metodo specifico dello Stato di classe borghese per recare a maturità e a pieno sviluppo le contraddizioni capitalistiche.

Di fronte a questa evoluzione obiettiva dello Stato, la formula di Bernstein e di Conrad Schmidt del "controllo sociale" crescente, che dovrebbe portare direttamente al socialismo, si muta in una frase che contrasta ogni giorno di più con la realtà.

La teoria dell'instaurazione graduale del socialismo sbocca in una riforma progressiva della proprietà capitalistica e dello Stato capitalistico in senso socialista. Senonché entrambe, in forza di processi obiettivi della società attuale, si sviluppano in una direzione esattamente opposta. Il processo di produzione viene socializzato sempre di più, e sempre di più si estendono l'ingerenza e il controllo dello Stato su questo processo produttivo. Ma al tempo stesso la proprietà privata diventa ogni giorno di più una forma di puro e semplice sfruttamento capitalistico del lavoro altrui, e il controllo statale si compenetra sempre più di esclusivi interessi di classe. Così lo Stato, cioè l'organizzazione politica, ed i rapporti di proprietà, cioè l'organizzazione giuridica del capitalismo, mentre diventano, via via che si sviluppano, sempre più capitalistici e non sempre più socialistici, oppongono alla teoria dell'instaurazione graduale del socialismo due difficoltà insormontabili.

L'idea di Fourier, di trasformare col sistema dei falansteri tutta l'acqua marina della terra in limonata, era molto fantastica. Ma l'idea di Bernstein, di trasformare il mare dell'amarezza capitalistica, con l'aggiunta di qualche bottiglia di limonata socialriformista, in un mare di dolcezza socialista è soltanto più balorda, m per nulla meno fantastica.

I rapporti di produzione della società capitalistica si avvicinano sempre più alla forma socialistica, ma suoi rapporti politici e giuridici innalzano tra la società capitalistica e quella socialistica una barriera sempre più elevata. Lo sviluppo delle riforme sociali e della democrazia non fanno delle brecce in questa barriera, ma al contrario, l'irrigidiscono e la rafforzano. Essa potrà essere abbattuta unicamente dal colpo di maglio della rivoluzione, cioè dalla conquista del potere politico da parte del proletariato.


 

 

5. Conseguenze pratiche e carattere generale del revisionismo

 

 

Abbiamo cercato di spiegare nel primo capitolo chela teoria di Bernstein toglie il programma socialista dal terreno materiale e lo colloca su una base idealistica. Questo si riferisce ai fondamenti teorici. Ora però come appare la teoria tradotta in pratica? A tutta prima e dal punto di vista formale essa non si differenzia per nulla dalla prassi adottata finora nella lotta socialdemocratica. Sindacati, lotta per le riforme sociali e per la democraticizzazione delle istituzioni politiche sono la stessa cosa che ha sempre costituito il contenuto formale della attività socialdemocratica di partito. La differenza non sta dunque nel che cosa ma nel come. Attualmente la lotta sindacale e quella parlamentare vengono concepite come mezzi per guidare ed educare gradualmente il proletariato alla conquista del potere politico. Secondo la concezione revisionistica, vista l'impossibilità e l'inutilità di tale conquista, queste lotte devono essere condotte esclusivamente in considerazione dei risultati immediati, cioè il miglioramento delle condizioni materiali dei lavoratori, la limitazione graduale dello sfruttamento capitalistico e l'estensione del controllo sociale. Se prescindiamo dallo scopo del miglioramento immediato della situazione del lavoratore, che è comune a entrambe le concezioni, quella adottata comunemente finora dal partito e quella revisionistica, tutta la differenza, in poche parole, sta qui: secondo la concezione corrente il significato socialista della lotta sindacale e politica sta nel fatto che esse prepara il proletariato, cioè il fattore soggettivo della trasformazione socialista, a metterla in atto. Secondo Bernstein. consiste in ciò, che la lotta sindacale e la lotta politica limitano gradualmente lo stesso sfruttamento capitalistico, tolgono sempre più alla società capitalistica il suo carattere capitalistico ed aumentano quello socialistico, in una parola vogliono condurre alla trasformazione socialista in senso oggettivo. Quando si considera la cosa più da vicino, le due concezioni sono addirittura contrapposte. Secondo la concezione usuale dei partito, il proletariato attraverso la lotta sindacale e politica, arriva a convincersi dell'impossibilità di cambiare fondamentalmente la propria situazione per mezzo di questa lotta e della conseguente imprescindibile necessità di arrivare infine alla conquista del potere politico, nella concezione di Bernstein si parte dalla premessa dell'impossibilità di conquistare il potere politico, per concludere all'instaurazione dell'ordinamento socialista unicamente per mezzo della lotta sindacale e politica.

Il carattere socialista della lotta sindacale e parlamentare sta dunque, secondo la concezione di Bernstein nel suo presunto effetto di socializzazione graduale dell'economia capitalistica. Ma quest'effetto - come abbiamo cercato di dimostrare - è in realtà pura immaginazione. Le istituzioni della proprietà e dello Stato capitalistici evolvono verso una direzione opposta. Ma con ciò la lotta pratica quotidiana della socialdemocrazia in ultima istanza perde qualunque rapporto coi socialismo. Il grande significato socialistico della lotta sindacale e di quella politica sta nel fatto che esse socializzano la conoscenza, la coscienza del proletariato e la organizzano come classe. Considerandoli come mezzi della socializzazione immediata dell'economia capitalistica, essi non solo rinunciano a quest'azione loro propria, ma perdono contemporaneamente anche l'altro significato: cessano di essere mezzi di educazione della classe lavoratrice per la conquista del potere da parte del proletariato.

Poggia perciò su un malinteso totale il ragionamento di Eduard Bernstein e Conrad Schmidt, quando si tranquillizzano che lo scopo finale del movimento operaio non va perduto nonostante la limitazione di tutta la lotta alle riforme sociali ed ai sindacati, perché ogni passo su questa strada trascende i suoi propri limiti e lo scopo socialistico è implicito nel movimento stesso come tendenza. Certo questo è pienamente il caso della tattica attuale della socialdemocrazia tedesca, quando cioè gli sforzi coscienti e tenaci per la conquista del potere politico orientano come stella polare la lotta sindacale e la lotta per le riforme sociali. Basta però scindere questi sforzi dal movimento e mettere la riforma sociale come scopo a sé, perché essa non solo non conduca più alla realizzazione dello scopo finale socialista, ma proprio dalla parte opposta. Conrad Schmidt si fida semplicemente del movimento per così dire meccanico che una volta messo in moto non può più fermarsi da sé e precisamente in base al semplice concetto che l'appetito vien mangiando e la classe lavoratrice non si accontenterà mai delle riforme ottenute, finché non sarà compiuta la trasformazione socialistica. L'ultima premessa è realmente giusta e ci è garante di questo l'insufficienza delle riforme sociali capitalistiche. Ma la conseguenza che ne viene dedotta potrebbe essere vera soltanto se si potesse costruire una ininterrotta catena di riforme sociali sempre maggiori e progressive dall'ordinamento odierno della società immediatamente a quello socialista. Ma questa è una fantasia; secondo la natura delle cose la catena si spezza assai presto e le vie che il movimento può seguire dopo quel punto sono molteplici.

Il risultato più vicino e probabile che ne consegue è un cambiamento di direzione nella tattica per rendere, possibili con tutti i mezzi i risultati pratici della lotta, le riforme sociali. Il netto, inconciliabile punto di vista classista, che ha senso soltanto in considerazione di uno sforzo per la conquista del potere politico, diventerebbe sempre più un semplice ostacolo non appena lo scopo principale fosse rappresentato da risultati pratici immediati. Il prossimo passo è dunque una "politica di compensazione" - in buon tedesco una politica di mercato di vacche - e un atteggiamento conciliante, diplomaticamente astuto. Ma il movimento non può rimanere fermo a lungo. Ora, poiché la riforma sociale nel mondo capitalistico è una noce vuota e tale rimarrà sempre, comunque si cambi la tattica, il passo successivo è logicamente la delusione anche sulle riforme sociali, cioè il porto tranquillo dove ora se ne stanno tranquillamente all'àncora i professori Schmoller e compagni, i quali sulle acque delle riforme sociali hanno studiato tutto il mondo grande e piccolo, per lasciare infine che tutto vada come Dio vuole [*10]. Il socialismo, pertanto, non è il risultato che nasca di per sé e in ogni circostanza dalla lotta quotidiana della classe operaia. Esso risulta soltanto dalle contraddizioni sempre più acute dell'economia capitalistica e dal riconoscimento da parte della classe operaia della necessità assoluta della sua soppressione in virtù di un rivolgimento sociale. Quando si neghi una cosa e si rifiuti l'altra, come fa il revisionismo, il movimento operaio si riduce senz'altro a un semplice giuoco con i sindacati e le riforme sociali e in modo affatto naturale si arriva in ultima analisi all'abbandono del punto di vista di classe.

Queste conseguenze si rendono evidenti anche quando si considera la teoria revisionistica ancora da un altro lato e ci si pone la domanda: qual è il carattere generale di questa concezione? E' chiaro che il revisionismo non è basato sul terreno dei rapporti capitalistici e non nega, come fanno gli economisti borghesi, le loro contraddizioni. Nella sua teoria esso parte piuttosto, come la concezione marxista, dalla premessa dell'esistenza di tali contraddizioni. D'altra parte però - e questo è tanto il nocciolo della sua concezione in generale quanto la sua differenza sostanziale dalla concezione socialdemocratica finora abituale - nella sua teoria esso non si basa sul superamento di queste contraddizioni attraverso il loro sviluppo conseguente.

La sua teoria sta a metà tra i due estremi, non vuole portare a completa maturità le contraddizioni capitalistiche e, quand'esse hanno raggiunto il culmine toglierle di mezzo con un rivolgimento rivoluzionario, ma togliere loro le punte, smussarle. Così la mancanza delle crisi e l'organizzazione degli imprenditori smussano la contraddizione tra la produzione e lo scambio; il miglioramento della situazione del proletariato e la sopravvivenza del medio ceto quella tra capitale e lavoro; il controllo sempre crescente e la democrazia quella tra Stato di classe e società.

Naturalmente nemmeno la tattica corrente della socialdemocrazia consiste nell'attendere lo sviluppo delle contraddizioni capitalistiche fino all'acme e un loro mutamento repentino soltanto allora. Al contrario, ci basiamo semplicemente sulla direzione ormai riconosciuta dello sviluppo ma poi nella lotta politica portiamo all'estremo le sue conseguenze e in ciò sta l'essenza di ogni tattica rivoluzionaria in generale. Così per esempio la socialdemocrazia combatte le dogane ed il militarismo in tutti i tempi, non solamente quando si è rivelato completamente il loro carattere reazionario. Ma Bernstein nella sua tattica si basa in generale non sull'ulteriore sviluppo p sull'acutizzazione delle contraddizioni capitalistiche, bensì sulla loro attenuazione. Egli stesso lo ha rilevato nel modo più evidente, parlando di un "adattamento" l'economia capitalistica. Dove troverebbe giustificazione un simile modo di vedere? Tutte le contraddizioni della società odierna sono semplici conseguenze del modo dì produzione capitalistico. Quando si ammetta che questo modo di produzione si sviluppi ulteriormente nella direzione seguita finora, devono ulteriormente svilupparsi tutte le conseguenze che gli sono indissolubilmente unite, e le contraddizioni devono acuirsi ed accentuarsi anziché attenuarsi. Perché si verificasse quest'ultimo caso, bisognerebbe porre al contrario come condizione che il modo di produzione capitalistico stesso venga ostacolato nel suo sviluppo. In una parola il presupposto più generale della teoria di Bernstein è un arresto dello sviluppo capitalistico.

Ma con ciò la teoria si condanna da sé, e doppiamente. Perché anzitutto essa dimostra il suo carattere soltanto utopistico in rapporto allo scopo finale socialista - è evidente a priori che uno sviluppo capitalistico stagnante non può condurre, alla trasformazione socialista - e con ciò abbiamo la conferma della nostra concezione delle conseguenze pratiche della teoria. In secondo luogo essa rivela il suo carattere reazionario in rapporto al rapido sviluppo capitalistico che in realtà sta compiendosi. Ed ora si impone la domanda: come si può spiegare o meglio caratterizzare la concezione di Bernstein di fronte a questo reale sviluppo capitalistico?

Che le premesse economiche dalle quali parte Bernstein nella sua analisi delle condizioni sociali odierne la sua teoria dell"adattamento" capitalistico - siano infondate, crediamo di aver dimostrato nella prima parte. Vedemmo allora che né il credito né i cartelli possono essere considerati come "mezzi di adattamento" dell'economia capitalistica, né la temporanea assenza di crisi e la sopravvivenza del medio ceto possono essere considerati come sintomi dell'adattamento capitalistico. Ma alla base di tutti i suddescritti particolari della teoria dell'adattamento - prescindendo dalla loro reale falsità - sta ancora un tratto caratteristico comune. Questa teoria non concepisce tutti i fenomeni della vita economica presi in considerazione, come elementi organici dello sviluppo capitalistico complessivo, ma avulsi da questi rapporti, come fenomeni a se stanti, come disjecta membra (parti staccate) di una macchina priva di vita. Cosi per esempio la concezione dell'azione del credito come mezzo di adattamento. Quando si consideri il credito come il più alto gradino naturale dello scambio, in correlazione con tutte le contraddizioni inerenti allo scambio capitalistico, è impossibile vedere in esso un "mezzo di adattamento" meccanico, quasi fosse qualche cosa di estraneo al processo di scambio, allo stesso modo come non si possono considerare "mezzi di adattamento" il denaro ,stesso, le merci, il capitale. Il credito è, senza alcuna differenza nei confronti dei denaro, merci e capitale, un, elemento organico dell'economia capitalistica a un determinato grado di sviluppo e a questo livello forma, esattamente come gli altri elementi, una ruota indispensabile del suo ingranaggio, come pure uno strumento della sua distruzione, in quanto rafforza le sue contraddizioni interne.

Lo stesso vale ugualmente per i cartelli e per i mezzi di comunicazione perfezionati.

La stessa concezione meccanica e non dialettica si riconosce nel modo con cui Bernstein considera l'assenza delle crisi come un sintomo dell'"adattamento" dell'economia capitalistica. Per lui le crisi 'sono semplicemente perturbazioni del meccanismo economico e quando mancano è evidente che il meccanismo può funzionare regolarmente. Ma le crisi in realtà non sono "perturbazioni" in senso proprio, o piuttosto sono perturbazioni, senza le quali però l'economia capitalistica non potrebbe assolutamente sussistere. t un fatto che le crisi, in poche parole, rappresentano i soli mezzi possibili, e perciò normalissimi, di risolvere periodicamente su base capitalistica il dissidio tra l'illimitata capacità di espansione della produzione ed i limiti ristretti del mercato di smercio, e quindi anche le crisi sono fenomeni organici inscindibili dall'economia capitalistica complessiva.

Se la produzione capitalistica progredisse "senza perturbazioni" andrebbe incontro a pericoli maggiori delle crisi stesse. Tale è infatti la caduta costante del tasso di profitto, derivante non dalla contraddizione tra produzione e smercio, ma dallo sviluppo della produttività del lavoro stesso, che ha la pericolosissima tendenza a rendere impossibile la produzione a tutti i capitali piccoli e medi e a porre così limiti alla formazione nuova ed al progresso degli impieghi di capitale. Proprio le crisi, che traggono origine dallo stesso processo da cui derivano le altre conseguenze, svalutando periodicamente il capitale, ribassando il prezzo dei mezzi di produzione e paralizzando una parte del capitale attivo, determinano in pari tempo l'aumento dei profitti e così fanno posto a nuovi impieghi di capitale e quindi a nuovi progressi della produzione. In questo senso esse appaiono come mezzi atti ad attizzare e ravvivare sempre da capo il fuoco dello sviluppo capitalistico e la loro assenza, non limitata a determinati momenti dello sviluppo del mercato mondiale, come noi l'ammettiamo, bensì definitiva, non farebbe fiorire l'economia capitalistica, come pensa Bernstein, ma l'affogherebbe addirittura in un pantano. Nel suo modo di pensare meccanico, denunciato da tutta la teoria dell'adattamento, Bernstein trascura completamente l'ineluttabilità tanto delle crisi quanto dei nuovi impieghi periodicamente ricorrenti di piccoli e medi capitali, per cui a costante rinascita del piccolo capitale sembra a lui segno dell'arresto capitalistico e non, com'è in realtà, del normale sviluppo capitalistico.

Esiste tuttavia un punto di vista dal quale tutti i fenomeni considerati si presentano realmente così come li concepisce la "teoria dell'adattamento" ed è precisamente il punto di vista del singolo capitalista, come arrivano alla sua coscienza i fatti della vita economica, deformati dalle leggi della concorrenza. Il singolo capitalista anzitutto vede realmente ogni elemento organico dell'insieme economico come un tutto a se stante ed inoltre vede questi fenomeni, a seconda del modo con cui agiscono su di lui, singolo capitalista, come semplici "perturbazioni" o semplici "mezzi di adattamento". Per il singolo capitalista le crisi sono realmente semplici perturbazioni e la loro mancanza gli garantisce una vita più lunga; per lui ugualmente il credito è un mezzo di "adattare" le sue forze produttive insufficienti alle esigenze del mercato, per lui infine un cartello, del quale entra a far parte, elimina veramente l'anarchia della produzione.

In una parola la teoria dell'adattamento di Bernstein non è altro che una generalizzazione teorica del modo di vedere del singolo capitalista. Ma che altro è questo modo di vedere, esposto in modo teorico, se non l'essenza e la caratteristica dell'economia borghese volgare? Tutti gli errori economici di questa scuola poggiano appunto sull'equivoco per cui i fenomeni della concorrenza, visti attraverso gli occhi del singolo capitalista, vengono scambiati per fenomeni dell'economia capitalistica nel suo complesso. E come fa Bernstein per il credito, così l'economia volgare considera ancora p. es. il denaro come un geniale "mezzo di adattamento" alle necessità dello scambio e cerca anche negli stessi fenomeni capitalistici un contravveleno contro i mali capitalistici, crede, d'accordo con Bernstein, alla possibilità di regolare l'economia capitalistica e infine sbocca anch'essa, come in definitiva la teoria di Bernstein, in un'attenuazione delle contraddizioni capitalistiche e in una cicatrizzazione delle ferite capitalistiche. cioè in altre parole in un sistema reazionario, anziché rivoluzionario, e quindi in un'utopia.

La teoria revisionistica nel suo complesso si può dunque caratterizzare nel modo seguente: è una teoria del ristagno socialistico, motivata in termini di economia volgare con una teoria del ristagno capitalistico.

 

Note

*. Recensione alla serie di articoli di Bernstein, Problemi del socialismo, in Neue Zeit, 1897-98. Estratto dalla Leipziger Volkszeitung 1898.

1. Allusione allo sciopero degli operai metallurgici londinesi del 1897 per la giornata lavorativa di otto ore. Gli industriali risposero con la serrata, ciò che provocò lo sciopero generale metallurgico in tutta l'Inghilterra durato ben 30 settimane e finito con la sconfitta degli operai.

2. Nel 1896 fu abolito in Sassonia il suffragio universale e sostituito con un sistema elettorale di tre classi, proprio allo scopo di estromettere la rappresentanza parlamentare socialdemocratica.

*1. Neue Zeit, 1897-98, n. 18, p. 555 (n.d.a.).

*2. Neue Zeit, 1897-98, n. 18, p. 554 (n.d.a.).

3. In inglese nel testo.

*3. In una nota al III libro del Capitale [trad. it. Roma, 1970, 111. pp. 157-158] F. Engels scrisse nel 1894: "Dal tempo in cui quanto sopra è stato scritto (1865), la concorrenza è considerevolmente alimentata sul mercato mondiale in conseguenza del rapido sviluppo dell'industria in tutti i paesi civili, particolarmente in America e in Germania. Il fatto che le moderne forze di produzione, nel loro rapido e gigantesco incremento, sopravanzano ogni giorno di più le leggi dello scambio capitalistico delle merci - nell'ambito delle quali esse avrebbero dovuto operare - s'impone oggi sempre più alla coscienza degli stessi capitalisti. Ciò viene dimostrato in special modo da due sintomi: in primo luogo dalla nuova, generale mania protezionista, che differisce dal vecchio protezionismo soprattutto in quanto protegge principalmente proprio gli articoli suscettibili di esportazione; in secondo luogo dai cartelli (trusts), costituiti da fabbricanti di intere, grandi categorie di produzione, tendenti a regolare la produzione stessa, e quindi i prezzi e i profitti. E' evidente che tali esperimenti sono possibili soltanto quando la situazione economica è relativamente favorevole; la prima crisi li travolge, dimostrando che. anche se è necessario che la produzione sia regolata non è certo la classe capitalistica che è adatta ad assolvere tale compito. Frattanto, questi cartelli hanno il solo scopo di far sì che i piccoli siano divorati dai grandi anche più rapidamente di quanto è avvenuto finora" (n.d.a.).

*4. K. MARX, Das Kapital, III, 1, p. 241 [trad. it. III, p. 312 (n.d.a.).

*5. Vorwärts del 20 febbraio 1898, rassegna letteraria Noi crediamo di poter considerare le opinioni di Conrad Schmidt in connessione con quelle di Bernstein, tanto più che Bernstein non rifiutò in alcun modo il commento delle sue resi apparso nel Vorwärts (n.d.a.).

*6. Webb, Theorie und Praxis der englischen Gewerkvereine. 2 Bd pp. 100 sgg. (n.d.a.).

*7. Ivi, pp. 115 sgg.

*8. Ivi, p. 115 (n.d.a).

*9. K. MARX, Das Kapita. III, 1, p. 216 [trad. it. III, p. 2871 (n.d.a.).

4. I versi di Goethe (nella dedica del Faust) sono alla prima anziché alla terza persona.

*10. Nell'anno 1872 i professori Wagner, Schmoller, Brentano ed altri tennero un congresso ad Eisenach, nel quale con grande strepito e molto rumore proclamarono che il loro scopo era l'introduzione di riforme sociali per la protezione della classe lavoratrice. Gli stessi signori chiamati ironicamente dal liberale Oppenheim "socialisti della cattedra fondarono subito dopo la "Società per la riforma sociale". Già pochi anni dopo, quando si riacutizzò la lotta con" la socialdemocrazia, i luminari del "socialismo della cattedra" come deputati al Reichstag votarono per la proroga della legge contro i socialisti. Del resto tutta l'attività della società consiste in adunanze generali annuali, durante le quali vengono lette alcune relazioni professionali su temi diversi; inoltre furono pubblicati dalla stessa società più di 100 grossi volumi su questioni economiche. Per le riforme sociali i professori, che sono intervenuti anche in favore dei dazi protettori, dei militarismo, ecc., non mossero un dito. Da ultimo la società ha abbandonato addirittura le riforme sociali e si occupa dell'argomento delle crisi, dei cartelli, e così via (n.d.a.).

 


Ultima modifica 08.09.2000