La crisi del cotone

Marx (1862)

 


Trascritto da Roberto Saranga, Settembre 2000


 

Londra, 3 febbraio 1862

Alcuni giorni fa ha avuto luogo l'assemblea annuale della Camera di Commercio di Manchester. Essa rappresenta il Lancashire, la più grande regione industriale del Regno Unito e il centro più importante dell'industria cotoniera britannica. C. Potter, presidente dell'asemblea, e Bazly e Turner, i principali oratori, rappresentano Manchester e una parte del Lancashire alla Camera Bassa. Perciò dai verbali dell'assemblea apprendiamo ufficialmente quale sarà l'atteggiamento del grande centro dell'industria cotoniera inglese al "Senato della nazione" riguardo alla crisi americana.

L'anno scorso all'assemblea della Camera di Commercio Ashworth, uno dei più grandi magnati del cotone di tutta l'Inghilterra, aveva esaltato con fantasia degna di Pindaro l'espansione senza precedenti dell'industria del cotone nell'ultimo decennio. In particolare egli faceva rilevare che nemmeno le crisi commerciali del 1847 e del 1857 avevano provocato la diminuzione delle esportazioni dei filati di cotone e dei tessuti inglesi. Egli spiegava il fenomeno con le mirabolanti possibilità del sistema di libero scambio introdotto nel 1846. Già allora parve strano che questo sistema, che non era riuscito a risparmiare all'Inghilterra le crisi del 1847 e del 1857, potesse sottrarre un settore particolare dell'industria inglese all'influenza delle crisi. Ma cosa sentiamo dire oggi? Tutti gli oratori, Ashworth compreso, ammettono che a partire dal 1858 ha avuto luogo una saturazione senza precedenti dei mercati d'oltre Atlantico, e che per effetto di una continua sovrapproduzione su larga scala l'attuale ristagno era inevitabile, anche senza la guerra civile americana, la tariffa Morrill e il blocco. Che anche senza queste circostanze aggravanti la diminuzione delle esportazioni dell'anno scorso sarebbe stata di ben sei milioni di sterline è naturalmente una questione controversa; ma non sembra cosa improbabile dal momento che sentiamo che i principali mercati dell'Asia e dell'Australia hanno provviste di manufatti di cotone inglesi sufficienti per dodici mesi.

Quindi, per ammissione della Camera di commercio di Manchester, che è autorità in materia, la crisi dell'industria cotoniera inglese fino ad ora non è stata il risultato del blocco americano, bensì della sovrapproduzione inglese. Ma quali sarebbero le conseguenze, se continuasse la guerra civile americana? A questa domanda riceviamo ancora una volta una risposta unanime: sofferenze smisurate per la classe lavoratrice e rovina per i piccoli produttori. Cheatham ha osservato: " A Londra si dice che hanno ancora molto cotone per andare avanti; ma non si tratta soltanto di cotone, si tratta anche e soprattutto di prezzo, e con i prezzi attuali il capitale dei proprietari di cotonifici si sta riducendo a zero ".

Ad ogni modo la Camera di commercio si dichiara decisamente contraria a qualsiasi intervento negli Stati Uniti, benchè la maggior parte dei suoi membri siano dal Times indotti a considerare inevitabile lo scioglimento dell'Unione.

" L'ultima cosa che dovremmo fare - dice Porter - è raccomandare qualsiasi cosa che somigli ad un intervento. L'ultimo posto dove una cosa simile potesse esser presa in considerazione era Manchester. Niente ci avrebbe indotti a raccomandare qualcosa che fosse moralmente sbagliata ".

Bazley: " Nella questione americana si deve osservare il principio del non-intervento. Il popolo di quel grande paese deve veramente risolvere le proprie faccende da sé ".

Cheatham: " L'opinione generale in questa regione è del tutto contraria all'intervento nella disputa americana. E' necessario parlar chiaro a questo riguardo, perché se vi fosse qualche dubbio il governo si troverebbe sottoposto a forti pressioni ".

Cosa consiglia allora la Camera di Commercio? Il governo inglese dovrebbe rimuovere ogni ostacolo di carattere amministrativo che si frappone all'importazione del cotone in India. In particolare dovrebbe eliminare la tassa di importazione del 10% che grava sui filati e sui tessuti di cotone inglesi in India. Il regime della East India Company era stato appena abolito, l'India era appena entrata a far parte dell'Impero Britannico, quando Palmerston introduceva questa tassa d'importazione sui prodotti inglesi tramite Wilson, e questo nello stesso tempo in cui vendeva la Savoia e Nizza per il trattato commerciale anglo-francese. Mentre il mercato francese veniva in una certa misura aperto all'industria inglese, il mercato della Indie Orientali era ad essa precluso in misura decisamente maggiore.

A questo proposito, Bazley ha rilevato che da quando è stata introdotta questa tassa sono state esportate grandi quantità di macchinari inglesi a Calcutta e a Bombay e che vi sono state impiantate fabbriche di tipo inglese. Queste si preparavano a sottrarre loro il miglior cotone indiano. Se al 10% della tassa d'importazione si aggiungeva il 15% per le spese di trasporto, i rivali generati artificialmente dall'iniziativa del governo inglese venivano a godere di una tariffa di protezione del 25%.

In generale l'assemblea ha espresso la fiera opposizione dei magnati dell'industria inglese alla tendenza protezionistica che si sta sviluppando sempre più nelle colonie, e particolarmente in Australia. Questi signori dimenticano che per un secolo e mezzo le colonie hanno protestato invano contro il "sistema coloniale" della madre-patria. A quel tempo le colonie chiedevano il libero scambio, e l'Inghilterra teneva fermo il suo divieto. Adesso l'Inghilterra predica il libero scambio, e le colonie ritengono il protezionismo nei confronti dell'Inghilterra più conforme ai loro interessi.

Die Presse, 8 febbraio 1862

 


Ultima modifica 2.10.2000