Archivio Paul Mattick

Paul Mattick 1983

Marxismo ieri, oggi e domani


Fonte: Marxismo. L’ultimo rifugio della Borghesia? Paul Mattick, edito da Paul Mattick Junior., pubblicato da Merlin Press, 1983.

Tradotto: da Francesco Sartor con la collaborazione di Gian Maria Freddi, 2010


 

 

Nella concezione di Marx, cambiamenti delle condizioni sociali e materiali nella gente ne alterano la coscienza. Questo è anche vero per il Marxismo e il suo sviluppo storico. Il Marxismo cominciò come teoria di lotta di classe basata su specifici rapporti sociali della produzione capitalista. Ma mentre la sua analisi delle contraddizioni sociali intrinseche nella produzione capitalista si riferisce alla tendenza generale dello sviluppo capitalista, la lotta di classe è una questione quotidiana e si adatta in base ai cambiamenti delle condizioni sociali. Questi aggiustamenti trovano la loro riflessione nell’ideologia marxiana. La storia del capitalismo è quindi anche la storia del Marxismo.

Il movimento dei lavoratori precedette la teoria marxiana e le fornì le effettive basi per il suo sviluppo. Il Marxismo divenne la teoria dominante del movimento socialista in quanto fu in grado di rivelare convincentemente la struttura sfruttatrice della società capitalista e simultaneamente fu in grado di svelare i limiti storici di questo particolare stile di produzione. Il segreto del vasto sviluppo del capitalismo – cioè, il costante aumento dello sfruttamento della forza lavoro – era anche il segreto delle varie difficoltà che lo indirizzavano verso la sua disfatta finale. Il “Capitale” di Marx, impiegando metodi d’analisi scientifica, fu in grado offrire una teoria che sintetizzava la lotta di classe e le contraddizioni generali della produzione capitalista.

La critica di Marx dell’economia politica era necessariamente astratta quanto lo era l’economia politica stessa. Essa era in grado di trattare solo la tendenza generale dello sviluppo capitalista, non le sue sfaccettate manifestazioni concrete in ogni periodo particolare. Poiché l’accumulazione di capitale è al contempo la causa dell’espansione del sistema e la ragione del suo declino, la produzione capitalistica procede come un processo ciclico di espansione e contrazione. Queste due situazioni implicano condizioni sociali differenti e quindi reazioni differenti da parte sia del lavoro che del capitale. Per la precisione, la tendenza generale dello sviluppo capitalista implica la difficoltà crescente nell’evitare un periodo di contrazione per mezzo di un’ulteriore espansione di capitale, e così una tendenza verso il collasso del sistema. Ma non è possibile dire a che punto particolare del suo sviluppo il capitale si disintegrerà per l’oggettiva impossibilità di continuare il suo processo di accumulazione.

La produzione capitalista, implicando l’assenza di ogni sorta di regolazione sociale cosciente della produzione, trova un certo tipo di cieca regolazione nel meccanismo della domanda e dell’offerta del mercato. Quest’ultimo, a turno, si adatta alla richiesta d’espansione del capitale come indicato da un lato dal cambiamento dello sfruttamento della forza lavoro e dall’altro dall’alterazione della struttura del capitale dovuta all’accumulazione di capitale. Le entità particolari coinvolte in questo processo non sono empiricamente discernibili, sicché è impossibile determinare se una particolare crisi della produzione capitalista sarà di lunga o breve durata, sarà più o meno devastante in riguardo alle condizioni sociali, o proverà d’essere la crisi finale del sistema capitalista provocando una risoluzione rivoluzionaria attraverso l’azione della risvegliata classe lavoratrice.

In linea di principio, ogni crisi prolungata e profonda potrebbe scatenare una situazione rivoluzionaria che potrebbe intensificare la lotta di classe fino al punto della sovversione del capitalismo –ammesso, ovviamente, che le condizioni oggettive portino avanti una prontezza soggettiva a cambiare i rapporti sociali di produzione. Nei primi movimenti marxisti, questa era vista come una possibilità realistica, dovuta al fatto di un crescente movimento socialista e dell’estensione della lotta di classe all’interno del sistema capitalista. Lo sviluppo di quest’ultimo era creduto essere parallelo allo sviluppo della coscienza di classe del proletariato, alla crescita delle organizzazioni della classe lavoratrice, e all’idea diffusa che vi era un’alternativa alla società capitalista.

La teoria e la pratica della lotta di classe erano viste come un fenomeno unitario, dovuto all’auto-espansione e alla connessa autolimitazione dello sviluppo capitalista. Si pensava che il crescente sfruttamento del lavoro e la progressiva polarizzazione della società in una piccola minoranza di sfruttatori e una vasta maggioranza di sfruttati avrebbe sollevato la coscienza di classe dei lavoratori e così la loro inclinazione rivoluzionaria nel distruggere il sistema capitalista. Di fatto, le condizioni sociali di quel tempo non permettevano un'altra prospettiva, poiché l’espansione del capitalismo industriale era accompagnato dalla crescente miseria delle classi lavoratrici e da un notevole acutizzarsi della lotta di classe. E ancora, questa era meramente una possibilità permessa da queste condizioni, che non ancora a questo punto rivelavano la possibilità di un altro corso degli eventi. .

Benché interrotto da periodi di crisi e di depressione il capitalismo è stato in grado di conservarsi fino ad ora per mezzo di una continua espansione del capitale e della sua estensione spaziale attraverso l’accelerazione della crescita della produttività del lavoro. Si è dimostrato possibile non solo di riguadagnare una temporaneamente perduta profittabilità, ma anche di incrementarla sufficientemente per continuare il processo di accumulazione e di conseguenza di aumentare le condizioni di vita della grande maggioranza della popolazione lavoratrice. La riuscita espansione di del capitale e il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori portò a un dubbio diffuso riguardante la validità dell’astratta teoria di Marx dello sviluppo capitalista. La realtà empirica di fatto sembrava contraddire le aspettative di Marx riguardo il futuro del capitalismo. Anche dove la sua teoria era soddisfatta, questa non fu più associata ad una pratica ideologicamente mirata alla sovversione del capitalismo. Il Marxismo rivoluzionario si trasformò in una teoria evoluzionistica, esprimendo il desiderio di trascendere il sistema capitalista per mezzo del costante riformare delle sue istituzioni politiche ed economiche. Il revisionismo marxista, in entrambe le forme esplicita ed implicita, portò a un tipo di sintesi tra Marxismo e ideologia borghese, come un corollario teorico alla pratica integrazione del movimento lavoratore nella società capitalista.

Non troppo peso dovrebbe essere dato a ciò, comunque, perché il movimento organizzato dei lavoratori ha sempre incluso solo la più piccola porzione della classe lavoratrice. La grande massa dei lavoratori si adatta all’ideologia dominante borghese e – soggetta alle condizioni oggettive del capitalismo – costituisce solo potenzialmente una classe rivoluzionaria. Potrebbe diventare rivoluzionaria per forza delle circostanze che sovrastano le limitazioni della sua consapevolezza ideologica e così offrire alla sua parte di classe cosciente un’opportunità di tramutarsi potenzialmente in realtà attraverso il suo esempio rivoluzionario. Questa funzione della parte cosciente della classe lavoratrice venne persa mediante la sua integrazione nel sistema capitalista. Il Marxismo divenne una dottrina sempre più ambigua, servendo scopi diversi da quelli contemplati inizialmente.

Tutto ciò è storia: specialmente, la storia della Seconda Internazionale, la quale rivelò che la sua apparente orientazione marxista era meramente una falsa ideologia di pratica non-rivoluzionaria. Questo non aveva nulla a che vedere con un “tradimento” del Marxismo, ma era il risultato della rapida ascesa e del crescente potere del capitalismo, che indussero il movimento dei lavoratoria adattarsi alle mutevoli condizioni della produzione capitalista. Sicché una sovversione del sistema sembrò impossibile, le modificazioni del capitalismo determinarono quelle del movimento dei lavoratori. Come un movimento riformista, quest’ultimo partecipò alle riforme del capitalismo, basate sulla crescente produttività del lavoro e sulla sua competitiva espansione imperialistica dei capitali razionalmente organizzati. La lotta di classe si tramutò in collaborazione di classe.

Sotto queste alterate condizioni, il Marxismo, visto che non era stato interamente rigettato o reinterpretato nel suo opposto, assunse una forma puramente ideologica che non influì sulla pratica procapitalista del movimento dei lavoratori. Come tale, poteva esistere fianco a fianco con altre ideologie competendo per fedeltà. Non rappresentava più la coscienza di un movimento dei lavoratori lì fuori per sovvertire la società esistente, ma una visione mondiale presumibilmente basata sulla scienza sociale dell’economia politica. Con ciò diventò un interesse degli elementi più critici della classe media, connesso con, ma non parte della, classe lavoratrice. Questa fu meramente la concretizzazione della raggiunta divisione tra la teoria marxiana e l’effettiva pratica del movimento dei lavoratori.

È di sicuro vero che le idee socialiste erano prima e principalmente – benché non solo – proposte dai membri della classe media i quali erano disturbati dalle condizioni sociali inumane del primo capitalismo. Erano queste condizioni, non il livello della loro intelligenza, che attirarono l’attenzione sul cambiamento sociale e con ciò sulla classe lavoratrice. Quindi non è sorprendente che i miglioramenti capitalisti di fine secolo dovevano maturare il loro acume critico, e questo ancor più da quando la classe lavoratrice stessa aveva perso la maggior parte del suo fervore d’opposizione. Il Marxismo divenne una preoccupazione degli intellettuali e acquistò un carattere accademico. Non era più predominantemente accostato come un movimento di lavoratori ma come un problema scientifico da discutere. Tuttavia le dispute sui vari problemi sollevati dal Marxismo servirono a mantenere l’illusione della natura marxista del movimento dei lavoratori finché fu dissipata dalle realtà della Prima Guerra Mondiale.

Questa guerra, la quale rappresentò una gigante crisi della produzione capitalistica, portò ad una rinascita di breve durata del radicalismo nel movimento dei lavoratori e nella classe lavoratrice in generale. A questo livello essa preannunciò un ritorno alla teoria e pratica marxista. Ma fu solo in Russia che le agitazioni sociali portarono alla soppressione dell’arretrato, semifeudale regime capitalista. Non di meno, questa fu la prima volta che un regime capitalista veniva liquidato attraverso le azioni della sua popolazione oppressa e la determinazione di un movimento marxista. Il Marxismo morto della Seconda Internazionale sembrò avere bisogno di essere rimpiazzato dal Marxismo vivente della Terza Internazionale. E poiché fu il Partito Bolscevico, sotto la guida di Lenin, a tramutare quella russa in una rivoluzione sociale, fu la particolare interpretazione di Lenin del Marxismo che divenne il Marxismo del nuovo e “più alto” stadio del capitalismo. È questo Marxismo emendato alquanto giustamente in “Marxismo-Leninismo” che ha dominato il mondo del primo dopoguerra.

Questo non è il luogo per reiterare la storia della Terza Internazionale e il tipo di Marxismo che portò avanti. Questa storia è ben documentata in numerose pubblicazioni, le quali o biasimano lo Stalinismo per il suo collasso o lo riconducono a Lenin medesimo. I fatti sono che il concetto di rivoluzione mondiale non poteva essere realizzato e che la Rivoluzione Russa rimase una rivoluzione nazionale e quindi legata alle realtà delle sue condizioni socio-economiche. Nel suo isolamento, non poteva essere giudicata una rivoluzione socialista nel senso marxiano, per la mancanza di tutti i prerequisiti per una trasformazione socialista della società – cioè, il predominio del proletariato industriale, e un apparato produttivo che, nelle mani dei produttori, poteva non solo cessare lo sfruttamento ma anche guidare la società oltre i confini del sistema capitalista. Così come stavano le cose, il Marxismo poteva solo fornire l’ideologia sostenitrice, anche quando contraddicendosi, della realtà del capitalismo di Stato. In altre parole, come nella Seconda Internazionale, così anche nella sua succeditrice, subordinato com’era agli interessi specifici della Russia bolscevica, il Marxismo poteva solo funzionare come ideologia per celare una pratica non-rivoluzionaria prima e controrivoluzionaria poi.

In assenza di un movimento rivoluzionario, la Grande Depressione, colpendo la maggioranza del mondo, portò non ad agitazioni rivoluzionarie ma al Fascismo e alla Seconda Guerra Mondiale. Questo significò il totale collasso del Marxismo. Il primo dopoguerra iniziò una fresca ondata di espansione capitalistica su scala internazionale. Non solo il capitale monopolistico emergeva rafforzato dal conflitto, ma emersero anche nuovi sistemi di capitalismo di Stato per via della liberazione nazionale o della conquista imperialistica. Questa situazione coinvolse non un riemergere del Marxismo rivoluzionario ma una “guerra fredda”, cioè, il confronto di sistemi capitalistici organizzati in modo differente in continua lotta per le sfere d’interesse e di porzioni di sfruttamento. Dalla parte del capitalismo di Stato, questo confronto fu camuffato come un movimento marxista contro la monopolizzazione capitalistica dell’economia mondiale, mentre dalla sua parte, il capitalismo della proprietà privata era molto grato di identificare i suoi nemici come marxisti o comunisti, chino a distruggere con la libertà di accumulare capitale tutte le libertà della civilizzazione. Questo atteggiamento servì ad appioppare saldamente il soprannome di “Marxismo” all’ideologia del capitalismo di Stato.

Così i cambiamenti portati da una serie di depressioni e guerre portarono non ad un confronto tra capitalismo e socialismo, ma ad una divisione del mondo in sistemi economici più o meno centralmente controllati e ad un ampliamento del margine tra nazioni a capitalismo sviluppato e nazioni sottosviluppate. È vero che questa divisione è generalmente vista come quella tra paesi capitalisti, socialisti e del terzo mondo, ma questa è una semplificazione fuorviante di una piuttosto più complessa distinzione tra questi sistemi economici e politici. Il “Socialismo” è comunemente inteso come un’economia controllata dallo Stato all’interno della struttura nazionale, nella quale la pianificazione rimpiazza la competizione. Tale sistema non è più capitalismo nel senso tradizionale, ma neanche socialismo nel senso marxista dell’associazione di liberi ed eguali produttori. Funzionando in un mondo capitalista e perciò imperialista, esso non può fare a meno di prendere parte nella competizione generale per il potere economico e politico e, come il capitalismo, deve espandersi o contrarsi. Deve crescere forte in ogni rispetto, al fine di limitare l’espansione del capitale monopolistico per il quale altrimenti sarebbe distrutto. La forma nazionale dei cosiddetti regimi socialisti o a controllo statale li mise in conflitto non solo con il mondo capitalista tradizionale, o con particolari nazioni capitaliste, ma anche tra di loro; essi devono dare importanza prima di tutto agli interessi nazionali, ossia gli interessi dei nuovi emergenti privilegiati strati dominanti le cui esistenza e sicurezza sono basate sullo stato-nazionale. Questo porta alla rappresentazione spettacolare di un tipo d’imperialismo “socialista” e alla minaccia di una guerra tra paesi nominalmente socialisti.

Tale situazione era inconcepibile nel 1917. Il Leninismo, o (come disse Stalin) “il Marxismo dell’era dell’imperialismo” si aspettava una rivoluzione mondiale sul modello della Rivoluzione Russa. Esattamente come in Russia diverse classi si erano mischiate per sovvertire l’autocrazia, così anche su scala internazionale le nazioni in vari stadi di sviluppo avrebbero potuto combattere contro il nemico comune, il capitale imperialista monopolistico. Ed esattamente come in Russia sarebbe stata la classe lavoratrice, sotto la guida del Partito Bolscevico, che avrebbe trasformato la rivoluzione borghese in proletaria, così l’Internazionale Comunista sarebbe stata lo strumento atto a trasformare le lotte antimperialiste in rivoluzioni socialiste. Sotto queste condizioni, era concepibile che le nazioni meno sviluppate avrebbero potuto saltare un altrimenti inevitabile sviluppo capitalista ed essere integrate in un mondo socialista emergente. Basato sul presupposto di rivoluzioni socialiste vittoriose nelle nazioni avanzate, questa teoria non poteva essere né giusta né sbagliata, siccome le attese rivoluzioni non si materializzarono.

Quello che è d’interesse in questo contesto sono le inclinazioni rivoluzionarie del movimento bolscevico prima e subito dopo la sua salita al potere. La sua rivoluzione fu fatta in nome del Marxismo rivoluzionario, come sovversione politico-militare del sistema capitalista e instaurazione della dittatura per assicurare la trasformazione in una società senza classi. Tuttavia, perfino in questo stadio, e non solo a causa delle condizioni prevalenti in Russia, il concetto Leninista di ricostruzione socialista deviò dalla nozione del Marxismo originale e si basò invece su quella maturata all’interno della Seconda Internazionale. Per quest’ultima, il socialismo era concepito come la conseguenza automatica dello sviluppo capitalista stesso. La concentrazione e la centralizzazione del capitale implicavano l’eliminazione progressiva della competizione capitalista e con ciò della sua natura basata sulla proprietà privata, fino a quando il governo socialista, emergendo dal processo parlamentare democratico, avrebbe trasformato il capitale monopolistico nel monopolio di Stato e iniziato così il socialismo per mezzo di decreti governativi. Benché a Lenin e ai bolscevichi questo sembrò un’utopia irrealizzabile così come una scusa ripugnante per l’astensione da ogni tipo d’attività rivoluzionaria, anch’essi pensarono all’istituzione del socialismo come una faccenda governativa, ma da condurre per via rivoluzionaria. Questi differivano dalla socialdemocrazia in riguardo ai mezzi per raggiungere un obbiettivo per altri aspetti comune – nazionalizzazione del capitale per mezzo dello Stato e pianificazione centralizzata dell’economia.

Lenin era d’accordo anche con la filistea e arrogante asserzione di Karl Kautsky secondo cui la classe lavoratrice di per sé è incapace di evolvere una coscienza rivoluzionaria, che le deve essere portata dall’esterno dall’intellighenzia della classe media. La forma organizzata di quest’idea fu il partito rivoluzionario come avanguardia dei lavoratori e come presupposto necessario per una rivoluzione vincente. Se, in questa prospettiva, la classe lavoratrice è incapace di fare la propria rivoluzione, sarà ancor meno capace di costruire la nuova società, un incarico riservato al partito dominante come possessore dell’apparato statale. La dittatura del proletariato quindi appariva come quella del partito organizzato come Stato. E poiché lo Stato deve avere anche controllo sull’intera società, deve anche controllare le azioni della classe lavoratrice, anche se questo controllo è supposto essere esercitato in suo favore. In pratica, questo si rivelò essere il dominio totalitario del governo bolscevico.

La nazionalizzazione dei mezzi di produzione e il regime autoritario del governo certamente differenziò il sistema bolscevico da quello del capitalismo occidentale. Ma questo non alterò i rapporti sociali di produzione, i quali in entrambi i sistemi sono basati sul divorzio dei lavoratori dai mezzi di produzione e sulla monopolizzazione del potere politico nelle mani dello Stato. Non era più il capitale privato ma il capitale a controllo statale che ora si opponeva alla classe lavoratrice e perpetuava la forma di lavoro salariato dell’attività produttiva, mentre permetteva l’appropriazione del pluslavoro attraverso l’azione dello Stato. Benché il sistema espropriò il capitale privato, esso non abolì il rapporto capitale-lavoro sul quale poggia la moderna classe dominante. Era quindi meramente una questione di tempo prima che emergesse una nuova classe dominante, i cui privilegi sarebbero dipesi precisamente dalla conservazione e riproduzione del sistema di produzione e di distribuzione a controllo statale come la sola forma “realistica” di socialismo marxiano.

Il Marxismo, comunque, come critica dell’economia politica e lotta per una società non sfruttatrice e libera da classi, ha senso solo all’interno dei rapporti di produzione capitalisti. Una fine del capitalismo implicherebbe anche la fine del Marxismo. Per una società socialista, il Marxismo sarebbe un fatto di storia come ogni altra cosa del passato. Già la descrizione di “socialismo” come un sistema marxista nega l’autoproclamata natura socialista del capitalismo di Stato. L’ideologia marxista funziona qui non più che come un tentativo di giustificare i nuovi rapporti di classe come requisito necessario per la costruzione del socialismo e così per guadagnare l’acquiescenza delle classi lavoratrici. Come nel vecchio capitalismo, gli interessi speciali della classe dominante sono fatti apparire come interessi generali.

Ma anche così, all’inizio il Marxismo-Leninismo era una dottrina rivoluzionaria, per lei era dannatamente importante realizzare il suo concetto di socialismo attraverso mezzi pratici diretti. Mentre questo concetto implicava non più che la formazione di un capitalismo di Stato, questo fu il modo nel quale, al cambio di secolo, il socialismo era stato inteso alquanto generalmente. Non è quindi possibile parlare di un “tradimento” bolscevico dei prevalenti principi marxisti, viceversa, egli realizzò la trasformazione del capitalismo della proprietà privata in capitalismo di Stato, che era l’obbiettivo dichiarato dei marxisti revisionisti e riformisti. Questi ultimi, tuttavia, avevano perso del tutto l’interesse ad agire per i loro apparenti ideali e avevano preferito adattarsi allo status quo capitalista. Quello che i bolscevichi fecero fu rendere attuale il programma della Seconda Internazionale con la rivoluzione.

Una volta al potere, comunque, la struttura del capitalismo di Stato della Russia bolscevica determinò il suo ulteriore sviluppo, ora generalmente descritto con il termine peggiorativo “Stalinismo”. Il motivo per cui esso assunse questo particolare carattere era spiegato dal riferimento all’arretratezza generale della Russia e dal suo accerchiamento capitalista, il quale richiese l’estrema centralizzazione del potere e sacrifici immani da parte della popolazione lavoratrice. Sotto diverse condizioni, come prevalse in nazioni capitalisticamente più avanzate e sotto rapporti internazionali politicamente più favorevoli, si disse, che il Bolscevismo non avrebbe richiesto la durezza particolare che aveva dovuto esercitare nel primo paese socialista. Quelli meno favorevolmente inclini verso questo primo esperimento di “socialismo” asserivano che la dittatura di partito era soltanto un’espressione della ancora attuale natura “semi-asiatica” del Bolscevismo e che non poteva essere ripetuta in nazioni occidentali più avanzate. L’esempio russo fu utilizzato per giustificare la politica riformista come l’unica via per migliorare le condizioni della classe lavoratrice in occidente.

Presto, comunque, la dittatura fascista in Europa Occidentale dimostrò che il controllo dello Stato da parte di un partito non era ristretto alla scena russa ma era applicabile a qualsiasi sistema capitalista. Tale controllo poteva essere utilizzato esattamente in egual modo per il mantenimento degli esistenti rapporti sociali di produzione così come per la loro trasformazione in capitalismo di Stato. Di certo, Fascismo e Bolscevismo continuavano a differire in rispetto alla struttura economica, anche quando divennero praticamente indistinguibili. Ma la concentrazione del controllo politico nelle nazioni capitaliste totalitarie implicava la coordinazione centrale dell’attività economica per i fini specifici della politica fascista e con ciò un’approssimazione più vicina al sistema russo. Per il Fascismo questo non era un obiettivo ma una misura temporanea, analoga al “socialismo di guerra” della prima Guerra Mondiale. Non di meno, questo fu un primo segnale che il capitalismo occidentale non era immune alle tendenze del capitalismo di Stato.

Con l’atteso, ma piuttosto inaspettato consolidamento del regime bolscevico e la relativamente indisturbata coesistenza dei sistemi sociali opposti fino alla Seconda Guerra Mondiale, gli interessi russi richiesero l’ideologia marxista non solo per scopi interni ma anche esterni, per assicurare il supporto del movimento internazionale dei lavoratori in difesa dell’esistenza nazionale della Russia. Questo coinvolse solo una parte del movimento dei lavoratori, di certo, ma quella parte avrebbe potuto distruggere il fronte antibolscevico, il quale ora includeva i vecchi partiti socialisti e i sindacati riformisti. Siccome queste organizzazioni avevano già abbandonato la loro eredità marxiana, la supposta ortodossia marxiana del Bolscevismo divenne praticamente il complesso della teoria marxista come controideologia a tutte le forme di anti-Bolscevismo e a tutti i tentativi di indebolire e distruggere lo Stato russo. Simultaneamente, comunque, erano stati fatti tentativi per assicurare lo stato di coesistenza attraverso varie concessioni all’avversario capitalista e per dimostrare i mutuali vantaggi che potevano essere guadagnati attraverso il commercio internazionale e altri mezzi di collaborazione. Questa politica a due facce servì al solo fine di preservare lo Stato bolscevico assicurando gli interessi internazionali della Russia.

In questa maniera, il Marxismo fu ridotto in un’arma ideologica servendo esclusivamente le necessità difensive di un particolare Stato e di un unico paese. Non più racchiudendo aspirazioni rivoluzionarie internazionali, esso utilizzò l’Internazionale Comunista come limitato strumento politico per l’interesse speciale della Russia Bolscevica. Ma questi interessi ora includevano, in misura crescente, la conservazione dello status quo internazionale al fine di proteggere quello del sistema russo. Se all’inizio era stato il fallimento della rivoluzione mondiale che indusse la politica russa nel trinceramento, ora era la stabilità del capitalismo mondiale che diventò una condizione di sicurezza russa, che il regime stalinista tentava di solidificare. L’estendersi del Fascismo e l’alta probabilità di nuovi tentativi di trovare soluzioni imperialiste alla crisi mondiale misero in pericolo non solo lo stato di coesistenza ma anche le condizioni intime russe, che richiedevano un certo grado di tranquillità internazionale. La propaganda marxista cessò di preoccuparsi dei problemi del capitalismo e del socialismo, ma nella forma di anti-Fascismo, si diresse contro una particolare forma politica di capitalismo che minacciava di scatenare una nuova guerra mondiale. Questo implicava, senza dubbio, l’accettare le potenze capitaliste antifasciste come potenziali alleati e così la difesa della democrazia borghese contro gli attacchi dalla destra o dalla sinistra come dimostrato durante la guerra civile in Spagna.

Anche prima di questo momento storico, il Marxismo-Leninismo aveva assunto la stessa funzione ideologica puerile che aveva caratterizzato il Marxismo della Seconda Internazionale. Non era più associato con la pratica politica cui scopo finale era la soppressione del capitalismo, magari per portare a galla il capitalismo di Stato mascherato da socialismo, ma era ora appagato con la sua esistenza all’interno del sistema capitalista nello stesso senso nel quale il movimento socialdemocratico accettava le date condizioni della società come inviolabili. La condivisione del potere su scala internazionale presupponeva lo stesso a livello nazionale, e il Marxismo-Leninismo fuori dalla Russia si era trasformato in un movimento strettamente riformista. Così solo i fascisti erano rimasti come forze effettivamente aspiranti ad un completo controllo sullo Stato. Non vi furono tentativi seri per prevenire la loro salita al potere. Il movimento dei lavoratori, inclusa la sua parte bolscevica, confidava esclusivamente sui processi democratici tradizionali per affrontare la minaccia fascista. Questo significò la sua totale passività e progressiva demoralizzazione e assicurò la vittoria del Fascismo come unica forza dinamica operante all’interno della crisi mondiale.

Non è di certo solo il controllo politico russo del movimento internazionale comunista, per mezzo della Terza Internazionale, che spiega la sua capitolazione in favore del Fascismo, ma anche la burocratizzazione del movimento, il quale concentrò tutto il potere decisionale nelle mani di politici di professione che non condividevano le condizioni sociali del proletariato impoverito. La burocrazia si trovò nella posizione “ideale” di essere in grado di esprimere la sua opposizione verbale al sistema e, al contempo, di prendere parte ai privilegi che la borghesia conferiva ai suoi ideologi politici. Questi non avevano alcuna ragione per opporsi alla politica generale dell’Internazionale Comunista, la quale coincideva con i loro stessi bisogni immediati in quanto capi riconosciuti della classe lavoratrice in una democrazia borghese. In fine, comunque, è la generale apatia dei lavoratori stessi, la loro impreparazione nel prendersi cura della loro soluzione indipendente della questione sociale, che spiega questo stato di cose assieme al suo risultato fascista. Mezzo secolo di Marxismo riformista sotto il principio della leadership, e la sua accentuazione nel Marxismo-Leninismo, produsse un movimento dei lavoratori incapace di agire per i suoi stessi interessi e quindi incapace di inspirare la classe lavoratrice tutta per tentare di prevenire il Fascismo e la guerra attraverso la rivoluzione proletaria.

Così nel 1914, l’internazionalismo, e con lui il Marxismo, era ancora annegato nel mare in espansione del nazionalismo e dell’imperialismo. Le politiche trovarono le loro basi nell’esigenza delle costellazioni di potenze imperialiste in movimento, le quali portarono prima al patto tra Hitler e Stalin e quindi all’alleanza anti-Hitler tra l’URSS e le potenze democratiche. La fine delle anche se solo puramente verbali aspirazioni del Marxismo trovarono una ritardata simbolizzazione nella liquidazione della Terza Internazionale. Il risultato della guerra, preordinato dal carattere imperialista, divise il mondo in due blocchi, i quali presto ricominciarono la competizione per il controllo mondiale. La natura antifascista della guerra implicò il ripristino di regimi democratici nelle nazioni sconfitte e così il riemergere dei partiti politici, includendo quelli con connotazione marxista. Nell’Est, la Russia, ripristinò il suo impero e vi aggiunse sfere d’interesse come gran parte del bottino di guerra. La rottura del dominio coloniale creò le nazioni del “terzo mondo”, le quali adottarono il sistema russo o una economia mista del tipo occidentale. Sorse una forma di neocolonialismo che assoggettò le nazioni “emancipate” al più indiretto ma egualmente efficace controllo da parte delle grandi potenze. Ma il diffondersi delle nazioni orientate al capitalismo di Stato era comunemente visto come la diffusione del Marxismo sul globo, e l’arrestarsi di questa tendenza come una lotta contro un Marxismo che minacciava le (indeterminate) libertà del mondo capitalista. Questo tipo di Marxismo e anti-Marxismo non hanno alcuna connessione con la lotta tra lavoro e capitale come pensata da Marx e il primo movimento dei lavoratori.

Nella sua forma attuale, il Marxismo è stato un movimento più regionale che internazionale, come potrebbe essere supposto dalla sua precaria presa nei paesi anglosassoni. La rinascita dei partiti marxisti del dopoguerra colpì principalmente le nazioni che affrontavano particolari difficoltà economiche, come la Francia e l’Italia. La divisione e l’occupazione della Germania preclusero la riorganizzazione di un partito comunista di massa nella zona occidentale. I partiti socialisti infine ripudiarono il loro passato, ancora tinto di idee marxiste, e si convertirono in partiti borghesi o “popolari” difendendo il capitalismo democratico. I partiti comunisti continuarono ad esistere nel mondo, legalmente o illegalmente, ma le loro possibilità di influenzare eventi politici sono più o meno nulle per il presente e il futuro prossimo. Il Marxismo, come movimento rivoluzionario dei lavoratori, si trova oggi al suo minimo storico.

Quello che sconcerta maggiormente è la risposta capitalista senza precedenti al Marxismo teorico. Questo nuovo interesse nel Marxismo in generale, e nell’“economia marxista” in particolare, di pertinenza quasi esclusivamente del mondo accademico, il quale è essenzialmente il mondo della classe media. C’è un’enorme produzione letteraria marxista; la “Marxologia” è divenuta una nuova professione, e ci sono branche marxiste “radicali” di economia, storia, filosofia, sociologia, psicologia e così via. Tutto ciò potrebbe risultare non altro che una moda intellettuale. Ma anche così questo fenomeno testimonia il presente stato crepuscolare della società capitalista e la sua perdita di confidenza nel suo futuro. Mentre in passato la progressiva integrazione del movimento dei lavoratori nel tessuto capitalista implicò l’adattamento della teoria socialista nelle realtà di un capitalismo che si stava dispiegando, questo processo è ora similmente inverso attraverso i molti tentativi di utilizzare le scoperte del Marxismo a scopi capitalistici. Questo biforcuto tentativo di riconciliazione, nel superare come minimo fino ad un certo punto l’antagonismo tra la teoria marxiana e quella borghese, riflette una crisi sia nel marxismo che nella società borghese.

Benché il Marxismo comprenda la società in tutti i suoi aspetti, esso si concentra su i rapporti sociali di produzione come il fondamento della totalità capitalista. In accordo con la concezione materialista della storia, esso concentra i suoi interessi sulle condizioni economiche e quindi sociali dello sviluppo capitalistico. Mentre la concezione materialistica della storia da molto tempo è stata silenziosamente plagiata dalla scienza sociale borghese, fino a poco tempo fa la sua applicazione al sistema capitalista rimase inesplorata. È lo sviluppo del capitalismo stesso che ha forzato la teoria economica borghese a considerare le dinamiche del sistema capitalista e così ad emulare, in qualche modo, la teoria marxiana dell’accumulazione e le sue conseguenze.

Qui dobbiamo ricordare che lo spostamento del Marxismo da una teoria rivoluzionaria ad una teoria evoluzionistica – con rispetto per la teoria – ruotò attorno alla questione se la teoria dell’accumulazione di Marx fosse o non fosse anche una teoria di necessità oggettiva del collasso del capitalismo. L’ala riformista del movimento dei lavoratori asseriva che non c’era una ragione oggettiva per il declino e la distruzione del sistema, mentre la minoranza rivoluzionaria supportò la convinzione che le immanenti contraddizioni del capitalismo dovevano portare alla sua inevitabile fine. Sia che questa condanna fosse basata sulle contraddizioni nelle sfere di produzione o che fosse basata su quelle della circolazione, il Marxismo di sinistra insisteva sulla certezza del collasso finale del capitalismo, espresso da crisi sempre più devastanti, le quali avrebbero portato avanti una preparazione soggettiva da parte del proletariato per sovvertire il sistema con mezzi rivoluzionari.

La negazione dei riformisti dei limiti oggettivi del capitalismo rivolse la loro attenzione dalle sfere di produzione a quelle di distribuzione, e in questo modo dai rapporti sociali di produzione ai rapporti di mercato, i quali sono l’unica preoccupazione della teoria economica borghese. I turbamenti del sistema erano ora visti come provenienti dai rapporti di domanda e offerta, i quali inutilmente causavano periodi di sovrapproduzione attraverso una mancanza di domanda effettiva dovuta a salari ingiustificatamente bassi. Il problema economico era ridotto alla questione di una più equa distribuzione del prodotto sociale all’interno del sistema. Per tutti gli scopi pratici, ora si sosteneva, la teoria economica borghese era di più grande importanza dell’approccio marxista, e quindi il Marxismo avrebbe dovuto approfittare della teoria prevalente del mercato e del prezzo al fine di poter giocare un ruolo più efficace nel contesto delle politiche sociali.

Ora veniva detto che vi erano leggi economiche che operavano in tutte le società e non erano soggette alla critica marxista. La critica dell’economia politica aveva come suo oggetto soltanto le forme istituzionali sotto le quali le leggi economiche eterne riaffermavano se stesse. Il cambiamento del sistema non avrebbe cambiato le leggi dell’economia. Mentre vi erano differenze tra l’approccio borghese e quello marxista all’economia vi erano anche similitudini che entrambi dovevano riconoscere. La perpetuazione della relazione capitale-lavoro, ossia, il sistema salariato, nelle sedicenti società socialiste, la loro accumulazione di capitale sociale, e la loro applicazione di un cosiddetto sistema incentivato che divide la forza lavoro in varie categorie di reddito – tutte queste e altre ancora erano ora ritenute esser necessità inalterabili imposte dalle leggi economiche. Queste leggi richiedevano l’applicazione degli strumenti analitici dell’economia borghese in modo da tener conto del razionale compimento dell’economia pianificata socialista.

Questo tipo di Marxismo, “arricchito” dalla teoria borghese, presto trovò il suo compimento nel tentativo di modernizzare la teoria economica borghese. Questa teoria era stata in crisi dalla Grande Depressione nella vigilia della Prima Guerra Mondiale. La teoria dell’equilibrio di mercato non poteva né spiegare né giustificare la prolungata depressione, e così perse il suo valore ideologico per la borghesia. Tuttavia, la teoria neoclassica trovò una sorta di resurrezione attraverso la sua modificazione keynesiana. Benché dovesse essere ammesso che il fino ad allora assunto meccanismo dell’equilibrio del sistema del mercato e dei prezzi non era più funzionante, ora si asseriva che poteva essere concepito per esserlo con un piccolo aiuto del governo. Il disequilibrio di una domanda insufficiente poteva essere rafforzato da una produzione indotta dal governo per il “consumo pubblico”, non solo sull’assunzione di condizioni statiche ma anche sotto condizioni di crescita economica quando bilanciato da mezzi monetari e fiscali appropriati. L’economia di mercato, assistita da piani del governo, supererebbe allora la suscettibilità del capitalismo di andare verso la crisi e depressione e permetterebbe, in linea di principio, una crescita stabile della produzione capitalista.

L’appello al governo e al suo intervento cosciente nell’economia, così come l’attenzione prestata alle dinamiche del sistema, diminuì l’aspra opposizione tra l’ideologia liberista e quella dell’economia pianificata. Questo corrispose ad una convergenza visibile dei due sistemi, uno influenzando l’altro, in un processo che porta forse ad una combinazione degli elementi preferiti di entrambi in una futura sintesi atta a superare le difficoltà della produzione capitalista. Infatti, la lunga ripresa economica dopo la Seconda Guerra Mondiale sembrò comprovare queste aspettative. Tuttavia, malgrado la continua disponibilità di interventi del governo, una nuova crisi seguì questo periodo di espansione capitalista, com’era sempre successo in passato. L’intelligente “aggiustamento” dell’economia e il “compromesso” tra l’inflazione e la disoccupazione non prevenì un nuovo declino economico. La crisi e i mezzi progettati per affrontarla hanno provato essere egualmente nocivi per il capitale. La crisi corrente è così accompagnata dalla bancarotta del neo-Keynesismo, così come la Grande Depressione dettò la fine della teoria neoclassica.

A parte il fatto che le effettive condizioni di crisi portarono al dilemma della teoria economica borghese ad un punto cruciale, il suo lungo impoverimento attraverso la sua crescente formalizzazione sollevò molti dubbi negli economisti accademici. Il corrente questionare di quasi tutte le assunzioni della teoria neoclassica e il suo frutto keynesiano portò alcuni economisti – più energicamente rappresentati dai così detti neo-ricardiani – ad un tiepido ritorno agli economisti classici. Marx stesso è considerato come un economista ricardiano e come tale trova favore crescente tra l’intento degli economisti borghesi di integrare il suo “lavoro pionieristico” nella loro specialità, le scienze economiche.

Il Marxismo, comunque, significa né più né meno che la distruzione del capitalismo. Anche come disciplina scientifica esso non offre niente alla borghesia. E ancora, come un’alternativa alla discreditata teoria sociale borghese, potrebbe servire quest’ultima fornendo alcune idee utili per il suo ringiovanimento. Dopo tutto, s’impara dall’opposizione. Inoltre, in questa apparentemente “realizzata” forma nei “paesi socialisti”, il Marxismo punta a soluzioni pratiche che potrebbero essere anche utili nell’economia mista, come un ulteriore aumento di normative stabilizzanti del governo. Una pratica di reddito e salario, per esempio, si avvicina molto agli accordi analoghi nei sistemi economici centralmente controllati. Infine, vista l’assenza di movimenti rivoluzionari, il tipo accademico d’indagine marxista è senza rischi, poiché essa è ristretta al mondo delle idee. Per quanto può sembrare strano, è la mancanza di tali movimenti in un periodo di tumulto sociale che trasforma il Marxismo in una merce discambio e in un fenomeno culturale testimoniando la tolleranza e la correttezza democratica della società borghese.

L’improvvisa popolarità della teoria marxista non di meno riflette un’ideologica tanto quanto economica crisi del capitalismo. Soprattutto coinvolge quelli responsabili per la manifattura e la distribuzione delle ideologie – cioè, gli intellettuali della classe medio-borghese specializzati in teorie sociali. La loro classe come un tutt’uno potrebbe sentirsi messa in pericolo dal corso dello sviluppo capitalista, con il suo visibile declino sociale, e quindi genuinamente cercare alternative al dilemma sociale che è anche il loro. Questi potrebbero fare così per motivi, comunque opportunistici, che sono necessariamente legati con un atteggiamento critico verso il sistema prevalente. In questo senso, il presente “rinascimento marxista” potrebbe oscurare un ritorno del Marxismo come movimento sociale d’importanza pratica e teorica.

Non di meno, ora come ora ci sono poche prove di una reazione rivoluzionaria alla crisi capitalista. Se si distingue tra la “sinistra oggettiva” nella società, cioè, il proletariato come tale, e la sinistra organizzata, la quale non è strettamente proletaria, allora è solo in Francia e in Italia che si può parlare di forze organizzate che plausibilmente sfidano il dominio capitalista, ammesso che esse abbiano tali intenzioni. Ma i partiti comunisti e i sindacati di questi paesi si sono da tempo trasformati in puri partiti riformisti, a loro agio nel sistema capitalista e pronti a difenderlo. Il fatto stesso del loro gran seguito tra la classe lavoratrice indica l’impreparazione e la mancanza di volontà dei lavoratori di sovvertire il sistema capitalista, e viceversa il desiderio immediato di trovare una sistemazione nel sistema capitalista. La loro illusione riguardante la riformabilità del capitalismo supporta l’opportunismo politico dei partiti comunisti.

Con l’aiuto del termine auto-contraddittorio di “Eurocomunismo”, questi partiti provano a differenziare il loro presente atteggiamento dalla politica passata – cioè, chiarire che il loro tradizionale, sebbene da tempo dimenticato, obbiettivo, ovvero, il capitalismo di Stato è stato definitivamente abbandonato in favore dell’economia mista e della democrazia borghese. Questa è la risposta naturale all’integrazione dei “paesi socialisti” nel mercato capitalista mondiale. È anche una ricerca per l’assunzione di responsabilità più grandi all’interno dei paesi capitalisti e dei loro governi ed una promessa di non distruggere quel limitato grado di cooperazione raggiunto dalle potenze europee. Non implica una rottura radicale con la parte del mondo a capitalismo di Stato, ma semplicemente il riconoscimento che anche questa parte non è al momento interessata a un’ulteriore estensione del sistema a capitalismo di Stato per mezzo rivoluzionario, ma piuttosto alla sua stessa sicurezza in un mondo sempre più instabile.

Mentre rivoluzioni socialiste a questo stadio di sviluppo sono più che dubbie, tutte le attività della classe lavoratrice in difesa dei suoi interessi possiedono un carattere potenzialmente rivoluzionario. In periodi di relativa stabilità economica la lotta di classe stessa accelera l’accumulazione di capitale, forzando la borghesia a adottare modi più efficienti per incrementare la produttività del lavoro. Salari e profitto potrebbero, come già menzionato, salire assieme senza disturbare l’espansione del capitale. Una depressione, tuttavia, porta il simultaneo (benché ineguale) aumento del profitto e dei salari ad una fine. La profittabilità del capitale deve essere restaurata prima che il processo di accumulazione possa essere ricominciato. La lotta tra lavoro e capitale ora coinvolge l’esistenza vera e propria del sistema, legata com’è alla continua espansione. Oggettivamente, le lotte economiche ordinarie per salari più alti assumono implicazioni rivoluzionarie, e così forme politiche, siccome una classe può trionfare solo a scapito dell’altra.

Di certo, i lavoratori potrebbero essere pronti ad accettare, entro certi limiti, una riduzione della quota del prodotto sociale, magari per evitare le miserie di protratti confronti con la borghesia e il suo Stato. A causa delle esperienze precedenti, la classe dominante si aspetta attività rivoluzionarie e si è armata adeguatamente. Ma il supporto politico delle grandi organizzazioni lavoratrici è egualmente necessario per prevenire le agitazioni sociali su larga scala. Siccome una lunga depressione minaccia il sistema capitalista, è essenziale per i partiti comunisti così come per altre organizzazioni riformiste aiutare la borghesia a superare le sue condizioni di crisi. Essi devono provare a prevenire le attività della classe lavoratrice che potrebbero ritardare un recupero capitalista. La loro politica opportunista assume apertamente un carattere controrivoluzionario immediatamente quando il sistema si trova in pericolo di rivendicazioni della classe lavoratrice che non possono essere soddisfatte all’interno di un capitalismo dominato dalla crisi.

Benché le economie miste non si trasformeranno in capitalismo di Stato per loro volere, e benché i partiti di sinistra abbiano, al momento, scartato i loro obbiettivi di capitalismo di Stato, questo potrebbe non prevenire agitazioni sociali su una scala abbastanza larga da travolgere sia i controlli politici della borghesia che quelli dei suoi alleati nel movimento dei lavoratori. Se tale situazione dovesse succedere, la presente identificazione del socialismo nel capitalismo di Stato, e una riconsacrazione dei partiti comunisti ai tratti originali del bolscevismo, potrebbero benissimo deviare ogni sollevamento spontaneo dei lavoratori in canali del capitalismo di Stato. Esattamente come le tradizioni della socialdemocrazia nei paesi del centro Europa prevennero la rivoluzione politica del 1918 dal divenire una rivoluzione sociale, così le tradizioni del Leninismo potrebbero prevenire la realizzazione del socialismo in favore del capitalismo di Stato.

L’introduzione del capitalismo di Stato in paesi dal capitalismo avanzato, come risultato della Seconda Guerra Mondiale, dimostra che questo sistema non è ristretto a nazioni a capitalismo sottosviluppato, ma potrebbe essere applicabile universalmente. Tale possibilità non fu prevista da Marx. Per Marx, il capitalismo sarebbe stato rimpiazzato dal socialismo, non per mezzo di un sistema ibrido contenente elementi di entrambi all’interno dei rapporti capitalistici di produzione. La fine dell’economia di mercato competitiva non è necessariamente la fine dello sfruttamento capitalistico, il quale può essere anche realizzato all’interno del sistema a controllo Statale. Questa è una situazione storicamente nuova che indica la possibilità di uno sviluppo caratterizzato generalmente dal monopolio di Stato sui mezzi di produzione, non come un periodo di transizione verso il socialismo ma come una nuova forma di produzione capitalistica.

Le azioni rivoluzionarie presuppongono una distruzione generale della società che si sottrae dal controllo della classe dominante. Fino ad ora tali azioni sono accadute solo in connessione con catastrofi sociali, come la perdita di una guerra e l’associata disfatta economica. Questo non significa che tali situazioni sono un prerequisito assoluto di una rivoluzione, ma punta all’estensione della disintegrazione sociale necessaria per condurre ad una sollevazione sociale. La rivoluzione deve coinvolgere la ribellione della maggioranza della popolazione attiva, qualcosa che non è indotta dall’indottrinamento ideologico ma è il risultato della pura necessità. Le attività risultanti producono la loro stessa coscienza rivoluzionaria, ovvero una comprensione di che fare così come non fare per non essere distrutti dal nemico capitalista. Ma al momento, il potere politico e militare della borghesia non è minacciato dal dissenso interno e i meccanismi per le azioni economiche manipolatorie non sono ancora così esauriti. Malgrado la crescente competizione internazionale per l’assottigliato profitto dell’economia mondiale, le classi dominanti delle varie nazioni si supportano ancora a vicenda nella soppressione dei movimenti rivoluzionari.

Le enormi difficoltà concernenti la rivoluzione sociale e la ricostruzione comunista della società furono terribilmente sottostimate dall’originale movimento marxista. Di certo, la resilienza e l’adattabilità del capitalismo ai cambiamenti di condizioni non potevano essere scoperte che provando a metterci una fine. Dovrebbe essere chiaro a questo punto, comunque, che le forme assunte dalla lotta di classe durante la crescita del capitalismo non sono adeguate al suo periodo di declino, il quale permette solo il suo sovvertimento rivoluzionario. L’esistenza del sistema capitalista di Stato dimostra anche che il socialismo non può essere raggiunto per mezzi giudicati sufficienti in passato. E ancora, questo prova non il fallimento del Marxismo ma meramente il carattere illusorio di molte delle sue manifestazioni, come riflesso delle illusioni create dallo sviluppo del capitalismo stesso.

Ora come prima, l’analisi marxista della produzione capitalista e della sua peculiare e contraddittoria evoluzione per mezzo dell’accumulazione è l’unica teoria che è stata empiricamente confermata dallo sviluppo capitalista. Per parlare di quest’ultimo noi dobbiamo parlare in termini marxisti o non parlare affatto. Ecco perché il Marxismo non può morire ma durerà fin quando il capitalismo esisterà. Benché largamente modificate, le contraddizioni della produzione capitalistica persistono nei sistemi a capitalismo di Stato. Siccome tutti i rapporti economici sono rapporti sociali, il continuare dei rapporti sociali in questi sistemi implica il continuare della lotta di classe, anche se, di primo acchito, solo nell’unilaterale forma di dominio autoritario. L’inevitabile e crescente integrazione dell’economia mondiale affligge tutte le nazioni senza dar conto alla loro particolare struttura socio-economica e tende ad internazionalizzare la lotta di classe e quindi a indebolire i tentativi per trovare soluzioni nazionali ai problemi sociali. Fino ad ora, allora quindi, siccome lo sfruttamento di classe prevale, esso genererà un’opposizione marxista , anche se tutta la teoria marxista dovesse essere soppressa o usata come una falsa ideologia in supporto di una pratica anti-marxista.

La storia, certo, è fatta dalla gente, per mezzo della lotta di classe. Il declino del capitalismo – reso visibile da un lato dalla continua concentrazione di capitale e dalla centralizzazione del potere politico, e dall’altro lato dalla crescente anarchia del sistema, malgrado, e a causa, di tutti i tentativi di realizzare una più efficiente organizzazione sociale – potrebbe essere una faccenda tirata per le lunghe. Sarà così, a meno che non venga accorciata da un’azione rivoluzionaria da parte della classe lavoratrice e da tutti coloro i quali non riescono ad assicurarsi un’esistenza nelle condizioni sociali in via di deterioramento. Ma a questo punto il futuro del Marxismo rimane estremamente vago. I vantaggi delle classi dominanti e i loro strumenti di repressione devono essere uguagliati da un potere più grande di quello che le classi lavoratrici sono state fino ad ora in grado di generare. Non è inconcepibile che questa situazione durerà condannando in questo modo il proletariato a pagare un prezzo addirittura più alto per la sua incapacità ad agire in difesa dei propri interessi di classe. Inoltre, non è da escludere che la perseveranza del capitalismo porterà alla distruzione della società stessa. Poiché il capitalismo rimane suscettibile a crisi catastrofiche, le nazioni tenderanno, come hanno fatto in passato, a ricorrere alla guerra, per districarsi dalle difficoltà e a spese di altre potenze capitaliste. Questa tendenza include la possibilità di una guerra nucleare, e come stanno le cose oggi, la guerra sembra persino più probabile di una rivoluzione socialista internazionale. Benché le classi dominanti siano a completa conoscenza delle conseguenze di una guerra nucleare, esse possono solo provare a prevenirla tramite il mutuo terrore, cioè, tramite l’espansione competitiva dell’arsenale nucleare. Siccome hanno solo un limitatissimo controllo sulle loro economie, esse non hanno neanche un reale controllo sui loro interessi politici, e qualsiasi intenzione esse abbiano per evitare la mutua distruzione non influisce eccessivamente sulla probabilità del suo avvenire. È questa situazione terribile che preclude la fiducia dei primi tempi nella certezza e nel successo di una rivoluzione socialista.

Siccome il futuro è aperto, anche se determinato dal passato e dalle condizioni immediatamente date, i marxisti devono procedere assumendo che la strada verso il socialismo non sia ancora chiusa e che ci sia ancora una possibilità di sovvertire il capitalismo prima della sua autodistruzione. Il socialismo ora sembra non solo l’obbiettivo del movimento rivoluzionario dei lavoratori ma anche l’unica alternativa alla parziale o totale distruzione del mondo. Questo richiede, sicuramente, l’emergere di movimenti socialisti che riconoscano i rapporti di produzione capitalisti come la l’origine della crescente miseria sociale e della minacciosa caduta in uno stato di barbarie. Comunque, dopo più di cent’anni di agitazioni sociali, questa sembra essere un’impresa disperata. Quello che una generazione impara, un’altra dimentica, guidata da forze fuori dal suo controllo e quindi comprensione. Le contraddizioni del capitalismo, come un sistema d’interesse privato determinato da necessità sociali, sono riflesse non solo nella mente capitalista ma anche nella coscienza del proletariato. Entrambe le classi reagiscono al risultato delle loro stesse attività come se fossero soggette a leggi naturali inalterabili. Soggette al feticismo della produzione delle merci queste percepiscono il modo di produzione capitalista storicamente limitato come una condizione infinita alla quale ognuno e ogni cosa si deve adattare. Dal tempo in cui questa percezione erronea assicura lo sfruttamento del lavoro da parte del capitale, essa è di sicuro promossa dal capitalista come l’ideologia della società borghese e indottrinata nel proletariato.

Le condizioni capitalistiche della produzione sociale forzano la classe lavoratrice ad accettare il suo sfruttamento come unico modo per assicurarsi il suo sostentamento. I bisogni immediati dei lavoratori possono essere soddisfatti solo sottomettendosi a queste condizioni e al loro riflesso nell’ideologia dominate. Generalmente, il lavoratore accetta una assieme all’altra, come rappresentazione del mondo reale, la quale non può essere sfidata eccetto che con il suicidio. Una fuga dall’ideologia borghese non altererà la sua effettiva posizione nella società ed è al massimo un lusso all’interno delle condizioni della sua dipendenza. Non importa quanto si emancipi ideologicamente, per tutti gli scopi pratici deve procedere come se fosse ancora sotto il dominio dell’ideologia borghese. I suoi pensieri e azioni sono per necessità discrepanti. Egli può realizzare che i suoi bisogni individuali possono essere assicurati solo da un’azione di classe collettiva, ma sarà comunque forzato a far fronte ai suoi bisogni immediati d’individuo. La doppia natura del capitalismo come produzione sociale per tornaconto privato riappare nell’ambiguità della posizione del lavoratore come individuo e membro di una classe sociale.

È questa situazione, piuttosto che alcune incapacità condizionate a trascendere l’ideologia capitalista, che rende i lavoratori riluttanti nell’esprimere e nell’agire sui loro atteggiamenti anti-capitalisti, i quali completano la loro posizione sociale come lavoratori salariati. Essi sono completamente consapevoli del loro status di classe, anche quando lo negano o lo ignorano, ma riconoscono anche i poteri enormi schierati contro di loro, i quali minacciano la loro distruzione nel caso in cui si permettessero di sfidare i rapporti della classe capitalista. È anche per questa ragione che essi scelgono una modalità d’azione riformista piuttosto che rivoluzionaria quando provano a strappare concessioni alla borghesia. La loro mancanza di coscienza rivoluzionaria esprime nient’altro che gli effettivi rapporti di potere sociale, i quali effettivamente non possono essere cambiati a piacimento. Un cauto “realismo” – cioè, il riconoscimento della limitata serie di attività a loro disposizione – determina i loro pensieri e le loro azioni e trova la sua giustificazione nel potere del capitale.

Se non è accompagnato da un’azione rivoluzionaria da parte della classe lavoratrice, il Marxismo, come comprensione teorica del capitalismo, rimane una teoria. Non è la teoria di un’effettiva pratica sociale, decisa a cambiare il mondo e in grado di farlo, ma funziona come ideologia in anticipazione di tale pratica. La sua interpretazione della realtà, comunque corretta, non influisce sulle condizioni immediate in nessun modo rilevante. Essa descrive semplicemente le attuali condizioni nelle quali il proletariato si torva, lasciando il loro cambiamento alle azioni future dei lavoratori stessi. Ma le condizioni effettive nelle quali i lavoratori si trovano li assoggetta al dominio del capitale e ad un’opposizione impotente e pressoché ideologica nel miglior dei casi. La loro lotta di classe in un capitalismo ascendente rafforza i loro avversari e indebolisce le loro stesse inclinazioni d’opposizione. Il Marxismo rivoluzionario non è quindi una teoria di lotta di classe come tale, ma una teoria di lotta di classe sotto specifiche condizioni di declino del capitalismo. Non può operare efficacemente in condizioni “normali” di produzione capitalistica ma deve attender la loro disfatta. Solo quando il cauto “realismo” dei lavoratori si tramuterà in irrealismo, e il riformismo in utopismo – cioè, quando la borghesia non sarà più capace di mantenersi eccetto che attraverso il continuo peggiorare delle condizioni di vita del proletariato – spontanee ribellioni evolveranno in azioni rivoluzionarie abbastanza potenti da sovvertire il regime capitalista.

Fino ad ora la storia del Marxismo è stata la storia delle sue sconfitte, le quali includono l’apparente successo che culminò nell’emergere del capitalismo di Stato. È chiaro che il Marxismo originale non solo sottostimava la resilienza del capitalismo, ma anche facendo in tal mondo sovrastimava il potere dell’ideologia marxista di influenzare la coscienza di classe del proletariato. Il processo di cambiamento storico, anche se velocizzato dalle dinamiche del capitalismo, è eccessivamente lento, particolarmente quando misurato con riferimento alla vita di un individuo. Ma una storia di fallimento è anche una di illusioni diffuse e di esperienze acquisite, se non per gli individui, almeno per la classe. Non c’è alcuna ragione per assumere che il proletariato non possa imparare dall’esperienza. A parte queste considerazioni, esso sarà in ogni caso forzato dalle circostanze a trovare una via per assicurare la sua esistenza fuori dal capitalismo, quando questa non sarà più possibile all’interno. Benché la particolarità di tale situazione non può essere stabilita in anticipo, una cosa è chiara: ossia, che la liberazione della classe lavoratrice dalla dominazione capitalista può essere raggiunta solo attraverso la sola iniziativa dei lavoratori, e che il socialismo può essere realizzato solo attraverso l’abolizione della società classista tramite la fine dei rapporti di produzione capitalisti. La realizzazione di questo obbiettivo sarà il subitaneo verificarsi della teoria marxista e la fine del Marxismo.