Manoscritti economico-filosofici del 1844
Karl Marx(1844)

Il lavoro estraneato



[XXII] Noi siamo partiti dai presupposti dell'economia politica. Abbiamo accettato la sua lingua e le sue leg­gi. Abbiamo preso in considerazione la proprietà privata, la separazione tra lavoro, capitale e terra, ed anche tra salario, profitto del capitale e rendita fondiaria, co­me pure la divisione del lavoro, la concorrenza, il con­cetto del valore di scambio, ecc. Partendo dalla stessa economia politica, e valendoci delle sue stesse parole, abbiamo mostrato che l'operaio decade a merce, alla più misera delle merci, che la miseria dell'operaio sta in rapporto inverso con la potenza e la quantità della,sua,pro­duzione, che il risultato necessario della concorrenza è l'accumulazione del capitale in poche mani, e quindi la pili terribile ricostituzione del monopolio, che infine scompare la differenza tra capitalista e proprietario fon­diario, cosi come scompare la differenza tra contadino e operaio di fabbrica, e tutta intera la società deve scin­dersi nelle due classi dei proprietari e degli operai senza
proprietà. L'economia politica parte dal fatto della proprietà pri­vata. Ma non ce la spiega. Coglie il processo materiale della proprietà privata quale si rivela nella realtà, ma lo coglie in formule generali, astratte, che hanno per essa il valore di leggi. Essa non comprende queste leggi, cioè non riflette in qual modo esse derivino dall'essenza del­la proprietà privata. L'economia politica non ci dà nes­suna spiegazione sul fondamento della divisione di capitale e lavoro, di capitale e terra. Quando, per esempio, determina il rapporto del salario col profitto del capita­le, l'interesse del capitalista vale per essa come la ragione suprema; cioè essa presuppone ciò che deve spiegare. Parimenti interviene dappertutto la concorrenza. Ma questa viene spiegata in base a circostanze esterne. L'e­conomia politica non c'insegna nulla sul fatto che que­ste circostanze esterne, apparentemente accidentali, so­no null'altro che l'espressione di uno svolgimento ne­cessario. Abbiamo visto come lo stesso scambio le ap­paia come un fatto accidentale. Gli unici ingranaggi che l'economia politica mette in moto sono l'avidità di dena­ro e la guerra tra coloro che ne sono affetti, la concorrenza.
Proprio perché l'economia politica non comprende la connessione del movimento storico, si è potuto di nuo­vo contrapporre, ad esempio, la dottrina della concor­renza a quella del monopolio, la dottrina della libertà di lavoro a quella della corporazione, la dottrina della di­visione del possesso fondiario a quella della grande proprietà fondiaria; e infatti concorrenza, libertà di lavoro, divisione del possesso fondiario sono state svolte e comprese soltanto come conseguenze casuali, volontarie, violente del monopolio, della corporazione e della proprietà feudale, e non come conseguenze necessarie, inevitabili, naturali.
Quindi, ora noi dobbiamo comprendere la connes­sione essenziale che corre tra la proprietà privata, l'avi­dità di denaro, la separazione tra lavoro, capitale e pro­prietà fondiaria, tra scambio e concorrenza, tra valoriz­zazione e svalorizzazione dell'uomo, tra monopolio e concorrenza, ecc., la connessione di tutto questo pro­cesso di estraniazione col sistema monetario.
Non trasferiamoci, come fa l'economista quando vuol dare una spiegazione, in uno stato originario fantastico. Un tale stato originario non spiega nulla. Non fa che rin­viare il problema in una lontananza grigia e nebulosa. Presuppone in forma di fatto, di accadimento, ciò che deve dedurre, cioè il rapporto necessario tra due fatti, per esempio tra la divisione del lavoro e lo scambio. Allo stesso modo la teologia spiega l'origine del male col peccato originale, cioè presuppone come un fatto, in forma storica, ciò che deve spiegare.
Noi partiamo da un fatto dell'economia politica, da un fatto presente.
L'operaio diventa tanto più povero quanto maggiore è la ricchezza che produce, quanto più la sua produzione cresce di potenza e di estensione. L'operaio diventa una merce tanto più vile quanto più grande è la quantità di merce che produce. La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose. Il lavoro non produce soltanto merci; produce se stesso e l'operaio come una merce, e proprio nella stessa proporzione in cui produce in generale le merci.
Questo fatto non esprime altro che questo: l'oggetto che il lavoro produce, il prodotto del lavoro, si contrappone ad esso come un essere estraneo, come una potenza indipendente da colui che lo produce. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, è diventato una cosa, è l'oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare nello stadio dell'economia privata come un annullamento dell'operaio, l'oggettivazione appare come perdita e asservimento dell'oggetto, l'appropriazione come estraniazione, come alienazione.
La realizzazione del lavoro si presenta come annullamento in tal maniera che l'operaio viene annullato sino a morire di fame. L'oggettivazione si presenta come perdita dell'oggetto in siffatta guisa che l'operaio è derubato degli oggetti più necessari non solo per la vita, ma anche per il lavoro. Già, il lavoro stesso diventa un oggetto, di cui egli riesce a impadronirsi soltanto col più grande sforzo e con le più irregolari interruzioni. L'appropriazione dell'oggetto si presenta come estraniazione in tale modo che quanti più oggetti l'operaio produce, tanto meno egli ne può possedere e tanto più va a finire sotto la signoria del suo prodotto, del capitale.

Tutte queste conseguenze sono implicite nella determinazione che l'operaio si viene a trovare rispetto riprodotto del suo lavoro come rispetto ad un oggetto estraneo. Infatti, partendo da questo presupposto è chiaro che: quanto più l'operaio si consuma nel lavoro, tanto più potente diventa il mondo estraneo, oggettivo, che egli si crea dinanzi, tanto più povero diventa egli stesso, e tanto meno il suo mondo interno gli appartiene. Lo stesso accade nella religione. Quante più cose l'uomo trasferisce in Dio, tanto meno egli ne ritiene in se stesso. L'operaio ripone la sua vita nell'oggetto; ma d'ora in poi la sua vita non appartiene più a lui, ma all'oggetto. Quanto più grande è dunque questa attività, tanto più l'operaio è privo di oggetto. Quello che è il prodotto del suo lavoro, non è egli stesso. Quanto più grande è dunque questo prodotto, tanto più piccolo è egli stesso. L'alienazione dell'operaio nel suo prodotto significa non solo che il suo lavoro diventa un oggetto, qualcosa che esiste all' esterno, ma che esso esiste fuori di lui, indipendente da lui, a lui estraneo, e diventa di fronte a lui una potenza per se stante; significa che la vita che egli ha dato all'oggetto, gli si contrappone ostile ed estranea.
[XXIII] Ed ora consideriamo più da vicino l'oggettivazione, la produzione dell'operaio, e in essa l'estraniazione, là perdita dell'oggetto, del suo prodotto.
L'operaio non può produrre nulla senza la natura, senza il mondo esterno sensibile. Questa è la materia su cui si realizza il suo lavoro, su cui il suo lavoro agisce, dal quale e per mezzo del quale esso produce.
Ma come la natura fornisce al lavoro i mezzi di sussistenza, nel senso che il lavoro non può sussistere senza oggetti su cui applicarsi; cosi essa, d'altra parte, fornisce pure i mezzi di sussistenza in senso più stretto, cioè i mezzi per il sostentamento fisico dello stesso operaio.
Quindi quanto più l'operaio si appropria col proprio lavoro del mondo esterno, della natura sensibile, tanto più egli si priva dei mezzi di sussistenza nella seguente duplice direzione: prima di tutto, per il fatto che il mondo esterno cessa sempre più di essere un oggetto appartenente al suo lavoro, un mezzo di sussistenza del suo lavoro, e poi per il fatto che lo stesso mondo esterno cessa sempre più di essere un mezzo di sussistenza nel senso immediato, cioè un mezzo per il suo sostentamento fisico. In questa duplice direzione, dunque, l'operaio diventa uno schiavo del suo oggetto: in primo luogo, perché egli riceve un oggetto da lavorare, cioè riceve un lavoro; in secondo luogo, perché riceve dei mezzi di sostentamento. E quindi, in primo luogo perché può esistere come operaio, e in secondo luogo perché può esistere come soggetto fisico. Il colmo di questo asservimento si ha quando egli si può mantenere come soggetto fisico soltanto in quanto è operaio ed è operaio soltanto in quanto è soggetto fisico.
(Secondo le leggi dell'economia politica, l'estraniazione dell'operaio nel suo oggetto si esprime nel fatto che quanto più l'operaio produce, tanto meno ha da consumare; quanto maggior valore produce, tanto minor valore e minore dignità egli possiede; quanto più bello è il suo prodotto, tanto più l'operaio diventa deforme; quanto più raffinato il suo oggetto, tanto più egli s'imbarbarisce; quanto più potente il lavoro, tanto più egli diventa impotente; quanto più il lavoro è spirituale, tanto più egli è diventato materiale e schiavo della natura).
L'economia politica nasconde l'estraniazione insita nell'essenza stessa del lavoro per il fatto che non considera il rapporto immediato esistente tra l'operaio (il lavoro) e la produzione. Certamente, il lavoro produce per i ricchi cose meravigliose; ma per gli operai produce soltanto privazioni. Produce palazzi, ma per l'operaio spelonche. Produce bellezza, ma per l'operaio deformità. Sostituisce il lavoro con macchine, ma ricaccia una parte degli operai in un lavoro barbarico e trasforma l'altra parte in macchina. Produce cose dello spirito, ma per l'operaio idiotaggine e cretinismo.
Il rapporto immediato esistente tra il lavoro e i suoi prodotti è il rapporto tra l'operaio e gli oggetti della sua produzione. Il rapporto che il ricco ha con gli oggetti della produzione e con la stessa produzione è soltanto una conseguenza di quel primo rapporto. E lo conferma. Considereremo quest'altro aspetto più oltre.
Quando noi dunque ci domandiamo: qual è il rapporto essenziale del lavoro ? la domanda che ci poniamo verte intorno al rapporto dell'operaio con la produzione.
Sinora abbiamo considerato l'estraniazione, l'alienazione dell'operaio da un solo lato, cioè abbiamo considerato il suo rapporto coi prodotti del suo lavoro. Ma l'estraniazione si mostra non soltanto nel risultato, ma anche nell'io della produzione, entro la stessa attività produttiva. Come potrebbe l'operaio rendersi estraneo nel prodotto della sua attività, se egli non si estraniasse da se stesso nell'atto della produzione? Il prodotto non è altro che il «resumé» dell'attività, della produzione. Quindi, se prodotto del lavoro è l'alienazione, la produzione stessa deve essere alienazione attiva, alienazione dell'attività, l'attività della alienazione. Nell'estraniazione dell'oggetto del lavoro si riassume la estraniazione, l'alienazione che si opera nella stessa attività del lavoro.
E ora, in che cosa consiste l'alienazione del lavoro?
Consiste prima di tutto nel fatto che il lavoro è esterno all'operaio, cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto, ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. Perciò l'operaio solo fuori del lavoro sì sente presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro. E a casa propria se non lavora; e se lavora non è a casa propria. Il suo lavoro quindi non è volontario, ma costretto, è un lavoro forzato. Non è quindi il soddisfacimento di un bisogno, ma soltanto un mezzo per soddisfare bisogni estranei. La sua estraneità si rivela chiaramente nel fatto che non appena vien meno la coazione fisica o qualsiasi altra coazione, il lavoro viene fuggito come la peste. Il lavoro esterno, il lavoro in cui l'uomo si aliena, è un lavoro di sacrificio di se stessi, di mortificazione. Infine l'esteriorità del lavoro per l'operaio appare in ciò che il lavoro non è suo proprio, ma è di un altro. Non gli appartiene, ed egli, nel lavoro, non appartiene a se stesso, ma ad un altro. Come nella religione, l'attività propria della fantasia umana, del cervello umano e del cuore umano influisce sull'individuo indipendentemente dall'individuo, come un'attività estranea, divina o diabolica, cosi l'attività dell'operaio non è la sua propria attività. Essa appartiene ad un altro; è la perdita di sé.
Ne viene quindi come conseguenza che l'uomo (l'operaio) si sente libero soltanto nelle sue funzioni animali, come il mangiare, il bere, il procreare, e tutt'al più ancora l'abitare una casa e il vestirsi; e invece si sente nulla più che una bestia nelle sue funzioni umane. Ciò che è animale diventa umano, e ciò che è umano diventa animale.
Certamente mangiare, bere e procreare sono anche funzioni schiettamente umane. Ma in quell'astrazione, che le separa dalla restante cerchia dell'attività umana e le fa diventare scopi ultimi ed unici, sono funzioni animali.
Abbiamo considerato l'atto dell'estraniazione dell'attività pratica dell'uomo, cioè il lavoro, da due lati. 1) Il rapporto dell'operaio col prodotto del lavoro considerato come oggetto estraneo e oppressivo. Questo rapporto è ad un tempo il rapporto col mondo esterno sensibile, con gli oggetti della natura, inteso come un mondo estraneo che gli sta di fronte in modo ostile. 2) Il rapporto del lavoro con l'atto della produzione entro il lavoro. Questo rapporto è il rapporto dell'operaio con la sua propria attività come attività estranea che non gli appartiene, l'attività come passività, la forza come impotenza, la procreazione come svirilimento, l'energia fisica e spirituale propria dell'operaio, la sua vita personale - e infatti che [altro] è la vita se non attività? - come un'attività rivolta contro di lui, da lui indipendente, e che non gli appartiene. L'estraniazione di sé, come, prima, l'estraniazione della cosa.
[XXIV] Ora dobbiamo ancora ricavare dalle due determinazioni sin qui descritte una terza determinazione del lavoro estraniato.
L'uomo è un essere appartenente ad una specie non solo perché della specie, tanto della propria quanto di quella delle altre cose, fa teoricamente e praticamente il proprio oggetto, ma anche (e si tratta soltanto di una diversa espressione per la stessa cosa) perché si comporta verso se stesso come verso la specie presente e vivente, perché si comporta verso se stesso come verso un essere universale e perciò libero.
La vita della specie, tanto nell'uomo quanto negli animali, consiste fisicamente anzitutto nel fatto che l'uomo (come l'animale) vive della natura inorganica, e quanto più universale è l'uomo dell'animale, tanto più universale è il regno della natura inorganica di cui egli vive. Le piante, gli animali, le pietre, l'aria, la luce, ecc., come costituiscono teoricamente una parte della coscienza umana, in parte come oggetti della scienza naturale, in parte come oggetti dell'arte - si tratta della natura inorganica spirituale, dei mezzi spirituali di sussistenza, che egli non ha che da apprestare per goderne e assimilarli -, cosi costituiscono anche praticamente una parte della vita umana e dell'umana attività. L'uomo vive fisicamente soltanto di questi prodotti naturali, si presentino essi nella forma di nutrimento o di riscaldamento o di abbigliamento o di abitazione, ecc. L'universalità dell'uomo appare praticamente proprio in quella universalità, che fa della intera natura il corpo inorganico dell'uomo, sia perché essa 1) è un mezzo immediato di sussistenza, sia perché 2) è la materia, l'oggetto e lo strumento della sua attività vitale. La natura è il corpo inorganico dell'uomo, precisamente la natura in quanto non è essa stessa corpo umano. Che l'uomo viva della natura vuol dire che la natura è il suo corpo, con cui deve stare in costante rapporto per non morire. Che la vita fisica e spirituale dell'uomo sia congiunta con la natura, non significa altro che la natura è congiunta con se stessa, perché l'uomo è una parte della natura.
Poiché il lavoro estraniato rende estranea all'uomo 1) la natura e 2) l'uomo stesso, la sua propria funzione attiva, la sua attività vitale, rende estranea all'uomo la specie; fa della vita della specie un mezzo della vita individuale. In primo luogo il lavoro rende estranea la vita della specie e la vita individuale, in secondo luogo fa di quest'ultima nella sua astrazione uno scopo della prima, ugualmente nella sua forma astratta ed estraniata.
Infatti il lavoro, l' attività vitale, la vita produttiva stessa appaiono all'uomo in primo luogo soltanto come un mezzo per la soddisfazione di un bisogno, del bisogno di conservare l'esistenza fisica. Ma la vita produttiva è la vita della specie. E la vita che produce la vita. In una determinata attività vitale sta interamente il carattere di una «species», sta il suo carattere specifico; e l'attività libera e cosciente è il carattere dell'uomo. La vita stessa appare soltanto come mezzo di vita.
L'animale è immediatamente una cosa sola con la sua attività vitale. Non si distingue da essa. E quella stessa. L'uomo fa della sua attività vitale l'oggetto stesso della sua volontà e della sua coscienza. Ha un'attività vitale cosciente. Non c'è una sfera determinata in cui l'uomo immediatamente si confonda. L'attività vitale cosciente dell'uomo distingue l'uomo immediatamente dall'attività vitale dell'animale. Proprio soltanto per questo egli è un essere appartenente ad una specie. O meglio egli è un essere cosciente, cioè la sua propria vita è un suo oggetto, proprio soltanto perché egli è un essere appartenente ad una specie. Soltanto perciò la sua attività è un'attività libera. Il lavoro estraniato rovescia il rapporto in quanto l'uomo, proprio perché è un essere cosciente, fa della sua attività vitale, della sua essenza soltanto un mezzo per la sua esistenza.
La creazione pratica d'un mondo oggettivo, la trasformazione della natura inorganica è la riprova che l'uomo è un essere appartenente ad una specie e dotato di coscienza, cioè è un essere che si comporta verso la specie come verso il suo proprio essere, o verso se stesso come un essere appartenente ad una specie. Certamente anche l'animale produce. Si fabbrica un nido, delle abitazioni, come fanno le api, i castori, le formiche, ecc. Solo che l'animale produce unicamente ciò che gli occorre immediatamente per sé o per i suoi nati; produce in modo unilaterale, mentre l'uomo produce in modo universale; produce solo sotto l'impero del bisogno fisico immediato, mentre l'uomo produce anche libero dal bisogno fisico, e produce veramente soltanto quando è libero da esso; l'animale riproduce soltanto se stesso, mentre l'uomo riproduce l'intera natura; il prodotto dell'animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l'uomo si pone liberamente di fronte al suo prodotto. L'animale costruisce soltanto secondo la misura e il bisogno della specie, a cui appartiene, mentre l'uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e sa ovunque predisporre la misura inerente a quel determinato oggetto; quindi l'uomo costruisce anche secondo le leggi della bellezza.
Proprio soltanto nella trasformazione del mondo oggettivo l'uomo si mostra quindi realmente come un essere appartenente ad una specie. Questa produzione è la sua vita attiva come essere appartenente ad una specie. Mediante essa la natura appare come la sua opera e la sua realtà. L'oggetto del lavoro è quindi l'oggettivazione della vita dell'uomo come essere appartenente ad una specie, in quanto egli si raddoppia, non soltanto come nella coscienza, intellettualmente, ma anche attivamente, realmente, e si guarda quindi in un mondo da esso creato. Perciò il lavoro estraniato strappando all'uomo l'oggetto della sua produzione, gli strappa la sua vita di essere appartenente ad una specie, la sua oggettività reale specifica e muta il suo primato dinanzi agli animali nello svantaggio consistente nel fatto che il suo corpo inorganico, la natura, gli viene sottratta.

Parimenti, il lavoro estraniato degradando a mezzo l'attività autonoma, l'attività libera, fa della vita dell'uomo come essere appartenente ad una specie un mezzo della sua esistenza fisica.
Per opera dell'alienazione, la coscienza, che l'uomo ha della sua specie, si trasforma quindi in ciò che la sua vita di essere che appartiene ad una specie diventa per lui un mezzo.
Il lavoro alienato fa dunque:
3) dell'essere dell'uomo, come essere appartenente ad una specie, tanto della natura quanto della sua specifica capacità spirituale, un essere a lui estraneo, un mezzo della sua esistenza individuale. Esso rende all'uomo estraneo il suo proprio corpo, tanto la natura esterna, quanto il suo essere spirituale, il suo essere umano.
4) Una conseguenza immediata del fatto che l'uomo è reso estraneo al prodotto del suo lavoro, della sua attività vitale, al suo essere generico, è l' estraniazione dell'uomo dall'uomo. Se l'uomo si contrappone a se stesso, l'altro uomo si contrappone a lui. Quello che vale del rapporto dell'uomo col suo lavoro, col prodotto del suo lavoro e con se stesso, vale del rapporto dell'uomo con l'altro uomo, ed altresì col lavoro e con l'oggetto del lavoro dell'altro uomo.
In generale, la proposizione che all'uomo è reso estraneo il suo essere in quanto appartenente a una specie, significa che un uomo è reso estraneo all'altro uomo, e altresì che ciascuno di essi è reso estraneo all'essere dell'uomo.
L'estraniazione dell'uomo, in generale ogni rapporto in cui l'uomo è con se stesso, si attua e si esprime soltanto nel rapporto in cui l'uomo è con l'altro uomo.
Dunque nel rapporto del lavoro estraniato ogni uomo considera gli altri secondo il criterio e il rapporto in cui egli stesso si trova come lavoratore.
[XXV] Abbiamo preso le mosse da un fatto dell'economia politica, dall'estraniazione dell'operaio e della sua produzione. Abbiamo espresso il concetto di questo fatto: il lavoro estraniato, alienato. Abbiamo analizzato questo concetto e quindi abbiamo analizzato semplicemente un fatto dell'economia politica.
Ora, proseguendo, vediamo come il concetto del lavoro estraniato, alienato, debba esprimersi e rappresentarsi nella realtà.
Se il prodotto del lavoro mi è estraneo, mi sta di fronte come una potenza estranea, a chi mai appartiene ?
Se un'attività che è mia non appartiene a me, ed è un'attività altrui, un'attività coatta, a chi mai appartiene ?
Ad un essere diverso da me.
Ma chi è questo essere ?
Son forse gli dèi? Certamente, in antico non soltanto la produzione principale, come quella dei tempi, ecc., in Egitto, in India, nel Messico, appare eseguita al servizio degli dèi, ma agli dèi appartiene anche lo stesso prodotto. Soltanto che gli dèi non furono mai essi stessi i soli padroni. E neppure la natura. Quale contraddizione mai sarebbe se, quanto più col proprio lavoro l'uomo si assoggetta la natura, quanto più i miracoli divini diventano superflui a causa dei miracoli dell'industria, l'uomo dovesse per amore di queste forze rinunciare alla gioia della produzione e al godimento del prodotto.
L'essere estraneo, a cui appartengono il lavoro e il prodotto del lavoro, che si serve del lavoro e gode del prodotto del lavoro, non può essere che l'uomo.
Se il prodotto del lavoro non appartiene all'operaio, e un potere estraneo gli sta di fronte, ciò è possibile soltanto per il fatto che esso appartiene ad un altro uomo estraneo all'operaio. Se la sua attività è per lui un tormento, deve essere per un altro un godimento, deve essere la gioia della vita altrui. Non già gli dèi, non la natura, ma soltanto l'uomo stesso può essere questo potere estraneo al di sopra dell'uomo.
Si ripensi ancora alla tesi sopra esposta, che il rapporto dell'uomo con se stesso è per lui un rapporto oggettivo e reale soltanto attraverso il rapporto che egli ha con gli altri uomini.
Se quindi egli sta in rapporto al prodotto del suo lavoro, al suo lavoro oggettivato come in rapporto ad un oggetto estraneo, ostile, potente, indipendente da lui, sta in rapporto ad esso in modo che padrone di questo oggetto è un altro uomo, a lui estraneo, ostile, potente e indipendente da lui. Se si riferisce alla sua propria attività come a una attività non libera, si riferisce a essa come a un'attività che è al servizio e sotto il dominio, la coercizione e il giogo di un altro uomo.
Ogni autoestraniazione dell'uomo da sé e dalla natura si rivela nel rapporto che egli stabilisce tra sé e la natura da un lato e gli altri uomini, distinti da lui, dall'altro. Perciò l'autoestraniazione religiosa appare necessariamente nel rapporto del laico col prete, oppure - trattandosi qui del mondo intellettuale - con un mediatore, ecc. Nel mondo reale pratico l'autoestraniazione può presentarsi soltanto nel rapporto reale pratico con gli altri uomini. Il mezzo, con cui avviene l'estraniazione, è esso stesso un mezzo pratico. Col lavoro estraniato l'uomo costituisce quindi non soltanto il suo rapporto con l'oggetto e con l'atto della produzione come rapporto, con forze estranee ed. ostili; ma costituisce, pure il rapporto in cui altri uomini stanno con la sua produzione e col suo prodotto, e il rapporto in cui egli sta con questi altri uomini. Come l'uomo fa della propria produzione il proprio annientamento, la propria punizione, come pure fa del proprio prodotto una perdita, cioè un prodotto che non gli appartiene, cosi pone in essere la signoria di colui che non produce, sulla produzione e sul prodotto. Come egli rende a sé estranea la propria attività, cosi rende propria all'estraneo l'attività che non gli è propria.
Abbiamo sinora considerato il rapporto soltanto dal lato dell'operaio e lo considereremo più tardi anche dal lato del non-operaio.
Dunque, col lavoro estraniato, alienato, l'operaio pone in essere il rapporto di un uomo che è estraneo e al di fuori del lavoro, con questo stesso lavoro. Il rapporto dell'operaio col lavoro pone in essere il rapporto del capitalista - o come altrimenti si voglia chiamare il padrone del lavoro - col lavoro. La proprietà privata è quindi il prodotto, il risultato, la conseguenza necessaria del lavoro alienato, del rapporto di estraneità che si stabilisce tra l'operaio, da un lato, e la natura e lui stesso dall'altro.
La proprietà privata si ricava quindi mediante l'analisi del concetto del lavoro alienato, cioè dell'uomo alienato, del lavoro estraniato, della vita estraniata, dell'uomo estraniato.
Certamente abbiamo acquisito il concetto di lavoro alienato (di vita alienata) traendolo dall'economia politica come risultato del movimento della proprietà privata. Ma con un'analisi di questo concetto si mostra che, anche se la proprietà privata appare come il fondamento, la causa del lavoro alienato, essa ne è piuttosto la conseguenza; allo stesso modo che originariamente gli dèi non sono la causa, ma l'effetto dell'umano vaneggiamento. Successivamente questo rapporto si converte in un'azione reciproca.
Solo al vertice del suo svolgimento, la proprietà privata rivela il suo segreto, vale a dire, anzitutto che essa è il prodotto del lavoro alienato, in secondo luogo che è il mezzo con cui il lavoro si aliena, è la realizzazione di questa alienazione.
Questo svolgimento getta immediatamente luce su diverse contraddizioni sinora non risolte:
1) l'economia politica prende le mosse dal lavoro inteso come l'anima propria della produzione, eppure non dà al lavoro nulla mentre dà alla proprietà privata tutto. Da questa contraddizione Proudhon ha concluso in favore del lavoro contro la proprietà privata. Ma noi invece ci rendiamo conto che questa apparente contraddizione è la contraddizione del lavoro estraniato con se stesso, e che l'economia politica non ha fatto altro che esporre le leggi del lavoro estraniato.
Quindi riconosciamo pure che salario e proprietà privata sono la stessa cosa, poiché il salario, nella misura in cui il prodotto, l'oggetto del lavoro, retribuisce il lavoro stesso, non è che una conseguenza necessaria dell'estraniazione del lavoro; e infatti nel salario anche il lavoro non appare come fine a se stesso, ma è al servizio della retribuzione. Vedremo ciò minutamente più tardi; ora tiriamo ancora soltanto alcune conseguenze [XXVI].
Un forzato aumento del salario (prescindendo da tutte le altre difficoltà, prescindendo dal fatto che essendo un'anomalia si potrebbe anche mantenere soltanto con la forza) non sarebbe altro che una migliore rimunerazione degli schiavi e non eleverebbe né all'operaio né al lavoro la loro funzione umana e la loro dignità.
Appunto l' uguaglianza dei salari, quale è richiesta da Proudhon, non fa che trasformare il rapporto dell'operaio d'oggi col suo lavoro in un rapporto di tutti gli uomini col lavoro. La società viene quindi concepita come un astratto capitalista.
Il salario è una conseguenza immediata del lavoro. estraniato, e il lavoro estraniato è la causa immediata della proprietà privata. Con l'uno deve quindi cadere anche l'altra.
2) Dal rapporto del lavoro estraniato con la proprietà privata segue inoltre che l'emancipazione della società dalla proprietà privata, ecc., dalla schiavitù si esprime nella forma politica dell'emancipazione degli operai, non già come se si trattasse soltanto di questa emancipazione, ma perché in questa emancipazione è contenuta l'emancipazione universale dell'uomo; la quale è ivi contenuta perché nel rapporto dell'operaio con la produzione è incluso tutto intero l'asservimento dell'uomo, e tutti i rapporti di servaggio altro non sono che modificazioni e conseguenze del primo rapporto.
Avendo trovato mediante l'analisi il concetto della proprietà privata partendo dal concetto del lavoro estraniato, alienato, ora possiamo col sussidio di questi due fattori sviluppare tutte le categorìe dell'economia politica, e ritroveremo in ogni categoria, come, ad esempio, lo scambio, la concorrenza, il capitale, il denaro, solo un'espressione determinata e sviluppata di questi primi concetti fondamentali.
Ma prima di prendere in considerazione questa struttura, cerchiamo di svolgere due temi:
1) Determinare l'essenza universale della proprietà privata, quale si è venuta deducendo in quanto risultato del lavoro estraniato, nel suo rapporto con la proprietà veramente umana e sociale;
2) Abbiamo accolto come un fatto l'estraniazione del lavoro, la sua alienazione, e abbiamo analizzato questo fatto. Ora domandiamo: come attiva l'uomo ad alienare, ad estraniare il proprio lavoro ? Come questa estraniazione è fondata sull'essenza dello svolgimento dell'uomo? Per la risoluzione di questo tema abbiamo già ottenuto molto, avendo trasformato il problema dell'origine della proprietà privata nel problema del rapporto del lavoro alienato con lo sviluppo storico dell'umanità. E infatti, quando si parla della proprietà privata, si crede di aver a che fare con una cosa fuori dell'uomo. Quando si parla del lavoro, si ha a che fare immediatamente con l'uomo stesso. Questa nuova impostazione del problema contiene già la sua soluzione.
1) Essenza generale della proprietà privata e suo rapporto con la proprietà veramente umana.
Il lavoro alienato si è risolto per noi in due elementi che si condizionano a vicenda, o meglio che sono soltanto due diverse espressioni di un identico rapporto. L'appropriazione si presenta come estraniazione, come alienazione, e l'alienazione come appropriazione, la condizione di straniero come la vera cittadinanza.
Abbiamo considerato un aspetto, il lavoro alienato in rapporto con l'operaio stesso, cioè il rapporto del lavoro alienato con se stesso. Quale prodotto, quale risultato necessario di questo rapporto abbiamo trovato il rapporto di proprietà del non-operaio nei confronti dell'operaio e del lavoro. La proprietà privata, intesa come l'espressione materiale, riassuntiva del lavoro alienato, abbraccia entrambi i rapporti, tanto il rapporto dell' operaio col lavoro e col prodotto del suo lavoro e col non-operaio, quanto il rapporto del non-operaio con l'operaio e col prodotto del suo lavoro.
Avendo ormai visto che in relazione all'operaio, che si appropria della natura col lavoro, l'appropriazione si presenta come estraniazione, l'attività propria come attività per un altro e come attività di un altro, la vitalità come sacrificio della vita, la produzione dell'oggetto come perdita dell'oggetto in favore di un potere estraneo, di un uomo estraneo, prendiamo ora in considerazione il rapporto che corre tra questo uomo estraneo al lavoro e all'operaio e l'operaio, il lavoro e il suo oggetto.
Primamente è da osservare che tutto ciò che nell'operaio appare come attività di alienazione, di estraniazione, appare nel non-operaio come stato di alienazione, di estraniazione.
In secondo luogo, che il comportamento pratico reale dell'operaio nella produzione e nei confronti del prodotto (come stato d'animo) appare nel non-operaio che gli sta di fronte come comportamento teoretico.
[XXVII] In terzo luogo, il non-operaio fa contro l'operaio, tutto ciò che l'operaio fa contro se stesso ma non fa contro se stesso quello che egli fa contro l'operaio.
Prendiamo a considerare più da vicino questi tre rapporti.

 


Ultima modifica 24.12.2007