I sindacati contro la rivoluzione

Benjamin Peret

 


Pubblicato su "Le Libertaire" del 26 giugno, 10 e 24 luglio, 7 e 21 agosto e 4 settembre 1952.
Tradotto dal francese da Hectòr Ternàz


 

I -Le premesse

Tutte le forme sociali che si sono avvicendate fino ai giorni nostri hanno conosciuto lotte intestine condotte dai ceti diseredati contro le classi o le caste che li mantenevano sotto il loro dominio. Queste lotte non hanno potuto assumere una certa ampiezza se non a partire dal momento in cui gli oppressi, riconoscendo i loro comuni interessi, sono riusciti ad associarsi, sia con l'obiettivo di migliorare le loro condizioni d'esistenza, sia in vista della sovversione totale della società. Nel corso dei secoli passati, per i  lavoratori, le corporazioni comprendenti padroni e operai d'uno stesso mestiere (dove i primi facevano il bello e il cattivo tempo con l'aperta protezione del potere pubblico), e le associazioni di compagnonaggio di soli operai hanno rappresentato, tra l'altro, i primi organismi permanenti della lotta di classe.
Ancora prima, verso il X° secolo, erano già esistite delle "confraternite". Queste erano delle coalizioni che si trovarono costrette a lottare contro i ceti dominanti della società dal momento che le leggi ordinavano, a più riprese, la loro dissoluzione. Non conosciamo tuttavia alcuna documentazione che possa illuminarci sulla costituzione e sugli scopi che queste confraternite perseguivano.
L'obiettivo delle organizzazioni di compagnonaggio non era, come testimoniano le numerose sentenze dei tribunali che le condannavano sistematicamente dal XVI° al XIX° secolo, di arrivare ad una trasformazione della società, del resto inconcepibile per l'epoca, ma di migliorare il salario dei propri membri, le condizioni di assunzione e , da qui, di elevare il livello di vita dell'intera classe operaia.
La loro vitalità, malgrado tutte le persecuzioni di cui furono fatte incessantemente oggetto, la loro rinascita, dopo i numerosi scioglimenti disposti dai tribunali, mostrano che esse rispondevano ad un pressante esigenza dei lavoratori di allora. Allo stesso tempo, il fatto che la loro struttura non sembra aver subito importanti modificazioni nel corso dei secoli, indica che la loro forma e i loro metodi di lotta corrispondevano concretamente alle possibilità del momento. Notiamo en passant che i primi scioperi di cui la storia faccia menzione sono attribuibili a queste organizzazioni dal XVI° secolo. In seguito esse ricorsero anche al boicottaggio.
Durante tutto questo periodo, che va dal XVI° secolo, in cui le associazioni di compagnonaggio appaiono storicamente già costituite e definite (il che indica che dovevano esistere già da tempo,) fino alla metà del XIX secolo (in cui la nascente grande industria fa sorgere i sindacati), queste associazioni contribuiscono potentemente a mantenere la coesione tra i lavoratori contro i loro sfruttatori. Dobbiamo ad esse la formazione di una coscienza di classe ancora embrionale, ma destinata a svilupparsi pienamente nel periodo successivo, con gli organismi di lotta di classe che gli succederanno. Questi ultimi -i sindacati- ereditandone le funzioni rivendicative, ridussero le associazioni di compagnonaggio ad un ruolo secondario che cessò di diminuire da allora. Sarebbe vano tuttavia pensare che i sindacati avrebbero potuto esistere prima. Le associazioni di compagnonaggio hanno corrisposto ad un'epoca di produzione strettamente artigianale precedente la Rivoluzione francese e prolungatasi fino ai primi venti o trenta anni del XIX secolo, i sindacati ne costituirono la prosecuzione nell'epoca successiva (quella del capitalismo ascendente, in cui i lavoratori hanno ancora bisogno di unirsi in leghe sulla base dei mestieri), furono organizzazioni di compagnonaggio spogliate del segreto che le circondava e orientate verso la sola rivendicazione economica, verso la difesa dei lavoratori, e che misero in secondo piano gli altri obiettivi, che finirono per scomparire.
D'altro canto le associazioni di compagnonaggio, a causa della società feudale che non accordava loro il diritto all'esistenza, avevano il carattere di società segrete, con tutto l'apparato di riti para-religiosi che ciò comportava, mentre l'epoca successiva -soprattutto dopo il 1830- dove le associazioni operaie vogliono assicurarsi un minimo di diritti, permette che i gruppi di compagnonnage escano alla luce del sole e mette presto in evidenza la loro incapacità di condurre contro il padronato la lotta energica imposta dalle circostanze. Il loro carattere restrittivo (possono farvi parte solo operai qualificati) non gli permette di riunire la totalità, e neanche la maggioranza dei lavoratori, scopo che si prefiggono i sindacati fin dalla loro comparsa.
Tuttavia la classe operaia non passa direttamente dalle associazioni di compagnonaggio ai sindacati, d'altronde vietati sotto qualunque forma durante i primi decenni del capitalismo moderno. Essa cerca intuitivamente la sua strada. Le società di mutuo soccorso, nate poco prima della Rivoluzione del 1789, segnano il primo passo sulla via dell'unificazione di tutti gli operai di uno stesso mestiere. Esse si proponevano di soccorrere i loro aderenti malati o senza lavoro, ma quando lo sciopero s'imporrà come migliore metodo di lotta contro il padronato, le società mutualiste operaie daranno talvolta il loro aiuto agli scioperanti, abbandonando tutte le distinzioni tra la disoccupazione forzata e l'interruzione volontaria del lavoro.
Queste "società mutualistiche", poco numerose, non riunivano molto più che gli operai d'elite, relativamente ben pagati, giacché la quota che esigevano dai propri membri era onerosa. Erano quindi inadeguate alle condizioni della nascente grande industria, che aveva chiamato nella fabbrica grandi masse di lavoratori non qualificati, emigrati dalle campagne. Questo proletariato in formazione si trovava in una situazione tragica che esigeva imperiosamente un miglioramento sensibile, anche affinché il capitalismo stesso potesse continuare a svilupparsi.
Le società di "resistenza", il cui nome indica chiaramente gli scopi cui miravano, rilevarono le società "mutualistiche". Esse sono già delle leghe di combattimento ma sono concepite sul piano difensivo. Si propongono di preservare il livello di vita dei lavoratori opponendosi alle diminuzioni di salario che il padronato potrebbe tentare di imporre, e sono, generalmente, queste riduzioni del salario che ne provocano la nascita. Non c'è bisogno di dire che, dalla difesa, si passa presto all'attacco e la rivendicazione operaia viene alla luce. 
Tuttavia, dopo il 1840, grazie alla diffusione delle idee socialiste, compaiono nella classe operaia le prime rivendicazioni politiche, mentre le società di resistenza e le associazioni operaie mantengono un carattere di organizzazioni di lotta sul piano economico. Esse non mirano che incidentalmente e su impulso di elementi politicizzati, alla sovversione dell'ordine costituito. Infatti, il loro scopo essenziale è di carattere puramente economico. Se poi il proletariato prende coscienza della sua forza, è difficile pensare che la impieghi solo per la soddisfazione delle sue rivendicazioni immediate.

II -I SINDACATI E LA LOTTA DI CLASSE

Il primo sindacato sorge nel 1864. L'idea di lotta di classe ne è assente giacché nasce, al contrario, proponendosi di conciliare gli interessi dei lavoratori e quelli dei padroni. Tolain stesso non gli riconosce altro scopo. Ciò fa anche constatare che il movimento sindacale non sorge affatto dagli strati più sfruttati della classe operaia -del nascente proletariato industriale- bensì dai lavoratori appartenenti alle professioni artigianali. Esso riflette quindi direttamente i bisogni specifici e le tendenze ideologiche di questi strati operai.
Mentre i calzolai e i tipografi, artigiani per eccellenza, creano il loro sindacato rispettivamente nel 1864 e 1867, i minatori, che costituivano il proletariato più duramente sfruttato, non costituiscono un proprio sindacato che nel 1876, nella Loira (nel 1882 nel Nord e nel Pas-de-Calais) e i tessili, le cui condizioni di lavoro sono durissime, non sentono il bisogno d'un sindacato che nel 1877. Perché allora, in quest'epoca di fermento, mentre le idee socialiste (e le idee anarchiche che si distingueranno dalle prime solo più tardi) si diffondono in tutta la classe operaia delle grandi città, i lavoratori più sfruttati respingono così manifestamente l'organizzazione sindacale mentre quelli con il livello di vita più elevato la abbracciano?
Bisogna innanzitutto ricordare che i primi sindacati creati dagli operai-artigiani sono organismi di conciliazione e non di lotta di classe. Essi lo diventeranno solo in seguito. D'altro canto essi rappresentano la forma d'organizzazione che meglio conviene a professioni che riuniscono in molti laboratori un numero generalmente abbastanza esiguo di operai di uno stesso mestiere. Era il miglior modo di riunire  gli operai di uno stesso mestiere disseminati nei laboratori di una città, di dargli una coesione che le condizioni stesse del lavoro tendevano a distruggere.
Bisogna anche ricordare che il carattere artigianale di un mestiere ha spesso come conseguenza quella che padroni e operai lavorano fianco a fianco, conducendo lo stesso tipo di vita. Anche se la situazione economica del padrone è molto superiore a quella dell'operaio, il contatto umano che egli spesso mantiene con quest'ultimo impedisce che si crei il fossato che separa operai e padroni della grande industria.
Fra padroni e operai dei mestieri artigianali permane un minimo di solidarietà di mestiere, totalmente assente e inconcepibile nella grande industria. Tutte queste ragioni concorrono il più delle volte a indurre alla conciliazione piuttosto che alla lotta.
La situazione degli operai tessili e dei minatori (per ritornare a quest'esempio) era completamente diversa. Fra i minatori come fra i tessili, grandi masse di operai di professioni diverse erano raggruppate nelle fabbriche o nei pozzi, sottoposte a condizioni di lavoro inumane.
Se gli operai delle imprese artigianali sono i primi a organizzarsi per discutere dei propri interessi con i padroni, quelli delle grandi industrie, sottomessi alla più spietata pressione del capitale, sono i primi a percepire ciò che li oppone irriducibilmente al padronato, a ribellarsi contro la propria condizione, a praticare l'azione diretta, a reclamare il loro diritto alla vita armi alla mano, per farla breve a orientarsi istintivamente verso la rivoluzione sociale. La rivolta dei setaioli lionesi del 1831, così come lo sciopero dei minatori del 1844 lo dimostrano a sufficienza. Mentre dal 1830 al 1845 i tipografi, per esempio, non figurano una sola volta su una lista di mestieri che sono incorsi nel più gran numero di condanne, i minatori vi appaiono tre volte (l'industria mineraria era allora in pieno sviluppo) e i lavoratori tessili quasi tutti gli anni.
La conclusione che si impone è che gli operai delle grandi industrie non avevano alcun interesse per una forma di organizzazione che si proponeva una conciliazione (che sentivano impossibile) fra le classi opposte. Essi non vi aderirono che più tardi e per così dire storcendo il naso, giacché erano spinti dalla loro condizione stessa, verso forme di lotta aperta contro il padronato che il sindacato, almeno ai suoi esordi, non aveva considerato. Infatti, i lavoratori delle grandi industrie non verranno all'organizzazione sindacale che a partire dal momento in cui questo inserirà in cima ai suoi statuti il principio della lotta di classe. Sono questi operai del resto che, dal 1880 al 1914, condussero le più violente lotte sul piano rivendicativo. Mediante questa concessione alle loro aspirazioni, gli operai si rassegnarono ad aderire al sindacato per diverse ragioni. Innanzitutto perché nessun altra forma d'organizzazione era concepibile per l'epoca. Inoltre si prospettava una fase di lungo sviluppo progressivo del capitalismo, di qui la necessità di accrescere la coesione della classe operaia al fine di strappare al padronato condizioni di vita più soddisfacenti permettendo così una migliore preparazione dei lavoratori per l'assalto finale alla società.
Fin dai suoi albori, il sindacato non si presenta dunque che come un ripiego per gli operai delle grandi industrie. Esso rimane tuttavia accettabile per via delle sopravvivenze artigianali presenti nell'industria dell'epoca. Costituiva una soluzione positiva in quella fase di sviluppo continuo dell'economia capitalistica che si accompagnava ad un costante aumento della libertà e della cultura. Il riconoscimento del sindacato da parte dello Stato, e per suo tramite, del diritto di riunione, d'associazione e di stampa costituiva un'acquisizione considerevole.
Tuttavia, mentre il sindacalismo adotta alcuni principi della lotta di classe, non si propone in nessun momento, nella lotta quotidiana, il rovesciamento della società; esso si limita al contrario ad unificare gli operai in vista della difesa dei loro interessi economici, nel seno della società capitalista. Questa difesa prende a volte un carattere di lotta accanita, ma non si propone mai, ne implicitamente, ne esplicitamente, la trasformazione della condizione operaia, la rivoluzione. Nessuna delle lotte di quell'epoca, anche le più violente, si propone questo scopo. Tutt'al più si pospone in un futuro indeterminato, che prende da questo momento il carattere della carota per l'asino, la soppressione del padronato e del lavoro salariato e, di conseguenza, della società capitalista che li produce. Ma nessuna azione sarà mai intrapresa a tal fine.
Il sindacato, nato da una tendenza riformista nel seno della classe operaia, è l'espressione più pura di questa stessa tendenza. È impossibile parlare di degenerazione riformista del sindacato, esso è riformista dalla nascita. In nessun momento esso si oppone alla società capitalista ed al suo Stato per distruggere l'una e l'altro, ma unicamente con lo scopo di conquistarsi un posto in essi e installarvisi.
Tutta la sua storia, dal 1864 al 1914, è quella dell'ascesa e della vittoria definitiva di questa tendenza integrazionista nello Stato capitalista, cosìcché allo scoppio della Prima Guerra Mondiale i dirigenti sindacali, nella loro grande maggioranza, si trovano naturalmente al fianco dei capitalisti ai quali sono uniti da interessi nuovi, sorti dalla funzione che i sindacati hanno finito per assumere nella società capitalista. Essi quindi allora contrastarono gli iscritti che volevano abbattere il sistema ed evitare la guerra e hanno mantenuto questa linea fino ad oggi.
Nel periodo che precede la Prima Guerra Mondiale, i dirigenti sindacali non sono mai stati i rappresentanti legittimi della classe operaia se non nella misura in cui essi dovevano assumere tale ruolo per accrescere il proprio credito di fronte allo Stato capitalista. Al momento decisivo, allorché bisognò scegliere tra il rischio di compromettere una posizione acquisita (1), chiamando le masse a rifiutare la guerra e il regime che l'aveva generata, o rafforzare la loro posizione , optando per il regime, essi scelsero la seconda alternativa e si posero al servizio del capitalismo. Non è stato solo il caso della Francia, poiché i dirigenti sindacali dei Paesi coinvolti nella guerra hanno adottato ovunque lo stesso comportamento. Se i dirigenti sindacali hanno tradito, non è forse perché la struttura stessa del sindacato e il suo posto nella società rendevano, dai suoi esordi, questo tradimento prima possibile, poi inevitabile nel 1914?

(1) Jouhaux e la maggioranza confederale del 1914 hanno confessato esplicitamente che il timore della repressione li aveva spinti all'accettazione della guerra.

 

III -I SINDACATI CONTRO LA RIVOLUZIONE

Le rivoluzioni russe del 1905 e del 1917 hanno fatto sorgere dalla realtà sociale stessa un nuovo organismo di lotta: il comitato o consiglio di fabbrica, democraticamente eletto sui luoghi di lavoro e i cui membri sono revocabili in qualsiasi momento. Li abbiamo visti apparire a Pietroburgo e a Mosca alla fine della rivoluzione del 1905, della quale segnano il punto culminante.
Tuttavia, troppo deboli e ancora non sperimentati, essi si mostrano incapaci di ottenere lo scopo che si erano prefissati, l'abbattimento dello zarismo.
All'inizio della rivoluzione del 1917, li vediamo riapparire, stavolta più sicuri delle proprie forze, e rapidamente coprire tutto il Paese. Sotto l'impulso di Lenin e di Trotsky essi realizzano la rivoluzione d'ottobre. Durante questo periodo, i sindacati si trascinano a rimorchio dei consigli, frenando il movimento nel suo slancio. Nessuna iniziativa rivoluzionaria parte da loro, al contrario. John Reed, ne I dieci giorni che sconvolsero il mondo, li descrive spesso ostili ai soviet, al punto che i ferrovieri devono infrangere la disciplina sindacale per trasportare da Pietrogrado a Mosca i rinforzi necessari per domare la controrivoluzione degli junker in quest'ultima città.
Nella rivoluzione spagnola del 1936, abbiamo visto, dai primi giorni dell'insurrezione, dei comitati sorgere ovunque come funghi dopo un temporale, ma al contrario della Russia dove i soviet relegano i sindacati in secondo piano, questi ultimi ostacolano i comitati (juntas). Risultato, lo stalinismo trionfa senza che i sindacati gli si oppongano concretamente. Essi invece si uniscono per collaborare al suo trionfo in un comitato di collegamento fra CNT e UGT e la rivoluzione viene tradita dallo stalinismo che spiana la strada a Franco.
Gli operai, i soldati e i marinai tedeschi, insorti nel 1918, non pensano un solo istante ad indirizzarsi verso il sindacato per condurre la loro lotta contro il regime imperiale, essi creano nel fuoco della battaglia i loro comitati di lotta che si impadroniscono delle fabbriche e delle navi e abbattono le autorità capitaliste. I sindacati non intervengono che più tardi, per frenare la lotta, contenere la rivoluzione entro limiti borghesi, che vuol dire tradirla.
È questo spettacolo che illumina definitivamente i rivoluzionari tedeschi e mostra a Hermann Gorter e alla sinistra tedesco-olandese la strada da seguire, facendone, in quest'epoca, uno dei primi teorici del comunismo di sinistra e di un'autentica tattica di classe contro classe.
È indubbio che Lenin, alle prese con la guerra civile, l'intervento straniero e le difficoltà quasi insormontabili della ricostruzione dell'economia Russa, non valutò nel loro giusto valore i problemi sollevati dalla sinistra comunista tedesca e olandese, che teneva conto della situazione particolare del proprio Paese, del suo livello generale di cultura e della spinta rivoluzionaria delle masse che si andava consolidando giorno dopo giorno. Benché Lenin conoscesse perfettamente l'Europa occidentale, egli fu annebbiato dalla rivoluzione russa e dai metodi impiegati sotto lo zarismo che ne permisero la vittoria. Egli non vide che essi non erano applicabili ovunque. Prodotto diretto delle condizioni economiche, politiche e culturali della Russia zarista, questi metodi non valevano più nulla  una volta trasferiti in Europa occidentale dove la situazione delle masse operaie, i loro rapporti con i contadini e infine la struttura del capitalismo non avevano quasi punti di contatto con la situazione russa. Lenin non vide il conflitto larvato che era esistito in Russia tra soviet e sindacati e che solo lo slancio irresistibile della rivoluzione aveva soffocato sul nascere rafforzando i primi a scapito dei secondi.
In Germania, dove i sindacati, molto più forti che in Russia, erano diretti dai riformisti più conseguenti, si può stare certi che essi impiegarono tutti i mezzi a loro disposizione per sabotare la rivoluzione in marcia. Era per essi una questione di vita o di morte. Per altro, se i sindacati si mostrarono ostili alla rivoluzione e i comitati di fabbrica favorevoli, era chiaro che bisognava sostenere i secondi contro i primi. Lenin vi si oppose in nome di una tattica di superamento dei capi da parte delle masse; ma, precisamente, i sindacati incarnano il potere materiale dei capi che dispongono di tutto l'apparato sindacale e dell'appoggio diretto o indiretto dello Stato capitalista, mentre invece le masse non hanno altro che i comitati che esse stesse creano per tenere in scacco il potere dei loro capi. Se in Russia le masse non avessero creato i propri organi di lotta, i soviet, la rivoluzione sarebbe stata inevitabilmente canalizzata e condotta alla sconfitta dai soli organi che inquadravano le masse, i sindacati.
Contro questa sinistra tedesca e olandese, Lenin scrisse allora "L'estremismo, malattia infantile del comunismo", al quale Hermann Gorter replicò con una "Risposta a Lenin" che contiene una critica del sindacato interamente valida ancora oggi. Gorter disse in sostanza che i sindacati convergono verso lo Stato e tendono ad unirvisi contro le masse, che gli operai non vi hanno alcun potere, non più che nello Stato, che essi sono inadeguati come strumenti della rivoluzione proletaria e che essa non può vincere se non distruggendoli. Diciamolo chiaramente, in questa polemica (di cui la III° internazionale non ci ha fatto conoscere che le argomentazioni di Lenin, omettendo di pubblicare quelle degli oppositori), era Gorter ad avere pienamente ragione, almeno su questo punto. Nel suo opuscolo, egli oppone ai sindacati, in cui gli operai non hanno praticamente altro potere che quello di pagare le quote, i comitati o consigli di fabbrica democraticamente eletti dai lavoratori sul posto di lavoro, i cui membri, posti sotto il controllo immediato e costante dei loro mandatari sono revocabili in qualsiasi momento. Questi comitati sono chiaramente l'emanazione stessa della volontà delle masse in movimento di cui facilitano l'evoluzione. Ecco perché, da quando appaiono sotto la forma provvisoria di comitati di sciopero, essi sono alle prese tanto con i dirigenti sindacali, di cui mettono in discussione il potere sugli operai, quanto con i padroni. Gli uni e gli altri si sentono egualmente minacciati, e in genere i dirigenti sindacali si intromettono tra padroni e operai per far cessare lo sciopero. Sono sicuro che nessun lavoratore che abbia partecipato ad un comitato di sciopero mi contraddirà, soprattutto per quanto riguarda gli scioperi degli ultimi anni. È normale che sia così dal momento che il comitato di sciopero rappresenta un nuovo organismo di lotta, il più democratico che si possa concepire. Esso tende, consapevolmente o meno, a sostituirsi al sindacato che difende i privilegi acquisiti cercando di ridurre le attribuzioni che il comitato di sciopero si è dato.  È lampante allora il motivo dell'ostilità dei sindacati a un comitato permanente, chiamato dalla la logica stessa delle cose a subordinarli e a soppiantarli!



IV -CRITICA DEL SINDACATO

Abbiamo visto che il sindacato non si è posto in nessun momento un obiettivo rivoluzionario, innanzitutto perché non poteva porselo all'epoca della sua creazione. Concepito nell'ottica di un'azione riformista della classe operaia nella società capitalista, non poteva fare nulla di più di quel che ha fatto. La sua azione è stata d'altronde di prim'ordine dal momento che gli è dovuto un miglioramento considerevole della condizione della classe operaia e la coscienza di classe che, bene o male, anima oggi il proletariato. A dire il vero, questa coscienza di classe è piuttosto il risultato dell'azione condotta dalla minoranza rivoluzionaria nel sindacato che della pratica sindacale in generale. Questo è quanto il sindacalismo rivoluzionario poteva ottenere ed ha ottenuto. Non poteva progettare concretamente il rovesciamento della società capitalista altrimenti che partendo dall'errore costituito dal sindacato, giacché questo, rivoluzionario o riformista, è inadeguato a tale compito. Non è un caso che la guerra del 1914, mettendo a nudo la natura reazionaria dei dirigenti sindacali, abbia portato nello stesso tempo alla rapida scomparsa del sindacalismo rivoluzionario, quando invece il tradimento riformista avrebbe dovuto, nell'ora critica, portare ad un rafforzamento del sindacalismo rivoluzionario stesso a detrimento del riformismo. La classe operaia ha sentito istintivamente che il sindacato, anche se rivoluzionario, non era lo strumento di cui abbisognava per intraprendere la trasformazione sociale. La resurrezione del sindacalismo dopo la guerra del 1914 è stata il frutto del ritorno alla normale routine che i rivoluzionari, troppo poco numerosi, non hanno saputo spezzare, ma l'ora di farla finita era giunta.
Il sindacato è il risultato, in effetti, di un errore forse inevitabile all'epoca della sua creazione. È il miglior modo di mantenere la coesione necessaria tra i lavoratori dello stesso mestiere dispersi fra i numerosi laboratori; ma l'industria, concentrandosi, relegò in secondo piano questi anacronistici laboratori e raggruppò nella stessa officina masse di lavoratori di professioni spesso molto diverse. Bisognava dunque partire da questo fatto concreto che indicava la direzione dell'evoluzione capitalistica, verso la concentrazione nello stesso luogo di un gran numero di operai, verso la cellula sociale che l'officina costituisce, sia nel mondo attuale che nella società futura. Ora il sindacato distoglie gli operai dall'officina dove si trovano i loro interessi vitali, per farli diventare dei superficiali e disperdendoli in tanti sindacati quanti sono i mestieri. Esso distrugge la coesione naturale pronta a formarsi naturalmente nell'officina stessa - e che bisognava rafforzare- a profitto di una organizzazione già superata alla nascita, dal momento che riflette gli interessi e le tendenze ideologiche di ceti operai che rappresentano una sopravvivenza di un passato stadio della produzione.
Nell'azione operaia c'è una progressione costante. Le organizzazioni di compagnonaggio raggruppano inizialmente gli operai qualificati, i sindacati raggruppano i lavoratori più coscienti. Adesso è arrivata l'ora per i comitati di fabbrica di rappresentare la totalità della classe operaia per il compimento del suo compito storico: la rivoluzione sociale.
Per altro, il sindacato, da quando ha una certa importanza, scelti i suoi dirigenti dalla fabbrica, li sottrae al necessario controllo dei lavoratori. E, generalmente, una volta uscito dalla fabbrica, il dirigente sindacale non vi fa più ritorno. Questi innumerevoli dirigenti sindacali che hanno abbandonato la fabbrica si creano a poco a poco degli interessi dapprima estranei, poi opposti a quelli degli operai che li hanno eletti. Essi aspirano prima di tutto alla stabilità della loro nuova condizione, che tutta l'azione dei lavoratori rischia di mettere in pericolo. Li si vede quindi intervenire accanto ai padroni quando uno sciopero minaccia di scoppiare. Prima perché questo sciopero fa sorgere una nuova autorità operaia, la cui apparizione la dice lunga sui rapporti reali tra iscritti al sindacato e dirigenti: i comitati di sciopero, eletti dall'insieme dei lavoratori della fabbrica, sindacalizzati o meno, che si interpongono tra l'ufficio sindacale e il padronato, come se volessero dire a quest'ultimo: "la parte del sindacato è finita, comincia la mia."
Bisogna subito rimarcare che la nascita di questi comitati di sciopero dimostra da sola l'incapacità del sindacato stesso di dirigere uno sciopero. Dal momento che ogni sciopero è un'azione rivoluzionaria, almeno in potenza. Il fatto che, un'azione rivoluzionaria anche di corto respiro sia giudicata necessaria dai lavoratori e faccia loro scartare il sindacato per creare un nuovo organo di lotta adeguato all'azione da condurre, dimostra da solo che il sindacato non è un'arma rivoluzionaria. Se, per un'azione rivoluzionaria, è importante che i dirigenti di quest'azione siano sotto il controllo diretto e costante dei loro mandatari, ne consegue che i dirigenti sindacali sono inadeguati ad ogni azione rivoluzionaria, poiché essi rifuggono totalmente questo controllo. Lo hanno dimostrato d'altronde a più riprese e segnatamente in tutte le crisi rivoluzionarie che la storia ha registrato nel XX° secolo.
Usciti dalla fabbrica, i dirigenti sindacali si trovano presto sballottati tra gli opposti interessi degli operai che li hanno designati e quelli dei padroni. Essi iniziano difendendo i primi contro i secondi, rimanendo perciò sul terreno della lotta di classe. Non tardano tuttavia ad abbandonare questo terreno, nella misura in cui prendono coscienza del loro ruolo di intermediari tra le classi avverse e divengono rapidamente gli agenti di una collaborazione di classe che si esprime nella conciliazione degli opposti interessi di queste classi. Se, all'inizio, essi si oppongono al padronato, non tardano a rendersi conto che il loro ruolo principale non è posto sul piano della lotta.
Essi prendono coscienza della propria importanza in quanto intermediari tra le classi nemiche e, invece di animare la lotta, non pensano che a mercanteggiare l'armistizio. Non è la lotta che giustifica la loro esistenza, ma il loro valore cresce in proporzione dei risultati ottenuti, sia agli occhi dei padroni che comprendono velocemente la loro importanza e i servizi di mediazione che possono loro rendere, che agli occhi degli operai che, a poco a poco, si rimettono ai soli dirigenti, a cui affidano l'incarico di risolvere i contenziosi che li oppongono ai padroni. La lotta di classe, fattore necessario di ogni azione sociale positiva si trova rigettata in secondo piano, l'azione diretta degli operai si assopisce, la loro autodeterminazione scompare, lo slancio verso l'emancipazione degenera in accomodamento nel quadro del capitalismo.
Se l'emancipazione dei lavoratori deve essere opera dei lavoratori stessi, cosa che costituisce il postulato di ogni autentica azione rivoluzionaria, ne consegue che il sindacato, soffocando il potere creativo della classe operaia, si oppone a questa emancipazione che, con questo potere, poteva divenire l'opera dei dirigenti, se fossero stati capaci d'intraprenderla o se avessero desiderato consacrarvisi. Al contrario, oggi possiamo constatare che un Jouhaux o un Frachon non hanno più interessi comuni con un manovale di quanti ne abbia il presidente della Repubblica (antimilitarista e "internazionalista" nel 1907) o il direttore della Banca di Francia, mentre gli interessi di Jouhaux, del presidente della Repubblica, del direttore della Banca di Francia e di altre personalità capitaliste sono strettamente legati contro i lavoratori.



V -IL SINDACATO, ORGANO DELLO STATO CAPITALISTA

I sindacati hanno raggiunto il termine della loro evoluzione indipendente, essi sono entrati, dopo il 1914, in una nuova fase, quella della loro integrazione nello Stato capitalista. Essi tendevano a questo da molto tempo, ma sono stati necessari la guerra del 1914 e i servizi che allora resero al capitalismo nell'Union Sacrée perché lo Stato accordasse loro un posto nei suoi consessi. È vero che essi dimostrarono così il loro potere sulla classe operaia e divennero, grazie a questo, dei preziosi ausiliari del capitalismo. Noterò en passant che il primo passo decisivo è stato fatto, in tal senso, in Francia, da Jouhaux, rappresentante dei fiammiferai, lavoratori del più vecchio cartello dello Stato capitalista francese. È impossibile vedere in questo un puro caso.
Le nazionalizzazioni (il monopolio dei tabacchi e dei fiammiferi non è altro che questo) danno alla burocrazia sindacale una prospettiva di durata stabile in quanto organo specifico della società capitalista, prospettiva che non può avere nel solo esercizio della funzione sindacale. Queste nazionalizzazioni fanno dei sindacati degli strumenti diretti dello Stato, allo stesso titolo dei magistrati o degli sbirri. Questa burocrazia, inizialmente relegata nell'ambito economico, da dove preme sullo Stato, è diventata un ingranaggio dello Stato stesso che controlla tutta l'economia. In Francia, questo controllo è ancora indiretto in molti settori, ma economia e Stato sono già fuse assieme in importanti settori (elettricità, gas, carbone, trasporti, ecc.), tanto che sindacalismo e Stato capitalista tendono a saldarsi in un solo corpo per istituire, come in Russia, un capitalismo di stato al quale conduce automaticamente l'evoluzione del capitalismo in via di degenerazione.
Tuttavia, il capitalismo è lontano dall'essere dominato da un pensiero unico che lo trascini in una sola direzione. Per altro, la dipendenza relativa in cui la Francia è precipitata in rapporto agli Stati Uniti da una parte, la divisione del mondo in due blocchi rivali dall'altra, non poteva mancare di riflettersi, in assenza di un potente movimento rivoluzionario, sul sindacalismo, nella misura in cui questo è legato allo Stato e, congiuntamente ad esso, pone tutto il suo peso sulla classe operaia. La stessa divisione del mondo in due blocchi doveva inevitabilmente condurre, in queste condizioni, alla divisione sindacale. Ciò dà modo di evidenziare che questa divisione si è prodotta, dopo la guerra, nel momento stesso in cui ciascun blocco raccoglieva le forze per lanciarsi nella "guerra fredda". Ogni operaio un tantino sveglio sa oggi che la C.G.T. è una semplice agenzia della polizia russa nella classe operaia francese e che rappresenta gli interessi di una burocrazia sindacale (e politica) legata al capitalismo di stato e al totalitarismo moscovita di cui è l'ardente propagandista, allo stesso modo che l'F.O. è lo strumento di Washington e dei suoi rimasugli di capitalismo liberale, tramite i sindacati americani infeudati al loro Stato. Quanto alla C.F.T.C., essa rappresenta abbastanza bene le tendenze neutraliste di una parte del capitalismo francese che teme la guerra e conta sulle preghiere del Papa per scongiurarla.
Per altro, è noto che i sindacati, teoricamente "apolitici", sono diventati -C.G.T. in testa- dei semplici agenti dei partiti politici in seno alla classe operaia. Ma è una politica che non hanno scelto e che è loro imposta dall'esterno. Al contrario, il comitato di fabbrica è chiamato, dalla sua stessa struttura, a costituire una sorta di laboratorio di coltura della politica della rivoluzione sociale, verso il risveglio della classe operaia sulla via rivoluzionaria, che il comitato di fabbrica favorisce al massimo.
Non bisogna stupirsi se, in queste condizioni, gli operai disertano i sindacati legati alle diverse frazioni del capitalismo senza per questo precipitarsi in massa in quelli della C.N.T., per esempio. Perché dovrebbero avere più fiducia in un sindacato che in un altro? Il fatto che la C.N.T. sia diretta da lavoratori rivoluzionari onesti non garantisce in nessun modo che sarà adatta a compiere la sua missione rivoluzionaria, all'occorrenza, ne tantomeno che essa non degenererà come le altre centrali sindacali, poiché è la struttura stessa del sindacato, in cui i dirigenti sfuggono al controllo dei lavoratori, che favorisce questa degenerazione. Certamente nessuna organizzazione, per quanto perfetta e adeguata sia al suo scopo rivoluzionario, è assicurata contro la degenerazione. Bisogna tuttavia opporre a questa il massimo degli ostacoli. Ora il sindacato, invece di frapporre ostacoli alla degenerazione, la facilita in ogni modo.
Il sindacato si è dato come obiettivo la difesa degli interessi degli operai nel quadro della società capitalista. Nel passato, ha largamente svolto il suo compito poiché, dal 1890 al 1913, gli scioperi si conclusero -sia in fase di sviluppo che di depressione economica- con una percentuale di successo oscillante tra il 47.7% del 1911-13 e il 62.3% del periodo più favorevole, nel 1905-07. Ignoro la percentuale degli scioperi vittoriosi degli ultimi anni, ma non è certamente comparabile con i risultati ottenuti in quel periodo. Potrebbe darsi altresì che il tenore di vita dei lavoratori non sia per nulla migliorato dal momento che il rincaro dei prezzi precede sempre l'aumento dei salari, che rimangono affannosamente indietro cercando invano di recuperare il gap, così che la distanza fra di essi cresce continuamente invece di diminuire. La conclusione che ne deriva è dunque che la lotta rivendicativa è divenuta vana, essendo la situazione del capitalismo francese così precaria da non consentire il minimo vantaggio per i lavoratori. Non è più la forma d'organizzazione ad essere in causa, poiché nessun'altra, su questo piano, potrebbe fare di meglio, ma è lo scopo perseguito che è inadeguato all'epoca attuale ed è sproporzionato ai sacrifici e agli sforzi che esige. Lo sciopero rivendicativo è interamente superato, al pari del sindacato del quale è l'unico obiettivo. Ne consegue che, se lo Stato capitalista è ormai incapace di migliorare la sorte della classe operaia, quest'ultima non ha più altra risorsa che distruggerlo. Ma non è il sindacato che potrà assolvere a questo compito poiché esso è concepito per la lotta rivendicativa nel quadro del sistema capitalista che non si propone minimamente di infrangere. Oggi, solamente il comitato di fabbrica è nella condizione di condurre i lavoratori all'assalto della società perché, cellula rivoluzionaria nel presente, esso costituisce nello stesso tempo e da quando esiste, la cellula sociale del domani.
La degenerazione dei sindacati è inoltre caratterizzata dall'introduzione, nell'organismo economico che essi costituiscono, di diverse correnti politiche del capitalismo, mostrando in tal modo quanto sia arbitraria la separazione tra economia e politica. Nell'epoca in cui Marx e Bakunin erano d'accordo, i sindacati che essi preconizzavano erano degli organismi economici elaboranti una propria politica. Non è che più tardi, per favorire la divisione del movimento operaio, che alcuni sindacati, limitandosi al solo piano economico, hanno potuto costituirsi nella loro forma oggi tradizionale. Essi erano d'altronde in quest'epoca il solo modo per unificare la classe operaia per condurre la lotta rivendicativa che, nello spirito dei sindacalisti dell'epoca, rappresentava implicitamente o esplicitamente il preludio alla lotta politica. Tuttavia, questa divisione è sempre stata più apparente che reale e profonda, poiché ai loro tempi migliori i sindacati, eccetto i dirigenti, erano animati da un sincero spirito rivoluzionario. Ora la rivoluzione rappresenta l'intervento politico supremo. La F.A.I. spagnola, per esempio, rappresentava, benché lo negasse, l'organizzazione politica della C.N.T.. Era normale che, in una fase di sviluppo continuo del capitalismo, il sindacato, posto sul piano economico, avesse il primo posto, ma non è la stessa cosa in periodo di crisi. Per ritornare all'esempio della C.N.T.-F.A.I., se in fase di calma la F.A.I. rientrava nell'ombra, mentre la C.N.T. appariva in primo piano, nella fase rivoluzionaria era la F.A.I. a dirigere, ed era normale che così fosse.
Tuttavia, questo rapporto tra F.A.I. e C.N.T. non è il risultato della vita stessa della classe operaia, poiché la F.A.I. rappresentava una minoranza nella C.N.T. che costituiva un'organizzazione organicamente esterna a questa e che ne ha assunto nei fatti la direzione. La politica della C.N.T. era quella della F.A.I., ma la C.N.T. non è stata chiamata a determinarla, al massimo ad accettarla. Al contrario, si trattava di arrivare ad una politica decisa direttamente dalla classe operaia e non ci sono oggi altre assemblee capaci di determinare tale politica che quelle dei lavoratori riuniti sul posto di lavoro stesso, per esprimere la propria volontà e designare i delegati che avranno come missione quella di applicare le decisioni prese.


VI -IL COMITATO DI FABBRICA, MOTORE DELLA RIVOLUZIONE SOCIALE

Nessuno negherà che la società capitalistica è entrata in una fase di crisi permanente che la induce a raccogliere le sue forze che vengono meno concentrando sempre di più nelle mani dello Stato tutti i poteri politici ed economici per mezzo delle nazionalizzazioni. Di fronte a questa concentrazione dei poteri capitalistici, si possono continuare ad opporre delle forze operaie disperse? Vorrebbe dire andare incontro allo scacco definitivo. Ed una delle ragioni principali dell'attuale apatìa della classe operaia risiede nella serie interminabile di scacchi subiti dalla rivoluzione sociale nel corso di questo secolo. La classe operaia non ha più fiducia in nessuna organizzazione perché le ha viste tutte all'opera, qui o lì, e tutte, comprese le organizzazioni anarchiche, si sono mostrate incapaci di risolvere la crisi del capitalismo, ovvero di assicurare il trionfo della rivoluzione sociale. Non bisogna avere paura di dire che oggi sono tutte superate. Al contrario, è solo partendo da questa constatazione, di cui non si deve cercare di ridurre la portata con delle considerazioni più o meno di circostanza o scaricando sugli altri le conseguenze dei propri errori, che si sarà in grado di riprendere in esame tutte le dottrine (che oggi hanno in comune il fatto che una buona parte di esse è superata)e forse di arrivare ad una unificazione ideologica fondamentale del movimento operaio in vista della rivoluzione sociale. Non c'è bisogno di dire che non penso minimamente a preconizzare un movimento dal pensiero monolitico, ma un movimento unificato all'interno del quale le diverse tendenze godranno della più ampia libertà di manifestarsi.
D'altra parte, l'azione s'impone in modo stringente. Essa deve obbedire a due principi generali. Da una parte, deve facilitare il raggruppamento ideologico che preconizzo e, dall'altra deve cessare di considerare, come fino ad ora, la rivoluzione sociale un compito delle generazioni future. Noi siamo di fronte al dilemma: la rivoluzione sociale ed un nuovo slancio dell'umanità o la guerra e una decomposizione sociale di cui il passato non ci offre che dei pallidi esempi al confronto. La storia ci offre una tregua di cui non conosciamo la durata. Dobbiamo saperla utilizzare per invertire il corso della degenerazione e far sorgere la rivoluzione. L'attuale apatìa della classe operaia non è che temporanea. Essa indica nello stesso tempo quella perdita di fiducia in tutte le organizzazioni di cui ho parlato ed una disponibilità che dipende da noi, rivoluzionari, trasformare in rivolta attiva. L'energia della classe operaia non chiede che d'essere impiegata. E bisogna darle non solamente uno scopo - essa lo attende da lungo tempo- ma i mezzi per raggiungerlo. Se per i rivoluzionari si tratta di giungere ad una società fraterna, occorre da adesso un organismo che possa costruire e sviluppare questa fratellanza. Ora, nel momento attuale, è nell'ambito della fabbrica che la fratellanza operaia raggiunge il suo apice. È dunque lì che dobbiamo agire, non reclamando un'unità sindacale oggi chimerica nello stato attuale del mondo capitalistico e che, per altro, non potrà prodursi che contro la classe operaia, dal momento che i sindacati non rappresentano più che le diverse tendenze del capitalismo. Infatti, non si avranno dei "fronti unici" sindacali che alla vigilia della rivoluzione sociale e contro di essa, perché le centrali sindacali sono egualmente interessate a silurarla per assicurarsi la sopravvivenza nello Stato capitalista. Ormai parti integranti del sistema capitalista, esse lo difendono difendendosi. I loro interessi sono i suoi e non quelli dei lavoratori.
Per altro, uno dei più potenti ostacoli ad un'unificazione operaia e ad una rinascita rivoluzionaria è costituito dall'apparato burocratico sindacale nella fabbrica stessa, a cominciare da quello stalinista. Il nemico del lavoratore è, oggi, il burocrate sindacale quanto il padrone che, senza il primo, sarebbe il più delle volte impotente. È il burocrate sindacale che paralizza l'azione operaia. La prima parola d'ordine dei rivoluzionari deve essere dunque: alla porta tutti i burocrati sindacali! Ma il nemico principale è costituito dallo stalinismo e dal suo apparato sindacale, poiché questo è partigiano del capitalismo di stato, ovvero della fusione completa dello Stato e del sindacato.
Esso è dunque il difensore più chiaroveggente del sistema capitalista perché indica, per questo sistema, lo stato più stabile che oggi si possa concepire. Tuttavia, non possiamo distruggere un organismo esistente senza proporne un altro più adatto alle necessità della rivoluzione sociale. Questa si è precisamente incaricata di mostrarci, ogni volta che si è presentata, lo strumento di sua scelta, il comitato di fabbrica eletto direttamente dai lavoratori riuniti sul posto di lavoro stesso e i cui membri sono revocabili in qualsiasi momento. È il solo organismo che possa, senza cambiamenti, dirigere gli interessi  degli operai nella società capitalistica senza perdere di vista la rivoluzione sociale, realizzare questa rivoluzione e, una volta ottenuta la vittoria, costituire la base della società futura. La sua struttura è la più democratica che si possa concepire, poiché è eletta direttamente sul posto di lavoro dall'insieme degli operai della fabbrica che ne controllano l'operato giorno per giorno e possono revocarla in ogni istante per nominarne un'altra. La sua costituzione presenta il minimo di rischi di degenerazione, grazie al controllo costante e diretto che i lavoratori possono esercitare sui propri delegati. Inoltre, il contatto costante tra delegati responsabili ed elettori favorisce al più alto grado l'iniziativa creativa della classe operaia chiamata così a prendere il suo destino fra le mani e a condurre direttamente le sue lotte. Questo comitato, che rappresenta autenticamente la volontà operaia è chiamato a gestire la fabbrica, a organizzare la sua difesa contro la polizia e le bande reazionarie dello stalinismo e del capitalismo tradizionale. A rivoluzione vittoriosa, sarà questo comitato che dovrà indicare alla direzione economica regionale, nazionale e in seguito internazionale (anch'essa direttamente designata dai lavoratori), la capacità produttiva della fabbrica, le sue esigenze di materie prime e di manodopera. Infine, i rappresentanti di ogni fabbrica saranno chiamati a formare a livello regionale, nazionale e internazionale, il nuovo governo, distinto dalla direzione economica, e il cui compito principale sarà quello di liquidare l'eredità del capitalismo e di assicurare le condizioni materiali e culturali della sua stessa progressiva estinzione. Economico e politico allo stesso tempo, il comitato di fabbrica è l'organismo rivoluzionario per eccellenza, questo perché la sua stessa costituzione rappresenta una sorta di insurrezione contro lo Stato capitalista e i suoi sbirri sindacali, poiché esso riunisce tutte le energie operaie contro lo Stato capitalista, ed è dotato di poteri economici. Per la stessa ragione lo vediamo sorgere spontaneamente nei momenti di crisi sociale acuta, ma nella nostra epoca di crisi cronica, è necessario che i rivoluzionari lo sostengano fin d'ora se vogliono iniziare a finirla con l'ingerenza dei burocrati sindacali nelle fabbriche e restituire ai lavoratori l'iniziativa della loro emancipazione. Distruggiamo dunque i sindacati in nome dei comitati di fabbrica democraticamente eletti dall'insieme degli operai sul posto di lavoro e revocabili in ogni istante.

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Ultima modifica 03.11.2012