Ideologia Tedesca

Capitolo III

La base reale dell'ideologia

 

1.Relazioni e forza produttiva



La più grande divisione del lavoro materiale e intellettuale è la separazione di città e campagna. L’antagonismo tra città e campagna comincia col passaggio dalla barbarie alla civiltà, dall’organizzazione in tribù allo Stato, dalla località alla nazione, e si protrae attraverso tutta la storia della civiltà fino ai nostri giorni (l’Anti Corn Law League). L’esistenza della città implica immediatamente la necessità dell’amministrazione, della polizia, delle imposte, ecc., in una parola dell’organizzazione comunale, e quindi della politica in genere. Apparve qui per la prima volta la divisione della popolazione in due grandi classi, che è fondata sulla divisione del lavoro e sugli strumenti di produzione. La città è già il fatto della concentrazione della popolazione, degli strumenti di produzione, del capitale, dei godimenti, dei bisogni, mentre la campagna fa apparire proprio il fatto opposto, l’isolamento e la separazione. L’antagonismo fra città e campagna può esistere solo nell’ambito della proprietà privata. Esso è la più crassa espressione della sussunzione dell’individuo sotto la divisione del lavoro, sotto una determinata attività che gli viene imposta; sussunzione che fa dell’uno il limitato animale cittadino, dell’altro il limitato animale campagnolo, e che rinnova quotidianamente l’antagonismo fra i loro interessi. Il lavoro è qui ancora una volta la cosa principale, il potere sopra gli individui, e fin tanto che questo esiste, deve esistere la proprietà privata. L’abolizione dell’antagonismo fra città e campagna è una delle prime condizioni della comunità, condizione che dipende a sua volta da una quantità di presupposti materiali e che non può essere realizzata dalla semplice volontà, come ciascuno può osservare a prima vista. (Queste condizioni debbono ancora essere spiegate). La separazione fra città e campagna può essere vista anche come la separazione fra capitale e proprietà fondiaria, come l’inizio di un’esistenza e di uno sviluppo del capitale indipendente dalla proprietà fondiaria, di una proprietà che ha la sua base soltanto nel lavoro e nello scambio.

Nelle città che, nel Medioevo, non erano tramandate già fatte dalla storia precedente, ma che furono formate ex novo dai servi divenuti liberi, il particolare lavoro di ciascuno era la sua unica proprietà, al di fuori del piccolo capitale che portava con sé, consistente quasi solo nello strumento di lavoro più necessario. La concorrenza dei servi fuggitivi che affluivano incessantemente nella città, la guerra incessante della campagna contro la città e, di conseguenza, la necessità di una forza militare cittadina organizzata, il legame della proprietà comune in un lavoro determinato, la necessità di edifici in comune per la vendita delle merci in un’epoca in cui gli artigiani erano contemporaneamente commerçants e la con seguente esclusione degli estranei da questi edifici, la necessità di una protezione del lavoro appreso con fatica e l’organizzazione feudale dell’intero paese furono la causa dell’unione in corporazioni dei lavoratori di ciascun mestiere. Non occorre che qui ci dilunghiamo sulle molteplici modificazioni del sistema corporativo, che sorsero attraverso i successivi sviluppi storici. La fuga dei servi nelle città continuò ininterrotta durante tutto il Medioevo. Questi servi, perseguitati nelle campagne dai loro signori, arrivavano isolatamente nelle città, dove trovavano una comunità organizzata contro la quale erano impotenti e nella quale dovevano assoggettarsi alla posizione che ad essi assegnava il bisogno del loro lavoro e l’interesse dei loro concorrenti cittadini organizzati. Questi lavoratori che arrivavano isolatamente non potevano mai costituire una forza, perché se il loro lavoro era regolato da una corporazione e doveva essere appreso, i maestri della corporazione se li sottomettevano e li organizzavano secondo il loro interesse; ovvero, se il loro lavoro non doveva essere appreso e quindi non era regolato da una corporazione ma era lavoro a giornata, essi non arrivavano mai a costituire un’organizzazione e restavano plebe disorganizzata. La necessità del lavoro salariato nelle città creò la plebe.

Queste città erano delle vere «associazioni», provocate dal bisogno immediato, dalla preoccupazione di proteggere la proprietà e di moltiplicare i mezzi di produzione e i mezzi di difesa dei singoli membri. La plebe di queste città, per essere composta di individui tra loro estranei, giunti isolatamente, disorganizzati e contrapposti a una forza organizzata, equipaggiata militarmente, che li sorvegliava gelosamente, era priva di ogni potere. In ciascun mestiere i garzoni e gli apprendisti erano organizzati nel modo che meglio rispondeva all’interesse dei maestri; il rapporto patriarcale in cui essi si trovavano con i maestri dava a questi un doppio potere: da una parte nella loro influenza diretta sull’intera vita dei garzoni; d’altra parte perché per i garzoni che lavoravano presso lo stesso maestro questi rapporti rappresentavano un vero legame, che li teneva uniti di contro ai garzoni degli altri maestri e li separava da essi; infine i garzoni erano legati all’ordinamento esistente se non altro per l’interesse che avevano a diventare essi stessi maestri. Quindi, mentre la plebe arrivava almeno a compiere delle sommosse contro l’intero ordine cittadino, che però restavano affatto inefficaci a causa della sua impotenza, i garzoni giungevano soltanto a piccole ribellioni all’interno delle singole corporazioni, com’è nella natura stessa del regime corporativo. Le grandi sollevazioni del Medioevo partirono tutte dalla campagna, ma restarono ugualmente senza alcun effetto per la dispersione e per la conseguente rozzezza dei contadini. Nelle città la divisione del lavoro tra le singole corporazioni era ancora assai poco sviluppata e all’interno delle corporazioni stesse, fra i singoli lavoratori, non lo era affatto. Ogni lavoratore doveva essere abile in tutto un ciclo di lavoro, doveva saper fare tutto ciò che andava fatto con i suoi strumenti; le relazioni limitate e gli scarsi collegamenti tra le singole città, la rarità della popolazione e la limitatezza dei bisogni non consentiva il sorgere di una divisione del lavoro più spinta, e perciò chiunque voleva diventare maestro doveva essere completamente padrone del suo mestiere. Per questo negli artigiani medievali si trova ancora un interesse per il proprio particolare lavoro e per l’abilità che poteva elevarsi fino ad un certo, limitato, senso artistico. Per questo, però, ogni artigiano medievale era interamente preso dal suo lavoro, aveva con esso un rapporto di soddisfatto asservimento ed era sussunto sotto di esso assai più del lavoratore moderno, per il quale il suo lavoro è indifferente. In queste città il capitale era un capitale naturale, che consisteva nell’abitazione, negli strumenti del mestiere e nella clientela naturale, ereditaria, e non essendo realizzabile, per le relazioni non ancora sviluppate e per la mancanza di circolazione, doveva essere trasmesso di padre in figlio. Questo capitale non era valutabile in denaro, come quello moderno, per il quale è indifferente l’essere investito in questa o in quella cosa; esso era invece direttamente legato al lavoro determinato del possessore, inseparabile da esso, e quindi era un capitale connesso con un ordine sociale.

La successiva estensione della divisione del lavoro fu la separazione di produzione e relazioni commerciali, la formazione di una classe speciale di commercianti, separazione che nelle città storicamente tramandate era già stata trasmessa (fra l’altro con gli ebrei) e che in quelle di nuova formazione apparve ben presto. Con ciò era data la possibilità di comunicazioni commerciali che oltrepassavano la cerchia più immediata, possibilità la cui realizzazione dipendeva dai mezzi di comunicazione esistenti, dallo stato della sicurezza pubblica nelle campagne, dipendente dalle condizioni politiche (è noto che durante tutto il Medioevo i mercanti viaggiavano in carovane armate), e dai bisogni più o meno rozzi o evoluti, condizionati caso per caso dal grado di civiltà, del territorio accessibile agli scambi. Col traffico costituito in una classe particolare, con l’estensione. del commercio, da parte dei mercanti, al di là dei dintorni immediati della città, appare immediatamente un’influenza reciproca fra produzione e scambio. Le città entrano in collegamento reciproco, nuovi strumenti vengono portati da una città nell’altra, e la divisione fra produzione e scambio provoca presto una nuova divisione della produzione fra le singole città, ciascuna delle quali ben presto sfrutta un ramo d’industria predominante. La limitazione iniziale alla località comincia a poco a poco ad essere eliminata.

Nel Medioevo in ogni città i cittadini erano costretti ad unirsi contro la nobiltà delle campagne per difendere la pelle; l'estensione del commercio, lo stabilirsi delle comunicazioni conduceva le singole città a conoscere altre città che avevano irto trionfare gli stessi interessi lottando contro la stessa opposizione. Dalle numerose borghesie locali delle singole città sorse assai lentamente la classe borghese. Attraverso l'opposizione contro le condizioni esistenti e attraverso il modo di lavoro da esse condizionato, le condizioni di vita del singolo borghese diventarono insieme condizioni che erano comuni a tutti i borghesi e indipendenti da ciascun individuo singolo. I borghesi avevano creato queste condizioni in quanto si erano svincolati dai legami feudali, ed erano stati creati da esse in quanto erano determinati dalla loro opposizione contro il sistema feudale preesistente. Con lo stabilirsi dei collegamenti delle singole città queste condizioni comuni si svilupparono per diventare condizioni di classe. Le stesse condizioni, la stessa opposizione, gli stessi interessi dovevano far sorgere in complesso anche gli stessi costumi dappertutto. La borghesia stessa non si sviluppa che a poco a poco insieme con le sue condizioni, si scinde poi in varie frazioni sulla base della divisione del lavoro e infine assorbe in sé tutte le classi possidenti preesistenti (mentre trasforma in una nuova classe, il proletariato, la maggioranza dei non possidenti che prima esistevano e una parte delle classi fino allora possidenti) nella misura in cui tutta la proprietà preesistente è trasformata in capitale industriale o commerciale. I singoli individui formano una classe solo in quanto debbono condurre una lotta comune contro un'altra classe; per il resto essi stessi si ritrovano l'uno di contro all'altro come nemici, nella concorrenza. D'altra parte la classe acquista a sua volta autonomia di contro agli individui, cosicché questi trovano predestinate le loro condizioni di vita, hanno assegnata dalla classe la loro posizione nella vita e con essa il loro sviluppo personale, e sono sussunti sotto di essa. Questo fenomeno è identico alla sussunzione dei singoli individui sotto la divisione del lavoro e può essere eliminato soltanto mediante il superamento della proprietà privata e del lavoro stesso. Abbiamo già accennato più volte come questa sussunzione degli individui sotto la classe si sviluppi in pari tempo in una sussunzione sotto idee dì ogni genere, ecc.

Dipende unicamente dall’estensione delle relazioni commerciali se le forze produttive acquisite in una località, soprattutto le invenzioni, vadano o no perdute per lo sviluppo successivo. Fin tanto che non esistono relazioni che oltrepassino le vicinanze immediate, ogni invenzione deve essere fatta separatamente in ciascuna località, e avvenimenti puramente accidentali, come l’irruzione di popoli barbari o persino le consuete guerre, sono sufficienti per costringere un paese con forze produttive e bisogni sviluppati a ricominciare dal principio. Agli inizi della storia ciascuna invenzione doveva essere rifatta ogni giorno e in ogni località indipendentemente. Quanto poco le forze produttive perfezionate siano al sicuro da una completa scomparsa, anche in presenza di un commercio relativamente assai esteso, è dimostrato dai fenici, le cui invenzioni andarono perdute per la maggior parte, e per lungo tempo, in seguito all’eliminazione di quel popolo dal commercio, alla conquista di Alessandro e al declino che ne seguì. Altrettanto può dirsi, per esempio, per la pittura su vetro del Medioevo. Solo quando le relazioni si sono estese su scala mondiale ed hanno per base la grande industria, quando tutte le nazioni sono trascinate nella lotta della concorrenza, la durata delle forze produttive acquisite è assicurata.

La divisione del lavoro fra le diverse città ebbe come prima conseguenza il sorgere delle manifatture, rami di produzione scaturiti dal sistema corporativo. Il primo fiorire delle manifatture — in Italia e più tardi nelle Fiandre — ebbe come presupposto storico il commercio con nazioni straniere. In altri paesi — Inghilterra e Francia, per esempio — le manifatture si limitarono inizialmente al mercato interno. Oltre quelli indicati, le manifatture avevano come presupposto una già progredita concentrazione della popolazione — soprattutto nelle campagne — e del capitale, che cominciava ad accumularsi nelle mani di pochi, parte nelle corporazioni, nonostante i regolamenti corporativi, parte presso i commercianti.

Quel lavoro che presupponeva fin da principio una macchina, sia pure nella forma più rudimentale, si dimostrò ben presto come il più capace di sviluppo. La tessitura, che fino allora era esercitata in campagna dai contadini come attività secondaria, per procurar il vestiario occorrente, fu il primo lavoro che in seguito all’estensione del commercio ebbe impulso e ulteriore sviluppo. La tessitura fu la prima manifattura e restò la principale. La crescente domanda di stoffe, dovuta all’aumento della popolazione, l’incipiente accumulazione e mobilizzazione del capitale naturale grazie all’accelerata circolazione, il bisogno di lusso che ciò provocava e che era favorito in genere dal progressivo estendersi del commercio, dettero alla tessitura un impulso quantitativo e qualitativo che la strappò alla forma di produzione fino allora esistente. Accanto ai contadini che tessevano per il proprio consumo, che continuavano ad esistere ed esistono ancora, sorse nelle città una classe nuova di tessitori i cui tessuti erano destinati all’intero mercato interno e per lo più anche ai mercati stranieri.

La tessitura, lavoro che nella maggior parte dei casi richiede poca abilità e che si suddivide presto in un’infinità di rami, per sua natura riluttava assolutamente ai vincoli della corporazione. La tessitura fu quindi generalmente esercitata senza organizzazione corporativa anche in villaggi e borgate commerciali, i quali diventarono gradualmente città e anche, ben presto, le città più fiorenti di ciascun paese. Con la manifattura svincolata dalla corporazione mutarono immediatamente anche i rapporti di proprietà. Il primo passo avanti, rispetto al capitale naturale degli ordini sociali, fu segnato dalla comparsa dei commercianti, il cui capitale nacque subito come capitale mobile, capitale nel senso moderno per quel tanto che se ne può parlare rispetto alle condizioni di quell’epoca. Il secondo passo avanti si ebbe con la manifattura, la quale a sua volta mobilizzò una massa di capitale naturale e accrebbe in genere la massa del capitale mobile di contro al capitale naturale. La manifattura diventò in pari tempo un rifugio per i contadini contro le corporazioni che li escludevano o li pagavano male, così come prima le città corporative erano state un rifugio per i contadini contro i proprietari fondiari che li opprimevano.

Contemporaneamente all’inizio delle manifatture si ebbe un periodo di vagabondaggio, provocato dalla scomparsa delle compagnie al seguito dei feudatari, dallo scioglimento degli eserciti che si erano raccolti e che avevano servito i re contro i vassalli, dal miglioramento dell’agricoltura e dalla trasformazione in pascolo di grandi estensioni di terreno arativo. Da ciò già appare come questo vagabondaggio sia precisamente in rapporto con la dissoluzione del feudalesimo. Già nel tredicesimo secolo appaiono epoche isolate con questi caratteri, ma in forma generale e permanente questo vagabondaggio si manifesta solo con la fine del quindicesimo e con l’inizio del sedicesimo secolo. Questi vagabondi, i quali erano talmente numerosi che tra l’altro Enrico VIII d’Inghilterra ne fece impiccare 72.000, erano indotti a lavorare solo a prezzo di grandi difficoltà, se spinti da un’estrema miseria e soltanto dopo lunga resistenza. Il rapido fiorire delle manifatture, specialmente in Inghilterra, a poco a poco li assorbì. Con la manifattura le varie nazioni entrarono in un rapporto di concorrenza, nella lotta commerciale che fu combattuta con guerre, dazi protettivi e proibizioni, laddove prima le nazioni, quando erano in relazione, avevano praticato tra loro pacifici scambi. Da questo momento in poi il commercio ha importanza politica.

Con la manifattura fu in pari tempo introdotto un diverso rapporto fra lavoratore e datore di lavoro. Nelle corporazioni sussisteva il rapporto patriarcale fra garzoni e maestro; nella manifattura subentrò in suo luogo il rapporto di denaro fra lavoratore e capitalista: rapporto che in campagna e nelle piccole città conservò una tinta patriarcale, mentre nelle città più grandi, propriamente manifatturiere, perdette ben presto quasi ogni colore patriarcale.

La manifattura e il movimento della produzione in genere presero uno slancio enorme in seguito all’allargamento del commercio che si ebbe con la scoperta dell’America e della via marittima delle Indie orientali. I nuovi prodotti di là importati, soprattutto le masse d’oro e d’argento che entrarono in circolazione, trasformarono completamente la posizione reciproca delle classi sociali e assestarono un duro colpo alla proprietà fondiaria feudale e ai lavoratori, le spedizioni degli avventurieri, la colonizzazione e soprattutto l’allargamento dei mercati in mercato mondiale, che solo ora era diventato possibile e si attuava ogni giorno di più, provocarono una nuova fase dello sviluppo storico sulla quale, in generale, non occorre che ci soffermiamo oltre. La colonizzazione dei paesi di recente scoperta dette alla lotta commerciale fra le nazioni nuovo alimento e, di conseguenza, una maggiore estensione e una maggiore asprezza.

L’estendersi del commercio e della manifattura accelerò l’accumulazione del capitale mobile, mentre nelle corporazioni, che non ricevettero alcuno stimolo ad allargare la produzione, il capitale naturale restava statico o anche diminuiva. Il commercio e la manifattura crearono la grande borghesia, mentre nelle corporazioni si concentrava la piccola borghesia, che non dominava più come prima nelle città ma doveva piegarsi al dominio dei grandi mercanti e manifatturieri. Da qui il declino delle corporazioni, non appena entrarono in contatto con la manifattura.

I rapporti reciproci fra le nazioni, nel commercio, assunsero due aspetti diversi durante l’epoca di cui abbiamo parlato. All’inizio la scarsa quantità d’oro e d’argento circolante provocò il divieto di esportare questi metalli; e l’industria, resa necessaria per occupare la crescente popolazione cittadina e per lo più importata dall’estero, non poteva fare a meno dei privilegi che naturalmente potevano essere accordati non solo contro la concorrenza interna, ma principalmente contro quella straniera. In queste proibizioni primitive il privilegio corporativo locale fu esteso a tutta la nazione. I dazi nacquero dai tributi imposti dai signori feudali ai mercanti che attraversavano il loro territorio, come indennizzo per i saccheggi, tributi che più tardi furono ugualmente imposti dalle città e che all’apparizione dello Stato moderno rappresentarono per il fisco il mezzo più a portata di mano per far denaro. Quei provvedimenti acquistarono un altro significato con la comparsa dell’oro e dell’argento americano sui mercati europei, col progressivo sviluppo dell’industria, col rapido slancio del commercio e la conseguente ascesa della borghesia non legata alle corporazioni, e con l’importanza crescente del denaro. Lo Stato, per il quale era ogni giorno più difficile fare a meno del denaro, mantenne per considerazioni fiscali il divieto di esportare l’oro e l’argento; i borghesi, per i quali l’obiettivo principale era di accaparrare queste masse di denaro appena gettate sul mercato, ne erano completamente soddisfatti; i privilegi già esistenti diventarono una fonte di entrate per il governo e furono venduti per denaro; nella legislazione doganale apparvero i dazi di esportazione i quali, non facendo altro che ostacolare l’industria, avevano uno scopo puramente fiscale.

Il secondo periodo cominciò con la metà del secolo diciassettesimo e durò quasi fino alla fine del diciottesimo. Il commercio e la navigazione si erano sviluppati più rapidamente della manifattura, che rappresentava una parte secondaria; le colonie cominciarono a diventare grossi consumatori, le singole nazioni si divisero lottando a lungo nel mercato mondiale che si apriva. Questo periodo ha inizio con le leggi sulla navigazione e i monopoli coloniali. La concorrenza fra le nazioni fu esclusa nella massima misura possibile mediante tariffe, proibizioni, trattati; e in ultima istanza la lotta di concorrenza fu condotta e decisa con le guerre (specialmente con le guerre marittime). La nazione più potente sul mare, l’Inghilterra, conservò la preponderanza nel commercio e nella manifattura. Già qui troviamo la concentrazione in un solo paese.

La manifattura era continuamente tutelata con dazi protettivi sul mercato interno, con monopoli sul mercato coloniale, e il più possibile con dazi differenziali sui mercati esteri. Fu favorita la lavorazione del materiale prodotto all’interno (lana e lino in Inghilterra, seta in Francia), vietata l’esportazione della materia grezza prodotta all’interno (lana in Inghilterra), trascurata o impedita quella della materia importata (cotone in Inghilterra). La nazione predominante nel commercio marittimo e nella potenza coloniale si assicurò naturalmente anche la maggiore estensione quantitativa e qualitativa della manifattura. La manifattura non poteva in genere fare a meno della protezione, poiché il minimo mutamento verificatosi in altri paesi può farle perdere il mercato e rovinarla; essa viene introdotta facilmente in un paese, in condizioni più o meno favorevoli, e appunto per questo può essere facilmente distrutta. E intanto, per il modo in cui era praticata soprattutto nel secolo XVIII nelle campagne, essa è così intimamente legata con le condizioni di vita di una gran massa di individui che nessun paese può osare di metterne in gioco l’esistenza col permettere la libera concorrenza. Nella misura in cui giunge ad esportare, essa dunque dipende completamente dall’espansione o dalla limitazione del commercio, ed esercita su di esso una reazione relativamente assai limitata. Da ciò la sua importanza secondaria e l’influenza dei commercianti nel diciottesimo secolo. Furono i commercianti, e in particolare gli armatori, che più di tutti fecero pressione per la protezione di Stato e i monopoli; è vero che anche i manifatturieri sollecitavano ed ottenevano la protezione, ma per importanza politica restarono sempre dietro ai commercianti. Le città commerciali, e specialmente le città marinare, diventarono relativamente civili ed erano centri della grande borghesia, mentre le città industriali conservavano uno spirito estremamente piccolo-borghese. Cfr. Aikin ecc. Il secolo diciottesimo fu il secolo del commercio. Pinto lo dice espressamente: « Le commerce fait la marotte du siècle», e « depuis quelque temps il n’est plus question que de commerce, de navigation et de marine»1.

Questo periodo è anche caratterizzato dalla cessazione del divieto di esportare oro e argento, dal sorgere del mercato monetario,delle banche, del debito pubblico, della carta-moneta, delle speculazioni sulle azioni e i capitali, dell’aggiotaggio su tutti gli articoli e dallo sviluppo del sistema finanziario in genere. Il capitale perdette nuovamente gran parte del carattere naturale che ancora gli era rimasto.

La concentrazione del commercio e della manifattura che nel secolo diciassettesimo si sviluppò ininterrottamente in un solo paese, l’Inghilterra, creò gradualmente per questo paese un mercato mondiale relativo e quindi una domanda per i prodotti manufatti di questo paese che non poteva essere più soddisfatta dalle forze produttive industriali allora esistenti. Questa domanda crescente al di là delle forze produttive fu la forza motrice che, creando la grande industria, — l’impiego delle forze elementari a scopi industriali, le macchine e la divisione del lavoro portata al massimo, — suscitò il terzo periodo della proprietà privata dal Medioevo in poi. Le altre condizioni di questa nuova fase — la libertà di concorrenza all’interno della nazione, il perfezionamento della meccanica teorica (la meccanica perfezionata da Newton nel XVIII secolo era la scienza più popolare in Francia e in Inghilterra), ecc. — esiste vano già in Inghilterra. (La libera concorrenza all’interno della nazione stessa dovette essere conquistata dappertutto con una rivoluzione: 1640 e 1688 in Inghilterra, 1789 in Francia). La concorrenza costrinse presto ogni paese che voleva conservare la sua funzione storica a proteggere le sue manifatture con nuove misure doganali (i vecchi dazi non servivano più contro la grande industria) e subito dopo a introdurre la grande industria sotto dazi protettivi. Nonostante questi mezzi di protezione, la grande industria universalizzò la concorrenza (essa è la libertà di commercio pratica, e i dazi protettivi non sono in essa che un palliativo, uno strumento di difesa all’interno della libertà di commercio), stabilì i mezzi di comunicazione e il mercato mondiale moderno, sottomise a sé il commercio, trasformò ogni capitale in capitale industriale e generò così la circolazione rapida (perfezionamento del sistema finanziario) e la centralizzazione dei capitali. Con la concorrenza universale essa costrinse tutti gli individui alla tensione estrema delle loro energie. Essa distrusse il più possibile l’ideologia, la religione, la morale, ecc. e quando ciò non le fu possibile ne fece flagranti menzogne. Essa produsse per la prima volta la storia mondiale, in quanto fece dipendere dal mondo intero ogni nazione civilizzata, e in essa ciascun individuo, per la soddisfazione dei suoi bisogni, e in quanto annullò l’allora esistente carattere esclusivo delle singole nazioni. Sussunse le scienze naturali sotto il capitale e tolse alla divisione del lavoro l’ultima parvenza del suo carattere naturale. Per quanto ciò era possibile nell’ambito del lavoro, distrusse l’impronta naturale in genere e risolse tutti i rapporti naturali in rapporti di denaro. In luogo delle città naturali, creò le grandi città industriali moderne, sorte da un. giorno all’altro. Là dove penetrò, essa distrusse l’artigianato e in generale tutti gli stadi anteriori dell’industria, Completò la vittoria della città commerciale sulla campagna. Il suo primo presupposto è il sistema automatico. Il suo sviluppo creò una massa di forze produttive per le quali la proprietà privata diventò un intralcio non minore di quel che era stata la corporazione per la manifattura e la piccola azienda rurale per l’artigianato in via di sviluppo. Sotto la proprietà privata queste forze produttive non conoscono che uno sviluppo unilaterale, per la maggior parte diventano forze distruttive, e una quantità di tali forze non può trovare nel regime della proprietà privata alcuna applicazione. In generale essa creò dappertutto gli stessi rapporti fra le classi della società e in tal modo distrusse l’individualità particolare delle singole nazionalità. E infine, mentre la borghesia di ciascuna nazione conserva ancora interessi nazionali particolari, la grande industria creò una classe che ha il medesimo interesse in tutte le nazioni e per la quale la nazionalità è già annullata, una classe che è realmente liberata da tutto il vecchio mondo e in pari tempo si oppone ad esso. Essa rende insopportabile al lavoratore non soltanto il rapporto col capitalista, ma il lavoro stesso.

È ovvio che la grande industria non giunge allo stesso grado di perfezionamento in ogni località di un paese. Ma ciò non frena il movimento di classe del proletariato, perché i proletari generati dalla grande industria si pongono alla testa di questo movimento e trascinano con sé tutta la massa e perché i lavoratori esclusi dalla grande industria sono gettati da essa in una condizione di vita ancora peggiore di quella degli stessi lavoratori della grande industria. Allo stesso modo i paesi nei quali è sviluppata una grande industria agiscono sui paesi plus ou moins privi di industria, nella misura in cui questi sono trascinati dal commercio mondiale nella lotta universale della concorrenza2.

Queste diverse forme sono altrettante forme dell’organizzazione del lavoro e quindi della proprietà. In ciascun periodo si produsse una unione delle forze produttive esistenti, in quanto i bisogni l’avevano resa necessaria.





  1. Rapporto dello stato con la società

La prima forma della proprietà, così nel mondo antico come nel Medioevo, è la proprietà tribale, condizionata principalmente dalla guerra presso i romani, dall’allevamento presso i germani. Presso i popoli antichi, poiché più tribù coabitavano in una città, la proprietà tribale appare come proprietà di Stato e il diritto del singolo ad essa come mera possessio la quale, come la proprietà tribale in genere, si limita tuttavia alla proprietà fondiaria. La proprietà privata vera e propria comincia presso gli antichi, come presso i popoli moderni, con la proprietà mobiliare. (Schiavitù e comunità) (dominium ex iure Quiritium). Presso i popoli uscenti dal Medioevo la proprietà tribale si evolve attraverso diversi stadi — proprietà fondiaria feudale, proprietà mobiliare corporativa, capitale manifatturiero — fino al capitale moderno, condizionato dalla grande industria e dalla concorrenza universale, alla proprietà privata pura, che si è spogliata di ogni parvenza di comunità e che ha escluso ogni influenza dello Stato sullo sviluppo della proprietà. A questa proprietà privata moderna corrisponde lo Stato moderno, che attraverso le imposte è stato a poco a poco comperato dai detentori della proprietà privata, che attraverso il sistema del debito pubblico è caduto interamente nelle loro mani, e la cui esistenza ha finito col dipendere del tutto, nell’ascesa o nella caduta dei titoli di Stato in Borsa, dal credito commerciale che gli assegnano i detentori della proprietà privata, i borghesi. Per il solo fatto che è una classe e non più un ordine, la borghesia è costretta a organizzarsi nazionalmente, non più localmente, e a dare una forma generale al suo interesse medio. Attraverso l’emancipazione della proprietà privata dalla comunità, lo Stato è pervenuto a un’esistenza particolare, accanto e al di fuori della società civile; ma esso non altro che la forma di organizzazione che i borghesi si danno per necessità, tanto verso l’esterno che verso l’interno, al fine di garantire reciprocamente la loro proprietà e i loro interessi. L’indipendenza dello Stato oggi non si trova più che in quei paesi dove ordini non si sono ancora sviluppati in classi, dove gli ordini, eliminati nei paesi più progrediti, esercitano ancora una funzione ed esiste una mescolanza, per cui nessuna parte della popolazione può arrivare a dominare le altre. Questo è il caso specialmente della Germania. L’esempio più perfetto di Stato moderno è il Nord America. I moderni scrittori francesi, inglesi e americani affermano tutti che lo Stato esiste in virtù della proprietà privata, così che ciò è passato anche nella coscienza comune. Poiché lo Stato è la forma in cui gli individui di una classe dominante fanno valere i loro interessi comuni e in cui si riassume l’intera società civile di un’epoca, ne segue che tutte le istituzioni comuni passano attraverso l’intermediario dello Stato e ricevono una forma politica. Di qui l’illusione che la legge riposi sulla volontà e anzi sulla volontà strappata dalla sua base reale, sulla volontà libera. Allo stesso modo, il diritto a sua volta viene ridotto alla legge.

Il diritto privato si sviluppa contemporaneamente alla proprietà privata dalla dissoluzione della comunità naturale. Presso i romani lo sviluppo della proprietà privata e del diritto privato non ebbe ulteriori conseguenze industriali e commerciali perché l’intero modo di produzione rimase lo stesso. Presso i popoli moderni, la comunità feudale fu dissolta dall’industria e dal commercio, col sorgere della proprietà privata e del diritto privato cominciò una nuova fase che era capace di un ulteriore sviluppo. La prima città che nel Medioevo ebbe un esteso commercio marittimo, Amalfi, elaborò anche il diritto marittimo. Non appena l’industria e il commercio portarono più avanti lo sviluppo della proprietà privata, dapprima in Italia e più tardi in altri paesi, fu subito ripreso il perfezionato diritto privato romano, elevandolo ad autorità. Quando più tardi la borghesia ebbe acquistato tanta potenza che i principi si incaricarono dei suoi interessi per rovesciare per mezzo di essa la nobiltà feudale, cominciò in tutti i paesi — in Francia nel secolo XVI — il vero e proprio sviluppo del diritto, il quale procedeva in tutti i paesi, ad eccezione dell’Inghilterra, sulla base del diritto romano. Anche in Inghilterra dovettero essere introdotti i principi del diritto romano (specialmente per la proprietà mobiliare) per l’ulteriore elaborazione del diritto privato. (Non va dimenticato che il diritto non ha, più della religione, una propria storia).

Nel diritto privato i rapporti di proprietà esistenti sono espressi come risultato della volontà generale. Lo stesso ius utendi et abutendi esprime da una parte il fatto che la proprietà privata è diventata del tutto indipendente dalla comunità, dall’altra l’illusione che la proprietà privata stessa sia fondata sulla pura volontà privata, sul disporre ad arbitrio della cosa. Nella pratica l’abuti ha limiti economici assai determinati per il proprietario privato, se non vuole veder passare la sua proprietà e quindi il suo ius abutendi in mani altrui, poiché in realtà la cosa, considerata unica mente in rapporto alla sua volontà, non è affatto una cosa, ma soltanto nello scambio e indipendentemente dal diritto diventa una cosa, diventa proprietà reale (un rapporto, che i filosofi chiamano un’idea)3. Questa illusione giuridica che riduce il diritto alla pura volontà conduce necessariamente a questo, nello sviluppo ulteriore dei rapporti di proprietà, che ciascuno può avere un titolo giuridico a una cosa senza avere realmente la cosa. Se per esempio la rendita di un terreno è annullata dalla concorrenza, il proprietario ha certamente il suo titolo giuridico ad essa, insieme con lo ius utendi et abutendi; ma non può farsene niente, non possiede niente come proprietario fondiario a meno che non possieda ancora capitale sufficiente per coltivare il suo terreno. Questa stessa illusione dei giuristi spiega come per essi e per ogni codice in genere sia casuale che degli individui entrino in rapporti fra loro (per esempio: contratti), e come secondo loro questi rapporti siano di quelli che si possono stringere o non stringere, a piacere, e il cui contenuto dipende dall’arbitrio individuale dei contraenti. Ogni volta che lo sviluppo dell’industria e del commercio ha creato nuove forme di scambio, per esempio compagnie d’assicurazione ecc., il diritto fu sempre costretto ad accoglierle fra i modi di acquistare la proprietà.

Niente è più comune dell’idea secondo cui fino ad oggi nella storia non si è trattato altro che di prendere. I barbari prendono l’Impero romano, e col fatto di questo prendere si spiega il passaggio dal mondo antico al feudalesimo. Ma in questo prendere da parte dei barbari importa sapere se la nazione che vien presa ha sviluppato forze produttive industriali, come è il caso presso i popoli moderni, o se le sue forze produttive riposano principalmente sulla sola unione e sulla comunità. Il prendere inoltre è condizionato dall’oggetto che viene preso. Non si può assolutamente prendere il patrimonio di un banchiere, consistente in carte, senza che colui che prende si sottometta alle condizioni di produzione e di scambio del paese preso. Tanto vale anche per tutto il capitale industriale di un moderno paese industrializzato. E infine il prendere ha ben presto un termine dappertutto, e quando non c’è più niente a prendere si deve cominciare a produrre. Da questa necessità di produrre, che si manifesta assai presto, segue che la forma di comunità adottata dai conquistatori insediatisi in un paese deve corrispondere al grado di sviluppo delle forze produttive ivi incontrate oppure, se al primo momento non è questo il caso, trasformarsi secondo le forze produttive. Ciò spiega il fatto, osservato dappertutto, a quanto si dice, nel tempo che seguì le invasioni bar bariche, che il servo era il signore e che i conquistatori accettarono prestissimo lingua, cultura e costumi dai conquistati. Il feudalesimo non fu affatto portato bello e pronto dalla Germania, ma ebbe origine, durante la conquista stessa, da parte dei conquistatori nell’organizzazione militare dell’esercito, e questa si sviluppò in vero e proprio feudalesimo soltanto dopo la conquista, sotto l’effetto delle forze produttive incontrate nei paesi conquistati. Fino a che punto questa forma fosse condizionata dalle forze produttive è dimostrato dai falliti tentativi di imporre altre forme derivate da reminiscenze dell’antichità romana (Carlo Magno, ecc.)



  1. Strumenti di produzione e forme di proprietà naturali e civili

[...]4 è trovato. Dal primo risulta il presupposto di una divisione del lavoro assai progredita e di un commercio esteso, dal secondo il carattere locale. Nel primo caso gli individui devono venire raccolti insieme, nel secondo si trovano, essi stessi come strumenti di produzione, accanto allo strumento di produzione dato. Qui dunque si manifesta la differenza fra gli strumenti di produzione naturali e quelli creati dalla civiltà. Il campo (l’acqua, ecc.) può essere considerato come uno strumento di produzione naturale. Nel primo caso, nel caso dello strumento di produzione naturale, gli individui sono sussunti sotto la natura, nel secondo caso sotto un prodotto del lavoro. Nel primo caso dunque la proprietà (proprietà fondiaria) appare anche come dominio diretto, naturale, nel secondo caso come dominio del lavoro, e in ispecie del lavoro accumulato, del capitale. Il primo caso presuppone che gli individui siano tenuti uniti da un qualche legame, sia esso la famiglia, la tribù, il terreno stesso, ecc., il secondo caso presuppone che essi siano indipendenti l’uno dall’altro e che siano tenuti insieme solo dallo scambio. Nel primo caso lo scambio è essenzialmente scambio fra gli uomini e la natura, uno scambio nel quale il lavoro degli uni viene permutato contro i prodotti dell’altra; nel secondo caso esso è principalmente scambio tra gli uomini. Nel primo caso è sufficiente l’intelligenza umana media, l’attività fisica e l’attività mentale non sono ancora affatto separate; nel secondo caso deve essersi già praticamente attuata la divisione tra lavoro intellettuale e lavoro fisico. Nel primo caso il dominio del proprietario sopra i non proprietari può essere fondato su rapporti personali, su una specie di comunità, nel secondo caso esso deve avere assunto una forma concreta in un terzo elemento, il denaro. Nel primo caso esiste la piccola industria, ma sussunta sotto l’utilizzazione dello strumento naturale di produzione, e pertanto senza ripartizione del lavoro tra individui diversi; nel secondo caso l’industria esiste soltanto nella divisione del lavoro e in virtù della divisione del lavoro.

Fino a questo punto siamo partiti dagli strumenti di produzione e già qui è apparsa la necessità della proprietà privata per certi gradi dell’industria. Nella industrie extractive la proprietà privata coincide ancora completamente col lavoro; nella piccola industria e in tutta l’agricoltura finora praticata la proprietà è la conseguenza necessaria degli strumenti di produzione esistenti; nella grande industria la contraddizione fra lo strumento di produzione e la proprietà privata non appare che come suo prodotto, e per crearlo la grande industria deve essere già molto sviluppata. Soltanto con la grande industria, dunque, è possibile anche l’abolizione della proprietà privata.

Nella grande industria e nella concorrenza tutte le condizioni d’esistenza, le limitazioni e le restrizioni degli individui sono fuse insieme nelle due forme più semplici: proprietà privata e lavoro. Col denaro ogni forma di relazione e le relazioni stesse sono poste come casuali per gli individui. Dunque dipende dalla stessa natura del denaro se ogni relazione finora esistita non è stata altro che relazione degli individui sotto condizioni determinate, non degli individui come individui. Queste condizioni si riducono a due: lavoro accumulato o proprietà privata e lavoro effettivo. Se viene meno una di queste due condizioni, le relazioni si arrestano. Gli stessi economisti moderni, per esempio Sismondi, Cherbuliez, ecc., contrappongono l’association des individas all’association des capitaux. D’altra parte gli individui stessi sono completamente sussunti sotto la divisione del lavoro e perciò posti tra di loro nella più completa dipendenza. La proprietà privata, in quanto all’interno del lavoro si contrappone al lavoro, si sviluppa dalla necessità dell’accumulazione e all’inizio conserva ancora la forma della comunità, ma nello sviluppo successivo si avvicina sempre più alla forma moderna della proprietà privata. La divisione del lavoro implica già immediatamente anche la divisione delle condizioni di lavoro, degli strumenti e dei materiali, e con essa il frazionamento del capitale accumulato fra i diversi proprietari, e quindi la separazione fra capitale e lavoro, e le diverse forme della proprietà stessa. Quanto più la divisione del lavoro si perfeziona e quanto più l’accumulazione aumenta, tanto più si accentuano anche quelle separazioni. L’esistenza del lavoro stesso dipende dal presupposto di quel frazionamento. A questo punto dunque si manifestano due fatti. Innanzi tutto le forze produttive appaiono come completamente indipendenti e staccate dagli individui, come un mondo a parte accanto agli individui, e il fondamento di ciò è in questo, che gli individui di cui esse sono le forze esistono in una condizione di frazionamento e di opposizione reciproca, mentre queste forze, d’altro lato, sono forze reali solo nelle relazioni e nel collegamento tra questi individui. Da una parte, dunque, una totalità di forze produttive che hanno assunto, per così dire, una forma obiettiva e che per gli individui stessi non sono più le forze degli individui, ma della proprietà privata, e quindi degli individui solo in quanto sono proprietari privati. In nessun periodo precedente le forze produttive avevano assunto questa forma indifferente alle relazioni degli individui come individui, perché le loro relazioni stesse erano ancora limitate. Dall’altra parte a queste forze produttive si contrappone la maggioranza degli individui, dai quali queste forze si sono staccate e che quindi sono stati spogliati da ogni reale contenuto di vita, sono diventati individui astratti, ma proprio per questo e solo per questo sono messi in condizione di entrare come individui in collegamento tra loro.

L’unico nesso che ancora li lega alle forze produttive e alla loro stessa esistenza, il lavoro, ha perduto in essi ogni parvenza di manifestazione personale e mantiene la loro vita soltanto intristendola. Mentre nei periodi precedenti la manifestazione personale e la produzione della vita materiale erano separate per il fatto che toccavano a persone diverse e la produzione della vita materiale era ancora considerata, a causa della limitatezza degli individui stessi, come una specie subordinata di manifestazione personale, ora esse sono separate al punto che la vita materiale appare in genere come scopo, la produzione di questa vita materiale, il lavoro (che ora è l’unica forma possibile ma, come noi vediamo, negativa della manifestazione personale), come mezzo.

Le cose dunque sono arrivate a tal punto che gli individui devono appropriarsi la totalità delle forze produttive esistenti non solo per arrivare alla loro manifestazione personale, ma semplicemente per assicurare la loro stessa esistenza. Questa appropriazione è condizionata innanzi tutto dall’oggetto di cui ci si deve appropriare: le forze produttive sviluppate fino a costituire una totalità ed esistenti solo nell’ambito di relazioni universali. Questa appropriazione dunque, già sotto questo aspetto, deve avere un carattere universale corrispondente alle forze produttive e alle relazioni. L’appropriazione di queste forze non è altro essa stessa che lo sviluppo delle facoltà individuali corrispondenti agli strumenti materiali di produzione. Per questo solo fatto l’appropriazione di una totalità di strumenti di produzione è lo sviluppo di una totalità di facoltà negli individui stessi. Questa appropriazione inoltre è condizionata dagli individui che la attuano. Solo i proletari del tempo presente, del tutto esclusi da ogni manifestazione personale, sono in grado di giungere alla loro completa e non più limitata manifestazione personale, che consiste nell’appropriazione di una totalità di forze produttive e nello sviluppo, da ciò condizionato, di una totalità di facoltà. Tutte le precedenti appropriazioni rivoluzionarie erano limitate; individui la cui manifestazione personale era limitata da uno strumento di produzione limitato e da relazioni limitate si appropriavano questo strumento di produzione limitato e non facevano che arrivare a una nuova limitazione. Il loro strumento di produzione diventava loro proprietà, ma essi restavano sussunti sotto la divisione del lavoro e sotto il loro proprio strumento di produzione. In tutte le appropriazioni dei passato una massa restava sussunta sotto un solo strumento di produzione; nell’appropriazione da parte dei proletari una massa di strumenti di produzione deve venire sussunta sotto ciascun individuo, e la proprietà sotto tutti. Le relazioni universali moderne non possono essere sussunte sotto gli individui altrimenti che con l’essere sussunte sotto tutti. L’appropriazione è inoltre condizionata dal modo in cui deve essere compiuta. Essa può essere compiuta soltanto attraverso una unione la quale, per il carattere del proletariato stesso, non può essere a sua volta che universale, e attraverso una rivoluzione nella quale da una parte saranno rovesciate la potenza del modo di produzione e delle relazioni e la struttura sociale sinora esistenti, e d’altra parte si svilupperanno il carattere universale del proletariato e l’energia che gli è necessaria per compiere l’appropriazione; una rivoluzione, infine, nella quale il proletariato si spoglierà di tutto ciò che ancora gli è rimasto della sua presente posizione sociale.

Soltanto a questo stadio la manifestazione personale coincide con la vita materiale, ciò che corrisponde allo sviluppo degli individui in individui completi e alla eliminazione di ogni residuo naturale; e vi corrispondono poi la trasformazione del lavoro in manifestazione personale e la trasformazione delle relazioni fin qui condizionate nelle relazioni degli individui in quanto tali. Con l’appropriazione delle forze produttive totali da parte degli individui uniti cessa la proprietà privata. Mentre sinora nella storia appariva sempre come accidentale una condizione particolare, ora sono diventati accidentali l’isolamento degli individui stessi e il particolare guadagno privato di ciascuno.

Gli individui non più sussunti sotto la divisione del lavoro sono stati immaginati dai filosofi come ideale, sotto il nome « l’uomo », e l’intero processo che abbiamo delineato è stato da loro concepito come il processo di sviluppo « dell’uomo », così che ad ogni grado della storia passata si è sostituito « l’uomo » agli individui esistenti e lo si è rappresentato come la forza motrice della storia. L’intero processo fu dunque inteso come processo di auto alienazione « dell’uomo », e ciò deriva essenzialmente dal fatto che l’individuo medio del periodo posteriore è sempre stato sostituito a quello del periodo precedente e la coscienza posteriore a quella degli individui precedenti . Con questo capovolgimento, che astrae senz’altro dalle condizioni reali, fu possibile trasformare l’intera storia in un processo di sviluppo della coscienza.

Infine, dalla concezione della storia che abbiamo svolto otteniamo ancora i seguenti risultati:

1) Nello sviluppo delle forze produttive si presenta uno stadio nel quale vengono fatte sorgere forze produttive e mezzi di relazione che nelle situazioni esistenti fanno solo del male, che non sono più forze produttive ma forze distruttive (macchine e denaro) e, in connessione con tutto ciò, viene fatta sorgere una classe che deve sopportare tutti i pesi della società, forzata al più deciso antagonismo contro le altre classi; una classe che forma la maggioranza di tutti i membri della società e dalla quale prende le mosse la coscienza della necessità di una rivoluzione che vada al fondo, la coscienza comunista, la quale naturalmente si può formare anche fra le altre classi, in virtù della considerazione della posizione di questa classe;

2) che le condizioni entro le quali possono essere impiegate determinate forze produttive sono le condizioni del dominio di una determinata classe della società, la cui potenza sociale, che scaturisce dal possesso di quelle forze, ha la sua espressione pratico-idealistica nella forma di Stato che si ha di volta in volta, e perciò ogni lotta rivoluzionaria si rivolge contro una classe che fino allora ha dominato5;

3) che in tutte le rivoluzioni sinora avvenute non è mai stato toccato il tipo dell’attività, e si è trattato soltanto di un’altra distribuzione di questa attività, di una nuova distribuzione del lavoro ad altre persone, mentre la rivoluzione comunista si rivolge contro il modo dell’attività che si è avuto finora, sopprime il lavoro e abolisce il dominio di tutte le classi insieme con le classi stesse, poiché essa è compiuta dalla classe che nella società non conta più come classe, che non è riconosciuta come classe, che in seno alla società odierna è già l’espressione del dissolvimento di tutte le classi, nazionalità, ecc.;

4) che tanto per la produzione in massa di questa coscienza comunista quanto per il successo della cosa stessa è necessaria una trasformazione in massa degli uomini, che può avvenire soltanto in un movimento pratico, in una rivoluzione; che quindi la rivoluzione non è necessaria soltanto perché la classe dominante non può essere abbattuta in nessun’altra maniera, ma anche perché la classe che l’abbatte può riuscire solo in una rivoluzione a levarsi di dosso tutto il vecchio sudiciume e a diventare capace di fondare su basi nuove la società.



NOTE




1Il movimento del capitale, benché notevolmente accelerato, restava tuttavia relativamente lento. Il frazionamento del mercato mondiale in singole parti, ciascuna delle quali era sfruttata da una nazione particolare, l’esclusione della concorrenza tra nazioni, la scarsa capacità della produzione stessa e il sistema finanziario che aveva appena superato i primi gradi del suo sviluppo ostacolavano parecchio la circolazione. Conseguenza ne era uno spirito bottegaio sordido e gretto che prendeva tutti i commercianti e tutti i modi dell’attività commerciale. Nei confronti dei manifatturieri e ancor più degli artigiani essi erano certamente grandi borghesi, bourgeois, al confronto dei commercianti e degli industriali del periodo successivo restano piccoli borghesi. Cfr. A. Smith. (Nota di Marx e Engels)

2La concorrenza isola gli individui, non solo i borghesi, ma ancor più i proletari, ponendoli gli uni di fronte agli altri , benché li raccolga insieme. Perciò passa molto tempo prima che questi individui possano unirsi, senza tener conto che i mezzi necessari per questa unione – se non deve essere puramente locale, -  le grandi città industriali e le comunicazioni rapide e a basso prezzo, devono essere prima prodotti dalla grande industria; e perciò non è possibile vincere, se non dopo una lunga lotta, tutte le forze organizzate contro questi individui che vivono isolati e in condizioni che riproducono quotidianamente l’isolamento. Esigere il contrario vorrebbe dire esigere che la concorrenza non debba esistere in quest’epoca storica determinata, o che gli individui debbano cavarsi dalla testa situazioni sulle quali essi, come individui isolati, non hanno alcun controllo. (Nota di Marx e Engels)

3Rapporto per I filosofi=idea. Essi riconoscono soltanto il rapporto dell'uomo con se stesso e quindi per loro tutti i rapporti reali diventano idee. (Nota di Marx)

4Passo del manoscritto andato perduto.

5Che costoro sono interessati a conservare le condizioni attuali della produzione (Nota di Marx e Engels)

 


Ultima modifica 16.12.2007