Anti-Dühring

Prima Sezione: Filosofia

 

XII. Dialettica. Quantità e qualità

 

"Il primo e il più importante principio sulle proprietà logiche fondamentali dell'essere verte sull'esclusione della contraddizione. La contraddizione è una categoria che può appartenere solo alla combinazione delle idee e non alla realtà. Nelle cose non ci sono contraddizioni o, in altri termini, la contraddizione, posta come reale, è essa stessa il colmo del controsenso (...) L'antagonismo di forze che, in opposte direzioni, si misurano a vicenda, è proprio la forma fondamentale di tutte le azioni nell'esistenza del mondo e dei suoi esseri. Ma questo contrasto delle direzioni delle forze degli elementi e degli individui non coincide minimamente con l'idea di assurdità contraddittorie (...) Qui noi possiamo esser paghi di aver dissipato, mediante una chiara rappresentazione della verace assurdità della contraddizione reale, le nebbie che sorgono abitualmente dai pretesi misteri della logica, e di aver messo in evidenza l'inutilità dell'incenso che qua e là si è prodigato al fantoccio di legno della dialettica della contraddizione, goffamente scolpito e sostituito alla schematizzazione antagonistica del mondo."

È questo pressappoco tutto ciò che si dice della dialettica nel "corso di filosofia". Nella "Storia critica", per contro, la dialettica della contraddizione, e con essa specialmente Hegel, viene trattata in un modo completamente diverso.

"La contraddizione, in effetti, secondo la logica hegeliana, o piuttosto la dottrina del logos, può cogliersi obiettivamente e, per così dire, toccare con mano, non già nel pensiero che, per sua natura, si deve rappresentare non altrimenti che come soggettivo e consapevole, ma nelle cose e nei fenomeni stessi, cosicché il controsenso non resta una combinazione impossibile del pensiero, ma diventa una potenza effettiva. La realtà dell'assurdo è il primo articolo di fede dell'unità hegeliana di logico e alogico (...) Quanto più contraddittorio, tanto più vero o, con altre parole, quanto più assurdo, tanto più credibile: questa massima, che non è affatto una nuova invenzione, ma che è tratta dalla teologia della rivelazione e delle mistica, è la cruda espressione del cosiddetto principio dialettico."

Il pensiero contenuto nei due luoghi citati si compendia nella proposizione la quale dice che contraddizione = controsenso e perciò non può esserci nel mondo reale. Questa proposizione, per gente che altrimenti è di sufficiente buon senso, può avere lo stesso valore di evidenza della stessa proposizione la quale dice che diritto non può essere curvo e curvo non può essere dritto. Ma il calcolo differenziale, malgrado tutte le proteste del buon senso, pone tuttavia, sotto certe condizioni, l'identità di diritto e curvo e ottiene così dei risultati che il buon senso, il quale si ostina a dire assurda l'identità di diritto e curvo, non potrà mai raggiungere. E, data la parte importante che la cosiddetta dialettica della contraddizione ha rappresentato nella filosofia dagli antichissimi greci fino ad oggi, persino un avversario più forte di Dühring si sarebbe sentito in dovere di confutarla con ben altri argomenti che un'unica asserzione e molte ingiurie.

Sino a quando consideriamo le cose in stato di riposo e prive di vita, ciascuna per sé, l'una accanto all'altra, l'una dopo l'altra, è certo che in esse non incontreremo nessuna contraddizione. Vi troviamo certe proprietà che in parte sono comuni, in parte sono diverse, anzi persino in contraddizione l'una con l'altra, ma in questo caso esse sono ripartite in cose diverse e quindi non recano in sé nessuna contraddizione. Nella misura in cui questo campo di indagine è sufficiente, ce la caviamo con l'abituale modo di pensare metafisico. Ma è invece tutt'altra cosa allorché consideriamo le cose nel loro movimento, nel loro cambiamento, nella loro vita, nella loro azione reciproca. Qui cadiamo subito in contraddizioni. Lo stesso movimento è una contraddizione; già perfino il semplice movimento meccanico locale si può compiere solamente perché un corpo in un solo e medesimo istante è in un luogo e nello stesso tempo in un altro luogo, è in un solo e medesimo luogo e non è in esso. E il continuo porre e nello stesso tempo risolvere questa contraddizione è precisamente il movimento.

Qui abbiamo dunque una contraddizione che "può cogliersi obiettivamente e, per così dire, toccare con mano, nelle cose e nei fenomeni stessi". E che cosa ne dice Dühring? Afferma che sino ad oggi non c'è "nella meccanica razionale nessun ponte di passaggio tra ciò che è rigorosamente statico e ciò che è dinamico". Ora finalmente il lettore si accorgerà di quello che si nasconde dietro a questa frase prediletta di Dühring; nient'altro che questo: l'intelletto che pensa metafisicamente non può assolutamente passare dall'idea della quiete a quella del movimento, perché qui la contraddizione che abbiamo vista sopra gli sbarra il cammino. Per lui il movimento, poiché è una contraddizione, è puramente inconcepibile. E poiché afferma l'inconcepibilità del movimento, ammette egli stesso, suo malgrado, l'esistenza di questa contraddizione, e quindi ammette che c'è obiettivamente nelle cose e nei fenomeni stessi una contraddizione la quale, per giunta, è una potenza effettiva.

Se già il semplice movimento meccanico locale contiene in sé una contraddizione, ancor più la contengono le forme più elevate di movimento della materia e, in modo assolutamente particolare, la vita organica e il suo sviluppo. Abbiamo visto sopra che la vita consiste anzitutto precisamente nel fatto che un essere, in ogni istante, è se stesso ed è anche un altro. Quindi la vita è del pari una contraddizione presente nelle cose e nei fenomeni stessi, contraddizione che continuamente si pone e continuamente si risolve; e non appena la contraddizione cessa, cessa anche la vita e sopraggiunge la morte. Abbiamo visto parimente che anche nel campo del pensiero non possiamo sfuggire alle contraddizioni, e che per es. la contraddizione tra il potere conoscitivo umano intimamente illimitato e la sua sussistenza reale in uomini esteriormente limitati e limitatamente conoscenti, si risolve nel susseguirsi, per noi praticamente privo di un termine, delle generazioni: nel progresso all'infinito.

Abbiamo già notato che una delle basi fondamentali della matematica superiore è la contraddizione che in certe circostanze la retta e la curva si identificano. La matematica superiore arriva anche a questa contraddizione: che linee che ai nostri occhi si intersecano, tuttavia, a distanza di cinque o sei centimetri dal loro punto di intersezione, devono presentarsi come parallele, come tali, cioè, che anche prolungate all'infinito non possono intersecarsi. E tuttavia la matematica superiore mette capo, con queste contraddizioni e con altre ancora maggiori, a risultati non soltanto esatti, ma assolutamente irraggiungibili dalla matematica inferiore.

Ma anche questi ultimi brulicano già in contraddizioni. Per es. è una contraddizione il fatto che una radice di A debba essere una potenza di A, eppure A1/2 = radice quadrata di A. È una contraddizione che una grandezza negativa debba essere il quadrato di qualche cosa: infatti ogni grandezza negativa moltiplicata per se stessa, dà un quadrato positivo. La radice quadrata di meno uno, quindi, non solo è una contraddizione, ma perfino una contraddizione assurda, un vero controsenso. E tuttavia radice quadrata di - 1 è un risultato in molti casi necessario di operazioni matematiche esatte; anzi c'è di più: dove sarebbe la matematica, sia elementare che superiore, se le fosse interdetto di operare con radice quadrata di - 1?

La stessa matematica con la trattazione delle grandezze variabili entra nel campo dialettico; ed è significativo il fatto che sia stato un filosofo dialettico, Descartes, a introdurre nella matematica un tale progresso. La matematica delle grandezze variabili sta alla matematica delle grandezze invariabili come in generale il pensiero dialettico sta al pensiero metafisico. La qual cosa non impedisce affatto che il maggior numero di matematici riconosca la dialettica solo nel campo della matematica e che tra loro ce ne sia un discreto numero che, servendosi dei metodi acquisiti per via dialettica, continui ad operare completamente secondo la vecchia e limitata maniera metafisica.

Sarebbe possibile occuparci più da vicino dell'antagonismo di forze di Dühring e della sua schematizzazione antagonistica del mondo, solo nel caso che egli ci avesse dato su questo tema qualche cosa di più che... la semplice frase. Raggiunto tale risultato, questo antagonismo non ci viene presentato mai in azione né nella schematizzazione del mondo né nella filosofia della natura; ed è questa la migliore confessione che Dühring, con queste "forme fondamentali di tutte le azioni nell'esistenza del mondo e dei suoi esseri" non sa assolutamente combinare niente di positivo. Infatti, se si è abbassata la "dottrina dell'essenza" di Hegel fino a ridurla alla banalità di forze che si muovono in opposte direzioni ma non in contraddizione, certo il meglio che si possa fare è di evitare ogni applicazione di questo luogo comune.

A Dühring l'altro appiglio per dar libero corso alla sua ira antidialettica, lo fornisce il "Capitale" di Marx.

"Deficienza di logica naturale e di logica data dall'uso dell'intelletto, deficienza che contraddistingue questi intrecci dialettici aggrovigliati e questi arabeschi di idee (...) già alla parte ormai pubblicata si può applicare il principio che dice che da un certo punto di vista e anche in generale (!), secondo un noto pregiudizio filosofico, si deve ricercare il tutto in ogni singola cosa e ogni singola cosa nel tutto, e che secondo questa idea confusa e mal concepita, alla fine tutto è uno."

Questa sua conoscenza del noto pregiudizio filosofico permette tuttavia a Dühring di predire con sicurezza quale sarà la "fine" di questo filosofare di Marx sull'economia, e quindi quale sarà il contenuto dei volumi seguenti del "Capitale", e ciò appena sette righe dopo aver dichiarato che "tutt'ora non si può realmente prevedere che cosa, parlando in termini schietti e chiari, propriamente debba ancora seguire nei due" (ultimi) "volumi" [59].

Non è questa comunque la prima volta che gli scritti di Dühring ci appaiono appartenenti a quelle "cose" nelle quali "la contraddizione si può cogliere obiettivamente e, per così dire, toccare con mano". Ciò che non gli impedisce di andare avanti vittoriosamente:

"Pure, la sana logica presumibilmente trionferà della sua caricatura (...) Queste grandi arie e questa misteriosa robaccia dialettica non darà a nessuno, che abbia ancora un po' di giudizio, la tentazione di occuparsi di (...) queste deformità di pensiero e di stile, con la morte degli ultimi avanzi di queste follie dialettiche, questo mezzo per turlupinare (...) perderà la sua influenza ingannatrice e nessuno crederà più di doversi tormentare per inseguire una saggezza nella quale il nocciolo di queste cose arruffate, una volta messo a nudo, mostra, nel migliore dei casi, i tratti di teorie ovvie, se non di luoghi comuni (...) È assolutamente impossibile riprodurre gli aggrovigliamenti" (marxiani) "conformatisi alla dottrina del logos, senza prostituire la sana logica".

Il metodo di Marx consisterebbe nell'"imbastire miracoli dialettici per i suoi fedeli", e così via.

Qui non ci dobbiamo ancora affatto occupare dell'esattezza o meno dei risultati economici dell'indagine marxiana, ma solo del metodo dialettico applicato da Marx. Ma una cosa è certa: che il maggior numero dei lettori del "Capitale" solo ora avranno appreso, grazie a Dühring, che cosa propriamente hanno letto. E tra essi anche lo stesso Dühring, che nell'anno 1867 ("Ergänzungsblätter", III, fasc. 3) era ancora in condizione di fare un'analisi riassuntiva del libro relativamente ragionevole per un pensatore del suo calibro, senza essere obbligato a cominciare col tradurre, cosa che oggi egli dichiara indispensabile, gli sviluppi marxiani in linguaggio dühringiano. Se già allora commetteva lo sproposito di identificare la dialettica marxiana con la dialettica hegeliana, pure non aveva ancora perduta completamente la capacità di distinguere tra il metodo e i risultati ottenuti per mezzo di esso e di comprendere che questi ultimi non vengono confutati in particolare demolendo in generale il primo.

La comunicazione più stupefacente che fa Dühring in ogni caso è questa: che dal punto di vista di Marx "in definitiva tutto è uno", che quindi per Marx, per es., capitalisti e salariati, modo di produzione feudale, capitalistico e socialista "sono tutt'uno", anzi, infine, anche Marx e Dühring sono senza dubbio "tutt'uno". Per spiegare come sia possibile questa pazzia pura e semplice non resta che ammettere che la semplice parola dialettica metta Dühring in uno stato di irresponsabilità in cui tutto ciò che egli dice e fa, in seguito ad una certa idea confusa e mal concepita, è per lui "tutt'uno".

Abbiamo qui un campione di ciò che Dühring chiama la "mia maniera di delineare la storia in grande stile" ovvero anche

"quel procedimento sommario che tiene conto del genere e del tipo, ma che non si degna affatto di onorare, rivelandone gli errori fino ai dettagli micrologici, quella che Hume chiamò la plebe dei dotti; questo procedimento di stile più elevato e più nobile è compatibile unicamente con gli interessi della piena verità e con i doveri che si hanno verso un pubblico libero da vincoli di corporazione".

Questo modo di delineare la storia in grande stile e questo sommario tener conto del genere e del tipo è, in realtà, molto comodo a Dühring, che può così trascurare tutti i fatti determinati considerandoli come micrologici, farli eguali a zero, e invece di dimostrare non ha che da costruire frasi generali, fare delle asserzioni e semplicemente lanciare le sue condanne. Ma questo metodo ha anche il vantaggio di non fornire all'avversario nessun appiglio, di non lasciargli dunque quasi nessun'altra possibilità di rispondere che non sia il formulare anche da parte sua frasi in grande stile e sommarie, il diffondersi in espressioni generiche ed infine il lanciare a sua volta la sua condanna su Dühring, in breve, come si dice, giocare a botta e risposta, cosa che non incontra i gusti di tutti. Dobbiamo perciò essere grati a Dühring, se eccezionalmente abbandona lo stile più elevato e più nobile per darci almeno due esempi della riprovevole dottrina marxiana del logos.

"Come è comico per es. il riferirsi alla confusa e nebulosa idea hegeliana che la quantità si muti nella qualità e che perciò un'anticipazione di denaro, allorché raggiunge un certo limite, semplicemente per mezzo di questo incremento quantitativo diventa capitale."

Certo, presentato in questa forma "purgata" da Dühring, tutto ciò è abbastanza curioso. Vediamo dunque come si presenta nell'originale, in Marx. A pag. 313 (della seconda edizione del "Capitale") Marx, dalle indagini precedenti sul capitale costante e variabile sul plusvalore, trae la conclusione che

"non qualsiasi somma di denaro o di valore è trasformabile in capitale, che anzi una tale trasformazione presuppone un minimo determinato di denaro o valore di scambio, in mano al singolo possessore di denaro o di merci" [60].

Marx quindi prende come esempio il fatto che, in qualsiasi ramo di lavoro, l'operaio lavora giornalmente otto ore per se stesso, cioè per la produzione del valore del suo salario e le quattro ore seguenti per il capitalista, per la produzione di un plusvalore che affluisce in primo luogo nella tasca di costui. Poi è necessario che uno disponga già di una somma di valore che gli permetta di rifornire di materia prima, di strumenti di lavoro e di salario due operai, per intascare quotidianamente quel tanto di plusvalore da poterci vivere tanto bene quanto uno dei suoi operai. E poiché la produzione capitalistica ha come suo fine non il semplice mantenimento, ma l'accrescimento della ricchezza, il nostro uomo con i suoi due operai non sarebbe ancora per nulla un capitalista. Ora, per vivere due volte meglio di un operaio e per ritrasformare in capitale la metà del plusvalore prodotto, dovrebbe poter impiegare otto operai, e quindi possedere già il quadruplo della somma di valore che abbiamo supposto sopra. E solo dopo questo e nel corso di dimostrazioni ulteriori per dimostrare e giustificare il fatto che non ogni e qualsiasi piccola somma di valore è sufficiente per trasformarsi in capitale, ma che per questo ogni periodo di sviluppo ed ogni ramo di industria hanno il proprio limite minimo determinato, solo allora Marx nota:

"Qui, come nelle scienze naturali, si rivela la validità della legge scoperta da Hegel nella sua "Logica", che mutamenti puramente quantitativi si risolvono a un certo punto in differenze qualitative" [61].

Ed ora si ammiri il più elevato e nobile stile, in virtù del quale Dühring attribuisce a Marx il contrario di ciò che in realtà egli ha detto. Marx dice: il fatto che una somma di valore possa trasformarsi in capitale solo allorquando abbia raggiunto una grandezza minima, diversa a seconda delle circostanze, ma in ogni singolo caso determinata, questo fatto è una prova dell'esattezza della legge hegeliana. Dühring gli fa dire: Poiché secondo la legge hegeliana la quantità si trasforma in qualità, "perciò un'anticipazione, allorché raggiunge un limite determinato", diventa "...capitale". Dunque tutto il contrario.

Il costume di falsare le citazioni nell'"interesse della piena verità" e per i "doveri che si hanno verso un pubblico libero da vincoli di corporazione", è cosa che abbiamo già imparato a conoscere nel processo fatto da Dühring a Darwin. Esso si rivela sempre più come una necessità intima della filosofia della realtà, ed è certamente un "procedimento" molto "sommario". Per tacere completamente il fatto che Dühring, per di più, attribuisce a Marx di aver parlato di ogni e possibile "anticipazione", mentre qui si tratta solo di un'anticipazione che vien fatta in materie prime, mezzi di lavoro e salario; e che così riesce a far dire a Marx una pura e semplice assurdità. E poi ha la faccia tosta di trovar comica l'assurdità che egli stesso ha ammannito. Come si era costruito un Darwin fantastico per dar saggio della sua forza contro di lui, così si costruisce un Marx fantastico. Davvero una "maniera di concepire la storia in grande stile"!

Abbiamo già visto sopra, a proposito della schematizzazione del mondo, che riguardo a questa linea nodale dei rapporti di misura di Hegel, per cui in certi punti del cambiamento quantitativo interviene improvvisamente un mutamento qualitativo repentino, Dühring ha subito il piccolo infortunio di averla riconosciuta ed applicata, egli stesso, in un momento di debolezza. In quel capitolo abbiamo dato degli esempi più noti: quello della trasformazione degli stati di aggregazione dell'acqua, che, a pressione normale, a 0° centigradi passa dallo stato liquido a quello solido, e a 100° centigradi dallo stato liquido al gassoso, fenomeno nel quale, in quei due punti critici, il semplice cambiamento quantitativo della temperatura causa una modificazione qualitativa dello stato dell'acqua.

Per la dimostrazione di questa legge avremmo potuto citare come esempio centinaia di fatti simili tratti sia dalla natura che dalla società. Così per es. nel "Capitale" di Marx, tutta la quarta sezione, Produzione del plusvalore relativo, nel campo della Cooperazione, Divisione del lavoro e manifattura, Macchine e grande industria, tratta di innumerevoli casi in cui un mutamento quantitativo cambia le qualità e, del pari, un cambiamento qualitativo cambia la quantità delle cose di cui si tratta: casi nei quali, per usare l'espressione tanto odiata da Dühring, la quantità si converte in qualità e viceversa. Così per es. il fatto che la cooperazione di molti uomini, la fusione di molte forze in una forza complessiva, produce, per dirla con Marx, "un nuovo potenziale di forza" essenzialmente diverso dalla somma delle singole forze che lo costituiscono [62].

Per di più Marx, nel passo il cui significato è stato completamente capovolto da Dühring nell'interesse della piena verità, aveva fatto questa annotazione: "La teoria molecolare applicata alla chimica moderna, sviluppata scientificamente per la prima volta da Laurent e Gerhardt, non si basa su altra legge". Ma che cosa importava tutto questo a Dühring? Egli sapeva bene che:

"Gli elementi culturali eminentemente moderni del modo di pensare scientifico sono proprio assenti laddove, come in Marx e nel suo rivale, il Lassalle, la mezza scienza e un po' di filosofia da strapazzo costituiscono il misero armamentario di una erudita prosopopea",

mentre per Dühring le basi sono date "dai principi fondamentali della scienza esatta dominanti nella meccanica, nella fisica e nella chimica" ecc.: e abbiamo visto come. Ma perché anche terze persone siano messe in condizione di giudicare, dobbiamo considerare un po' più da vicino l'esempio citato nella nota di Marx.

Qui si tratta cioè delle serie omologhe dei composti del carbonio, molte delle quali sono già conosciute e ciascuna ha la sua propria formula algebrica di composizione. Se per es., come si fa in chimica, esprimiamo un atomo di carbonio con C, un atomo di idrogeno con H, un atomo di ossigeno con O, il numero di atomi di carbonio contenuto in ciascuna combinazione con n, possiamo rappresentare nel modo seguente la formula molecolare di qualcuna di queste serie:
 

CnH2n+2 = serie delle paraffine normali.
CnH2n+2O = serie degli alcool primari.
CnH2nO2 = serie degli acidi grassi monobasici.

Prendiamo come esempio l'ultima di queste serie, e facciamo successivamente n = 1, n = 2, n = 3 ecc., otterremo i seguenti risultati (omettendo gli isomeri):
 

CH2O2 = Acido formico - Punto di ebollizione 110° Punto di fusione
C2H4O2 = Acido acetico - " 118° " 17°
C3H6O2 = Acido propionico - " 140° " -
C4H8O2 = Acido butirrico - " 162° " -
C5H10O2 = Acido valerianico - " 175° " -

e così via sino a C30H60O2, acido melissico, che fonde solo a 80° centigradi, e che non ha un punto di ebollizione, perché esso non si volatilizza senza scomporsi.

Qui vediamo dunque tutta una serie di corpi qualitativamente diversi, formati mediante semplice aggiunta quantitativa di elementi, e sempre nella stessa proporzione. Questo fatto appare nella sua forma più pura quando tutti gli elementi della combinazione cambiano la loro quantità nel medesimo rapporto, così nelle paraffine normali CnH2n+2, il più basso è il metano, CH4, un gas; il più alto che si conosca, l'esadecano, C16H34, è un copro solido che forma dei cristalli incolori, fonde a 21° gradi e bolle solo a 278°. In entrambe le serie ogni nuovo membro si forma mediante l'addizione di CH2, di un atomo di carbonio e di due atomi di idrogeno, alla forma molecolare del membro precedente, e questo cambiamento quantitativo della formula molecolare produce ogni volta un corpo qualitativamente diverso.

Ma quelle serie sono solo un esempio particolarmente tangibile: quasi dappertutto nella chimica e già nei diversi ossidi dell'azoto, nei diversi acidi ossigenati del fosforo e dello zolfo si può vedere come "la quantità si converta in qualità" e come questa pretesa idea confusa e nebulosa di Hegel si possa, per così dire, toccar con mano nelle cose e nei fenomeni, senza che tuttavia nessuno resti confuso e annebbiato tranne Dühring. E se Marx è stato il primo ad attirare l'attenzione su questo fatto e se Dühring legge questa indicazione senza neanche capirla (perché altrimenti non avrebbe certamente lasciato passare questo delitto inaudito), ciò è sufficiente per chiarire, anche senza aver dato uno sguardo retrospettivo alla famosa filosofia della natura di Dühring, a chi manchino "gli elementi culturali eminentemente moderni del modo di pensare scientifico", se a Marx o a Dühring, e a chi manchi la conoscenza dei "principi fondamentali... della chimica".

Per concludere, vogliamo invocare un altro testimonio a favore della conversione della quantità in qualità: Napoleone. Ecco come descrive il combattimento tra la cavalleria francese che andava male a cavallo ma era ben disciplinata, e i mamelucchi che nel combattimento individuale erano incondizionatamente i migliori cavalieri del loro tempo, ma erano indisciplinati:

"Due mamelucchi erano incondizionatamente superiori a tre francesi; 100 mamelucchi erano pari a 100 francesi; 300 francesi erano di solito superiori a 300 mamelucchi, 1.000 francesi mettevano costantemente in rotta 1.500 mamelucchi" [63].

Proprio come per Marx era necessaria una grandezza minima determinata, anche se variabile, della somma del valore di scambio per rendere possibile la sua trasformazione in capitale, così per Napoleone era necessaria una grandezza minima determinata di distaccamento di cavalleria per permettere alla forza della disciplina, insita nella formazione in ordine chiuso e nell'impiego razionale, di diventare apprezzabile e di accrescersi sino a raggiungere la superiorità anche su una massa maggiore di cavalleria irregolare, composta da uomini che montavano meglio, più agili nel cavalcare e nel combattere e almeno altrettanto valorosi. Ma che cosa conta tutto questo per Dühring? Napoleone non soggiacque miseramente nella sua lotta con l'Europa? Non subì sconfitte su sconfitte? E perché? Unicamente perché introdusse le idee confuse e nebulose di Hegel nella tattica della cavalleria!

 


 

XIII. Dialettica. Negazione della negazione

 

 

"Questo schizzo storico" (della genesi della cosiddetta accumulazione primitiva del capitale in Inghilterra) "è tutt'ora relativamente la cosa migliore del libro di Marx e sarebbe ancora migliore se non si fosse puntellato per andare avanti, oltre che sulle grucce della dottrina, su quelle della dialettica. Cioè, in mancanza di qualche mezzo migliore e più chiaro, qui la hegeliana negazione della negazione deve far da levatrice ed estrarre l'avvenire dal grembo del passato. La soppressione della proprietà individuale, compiutasi nella maniera già detta sin dal XVI secolo, è la prima negazione. Essa sarà seguita da una seconda, caratterizzata come negazione della negazione e perciò come ristabilimento della "proprietà individuale", ma in forma più elevata, basata sul possesso comune del suolo e degli strumenti di lavoro. Se questa nuova "proprietà individuale" è stata ad un tempo chiamata da Marx anche "proprietà sociale", qui si palesa la superiore unità di Hegel, nel quale la contraddizione deve essere superata, ossia secondo un gioco di parole, deve essere insieme sorpassata e conservata (...) Conseguentemente l'espropriazione degli espropriatori è per così dire il prodotto automatico della realtà storica nelle sue relazioni materiali esterne (...) Difficilmente un uomo giudizioso si lascerebbe convincere della necessità della proprietà comune del suolo e del capitale sul credito dato alle fandonie di Hegel, una delle quali è la negazione della negazione (...) L'ibrida formula nebulosa delle idee di Marx non sorprenderà, del resto, chi sappia che cosa si può combinare o piuttosto che stravaganze debbono venir fuori prendendo come base scientifica la dialettica di Hegel. Per chi sia ignaro di questi artifici bisogna notare espressamente che la prima negazione hegeliana è il concetto catechistico di peccato originale, e la seconda è quella di una superiore unità che porta alla redenzione. Ora, non è effettivamente possibile fondare la logica dei fatti su questo giochetto analogico preso a prestito dal campo della religione (...) Marx resta tranquillamente nel mondo nebuloso della sua proprietà ad un tempo individuale e sociale e lascia ai suoi adepti di risolvere questo profondo enigma dialettico."

Quindi Marx non può dimostrare la necessità della rivoluzione sociale, l'instaurazione della società fondata sulla proprietà comune della terra e dei mezzi di produzione creati dal lavoro, altrimenti che invocando la hegeliana negazione della negazione, e, basando la sua teoria socialista su questo giochetto analogico preso a prestito dalla religione, arriva al risultato che nella società dell'avvenire dominerà una proprietà ad un tempo individuale e sociale, intesa come unità superiore hegeliana data dal superamento della contraddizione.

Lasciamo da parte per intanto la negazione della negazione e guardiamo alla "proprietà ad un tempo individuale e sociale". Essa viene caratterizzata da Dühring come un "mondo nebuloso" e, cosa meravigliosa, in ciò egli ha veramente ragione. Ma disgraziatamente chi si trova in questo mondo nebuloso non è Marx, ma invece ancora una volta proprio Dühring. Invero, come già sopra, grazie alla sua destrezza nel metodo hegeliano del "delirare", poteva stabilire senza fatica che cosa dovessero contenere i volumi ancora incompiuti del "Capitale", così anche qui senza fatica può rettificare hegelianamente Marx, attribuendogli quella unità superiore della unità di cui Marx non ha detto neppure una parola.

In Marx leggiamo:

"È la negazione della negazione. Questa ristabilisce la proprietà individuale, ma fondata sulla conquista dell'era capitalistica, sulla cooperazione di lavoratori liberi e sul loro possesso collettivo della terra e dei mezzi di produzione prodotti dal lavoro stesso. La trasformazione della proprietà privata sminuzzata poggiante sul lavoro personale degli individui in proprietà capitalistica è naturalmente un processo incomparabilmente più lungo, più duro e più difficile della trasformazione della società capitalistica, che già poggia di fatto sulla direzione sociale della produzione, in proprietà sociale" [64].

Questo è tutto. Lo stato di cose instaurato mediante l'espropriazione degli espropriatori viene quindi caratterizzato come il ristabilimento della proprietà individuale ma sulla base della proprietà sociale della terra e dei mezzi di produzione creati dal lavoro stesso. Ciò significa che chiunque capisca il senso delle parole, che la proprietà sociale si estende alla terra e agli altri mezzi di produzione e la proprietà individuale ai prodotti, e quindi agli oggetti dell'uso. E perché la cosa sia comprensibile anche ad un bambino di sei anni, Marx suppone, a pag. 56, una

"associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione comuni e spendano coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali come una sola forza-lavoro sociale,"

quindi una società organizzata socialisticamente, e dice:

"Il prodotto complessivo dell'associazione è prodotto sociale. Una parte serve a sua volta da mezzo di produzione. Rimane sociale. Ma un'altra parte viene consumata come mezzo di sussistenza dai membri dell'associazione. Quindi deve essere distribuita fra di essi" [65].

E questa cosa è davvero abbastanza chiara anche per la testa hegelianizzata di Dühring.

La proprietà ad un tempo individuale e sociale, questa ibrida forma confusa, questa insulsaggine che risulta necessariamente dalla dialettica di Hegel, questo mondo nebuloso, questo profondo enigma dialettico che Marx lascia da risolvere ai suoi adepti, ancora una volta è una libera creazione ed una libera immaginazione di Dühring. Marx, come preteso hegeliano, è tenuto a fornirci, come risultato della negazione della negazione, una giusta unità superiore, e poiché non lo fa secondo i gusti di Dühring, costui ricade necessariamente ancora una volta nel suo stile più elevato e più nobile, e attribuisce a Marx, nell'interesse della più piena verità, cose che sono prodotti assolutamente esclusivi e propri di Dühring. Un uomo che è così completamente incapace di citare correttamente, sia pure in via eccezionale, ha davvero di che indignarsi moralmente di fronte all'"erudizione cinese" di altra gente che, senza eccezioni, cita correttamente, ma proprio per questo "mal nasconde la mancanza di una conoscenza che penetri nel complesso delle idee degli scrittori che di volta in volta cita". Dühring ha ragione. Evviva la maniera di delineare la storia in grande stile!

Sinora siamo partiti dal presupposto che l'ostinazione di Dühring nel falsare le citazioni sia almeno in buona fede e poggi o su una totale incapacità di intendere che gli è propria o, invece, su un'abitudine di citare a memoria, abitudine peculiare alla maniera di delineare la storia in grande stile, e che altrimenti potrebbe tacciarsi di sciatteria. Ma sembra che siamo arrivati ad un punto in cui, anche per Dühring, la quantità si converte in qualità. Infatti, se consideriamo in primo luogo che il passo di Marx è in sé completamente chiaro e che per giunta è anche completato da un altro passo che assolutamente non lascia adito a nessun fraintendimento; in secondo luogo che questa mostruosità di "una proprietà al contempo individuale e sociale", Dühring non l'aveva scoperta né nella sopraccitata critica al "Capitale" contenuta negli "Ergänzungsblätter", né in quella contenuta nella prima edizione della "Storia critica", ma la scopre solo nella seconda edizione e quindi in terza lettura; e, infine, che in questa seconda edizione, rielaborata socialisticamente, Dühring fu costretto a far dire a Marx le più grandi idiozie possibili sulla futura organizzazione della società, per poter invece tanto più trionfalmente presentare, così come fa, "la comunità economica che io ho tratteggiato nei suoi aspetti economici e giuridici nel mio "Corso""; se consideriamo tutto questo, siamo costretti a concludere che qui Dühring ci spinge ad ammettere che egli abbia apportato premeditatamente alle idee di Marx un'"amplificazione benefica": benefica per Dühring.

Ma quale funzione ha in Marx la negazione della negazione? A p. 791 e sgg. Egli riassume i risultati conclusivi dell'indagine, compiuta nelle cinquanta pagine che precedono, sulla cosiddetta accumulazione originaria del capitale [66]. Prima dell'era capitalistica esistevano, almeno in Inghilterra, piccole industrie fondate sulla proprietà privata che il lavoratore aveva dei suoi mezzi di produzione. La cosiddetta accumulazione originaria del capitale qui è consistita nell'espropriazione di questi produttori immediati, cioè nella dissoluzione della proprietà privata fondata sul lavoro proprio. Questo fenomeno fu possibile perché la piccola industria, di cui abbiamo parlato sopra, è compatibile solo con limiti naturali angusti della produzione e della società e perciò ad un certo livello crea i mezzi materiali della sua propria distruzione. Questa distruzione, la trasformazione dei mezzi di produzione individuali e frazionati in mezzi di produzione socialmente concentrati, forma la preistoria del capitale. Appena gli operai si sono trasformati in proletari, i loro mezzi di lavoro si sono trasformati in capitale, appena il modo di produzione capitalistico comincia a reggersi in piedi, l'ulteriore socializzazione del lavoro e l'ulteriore trasformazione della terra e degli altri mezzi di produzione, e perciò l'ulteriore espropriazione dei proprietari privati, prendono una forma nuova.

"Ora, quello che deve essere espropriato non è più il lavoratore indipendente che lavora per sé, ma il capitalista che sfrutta molti operai. Questa espropriazione si compie attraverso il giuoco delle leggi immanenti della stessa produzione capitalistica, attraverso la centralizzazione dei capitali. Ogni capitalista ne ammazza molti altri. Di pari passo con questa centralizzazione ossia con l'espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi, si sviluppano su scala sempre crescente la forma cooperativa del processo di lavoro, la consapevole applicazione tecnica della scienza, lo sfruttamento metodico collettivo della terra, la trasformazione dei mezzi di lavoro in mezzi di lavoro utilizzabili solo collettivamente, la economia di tutti i mezzi di produzione mediante il loro uso come mezzi di produzione del lavoro sociale, combinato. Con la diminuzione costante del numero dei magnati del capitale che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione, cresce la massa della miseria, della pressione, dell'asservimento, della degenerazione, dello sfruttamento, ma cresce anche la ribellione della classe operaia che sempre più si ingrossa ed è disciplinata, unita e organizzata dallo stesso meccanismo del processo di produzione capitalistico. Il monopolio del capitale diventa un vincolo del modo di produzione, che è sbocciato insieme ad esso e sotto di esso. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui divengono incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l'ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati." [67]

Ed ora io chiedo al lettore: dove sono gli intrecci dialettici aggrovigliati e gli arabeschi di idee, quel garbuglio mal concepito di idee per cui infine tutto è uno, dove i miracoli dialettici ad uso dei fedeli, dove il gran mistero della dialettica, dove gli aggrovigliamenti conformi alla dottrina hegeliana del logos, senza i quali Marx, secondo Dühring, è incapace di compiere il suo sviluppo? Marx dimostra semplicemente dal punto di vista storico, e brevemente riassume, questo concetto: che proprio come una volta la piccola industria creò necessariamente col suo proprio sviluppo le condizioni della sua distruzione, cioè dell'espropriazione dei piccoli proprietari, così ora il modo di produzione capitalistico ha creato del pari le stesse condizioni materiali che necessariamente lo distruggono. È questo un processo storico, e se ad un tempo è un processo dialettico, la colpa non è di Marx, per quanto ciò possa essere spiacevole per Dühring.

Solo ora, dopo aver portato a termine la sua dimostrazione storico-economica, Marx prosegue:

"Il modo di produzione e di appropriazione capitalistico, e quindi la proprietà privata capitalistica, è la prima negazione della proprietà privata individuale, fondata sul lavoro personale. Ma la produzione capitalistica genera essa stessa, con l'ineluttabilità di un processo naturale, la propria negazione. È la negazione della negazione" ecc. (come si è citato sopra) [68].

Marx non pensa dunque, caratterizzando questo processo come negazione della negazione, di dimostrare per questa via che esso è un processo storicamente necessario. Al contrario: dopo aver dimostrato storicamente che il processo, in effetti, in parte si è compiuto e in parte deve ancora compiersi, lo caratterizza inoltre come un processo che si compie secondo una legge dialettica determinata. Questo è tutto. Ancora una volta è quindi una pura insinuazione di Dühring la sua affermazione che la negazione della negazione debba qui far da levatrice, estraendo l'avvenire dal grembo del passato, o che Marx esiga che ci si debba, sul credito accordato alla negazione della negazione, lasciar convincere della necessità della proprietà comune del suolo e del capitale (la quale è proprio una contraddizione dühringiana in carne ed ossa).

È già mancare totalmente di ogni conoscenza della natura della dialettica, il ritenerla, come fa Dühring, uno strumento puramente dimostrativo, come su per giù si può considerare in un campo più limitato la logica formale o la matematica elementare. La stessa logica formale è anzitutto un metodo per scoprire nuovi risultati, per progredire dal noto all'ignoto, e la stessa cosa, solo in un senso molto più eminente, è la dialettica, la quale, poiché infrange l'angusto orizzonte della logica formale, contiene il germe di una comprensione del mondo più comprensiva. La stessa situazione si ha nella matematica. La matematica elementare, la matematica delle grandezze costanti, si muove, almeno nel suo complesso, entro i limiti della logica formale; la matematica delle grandezze variabili, di cui il calcolo infinitesimale costituisce la parte più importante, essenzialmente non è altro che l'applicazione delle leggi della dialettica ai rapporti matematici. Qui l'aspetto puramente dimostrativo passa decisamente in secondo piano di fronte alle molteplici applicazioni del metodo a nuovi campi d'indagine. Ma quasi tutte le dimostrazioni della matematica superiore, a partire dalle prime dimostrazioni del calcolo differenziale, considerate rigorosamente, dal punto di vista della matematica elementare, sono false. E non può essere diversamente se, come qui avviene, si vogliono dimostrare per mezzo della logica formale i risultati raggiunti in campo dialettico. Voler dimostrare qualche cosa per mezzo della dialettica, per un crasso metafisico quale Dühring, sarebbe sprecare la medesima fatica che sprecarono Leibniz e i suoi discepoli per dimostrare ai matematici del tempo i principi del calcolo infinitesimale. Il differenziale causava loro le stesse convulsioni che causa a Dühring la negazione della negazione, nella quale del resto, come vedremo, esso ha anche la sua parte. Questi signori infine, se nel frattempo non erano ancora morti, cedettero borbottando, non perché fossero convinti, ma perché i risultati che si ottenevano erano sempre giusti. Dühring, come egli stesso dice, è solo sui quaranta, e se raggiungerà la tarda età che gli auguriamo, potrà anche lui fare la stessa esperienza.

Ma che cosa è dunque questa spaventosa negazione della negazione che rende così amara la vita di Dühring, e che rappresenta per lui lo stesso delitto imperdonabile rappresentato nel cristianesimo dal peccato contro lo spirito santo? Un processo semplicissimo che si compie dappertutto e giornalmente, che ogni bambino può comprendere, solo che lo si liberi dal gran mistero sotto il quale lo nascondeva la vecchia filosofia idealistica e sotto il quale è interesse di metafisici poco agguerriti dello stampo di Dühring continuare a nasconderlo. Prendiamo un chicco di orzo. Miliardi di tali chicchi di orzo vengono macinati, bolliti e usati per fare la birra, e quindi consumati. Ma se un tale chicco di orzo trova le condizioni per esso normali, se cade su un terreno favorevole, sotto l'influsso del calore e dell'umidità subisce un'alterazione specifica, cioè germina, il chicco come tale muore, viene negato, e al suo posto spunta la pianta che esso ha generata, la negazione del chicco. Ma quale è il corso normale della vita di questa pianta? Essa cresce, fiorisce, viene fecondata e infine a sua volta produce dei chicchi di orzo e non appena questi sono maturati, lo stelo muore, viene a sua volta negato. Come risultato di questa negazione della negazione abbiamo di nuovo l'originario chicco di orzo, non però semplice, ma moltiplicato per dieci, per venti, per trenta. Le specie di cereali si modificano con straordinaria lentezza e così l'orzo, quale è oggi, è approssimativamente simile a quello di cent'anni fa. Ma prendiamo invece una pianta ornamentale che può facilmente essere modificata, per es. una dalia o un'orchidea; trattiamone il seme e la pianta che da essa è nata secondo i dettami della floricoltura e otterremo, come risultato di questa negazione della negazione, non solo una maggior quantità di semi, ma anche un seme migliorato qualitativamente, che produce fiori più belli, ed ogni ripetizione di questo processo, ogni nuova negazione della negazione fa progredire questo perfezionamento. Questo processo si compie nella massima parte degli insetti, per es. nelle farfalle, in un modo analogo a quello in cui si compie nel chicco di orzo. Gli insetti nascono dall'uovo mediante negazione dell'uovo, compiono la loro metamorfosi fino a raggiungere la maturità sessuale, si accoppiano e vengono ancora una volta negati, poiché muoiono appena si è compiuto il processo di generazione e la femmina ha deposto le sue numerose uova. Che in altre piante e in altri animali il fenomeno non si compia con questa semplicità, che essi, prima di morire, producano semi, uova o piccoli non una sola, ma più volte, è cosa che qui non ha importanza per noi; qui dobbiamo dimostrare solamente che nei due regni del mondo organico la negazione della negazione ha realmente luogo. Inoltre tutta la geologia è una serie di negazioni negate, una serie di successivi sgretolamenti di vecchie formazioni rocciose e di stratificazioni di nuove formazioni. In un primo tempo la primitiva crosta terrestre sorta dal raffreddamento della massa fluida sotto l'azione di agenti oceanici, meteorologici e chimico-atmosferici si sgretola e queste masse sgretolate si stratificano sul fondo marino. Sollevamenti locali del fondo marino al di sopra della superficie delle acque espongono di nuovo parti superiori di questa prima stratificazione all'azione della pioggia, del calore variabile a seconda delle stagioni, dell'ossigeno e dell'acido carbonico atmosferici; a queste stesse azioni soggiacciono le masse rocciose che, eruttate dall'interno della terra, si sono fuse aprendosi un varco attraverso i suoi strati e si sono poi raffreddate. Durante milioni di secoli si formano in questo modo strati sempre nuovi, sempre di nuovo vengono in gran parte distrutti e sempre di nuovo impiegati come materiale per la formazione di nuovi strati. Ma si ha un risultato molto positivo: la costruzione di un suolo dove si trovano mescolati i più diversi elementi chimici in uno stato di sgretolamento meccanico che permette la vegetazione più copiosa e svariata.

Altrettanto accade nella matematica. Prendiamo una qualsiasi grandezza algebrica, per es. a. Neghiamola e avremo così -a (meno a), neghiamo questa negazione moltiplicando -a per -a, avremo così +a2, cioè la primitiva grandezza positiva, ma ad un grado più elevato, ossia alla seconda potenza. Anche qui non ha importanza il fatto che possiamo ottenere lo stesso a2 moltiplicando per se stessa la grandezza positiva a. Infatti la negazione negata è così fissa in a2, che tutti i casi a2 ha due radici quadrate, cioè a e -a, e questa impossibilità di negare la negazione negata, la radice negativa contenuta nel quadrato, acquista un significato ancora più tangibile nelle equazioni quadratiche. In modo ancora più convincente si presenta la negazione della negazione nell'analisi superiore, in quelle "somme di grandezze indefinitamente piccole" che lo stesso Dühring dichiara le più alte operazioni della matematica e che in linguaggio ordinario si chiamano calcolo differenziale e integrale. Come si compiono queste specie di calcoli? Io ho, per es., in un problema determinato due grandezze variabili, x e y, delle quali l'una non può variare senza che insieme vari l'altra, in un rapporto determinato dalle circostanze. Io derivo x e y, cioè suppongo che x e y siano così infinitamente piccole che scompaiono di fronte ad una grandezza reale, per piccola che essa sia, e che di x e y non resti che il loro rapporto specifico, senza però nessuna, per così dire delle circostanze materiali, un rapporto quantitativo senza quantità dy/dx, il rapporto delle due derivate di x e di y e dunque = 0/0, ma posto 0/0 come l'espressione di y/x. Che questo rapporto tra due grandezze scompare, la fissazione del momento del loro scomparire, è una contraddizione, è cosa che noto solo di passaggio; ma ci può turbare tanto poco quanto poco in generale ha turbato alla matematica da quasi duecento anni. Che cos'altro ho fatto dunque se non aver negato x e y, ma negato non in modo da non occuparmene più, come nega la metafisica, ma in quella maniera che corrisponde alle circostanze. Invece di x e y io ho, nelle formule o equazioni che mi stanno davanti, la loro negazione, dx e dy. Ora io continuo a calcolare con queste formule, tratto dx e dy come grandezze reali, anche se sottoposte a certe leggi eccezionali, e ad un certo punto nego la negazione, cioè integro la formula differenziale, al posto di dx e di dy, ottengo di nuovo le grandezze reali x e y, ma non mi trovo di nuovo al punto in cui ero al principio: invece ho risolto un problema sul quale la geometria e l'algebra comuni si sarebbero forse invano affaticate.

Non altrimenti accade nella storia. Tutti i popoli civili cominciano con la proprietà comune del suolo. In tutti i popoli che oltrepassano un certo grado primitivo, nel corso dello sviluppo dell'agricoltura, questa proprietà comune del suolo diventa una catena per la produzione. Essa viene soppressa, viene negata, viene trasformata, dopo una serie più o meno lunga di gradi intermedi, in proprietà privata. Ma ad un più elevato grado di sviluppo dell'agricoltura, prodotto dalla stessa proprietà privata del suolo, la proprietà privata diventa, al contrario, una catena per la produzione, caso che si verifica oggi tanto nel piccolo quanto nel grande possesso fondiario. Sorge necessariamente l'esigenza che anch'essa sia negata, riconvertita in bene comune. Ma quest'esigenza non implica il ristabilimento della vecchia proprietà comune primitiva, ma l'instaurazione di una forma molto più elevata, più sviluppata di proprietà comune che ben lungi dal diventare una catena per la produzione, la libererà piuttosto dalle sue pastoie e le permetterà di utilizzare in pieno le moderne scoperte della chimica e le moderne invenzioni della meccanica.

O ancora: la filosofia antica fu un materialismo primitivo, spontaneo. Come tale, essa era incapace di venire in chiaro del rapporto tra pensiero e materia. Ma la necessità di chiarirsi questo rapporto portò ad una dottrina di un'anima separabile dal corpo, quindi all'affermazione dell'immortalità di quest'ultima e finalmente al monoteismo. L'antico materialismo fu dunque negato con l'idealismo. Ma nello sviluppo ulteriore della filosofia anche l'idealismo divenne insostenibile e fu negato col moderno materialismo. Quest'ultimo, la negazione della negazione, non è la semplice restaurazione dell'antico materialismo, ma invece alle durevoli basi di esso aggiunge anche tutto il pensiero contenuto in un bimillenario sviluppo della filosofia e della scienza della natura, nonché il pensiero contenuto in questa stessa storia bimillenaria. Insomma non è più una filosofia, ma una semplice concezione del mondo che non ha da trovare la sua riprova e la sua conferma in una scienza della scienza per sé stante, ma nelle scienze reali. La filosofia è dunque qui "superata", cioè "insieme sorpassata e mantenuta", sorpassata quanto alla sua forma, mantenuta quanto al suo contenuto reale. Perciò, dove Dühring vede solo "giuochi di parole", si trova, considerando più attentamente le cose, un contenuto reale.

Finalmente, perfino la dottrina egualitaria rousseauiana, di cui la dühringiana è solo una cattiva copia falsificata, non viene alla luce senza che la hegeliana negazione della negazione debba far da levatrice, e per giunta quasi venti anni prima della nascita di Hegel [69]. E ben lontana dal sentirne vergogna, ostenta quasi sfarzosamente nella sua prima presentazione il marchio della sua origine dialettica. Nello stato di natura e di selvatichezza gli uomini erano eguali; e poiché Rousseau vede nel linguaggio già una falsificazione dello stato di natura, ha completamente ragione nell'applicare, in tutta la sua estensione, l'eguaglianza degli animali di una specie determinata anche a questi uomini-animali che di recente Haeckel ha classificato, in via ipotetica, come alalì, cioè privi di linguaggio [70]. Ma questi uomini-animali, eguali tra di loro, avevano una qualità che li rendeva superori agli altri animali: la perfettibilità, l'idoneità ad uno sviluppo ulteriore; e fu questa la causa della disuguaglianza. Nel sorgere della disuguaglianza Rousseau vede dunque un progresso. Ma questo progresso era antagonistico, era ad un tempo un regresso.

"Tutti gli ulteriori progressi" (che oltrepassano lo stato primitivo) "sono stati in apparenza altrettanti passi verso la perfezione dell'individuo, e in effetti verso la decrepitezza della specie (...) La metallurgia e l'agricoltura furono le due arti la cui invenzione produsse questa grande rivoluzione" (la trasformazione della foresta vergine in terra coltivata, ma anche l'introduzione della miseria e della schiavitù per opera della proprietà). "L'oro e l'argento per il poeta, ma per il filosofo sono il ferro e il grano che hanno civilizzato gli uomini e prodotto il genere umano."

Ogni nuovo progresso della civiltà è ad un tempo un nuovo progresso della disuguaglianza. Tutte le istituzioni che si dà la società nata con la civiltà si mutano nel contrario di quello che era il loro fine primitivo.

"È dunque incontestabile, ed è la massima fondamentale di tutto il diritto politico, che i popoli si son dati dei capi per difendere la propria libertà e non per servirli."

E tuttavia questi capi diventano necessariamente gli oppressori dei popoli e spingono questa oppressione sino al punto in cui la disuguaglianza, portata al suo culmine, si converte a sua volta nel suo contrario, diventa causa dell'eguaglianza: davanti al despota tutti sono uguali, ossia uguali a zero.

"È qui l'ultimo termine dell'ineguaglianza, è il punto estremo che chiude il cerchio e torna al punto da cui siamo partiti: ora tutti gli individui ridivengono eguali, perché non sono niente, e (...) i sudditi" (non hanno) "altra legge che la volontà del padrone."

Ma il despota è padrone solo finché ha la forza, perciò quando

"Lo si può cacciare non può reclamare contro la violenza (...) Solo la forza lo sorreggeva, solo la forza lo abbatte; tutto avviene in tal modo secondo l'ordine naturale".

E così la disuguaglianza si muta a sua volta in eguaglianza, non però nell'antica eguaglianza naturale degli uomini primitivi privi di linguaggio, ma in quella più elevata del contratto sociale. Gli oppressori vengono oppressi. È negazione della negazione.

Qui abbiamo dunque, già in Rousseau, non solo un corso di idee che è perfettamente uguale a quello seguito nel "Capitale" di Marx, ma, anche nei particolari, tutta una serie di quegli sviluppi dialettici di cui si serve Marx: processi che per loro natura sono antagonistici, contengono in sé una contraddizione, il convertirsi di un estremo nel suo contrario e finalmente, come nocciolo di tutto, la negazione della negazione. Se dunque Rousseau nel 1754 non poteva ancora parlare il gergo hegeliano, tuttavia, sedici anni prima della nascita di Hegel, era già profondamente corrotto dalla peste hegeliana, dalla dialettica della contraddizione, dalla dottrina del logos, dal neologismo, ecc. E se Dühring, rendendo superficiale la dottrina egualitaria rousseauiana, opera coi suoi vittoriosi due uomini, è anche lui già su quel piano inclinato sul quale scivolerà senza scampo tra le braccia della negazione della negazione. Lo stato di cose in cui fiorisce l'eguaglianza dei due uomini e che è anche rappresentato come uno stato ideale, a p. 271 della "Filosofia" viene designato come "stato primitivo". Questo stato primitivo, secondo la p. 279, viene però necessariamente soppresso dal "sistema di rapina": prima negazione. Ma, grazie alla filosofia della realtà, siamo arrivati ora ad abolire il sistema di rapina e ad introdurre al suo posto quella comunità economica, poggiante sull'eguaglianza, che è stata inventata da Dühring: negazione della negazione, eguaglianza ad un grado più elevato. Delizioso spettacolo che allarga beneficamente l'orizzonte, vedere Dühring commettere, con la sua augusta persona, il delitto capitale della negazione della negazione!

Che cos'è dunque la negazione della negazione? Una legge di sviluppo estremamente generale della natura, della storia e del pensiero e che appunto perciò ha un raggio d'azione e un'importanza estremamente grandi; legge che, come abbiamo visto, si afferma nel mondo animale e vegetale, nella geologia, nella matematica, nella storia, nella filosofia, e alla quale, malgrado ogni lotta e ogni resistenza, anche Dühring, senza saperlo, è obbligato, in qualche modo, ad obbedire. È evidente per se stesso che, riguardo al particolare processo di sviluppo che compie, per es., il chicco di orzo dalla germinazione sino alla morte della pianta che reca la spiga, io non dico assolutamente niente dicendo che è negazione della negazione. Infatti, se affermassi il contrario, poiché il calcolo integrale egualmente è negazione della negazione, affermerei solo l'assurdo che il processo biologico di una spiga di orzo sia calcolo integrale, o anche, ahimè!, socialismo. Ma questo è ciò che i metafisici continuano, nelle scuole, ad attribuire alla dialettica. Se di tutti questi processi io dico che sono negazione della negazione, li comprendo tutti insieme sotto questa unica legge del movimento e precisamente trascuro la particolarità di ogni singolo processo speciale. Ma la dialettica non è niente altro che la scienza delle leggi generali del movimento e dello sviluppo della natura, della società umana e del pensiero.

Si può obiettare però che la negazione che qui ha avuto luogo non è una vera negazione: io nego un chicco d'orzo anche macinandolo, un insetto anche calpestandolo, la grandezza positiva a anche cancellandola, ecc. Ovvero, io nego la proposizione "la rosa è una rosa" dicendo "la rosa non è una rosa"; ma che risultato si ha negando di nuovo questa ultima proposizione e dicendo: "ma pure, la rosa è una rosa"? queste obiezioni sono in effetti gli argomenti principali dei metafisici contro la dialettica e sono del tutto degni della loro limitatezza di pensiero. Nella dialettica negare non significa dir di no, o dichiarare che una cosa non è sussistente o comunque distruggerla. Già Spinoza dice: Omnis determinatio est negatio, ogni limitazione o determinazione è ad un tempo una negazione [71]. E inoltre qui il carattere specifico della negazione è determinato in primo luogo dalla natura generale e in secondo luogo dalla natura particolare del processo. Io devo non soltanto negare, ma anche di nuovo sopprimere la negazione. Devo quindi costruire la prima negazione in un modo tale che la seconda resti o diventi possibile. Come? A seconda della natura particolare di ogni singolo caso. Macinando un chicco di orzo, calpestando un insetto, ho certo compiuto il primo atto, ma ho reso impossibile il secondo. Ogni genere di cose ha una sua maniera peculiare di essere negata in modo che ne risulti uno sviluppo, e la stessa cosa si ha per ogni genere di idee e di concetti. Nel calcolo infinitesimale la negazione avviene in un modo diverso che nella costruzione di potenze positive per mezzo di radici negative. È questa una cosa che deve essere appresa come tutte le altre. Con la semplice cognizione che la spiga di orzo e il calcolo infinitesimale sono sottoposti alla negazione della negazione, io non potrò né coltivare con successo dell'orzo, né derivare o integrare, così come non saprò senz'altro suonare il violino con le semplici leggi della determinazione dei toni mediante la dimensione delle corde. Ma è chiaro che da una negazione della negazione che consista nell'occupazione puerile di scrivere e cancellare alternativamente a, o di affermare alternativamente di una rosa che essa è o non è una rosa, non può risultare nient'altro che la stupidità di chi si dà a tali fastidiosi procedimenti. Eppure i metafisici vorrebbero darci a bere che se mai volessimo compiere la negazione della negazione, è questa la maniera giusta.

Quindi ancora una volta non altri che Dühring è quello che ci mistifica, affermando che la negazione della negazione è un giochetto analogico inventato da Hegel, preso a prestito dal campo della religione, fondato sulla storia del peccato originale e della redenzione. Gli uomini hanno pensato dialetticamente molto tempo prima di sapere che cosa fosse la dialettica, proprio nello stesso modo che parlavano in prosa molto tempo prima che esistesse la parola prosa [72]. Alla legge della negazione della negazione, che opera inconsciamente nella natura e nella storia, e, sino a quando non venga finalmente riconosciuta, opera inconsciamente anche nella nostra testa, Hegel ha soltanto dato per la prima volta una formulazione netta. E se Dühring vuole anche esercitare la cosa in segreto, ed è solo il nome ciò che non può sopportare, non ha che da trovare un nome migliore. Se invece è proprio la cosa che egli vuol cacciar via dal pensiero, di grazia cominci col cacciarla via dalla natura e dalla storia e inventi una matematica in cui -a × -a non dia +a2 e in cui il derivare e l'integrare siano vietati sotto minaccia di pena.

 


 

XIV Conclusione

 

 

Con la filosofia siamo ormai alla fine; quel tanto di fantasie avveniristiche che ancora si trova nel "Corso" ci occuperà quando avremo occasione di trattare del dühringiano rivoluzionamento del socialismo. Che cosa ci ha promesso Dühring? Tutto. E che cosa ha mantenuto? Assolutamente nulla. "Gli elementi di una filosofia positiva e conseguentemente rivolta alla realtà della natura e della vita", la "visione del mondo rigorosamente scientifica", le "idee creatrici di sistema", e tutte le altre gesta di Dühring, da Dühring strombazzate in frasi altisonanti, tutte queste cose, ovunque ci abbiamo messo le mani, si sono rivelate puro imbroglio. La schematizzazione del mondo che "senza rinunziare in niente alla profondità del pensiero, ha stabilito saldamente le forme fondamentali dell'essere" si è rivelata una cattiva copia, infinitamente superficiale, della logica hegeliana, e di questa condivide la superstizione che tali "forme fondamentali" o categorie logiche conducano una misteriosa esistenza in qualche luogo prima e fuori del mondo, al quale debbono essere "applicate". La filosofia della natura ci ha offerto una cosmogonia il cui punto di partenza è "uno stato eguale a se stesso della materia", stato che si può rappresentare solo facendo la più disperata confusione sul nesso di materia e movimento, e inoltre solo ammettendo un dio personale extramondano, l'uomo che può aiutare questo stato a raggiungere il movimento. Nel trattare la natura organica, la filosofia della realtà, dopo aver rigettato la lotta per l'esistenza e la selezione naturale di Darwin come "un campione di brutalità diretta contro l'umanità", è costretta a farle rientrare entrambe per la porta di servizio, come fattori efficienti della natura, se anche fattori di second'ordine. La filosofia della realtà, inoltre, ha trovato modo di dar saggio, nel campo della biologia, di un'ignoranza che, da quando non si può più sfuggire alle conferenze scientifiche popolari, bisognerebbe cercare col lanternino persino tra le ragazze di buona famiglia. Nel campo della morale e del diritto, la filosofia della realtà non è stata più felice nel rendere banale Rousseau di quanto non lo fosse stata prima nel rendere superficiale Hegel e, anche per quanto riguarda le scienze giuridiche, malgrado ogni assicurazione in contrario, ha dimostrato un'ignoranza che solo raramente si potrebbe trovare tra i più comuni giuristi della vecchia Prussia. La filosofia "che non ammette orizzonti meramente apparenti" si accontenta, nel campo del diritto, di un orizzonte reale che coincide col territorio in cui vige il Landrecht prussiano. Le "stelle e i cieli della natura esterna ed interna" che questa filosofia ha promesso di dispiegare davanti a noi nel suo moto possentemente rivoluzionario, li stiamo sempre aspettando, non meno delle "verità definitive di ultima istanza" e di "ciò che è assolutamente fondamentale". Il filosofo la cui maniera di pensare "esclude ogni velleità di rappresentare il mondo in modo fantastico e soggettivamente limitato" si rivela soggettivamente limitato non solo, come si è dimostrato, per l'estrema deficienza delle sue conoscenze, per la sua maniera di pensare angustamente metafisica e per la sua istrionesca presunzione, ma persino per le sue fanciullesche ubbie personali. Costui non può venire a capo della sua filosofia della realtà senza imporre come una legge universalmente valida la sua avversione per il tabacco, i gatti e gli ebrei a tutto il resto dell'umanità, inclusi gli ebrei. Il suo "punto di vista realmente critico" di fronte agli altri consiste nell'attribuir loro con insistenza cose che essi non hanno mai detto e che sono invece prodotti assolutamente esclusivi e propri di Dühring. Le sue ampie elucubrazioni su temi piccolo-borghesi, come il valore della vita e la miglior maniera di goder la vita, sono di un filisteismo che spiega la sua ira contro il Faust di Goethe. È stato certamente imperdonabile da parte di Goethe l'aver preso come suo eroe l'immortale Faust anziché il grave filosofo della realtà Wagner. In breve la filosofia della realtà, presa nel suo complesso, si rivela, per dirla con Hegel, il "più superficiale sottoprodotto illuministico del superficiale illuminismo tedesco", sottoprodotto la cui insipidità e i cui trasparenti luoghi comuni sono resi solo più grossolani e più torbidi dai brani smozzicati di retorica oracoleggiante che vi sono mescolati. E quando siamo alla fine del libro, ne sappiamo proprio quanto ne sapevamo prima e siamo costretti a confessare che la "nuova maniera di pensare", cioè "i risultati e le vedute originali sin dalle fondamenta" e le "idee che creano un sistema" ci hanno certo presentato vari assurdi nuovi ma neanche una riga da cui avremmo potuto imparare qualche cosa. E quest'uomo che decanta le sue arti e le sue merci a suon di timpani e di trombe come il più volgare ciarlatano e dietro alle cui parole non c'è niente, ma proprio assolutamente niente, quest'uomo si permette di chiamar ciarlatani uomini come Fichte, Schelling e Hegel, il più piccolo dei quali è sempre un gigante di fronte a lui. Ciarlatano in effetti, -ma chi?

 

Note

59. Nella prefazione (25 luglio 1867) alla prima edizione del "Capitale" Marx scrisse: "Il secondo volume di questo scritto tratterà il processo di circolazione del capitale (libro II), e le formazioni del processo complessivo (libro III); il volume terzo, conclusivo (libro IV) tratterà la storia della teoria". Dopo la morte di Marx, Engels pubblicò i libri II e III come secondo e terzo volume. Egli non arrivò a pubblicare l'ultimo libro, il IV ("Teorie sul plusvalore").

60. K. Marx "Il Capitale", libro I, trad. it. citata, pag. 346.

61. Ibid., p. 347, il corsivo è di Engels.

62. Ibid., p. 367.

63. Nelle memorie di Napoleone: "Dix-sept notes sur l'ouvrage...", p. 262.

64. K. Marx "Il Capitale", libro I, trad. it. citata, pag. 826. Il testo riportato da Engels, al quale qui è conformata la traduzione, è riportato nella seconda edizione tedesca (1872) del libro I del "Capitale"; esso è leggermente diverso da quello della IV edizione (1890), sulla quale è fatta la traduzione italiana sopra citata.

65. Ibid., p. 110. I corsivi sono di Engels.

66. Ibid., p. 823 e sgg.: si tratta del paragrafo 7 ("Tendenza storica dell'accumulazione capitalistica"), che conclude il capitolo 24 ("La cosiddetta accumulazione originaria").

67. Ibid., pp. 825-826. Ma vedi la nota 64.

68. Ibid., p. 826. Ma vedi la nota 64.

69. Rousseau scrisse nel 1754 il "Discours sul l'origine et les fondements de l'inégalité parmì les hommes", da cui sono tratti i brani seguenti.

70. Cfr. Hernst Haeckel "Natürliche Schöpfungsgeschichte...", IV ediz., pp. 590-591. Nella classificazione di Haeckel, l'alalus rappresenta una fase che precede immediatamente l'uomo vero e proprio. Gli alalì sono "uomini primitivi privi della parola", o meglio uomini-scimmia (pitecantropi). L'ipotesi di Haeckel sull'esistenza di una forma di passaggio dalla scimmia antropomorfa all'uomo fu confermata nel 1894, quando lo scienziato landese Eugen Dubois descrisse il Pithecanthropus erectus, i cui resti fossili egli aveva scoperto nel 1891 nell'iosa di Giava.

71. La formula "determinatio est negatio" si trova in una lettera di Spinoza del 2 giugno 1674 a una persona non nominata, dove essa è usata nel senso: limitazione o determinazione è negazione. La formula "omnis determinatio est negatio", col valore di "ogni determinatezza è la negazione", si trova nelle opere di Hegel, attraverso le quali ebbe larga diffusione.

72. Vedi la commedia di Molière "Il borghese gentiluomo", atto II, scena 4.

 


Ultima modifica 16.10.2002