Il libro nero del comunismo

 


INDICE DEL VOLUME.

Parte seconda.
RIVOLUZIONE MONDIALE, GUERRA CIVILE E TERRORE

1. Il Comintern in azione (di Stéphane Courtois e Jean-Louis Panné)
La rivoluzione in Europa

Comintern e guerra civile

Dittatura, criminalizzazione degli oppositori e repressione all'interno del Comintern

Il Grande terrore colpisce il Comintern

Il terrore all'interno dei partiti comunisti

La caccia ai trotzkisti

Antifascisti e rivoluzionari stranieri vittime del terrore nell'URSS

Guerra civile e guerra di liberazione nazionale

2. L'ombra dell'N.K.V.D. in Spagna (di Stéphane Courtois e Jean-Louis Panné)

3. Comunismo e terrorismo (di Rémi Kauffer)

Appena salito al potere Lenin sognava di propagare l'incendio rivoluzionario all'Europa e a tutto il resto del mondo. Questo sogno, che rispondeva innanzi tutto al celebre slogan del "Manifesto del Partito comunista" di Marx del 1848, «Proletari di tutto il mondo, unitevi!», venne tutt'a un tratto a corrispondere anche a una necessità impellente: la rivoluzione bolscevica sarebbe rimasta al potere e si sarebbe sviluppata solo con la protezione, il sostegno e l'avvicendamento di altre rivoluzioni nei paesi più avanzati. Lenin pensava soprattutto alla Germania, con il suo proletariato ben organizzato e le sue enormi potenzialità industriali. Questa necessità congiunturale si trasformò ben presto in un vero e proprio progetto politico: la rivoluzione mondiale.

In un primo tempo gli avvenimenti parvero dare ragione al leader bolscevico. La disgregazione degli imperi di Germania e di Austria- Ungheria, seguita alla sconfitta militare che essi avevano subito nel 1918, provocò in Europa un terremoto politico accompagnato da un grande movimento rivoluzionario. Prima ancora che i bolscevichi prendessero qualsiasi iniziativa che non fosse solo verbale o propagandistica, la rivoluzione parve sorgere spontaneamente sulla scia della sconfitta tedesca e austro-ungarica.

- La rivoluzione in Europa.
La Germania fu il primo paese a essere colpito, con un ammutinamento della sua flotta da guerra avvenuto ancora prima della capitolazione. La sconfitta del Reich e la creazione di una repubblica guidata dai socialdemocratici non bastarono a impedire violenti contraccolpi da parte sia dell'esercito, della polizia e di alcuni corpi franchi ultranazionalisti sia dei rivoluzionari entusiasti della dittatura dei bolscevichi.

A Berlino già nel dicembre 1918 Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht pubblicarono il programma della Lega Spartaco che, pochi giorni dopo, si staccò dal Partito socialdemocratico indipendente per fondare insieme ad altre organizzazioni il K.P.D., il Partito comunista tedesco. Ai primi di gennaio del 1919 gli spartachisti, guidati da Karl Liebknecht - che era molto più estremista di Rosa Luxemburg [1] e che, seguendo l'esempio leninista, era contrario all'elezione di un'Assemblea costituente -, tentarono un'insurrezione a Berlino, che fu repressa dai militari agli ordini del governo socialdemocratico. Arrestati, i due leader furono assassinati il 15 gennaio. Lo stesso avvenne in Baviera dove il 13 aprile 1919 un responsabile del K.P.D., Eugen Leviné, si mise a capo di una Repubblica dei consigli, nazionalizzò le banche e cominciò a formare un'armata rossa. La Comune di Monaco fu schiacciata militarmente il 30 aprile e Leviné, arrestato il 13 maggio, fu giudicato da una corte marziale, condannato a morte e fucilato il 5 giugno.

Ma l'esempio più famoso di questa ondata rivoluzionaria è l'Ungheria, un paese sconfitto che a stento si rassegnava alla cessione della Transilvania imposta dagli Alleati vincitori [2]. Quello ungherese è il primo caso in cui i bolscevichi riuscirono a esportare la loro rivoluzione. Fin dall'inizio del 1918 il partito bolscevico aveva raggruppato al proprio interno tutti i simpatizzanti non russi in una Federazione dei gruppi comunisti stranieri. Esisteva, quindi, a Mosca un gruppo ungherese, formato prevalentemente da ex prigionieri di guerra, che a partire dall'ottobre 1918 inviò una ventina di suoi rappresentanti in Ungheria. Il 4 novembre a Budapest fu fondato il Partito comunista ungherese, alla cui testa ben presto si mise Béla Kun. Fatto prigioniero durante la guerra, Kun aveva aderito entusiasticamente alla Rivoluzione bolscevica, tanto da diventare presidente della Federazione dei gruppi stranieri nell'aprile 1918. Giunto in Ungheria in novembre insieme a 80 militanti, fu eletto alla guida del Partito. Si calcola che tra la fine del 1918 e l'inizio del 1919 siano arrivati in Ungheria da 250 a 300 «agitatori» ed emissari. Grazie all'appoggio finanziario dei bolscevichi, i comunisti ungheresi furono in grado di fare propaganda e acquistare maggiore influenza. Il 18 febbraio 1919 la sede del giornale ufficiale dei socialdemocratici, la «Nepszava» (La voce del popolo), decisamente ostile ai bolscevichi, fu presa d'assalto da una folla di disoccupati e soldati mobilitati dai comunisti intenzionati a impadronirsene o a distruggere la tipografia. Intervenne la polizia e ci furono otto morti e un centinaio di feriti. Quella notte Béla Kun e il suo establishment furono arrestati. Al carcere centrale i prigionieri furono picchiati dagli agenti di polizia che volevano vendicare i colleghi uccisi durante l'assalto alla «Nepszava». Il presidente ungherese, Mih ly K rolyi, mandò il suo segretario a informarsi sulle condizioni di salute del leader comunista il quale, da quel momento in poi, beneficiò di un regime assai liberale che gli permise di continuare la propria attività e ben presto di capovolgere la situazione. Il 21 marzo, mentre era ancora in prigione, egli conseguì un'importante vittoria: la fusione del Partito comunista ungherese con il Partito socialdemocratico. Contemporaneamente le dimissioni del presidente K rolyi aprirono la strada alla proclamazione di una Repubblica dei consigli, alla scarcerazione dei comunisti detenuti e all'organizzazione, sull'esempio bolscevico, di un Consiglio di Stato rivoluzionario composto da commissari del popolo. La repubblica durò 133 giorni, dal 21 marzo al primo agosto 1919.

Fin dalla prima riunione i commissari decisero di istituire dei tribunali rivoluzionari con giudici scelti tra il popolo. In collegamento telegrafico regolare con Budapest dal 22 marzo (per un totale di 218 messaggi scambiati), Lenin, che Béla Kun aveva salutato come capo del proletariato mondiale, consigliò di fucilare alcuni socialdemocratici e piccolo borghesi. Nel messaggio di saluto agli operai ungheresi del 27 maggio 1919 giustificava così il ricorso al terrore: «Questa dittatura [del proletariato] presuppone l'uso implacabilmente duro, rapido e deciso della violenza per schiacciare la resistenza degli sfruttatori, dei capitalisti, dei grandi proprietari fondiari e dei loro tirapiedi. Chi non l'ha capito non è un rivoluzionario». Il commissario per il Commercio, M ty s R kosi, quello per gli Affari economici, Evgenij Varga, e i responsabili dei tribunali popolari si alienarono ben presto le simpatie di commercianti, impiegati e avvocati. Un proclama affisso sui muri riassumeva lo stato d'animo del momento: «Nello Stato dei proletari solo chi lavora ha il diritto di vivere!». Il lavoro divenne obbligatorio e furono espropriate prima le imprese con più di 20 operai e poi quelle con 10 o meno.

L'esercito e la polizia furono sciolti e fu istituito un nuovo esercito di volontari di provata fede rivoluzionaria. Ben presto fu organizzata una truppa del terrore del Consiglio rivoluzionario del governo nota anche con il nome di «Ragazzi di Lenin». Costoro uccisero una decina di persone, fra cui un giovane ufficiale di marina, Ladislas Dobsa, un ex primo sottosegretario di Stato, il figlio di questi, dirigente delle ferrovie, e tre ufficiali di gendarmeria. I Ragazzi di Lenin erano agli ordini di un ex marinaio, Jòzsef Czerny, che reclutava i suoi adepti tra i comunisti più radicali e soprattutto tra gli ex prigionieri di guerra che avevano preso parte alla Rivoluzione russa. Czerny si avvicinò a Szamuely, il leader comunista più radicale, in contrasto con Béla Kun; quest'ultimo arrivò a proporre lo scioglimento dei Ragazzi di Lenin. Per tutta risposta Czerny chiamò a raccolta i suoi uomini e li fece marciare sulla Casa dei soviet, dove Béla Kun ebbe l'appoggio del socialdemocratico Jòzsef Haubrich, commissario del popolo per la Guerra. Alla fine fu intavolata una trattativa e gli uomini di Czerny accettarono di entrare nel commissariato del popolo per gli Interni o di arruolarsi nell'esercito. La maggior parte di loro optò per questa seconda soluzione.

Alla testa di una ventina di Ragazzi di Lenin, Tibor Szamuely si recò a Szolnok, la prima città occupata dall'Armata rossa ungherese, e fece giustiziare numerosi notabili accusati di collaborare con i romeni, considerati nemici dal punto di vista sia nazionale (a causa della questione della Transilvania) sia politico (in quanto il regime romeno osteggiava il bolscevismo). Un liceale israelita presentatosi a chiedere la grazia per il padre fu messo a morte per avere definito Szamuely una «bestia feroce». Il capo dell'Armata rossa tentò invano di frenare l'entusiasmo terroristico di Szamuely che, a bordo di un treno che aveva requisito, viaggiava per l'Ungheria facendo impiccare i contadini recalcitranti di fronte alla collettivizzazione. Accusato di 150 omicidi, il suo vice Jòzsef Kerekes avrebbe poi confessato di avere fucilato 5 persone e di averne impiccate con le proprie mani altre 13. Il numero preciso delle esecuzioni non è mai stato accertato. Arthur Koestler sostiene che furono meno di 500, ma osserva: «Non dubito minimamente che anche il comunismo in Ungheria sarebbe a un certo punto degenerato in uno Stato totalitario di polizia, seguendo necessariamente l'esempio russo ... Ma questa conoscenza a posteriori non toglie nulla alle grandi speranze dei primi giorni di rivoluzione...». Gli storici attribuiscono ai Ragazzi di Lenin 80 delle 129 esecuzioni documentate, ma è probabile che il numero delle vittime ammonti a varie centinaia.

Con il crescere dell'opposizione e il deteriorarsi della situazione militare nei confronti delle truppe romene il governo rivoluzionario giunse persino a sfruttare l'antisemitismo. Fu affisso un manifesto che denunciava gli ebrei perché si rifiutavano di partire per il fronte: «Se non vogliono dare la vita per la santa causa della dittatura del proletariato, sterminateli!». Béla Kun fece arrestare 5000 ebrei venuti dalla Polonia in cerca di provviste: i loro beni furono confiscati, ed essi poi furono espulsi dal paese. L'ala radicale del Partito comunista ungherese chiese che Szamuely assumesse il controllo della situazione; invocava, inoltre, una notte di San Bartolomeo rossa come se fosse l'unico mezzo per fermare il degrado della situazione della Repubblica dei consigli. Czerny tentò di riorganizzare i suoi Ragazzi di Lenin. A metà luglio sulla «Nepszava» comparve un appello:

    "Chiediamo agli ex membri della milizia terrorista e a tutti coloro che all'epoca del suo scioglimento sono stati smobilitati di presentarsi a Jòzsef Czerny per il rinnovo della ferma..."

Il giorno dopo fu pubblicata una smentita ufficiale:

    "Si avverte la cittadinanza che non si può prendere in alcuna considerazione un'eventuale ripresa dell'attività degli ex Ragazzi di Lenin: si sono resi responsabili di azioni talmente lesive dell'onore del proletariato che è escluso un loro nuovo arruolamento al servizio della Repubblica dei consigli".

Le ultime settimane della Comune di Budapest furono caotiche. Béla Kun dovette far fronte a un tentativo di golpe, probabilmente ispirato da Szamuely. Il primo agosto 1919 lasciò Budapest sotto la protezione della missione militare italiana; nell'estate 1920 si rifugiò nell'URSS e, al suo arrivo, fu nominato commissario politico dell'Armata rossa sul fronte meridionale, dove si mise in luce facendo giustiziare gli ufficiali di Vrangel' che si erano arresi per aver salva la vita. Szamuely tentò di fuggire in Austria, ma fu arrestato il 2 agosto e si suicidò.

- Comintern e guerra civile.
Mentre Béla Kun e i suoi compagni cercavano di fondare una seconda Repubblica sovietica, Lenin prese l'iniziativa di creare un'organizzazione internazionale capace di diffondere la rivoluzione in tutto il mondo. L'Internazionale comunista, detta anche Comintern o Terza Internazionale, fu fondata a Mosca nel marzo 1919 e si pose subito come rivale dell'Internazionale operaia socialista (la Seconda Internazionale, creata nel 1889). Tuttavia il Congresso di fondazione del Comintern rispondeva, più che a una reale capacità di organizzazione, a urgenti esigenze di propaganda e al tentativo di canalizzare i movimenti spontanei che scuotevano l'Europa. La vera fondazione del Comintern va identificata, piuttosto, con il Secondo Congresso, nell'estate 1920, e con l'adozione delle "Ventuno condizioni di ammissione" cui dovevano conformarsi i socialisti desiderosi di entrare in un'organizzazione estremamente centralizzata - «lo Stato maggiore della rivoluzione mondiale» - nella quale il partito bolscevico esercitava già il notevole peso derivante dal suo prestigio, dalla sua esperienza e dal suo potere statale (in particolare dal punto di vista finanziario, militare e diplomatico). Il Comintern fu subito concepito da Lenin come uno degli strumenti della rivoluzione internazionale - insieme con l'Armata rossa, la diplomazia, lo spionaggio eccetera - e la sua dottrina politica fu, quindi, ricalcata fedelmente su quella bolscevica: era giunto il momento di sostituire all'arma della critica la critica delle armi. Il manifesto adottato in occasione del Secondo Congresso proclamava con orgoglio l'Internazionale comunista come il partito internazionale dell'insurrezione e della dittatura del proletariato. Di conseguenza la terza delle "Ventuno condizioni" diceva: «In quasi tutti i paesi d'Europa e d'America la lotta di classe sta entrando nella fase della "guerra civile". In tali condizioni, i comunisti sono tenuti a creare ovunque un apparato organizzativo clandestino parallelo, che al momento decisivo aiuterà il partito a compiere il suo dovere verso la rivoluzione». Si trattava di eufemismi: il «momento decisivo» era l'insurrezione rivoluzionaria e il «dovere verso la rivoluzione» l'obbligo di lanciarsi nella guerra civile, politica che non era riservata ai paesi con un regime dittatoriale, ma destinata anche a quelli democratici, monarchie costituzionali o repubbliche che fossero.

La dodicesima condizione precisava le esigenze organizzative legate alla preparazione della guerra civile: «Nella fase attuale di guerra civile acutizzata, il Partito comunista sarà in grado di compiere il proprio dovere soltanto se sarà organizzato il più possibile centralisticamente, se in esso dominerà una disciplina ferrea e se la direzione del Partito, sostenuta dalla fiducia di tutti i membri, godrà di tutto il potere, di tutta l'autorità e delle più ampie facoltà». La tredicesima condizione affrontava il problema di eventuali militanti non unanimi: «I partiti comunisti ... debbono intraprendere di quando in quando epurazioni ... dei membri delle loro organizzazioni, per epurare il Partito sistematicamente dagli elementi piccolo borghesi che vi si sono insinuati».

Al Terzo Congresso, che si tenne a Mosca nel giugno 1921 con la partecipazione di numerosi partiti comunisti già costituiti, gli orientamenti furono ancora più precisi. Nella "Tesi sulla tattica" si affermava: «Il Partito comunista con la parola e l'azione deve persuadere i più ampi strati del proletariato che ogni conflitto economico o politico - quando si crei una situazione adatta - può trasformarsi in una guerra civile; nel corso di questa guerra sarà compito del proletariato impadronirsi del potere statale». E le "Tesi sulla struttura organizzativa dei partiti comunisti, sui metodi e il contenuto del loro lavoro" illustravano ampiamente le questioni della «sollevazione rivoluzionaria aperta» e della «organizzazione di lotta» che ogni Partito comunista doveva segretamente creare al proprio interno. Le tesi precisavano che questo lavoro preparatorio era indispensabile, essendo impensabile in quella fase la formazione di un'armata rossa regolare.

Dalla teoria alla pratica c'era solo un passo, che fu compiuto nel marzo 1921 in Germania, dove il Comintern aveva architettato un'azione rivoluzionaria di grande portata, diretta nientemeno che da Béla Kun, il quale nel frattempo era stato eletto membro del presidium del Comintern. Avviata mentre i bolscevichi reprimevano la Comune di Kronstadt, l'«azione di marzo» in Sassonia, un vero e proprio tentativo insurrezionale, fallì nonostante la violenza dei mezzi impiegati, fra cui l'attentato con la dinamite contro il rapido Halle- Lipsia. Il suo esito negativo ebbe come conseguenza una prima epurazione nelle file del Comintern. Paul Lévi, membro fondatore e presidente del K.P.D., fu estromesso a causa delle critiche rivolte a un simile avventurismo. Già fortemente influenzati dal modello bolscevico, i partiti comunisti, che dal punto di vista istituzionale non erano altro che sezioni nazionali dell'Internazionale, sprofondavano sempre più nella subordinazione (immediatamente precedente alla sottomissione) politica e organizzativa al Comintern: era quest'ultimo a dirimere i conflitti e a decidere, in ultima istanza, la linea politica di ciascuno di essi. La tendenza insurrezionalista, che doveva molto a Grigorij Zinov'ev, fu criticata dallo stesso Lenin, il quale, pur dando fondamentalmente ragione a Paul Lévi, affidò comunque la direzione del K.P.D. ai suoi avversari, con il risultato che l'apparato del Comintern acquisì un peso ancora maggiore.

Nel gennaio del 1923 le truppe francesi e belghe occuparono la Ruhr per imporre alla Germania il pagamento delle riparazioni di guerra previste dal trattato di Versailles. Uno degli effetti concreti di questa occupazione militare fu il riavvicinamento tra nazionalisti e comunisti, uniti contro l'imperialismo francese; un altro fu il ricorso della popolazione alla resistenza passiva, appoggiata dal governo. La già instabile situazione economica si aggravò ulteriormente: la valuta crollò al punto che in agosto un dollaro veniva scambiato con 13 milioni di marchi. Scioperi, manifestazioni e sommosse si moltiplicavano. In questo clima rivoluzionario, il governo di Wilhelm Cuno cadde il 13 agosto.

A Mosca i dirigenti del Comintern si accorsero che si poteva pensare a un nuovo ottobre. Una volta placati i dissidi tra i dirigenti su chi dovesse prendere le redini di questa seconda rivoluzione tra Trotsky, Zinov'ev e Stalin, il Comintern procedette a organizzare seriamente l'insurrezione armata. In Germania furono inviati degli emissari (August Gural'skij, M ty s R kosi) accompagnati da esperti di guerra civile (fra cui il generale Aleksandr Skoblevskij, alias Gorev). Era previsto che ci si sarebbe appoggiati ai governi operai in fase di formazione, composti da socialdemocratici di sinistra e comunisti, per procurarsi armi in grandi quantità. Inviato in Sassonia, R kosi aveva intenzione di far saltare un ponte della ferrovia che collegava la provincia alla Cecoslovacchia, per provocare l'intervento di quest'ultima e accrescere così la confusione.

L'inizio dell'operazione doveva coincidere con l'anniversario del colpo di Stato bolscevico. L'eccitazione contagiò anche Mosca che, credendo che la vittoria fosse assicurata, mobilitò l'Armata rossa sulla frontiera occidentale, pronta ad andare in aiuto degli insorti. A metà ottobre i dirigenti comunisti entrarono nei governi di Sassonia e Turingia con l'incarico di rinforzare le milizie proletarie (parecchie centinaia), composte per il 25 per cento da operai socialdemocratici e per il 50 per cento da comunisti. Ma il 13 ottobre il governo di Gustav Stresemann dichiarò lo stato di emergenza nella regione, ormai sotto il suo diretto controllo, con il sostegno della Reichswehr. Ciò nonostante Mosca chiamò alle armi gli operai e, al suo ritorno da Mosca, Heinrich Brandler decise di fare proclamare lo sciopero generale in occasione di una conferenza delle organizzazioni operaie a Chemnitz. La manovra fallì perché i socialdemocratici di sinistra rifiutarono di seguire i comunisti. Questi decisero allora di fare marcia indietro ma, per problemi di trasmissione, la notizia non arrivò ai comunisti di Amburgo e la mattina del 23 scoppiò l'insurrezione. Le unità di combattimento comuniste (200-300 uomini) attaccarono i posti di polizia ma, svanito l'effetto della sorpresa, gli insorti non riuscirono a raggiungere i loro obiettivi. La polizia, insieme con la Reichswehr, passò al contrattacco e, dopo 31 ore di scontri, la rivolta dei comunisti di Amburgo, completamente isolata, fu soffocata. Il secondo ottobre in cui Mosca aveva tanto sperato non si era verificato. L'importanza del Militar Apparat (M-Apparat) non fu per questo sminuita e fino agli anni Trenta esso rimase una struttura importante del K.P.D., come descritto accuratamente da uno dei suoi capi, Jan Valtin, pseudonimo di Richard Krebs.

Dopo la Germania anche l'Estonia fu teatro di un tentativo di insurrezione. Si trattava del secondo attacco subito da questa piccola repubblica. Il 27 ottobre 1917, infatti, un consiglio dei soviet aveva preso il potere a Tallinn (Reval), sciolto l'assemblea e annullato le elezioni da cui i comunisti erano usciti sconfitti. Davanti al corpo di spedizione tedesco i comunisti batterono in ritirata. Poco prima dell'arrivo dei tedeschi, il 24 febbraio 1918, gli estoni proclamarono l'indipendenza. L'occupazione tedesca durò fino al novembre del 1918. In seguito alla sconfitta del kaiser, le truppe tedesche furono costrette a ritirarsi e i comunisti tornarono subito all'attacco: il 18 novembre a Pietrogrado fu costituito un governo e due divisioni dell'Armata rossa invasero l'Estonia. L'obiettivo di questa offensiva fu spiegato in modo chiaro sul giornale «Severnaja Kommuna» (La Comune del Nord):

    "Dobbiamo costruire un ponte che unisca la Russia dei soviet alla Germania e all'Austria proletarie ... La nostra vittoria unirà le forze rivoluzionarie dell'Europa occidentale a quelle della Russia e conferirà una forza irresistibile alla rivoluzione sociale universale".

Nel gennaio 1919, a 30 chilometri dalla capitale, le truppe sovietiche furono fermate dalla controffensiva estone. Anche il secondo attacco fallì. Il 2 febbraio 1920 i comunisti russi riconobbero l'indipendenza dell'Estonia con il trattato di Tartu. Nelle località occupate i bolscevichi si abbandonarono ai massacri: il 14 gennaio 1920, nell'imminenza della ritirata, ammazzarono 250 persone a Tartu e più di 1000 nel distretto di Rakvere. Al momento della liberazione di Wesenberg, il 17 gennaio, furono scoperte tre fosse comuni contenenti 86 cadaveri. A Dorpad, agli ostaggi fucilati il 26 dicembre 1919 erano state inflitte torture, fratturati gli arti e in alcuni casi strappati gli occhi. Il 14 gennaio, poco prima della fuga, i bolscevichi fecero in tempo a giustiziare solo 20 delle 200 persone che tenevano prigioniere, fra cui l'arcivescovo Platon. I cadaveri delle vittime, massacrate a colpi d'ascia e di calcio di fucile, erano difficilmente identificabili; un ufficiale fu addirittura trovato con le spalline inchiodate addosso.

I sovietici sconfitti non rinunciarono però ad attrarre nella propria orbita il piccolo Stato estone. Nell'aprile 1924, durante alcuni colloqui segreti avuti a Mosca con Zinov'ev, il Partito comunista estone decise di preparare un'insurrezione armata. I suoi membri organizzarono delle unità di lotta strutturate in compagnie (in autunno potevano contare su un migliaio di uomini) e diedero inizio a un'opera di demoralizzazione dell'esercito. Era previsto che l'insurrezione, una volta scoppiata, sarebbe stata sostenuta da uno sciopero. Il primo dicembre 1924 il Partito comunista estone, che contava circa 3000 iscritti ed era oggetto di forte repressione, cercò di impadronirsi del potere a Tallinn per proclamare una Repubblica sovietica il cui compito fondamentale doveva essere quello di chiedere l'immediata adesione alla Russia sovietica in modo da giustificare l'invio dell'Armata rossa. Il piano fallì il giorno stesso. «Le masse operaie ... non sostennero attivamente gli insorti contro la controrivoluzione. La classe operaia di Reval, nel suo complesso, rimase spettatrice disinteressata». Il capo dell'operazione, Jan Anvelt, riuscì a fuggire nell'URSS e, prima di sparire nell'epoca delle purghe, fu per anni funzionario del Comintern.

***

Dall'Estonia l'azione si spostò in Bulgaria. Nel 1923 c'erano stati gravi disordini nel paese. Nel giugno di quell'anno Aleksander Stambolijski, leader della coalizione formata dai comunisti e dal suo stesso partito, l'Unione agraria, era stato assassinato e sostituito a capo del governo da Aleksander Cankov, che ebbe l'appoggio dell'esercito e della polizia. A settembre i comunisti diedero vita a un'insurrezione che si protrasse per una settimana e fu poi repressa duramente. A partire dall'aprile 1924 cambiarono tattica, ricorrendo all'azione diretta e agli assassinii. L'8 febbraio 1925 ci furono quattro morti durante un assalto alla sottoprefettura di Godetch. L'11 febbraio a Sofia fu assassinato il deputato Nicola Milev, direttore del giornale «Slovet» e presidente del sindacato dei giornalisti bulgari. Il 24 marzo un manifesto del Partito comunista bulgaro annunciò anzitempo l'inevitabile caduta di Cankov, rivelando così il legame tra il gesto terrorista e gli obiettivi politici dei comunisti. All'inizio di aprile fallì per un soffio un attentato contro il re Boris Terzo; il giorno 15 fu ucciso uno dei personaggi a lui vicini, il generale Kosta Georgiev.

Quello che seguì fu l'episodio più impressionante di quegli anni di violenza politica in Bulgaria. Il 17 aprile, durante le esequie del generale Georgiev nella cattedrale di Santa Sofia, una terribile esplosione provocò il crollo della cupola: si contarono 140 morti, tra cui 14 generali, 16 ufficiali superiori e 3 deputati. Secondo Victor Serge l'attentato era stato organizzato dalla sezione militare del Partito comunista. I suoi presunti autori, Kosta Iankov e Ivan Minkov, dirigenti della sezione, furono uccisi con le armi in pugno al momento dell'arresto.

L'attentato servì da pretesto per una repressione spietata: furono arrestati 3000 comunisti, tre dei quali furono impiccati sulla pubblica piazza. Alcuni membri dell'apparato del Comintern attribuirono la responsabilità dell'attentato al capo dei comunisti bulgari, Georgi Dimitrov, che guidava clandestinamente il Partito da Vienna. Nel dicembre 1948, davanti ai delegati del Quinto Congresso del Partito comunista bulgaro, egli ne rivendicò la responsabilità a sé e all'organizzazione militare. Secondo altre fonti, il mandante dell'attentato della cattedrale era Meir Trilisser, capo della sezione straniera della Ceka e poi vicepresidente della G.P.U., insignito nel 1927 dell'ordine della Bandiera rossa per i servizi resi. Negli anni Trenta Trilisser fu uno dei dieci segretari del Comintern, di cui assicurò il controllo permanente per conto dell'N.K.V.D.

Dopo queste brucianti sconfitte in Europa il Comintern, spinto da Stalin, scoprì un nuovo campo di battaglia, la Cina, e vi concentrò i propri sforzi. In piena anarchia, lacerato da guerre intestine e da conflitti sociali ma animato da un formidabile slancio nazionalista, questo immenso paese sembrava maturo per una rivoluzione antimperialista. Un segno dei tempi: nell'autunno 1925, gli studenti cinesi dell'Università comunista dei lavoratori dell'Oriente (K.U.T.V.), fondata nell'aprile 1921, furono riuniti in un'università Sun Yat-sen.

Debitamente controllato da responsabili del Comintern e dei servizi sovietici, il Partito comunista cinese, non ancora diretto da Mao Zedong, negli anni 1925-1926 fu spinto ad allearsi saldamente con il Partito nazionalista, il Guomindang, e con il suo capo, il giovane generale Chiang Kai-shek. La tattica scelta dai comunisti consisteva nel fare del Guomindang una specie di cavallo di Troia della rivoluzione. L'inviato del Comintern, Mihail Borodin, arrivò a occupare il posto di consigliere presso il Guomindang. Nel 1925 l'ala sinistra del Partito nazionalista, del tutto favorevole alla politica di cooperazione con l'Unione Sovietica, riuscì a impadronirsi della direzione. I comunisti intensificarono, allora, la propaganda e alimentarono i fermenti sociali fino a dominare il Secondo Congresso del Guomindang. Ben presto tuttavia si trovarono di fronte un ostacolo: Chiang Kai-shek, preoccupato per la sempre maggiore influenza comunista, sospettava, a ragione, che i comunisti volessero emarginarlo. Giocando d'anticipo, il 12 marzo 1926 proclamò la legge marziale, fece arrestare i comunisti presenti nel Guomindang e i consiglieri militari sovietici (furono rilasciati tutti dopo pochi giorni), estromise il leader dell'ala sinistra del suo partito e impose un patto in otto punti volto a limitare le prerogative e il potere dei comunisti al suo interno. Chiang era ormai il capo incontrastato dell'esercito nazionalista. Prendendo atto del nuovo equilibrio di forze, Borodin ratificò il suo operato.

Il 7 luglio 1926 Chiang Kai-shek, che riceveva notevoli aiuti materiali dai sovietici, lanciò le armate nazionaliste alla conquista della parte settentrionale della Cina, ancora dominata dai «signori della guerra». Il 29 proclamò nuovamente la legge marziale a Canton. Nelle campagne delle regioni di Hunan e Hubei era in corso una sorta di rivoluzione agraria che, per la sua stessa dinamica, rimetteva in discussione l'alleanza tra comunisti e nazionalisti. In quella grande metropoli industriale che era Shanghai già a quell'epoca i sindacati indissero uno sciopero generale all'avvicinarsi delle truppe. I comunisti, tra cui Zhou Enlai, incitarono la popolazione alla rivolta in previsione di un imminente arrivo dell'esercito nazionalista in città, che invece non ci fu. La sollevazione del 22-24 febbraio 1927 fallì e la repressione del generale Li Baozhang fu inesorabile. Il 21 marzo un nuovo sciopero generale, ancora più esteso, e una nuova insurrezione rovesciarono il potere costituito. Una divisione dell'esercito nazionalista il cui generale era stato convinto a intervenire entrò a Shanghai, seguita poco dopo da Chiang, deciso a riprendere il controllo della situazione. Nel raggiungimento del suo obiettivo fu facilitato dal fatto che Stalin, tratto in inganno dalla dimensione antimperialista della politica di Chiang e del suo esercito, alla fine di marzo ordinò di deporre le armi e di fare fronte comune con il Guomindang. Il 12 aprile 1927 Chiang ripeté a Canton la strategia adottata a Shanghai, facendo perseguitare e uccidere i comunisti.

Ma il momento scelto da Stalin per cambiare politica fu il peggiore: in agosto, per non perdere la faccia davanti alle critiche dell'opposizione, mandò due inviati «personali», Vissarion Lominadze e Heinz Neumann, con l'incarico di rilanciare un movimento insurrezionale dopo aver rotto l'alleanza con il Guomindang. Nonostante il fallimento della «rivolta delle messi d'autunno» da loro orchestrata, i due inviati si ostinarono fino a scatenare un'insurrezione a Canton, «per procurare al loro capo un bollettino di vittoria» (Boris Suvarin) proprio nel momento in cui si riuniva il Quindicesimo Congresso del partito bolscevico, che avrebbe estromesso i rappresentanti dell'opposizione. Questa manovra fu indicativa del grado di disprezzo della vita umana cui erano giunti molti bolscevichi, anche quando si trattava dei loro stessi sostenitori, cosa che all'epoca era una novità. Lo testimonia l'assurda vicenda della Comune di Canton, che pure in fondo non è molto diversa dalle azioni terroristiche condotte in Bulgaria qualche anno prima. Parecchie migliaia di insorti si scontrarono per quarantotto ore con truppe numericamente cinque o sei volte superiori. La Comune cinese era stata preparata male: a parte l'insufficienza degli armamenti, il contesto politico era sfavorevole, poiché gli operai di Canton si tenevano su posizioni di cauta aspettativa. La sera del 10 dicembre 1927 le truppe lealiste presero posizione nei previsti punti di raccolta delle Guardie rosse. Come ad Amburgo, gli insorti ebbero il vantaggio della sorpresa, che però si esaurì ben presto. La mattina del 12 dicembre la proclamazione di una Repubblica sovietica non suscitò reazione alcuna da parte della popolazione. Nel pomeriggio le forze nazionaliste passarono al contrattacco. Due giorni dopo la bandiera rossa che sventolava sulla questura fu rimossa dalle truppe vincitrici. Seguì una repressione spietata, che fece migliaia di morti.

Il Comintern avrebbe dovuto trarre delle lezioni da questa esperienza, ma non era in grado di affrontare le questioni politiche di fondo. Ancora una volta l'uso della violenza fu giustificato a dispetto di ogni logica, in termini che dimostrano fino a che punto fosse radicata tra i funzionari comunisti la cultura della guerra civile. Nell'"Insurrezione armata" si legge questo brano di spaventosa autocritica, le cui conclusioni sono fin troppo chiare:

    "Non ci si è preoccupati abbastanza di mettere i controrivoluzionari in condizioni di non nuocere. Nell'intero periodo in cui Canton è rimasta nelle mani degli insorti sono state uccise solo cento persone. E' stato possibile uccidere i detenuti soltanto dopo regolare giudizio della commissione per la lotta contro i reazionari. In guerra, nel corso di un'insurrezione, questa è una procedura troppo lenta".

Questa lezione non fu dimenticata.
Dopo un tale disastro, i comunisti si ritirarono dalle città e si riorganizzarono nelle lontane zone di campagna fino a creare nel 1931, nello Hunan e nel Kiangsi, una «zona liberata» difesa da un'armata rossa. Fu, quindi, in fase molto precoce che, fra i comunisti cinesi, prevalse l'idea che la rivoluzione fosse prima di tutto una questione militare e fu istituzionalizzata la funzione politica dell'apparato militare, che sarebbe poi stata riassunta nella celebre massima di Mao: «Il potere politico sta in fondo alla canna del fucile». Gli eventi successivi hanno dimostrato in che modo i comunisti concepivano la conquista e il mantenimento del potere.

Tuttavia, né gli insuccessi europei dei primi anni Venti né il disastro cinese scoraggiarono il Comintern dal proseguire sulla medesima strada. Tutti i partiti comunisti, compresi quelli legali e quelli delle repubbliche democratiche, conservarono al proprio interno un apparato militare segreto pronto, se necessario, a manifestarsi in pubblico. L'esempio fu dato dal K.P.D. che in Germania, e sotto l'attento controllo dei dirigenti militari sovietici, creò un importante M-Apparat con il compito di eliminare militanti di parte avversa (in particolare di estrema destra) e spie infiltrate nel Partito, e inoltre di inquadrare i gruppi paramilitari nel famoso Rote Front (Fronte rosso), che contava migliaia di membri. Va detto però che nella Repubblica di Weimar la violenza politica era un fenomeno generale e che, se combattevano l'estrema destra e il nazismo nascente, i comunisti non esitavano neppure ad attaccare i comizi dei socialisti, definiti «socialtraditori» e «socialfascisti», e la polizia di una repubblica considerata reazionaria se non addirittura fascista. Il futuro avrebbe dimostrato, già a partire dal 1933, che cos'era il vero fascismo, ossia il nazionalsocialismo, e che sarebbe stato meglio allearsi con i socialisti per difendere la democrazia «borghese», ma i comunisti rifiutavano radicalmente questo tipo di democrazia.

In Francia il clima politico era più sereno, ma il Partito comunista francese (P.C.F.) ebbe anch'esso i suoi gruppi armati, organizzati da Albert Treint, uno dei segretari del Partito, che vantava qualche competenza in merito grazie al grado di capitano assegnatogli durante la guerra. La prima comparsa pubblica dei gruppi armati ebbe luogo l'11 gennaio 1924 in occasione di un comizio comunista in cui, contestato da un gruppo di anarchici, Treint fece entrare in azione il servizio d'ordine. Una decina di uomini armati di rivoltella salirono sul palco e spararono a bruciapelo sui contestatori, uccidendo due persone e ferendone altre. In mancanza di prove, nessuno degli assassini fu perseguito. Un episodio analogo avvenne circa un anno dopo. Giovedì 23 aprile 1925, a qualche settimana dalle elezioni comunali, il servizio d'ordine del P.C.F. andò a intralciare l'uscita da un comizio elettorale delle Jeunesses patriotes (J.P.), un'organizzazione di estrema destra, in rue Damrémont, nel diciottesimo arrondissement di Parigi. Alcuni militanti erano armati e non esitarono a usare la pistola. Ci furono tre morti tra le J.P. e uno dei feriti morì due giorni dopo. Jean Taittinger, il leader delle Jeunesses patriotes, fu interrogato e la polizia effettuò a più riprese varie perquisizioni in casa di militanti comunisti.

Nonostante queste difficoltà il Partito proseguì sulla stessa strada. Nel 1926 Jacques Duclos, da poco eletto deputato e quindi protetto dall'immunità parlamentare, fu incaricato di organizzare dei Groupes de défense antifascistes (costituiti da ex combattenti della guerra 1914-1918) e delle Jeunes gardes antifascistes (reclutate fra i membri della gioventò comunista); questi gruppi paramilitari, ispirati al modello del Rote Front tedesco, sfilarono in uniforme l'11 novembre 1926. Nel frattempo Duclos si occupava anche di propaganda antimilitarista e pubblicava una rivista, «Le combattant rouge», che insegnava l'arte della guerra civile, descrivendo e analizzando combattimenti di piazza e simili.

Nel 1931 il Comintern pubblicò in varie lingue un libro intitolato "L'insurrezione armata", che era firmato con lo pseudonimo di A. Neuberg, dietro cui si nascondevano vari funzionari sovietici, e che illustrava le varie esperienze insurrezionali dal 1920 in poi. In Francia il libro ebbe una seconda edizione all'inizio del 1934. La linea insurrezionale passò in secondo piano solo con la svolta politica del Fronte popolare nell'estate-autunno del 1934, ma in ultima analisi ciò non ridusse affatto la funzione fondamentale della violenza nella prassi comunista. Le ripetute giustificazioni della violenza, la quotidianità dell'odio di classe, la teorizzazione della guerra civile e del terrore trovarono applicazione dal 1936 in poi in Spagna, dove il Comintern mandò molti dei suoi dirigenti che si distinsero nelle attività di repressione.

Questo lavoro di selezione, formazione e preparazione dei quadri autoctoni della futura insurrezione armata avveniva in stretto contatto con i servizi segreti sovietici o, per essere più precisi, con uno di essi, il G.R.U. ("Glavnoe Razvedatel'noe Upravlenie", Direzione generale inquirente). Fondato sotto l'egida di Trotsky come quarto Bjuro dell'Armata rossa, il G.R.U. non abbandonò mai del tutto questa funzione «educativa», anche se le circostanze lo costrinsero a poco a poco a un notevole ridimensionamento. Per quanto possa risultare sorprendente, nei primi anni Settanta alcuni giovani dirigenti del Partito comunista francese seguivano ancora corsi di addestramento nell'URSS (tiro, montaggio e smontaggio delle armi più comuni, fabbricazione di armi artigianali, comunicazioni, tecniche di sabotaggio) presso gli Specnaz, i reparti speciali delle truppe sovietiche messi a disposizione dei servizi segreti. Inoltre, il G.R.U. disponeva di esperti militari che poteva inviare ai partiti fratelli in caso di necessità. Manfred Stern, per esempio, un austro- ungarico distaccato presso l'M-Apparat del K.P.D. nell'insurrezione di Amburgo del 1923, lavorò poi in Cina e in Manciuria prima di diventare il «generale Kléber» delle Brigate internazionali in Spagna. Questi apparati militari clandestini non erano certo composti da «bravi ragazzi». I loro membri erano spesso al limite del banditismo e a volte certi gruppi si trasformavano in vere e proprie associazioni a delinquere. Uno degli esempi più impressionanti è quello della Guardia rossa o degli squadroni rossi del Partito comunista cinese a metà degli anni Venti. Entrarono in azione a Shanghai, allora considerata ufficialmente l'epicentro dell'azione del Partito. Sotto la guida di Gu Shunzhang, un ex gangster affiliato alla società segreta della Banda verde, la più potente delle due organizzazioni mafiose di Shanghai, questi sicari fanatici affrontarono i loro equivalenti nazionalisti, in particolare le Camicie blu di ispirazione fascista, in loschi combattimenti, fatti di azioni terroristiche, imboscate, omicidi e vendette. Il tutto con l'appoggio stranamente attivo del consolato dell'URSS a Shanghai, che disponeva a sua volta sia di esperti in questioni militari come Gorbatjuk, sia di bassa manovalanza.

Nel 1928 gli uomini di Gu Shunzhang liquidarono una coppia di militanti restituiti dalla polizia: He Jaixing e He Jihua morirono crivellati di colpi durante il sonno. Per coprire il rumore delle detonazioni, alcuni complici fecero esplodere dei petardi all'esterno della casa. Metodi altrettanto sbrigativi furono adoperati poco tempo dopo per sconfiggere gli oppositori all'interno del Partito stesso. A volte bastava una semplice denuncia. Il 17 gennaio 1931, stanchi di essere manovrati dal delegato del Comintern, Pavel Mif, e dai dirigenti asserviti a Mosca, He Meng-xiong e una ventina di suoi compagni della frazione operaia si riunirono in una sala dell'hotel Oriental di Shanghai. Avevano appena cominciato a discutere quando alcuni poliziotti e agenti del Diaocha tongzhi, l'Ufficio investigativo centrale del Guomindang, fecero irruzione con le armi in pugno e li arrestarono. I nazionalisti erano stati informati della riunione da una fonte «anonima».

Dopo la defezione di Gu Shunzhang nell'aprile del 1931, il suo immediato ritorno sotto le ali della Banda verde e la sua sottomissione al Guomindang (era passato alle Camicie blu), un Comitato speciale di cinque membri subentrò a Shanghai. Era composto da Kang Sheng, Guang Huian, Pan Hannian, Chen Yun e Ke Qingshi. Nel 1934, anno del crollo quasi definitivo dell'apparato urbano del P.C.C., gli ultimi due capi dei gruppi armati comunisti della città, Ding Mocun e Li Shiqun, caddero nelle mani del Guomindang e fecero atto di sottomissione, passando poi al servizio dei giapponesi e andando incontro a un tragico destino. Il primo fu fucilato dai nazionalisti nel 1947 per tradimento e il secondo avvelenato dal suo contatto nel servizio segreto giapponese. Quanto a Kang Sheng, dal 1949 fino alla morte, avvenuta nel 1975, fu a capo della polizia segreta maoista e figura quindi tra i principali aguzzini del popolo cinese durante il regime comunista.

Accadde anche che rappresentanti dell'apparato dell'uno o dell'altro dei vari partiti comunisti venissero utilizzati in operazioni dei servizi speciali sovietici, per esempio nell'affare Kutepov. Nel 1924 il generale Aleksandr Kutepov era stato chiamato a Parigi dal granduca Nicola a dirigere l'Unione militare generale (R.O.V.S.). Nel 1928 la G.P.U. decise di provocarne il disgregamento. Il 26 gennaio il generale scomparve. Le voci che circolarono furono molte, alcune diffuse deliberatamente dagli stessi sovietici. L'identità dei mandanti del rapimento fu appurata da due inchieste separate, una condotta dal vecchio socialista russo Vladimir Burcev, famoso per aver smascherato Evno Azev, l'agente dell'Ohrana infiltratosi ai vertici dell'Organizzazione di combattimento dei socialisti-rivoluzionari, e l'altra da Jean Delage, giornalista de «L'Echo de Paris». Secondo Delage, il generale Kutepov sarebbe stato condotto a Houlgate e imbarcato su un piroscafo sovietico, lo "Spartak", che salpò da Le Havre il 19 febbraio. Nessuno lo rivide mai più vivo. Il 22 settembre 1965, il generale sovietico Simanov rivendicò l'operazione sul giornale dell'Armata rossa e fece il nome del responsabile:

    "Sergej Puzickij ... che non solo ha partecipato alla cattura del bandito Savinkov ... ma ha anche magistralmente condotto l'operazione dell'arresto di Kutepov e di molti altri capi delle Guardie bianche".

Oggi abbiamo informazioni più precise sulle circostanze del rapimento dello sventurato Kutepov. Nella sua organizzazione di emigrati c'erano degli infiltrati della G.P.U.: nel 1929 l'ex ministro del governo bianco dell'ammiraglio Kolciak, Sergej Nikolaevic Tret'jakov, era passato segretamente ai sovietici cui forniva informazioni con la sigla UJ/1 e il nome in codice di Ivanov. Grazie alle informazioni particolareggiate che costui forniva al suo contatto «Vecinkin», Mosca sapeva tutto o quasi sugli spostamenti del generale zarista. La sua auto fu fermata in mezzo alla strada con il pretesto di un controllo di polizia. Travestito da agente della stradale, un francese di nome Honel, che faceva il meccanico a Levallois-Perret, invitò Kutepov a seguirlo. Nell'operazione era coinvolto il fratello di Honel, Maurice, che era in contatto con i servizi sovietici e che fu poi eletto deputato per il Partito comunista nel 1936. Rifiutatosi di seguire Honel, Kutepov sarebbe stato ucciso con una pugnalata e, quindi, sepolto nello scantinato del garage di Honel.

Il successore di Kutepov, il generale Miller, aveva come braccio destro il generale Nikolaj Skoblin, che in realtà era un agente dei sovietici. Insieme alla moglie, la cantante lirica Nadejzda Plevitskaja, Skoblin organizzò a Parigi il rapimento di Miller, che scomparve il 22 settembre 1937. Il 23 settembre il piroscafo "Marija Ul'janovna" partì da Le Havre. Anche il generale Skoblin scomparve, mentre i sospetti su di lui si facevano sempre più precisi. Il generale Miller era sul "Marija Ul'janovna", che le autorità francesi non vollero intercettare. Giunto a Mosca, fu interrogato e poi ucciso.

- Dittatura, criminalizzazione degli oppositori e repressione all'interno del Comintern.
Il Comintern, se sotto la spinta di Mosca manteneva gruppi armati in tutti i partiti comunisti esteri e preparava insurrezioni e guerre civili contro il potere costituito dei rispettivi paesi, non trascurò di introdurre anche al proprio interno i metodi di polizia e di terrore in uso nell'URSS. Durante il Decimo Congresso del partito bolscevico, che si tenne dall'8 al 16 marzo 1921 mentre le autorità erano alle prese con la ribellione di Kronstadt, furono gettate le basi di un regime dittatoriale all'interno dello stesso Partito. Durante la fase di preparazione del congresso erano state proposte e discusse non meno di otto piattaforme diverse. Questi dibattiti rappresentavano in un certo senso le ultime vestigia della democrazia mancata della Russia. Solo all'interno del Partito rimaneva un surrogato di libertà di parola, destinato a non durare a lungo. Il secondo giorno dei lavori Lenin diede il la:

    "Adesso non ci vuole opposizione, compagni, non è il momento! O da questa parte, o dall'altra [a Kronstadt], con un fucile, e non con l'opposizione. Ciò dipende dalla situazione oggettiva, non prendetevela con nessuno. Adesso non abbiamo bisogno d'opposizione, compagni! E io penso che il congresso del Partito dovrà giungere a questa conclusione, dovrà concludere che adesso l'opposizione è finita, che delle opposizioni non ne vogliamo più sapere!".

Si riferiva in particolare a coloro che, senza costituire un gruppo nel senso proprio del termine né avere un organo di stampa, si erano riuniti intorno alla piattaforma detta dell'Opposizione operaia (Aleksandr Shljapnikov, Aleksandra Kollontaj, Lutovinov) e a quella detta del Centralismo democratico (Timofej Sapronov, Gavriil Mjasnikov).

Il congresso stava per concludersi quando, il 16 marzo, Lenin presentò in extremis due risoluzioni: la prima riguardante l'«unità del Partito» e la seconda la «deviazione sindacalista e anarchica nel nostro Partito» con cui attaccava l'Opposizione operaia. Nella prima risoluzione chiedeva l'immediato scioglimento di tutti i gruppi costituiti intorno a piattaforme particolari, pena l'espulsione immediata dal Partito. Un articolo non pubblicato di questa risoluzione, che rimase segreto fino all'ottobre 1923, attribuiva al Comitato centrale il potere di emettere tale sanzione. La polizia di Feliks Dzerzinskij si vide, così, offrire un nuovo terreno di indagine: da allora in poi qualsiasi gruppo di opposizione all'interno del Partito comunista fu oggetto di sorveglianza e, se necessario, di sanzione sotto forma di espulsione che, per i veri militanti, equivaleva praticamente alla morte politica.

Le due risoluzioni che, in contrasto con gli statuti del Partito, sancivano il divieto di libera discussione furono comunque messe ai voti. Riguardo alla prima, Radek avanzò una giustificazione che suona quasi come una premonizione:

    "Penso che possa benissimo essere usata contro di noi, tuttavia la appoggio ... Che nel momento del pericolo il Comitato centrale prenda pure le misure più severe contro i migliori compagni ... A costo di sbagliare! Sarà sempre meno pericoloso dello sbandamento attuale".

Questa scelta, fatta sotto l'impulso delle circostanze ma rispondente alle tendenze profonde del bolscevismo, ebbe un peso decisivo nel futuro del partito sovietico e di conseguenza nelle sezioni del Comintern.

Il Decimo Congresso procedette inoltre alla riorganizzazione della Commissione di controllo, il cui ruolo era per definizione quello di sorvegliare il consolidamento dell'unità e dell'autorità nel Partito. Da quel momento la commissione cominciò a costituire e raccogliere dossier personali sui militanti che, all'occorrenza, servirono da base per futuri capi d'accusa: atteggiamento nei confronti della polizia politica, adesione a gruppi di opposizione, e così via. Subito dopo il congresso, i sostenitori dell'Opposizione operaia subirono vessazioni e persecuzioni. In seguito Aleksandr Shljapnikov spiegò che

    "la lotta non continuava sul terreno ideologico, ma mediante... l'allontanamento (degli interessati) dai loro posti, i trasferimenti sistematici da un distretto all'altro e persino l'espulsione dal Partito".

Nell'agosto successivo ebbe inizio una verifica che durò vari mesi. Circa un quarto dei militanti comunisti furono espulsi. Il ricorso alla "cistka" (epurazione) era ormai parte integrante della vita del Partito. A‹no Kuusinen ha lasciato una testimonianza su questo processo ciclico:

    "La riunione di 'cistka' si svolgeva così: l'imputato veniva chiamato per nome e invitato a salire sul palco; i membri della Commissione di epurazione e gli altri presenti gli rivolgevano delle domande. Alcuni riuscivano a discolparsi facilmente, mentre per altri questa prova temibile durava a lungo. Se uno aveva dei nemici, questi potevano influenzare in maniera decisiva lo svolgimento della seduta. L'espulsione dal Partito tuttavia poteva essere decretata solo dalla Commissione di controllo. Se l'accusato non era riconosciuto colpevole di atti che comportassero l'esclusione dal Partito, la procedura veniva sospesa senza ricorrere al voto. In caso contrario, nessuno interveniva in favore dell'«imputato». Il presidente domandava semplicemente: «Kto protiv? [Chi si oppone?]» e, dal momento che nessuno osava opporsi, la sentenza veniva emessa «all'unanimità»".

Gli effetti delle decisioni del Decimo Congresso non tardarono a farsi sentire: nel febbraio 1922 Gavriil Mjasnikov fu espulso per un anno dopo avere difeso, contro il parere di Lenin, la necessità della libertà di stampa. L'Opposizione operaia, nell'impossibilità di far sentire la propria voce, fece appello al Comintern ("Dichiarazione dei Ventidue"). Stalin, Dzerzinskij e Zinov'ev chiesero allora l'espulsione di Shljapnikov, della Kollontaj e di Medved, che l'Undicesimo Congresso rifiutò. Sempre più influenzato dal potere sovietico, il Comintern fu ben presto costretto a adottare lo stesso regime interno del partito bolscevico: una conseguenza logica e, tutto sommato, poco sorprendente.

Nel 1923 Dzerzinskij pretese una decisione ufficiale del Politbjuro che costringesse i membri del Partito a denunciare alla G.P.U. qualsiasi attività di opposizione. Da questa proposta nacque una nuova crisi in seno al partito bolscevico: l'8 ottobre Trotsky indirizzò una lettera al Comitato centrale, seguita il 15 ottobre dalla "Dichiarazione dei Quarantasei". Il dibattito che ne sorse si concentrò principalmente sul nuovo corso del Partito russo ed ebbe degli strascichi in tutte le sezioni del Comintern.

Contemporaneamente, alla fine del 1923, la parola d'ordine nella vita delle sezioni diventò bolscevizzazione; tutte dovettero riorganizzare la propria struttura fondandola sulle cellule di impresa e ribadire la propria fedeltà al centro moscovita. La reticenza con cui furono accolti questi cambiamenti ebbe come conseguenza un considerevole aumento del ruolo e del potere dei "missi dominici" dell'Internazionale, mentre i dibattiti sull'evoluzione del potere nella Russia sovietica continuavano.

In Francia uno dei leader del P.C.F., Boris Suvarin, si oppose alla nuova linea e denunciò i vili metodi di cui si serviva la trojka (Kamenev, Zinov'ev, Stalin) contro il suo avversario Lev Trotsky. Il 12 giugno 1924, in occasione del Tredicesimo Congresso del P.C.U.S., Boris Suvarin fu convocato per dare spiegazioni e fu messo in stato d'accusa come avveniva nelle sedute obbligatorie di autocritica. Una commissione riunita appositamente per occuparsi del caso Suvarin decretò la sua sospensione. Dalle reazioni della direzione del P.C.F. emerge chiaramente l'atteggiamento ormai prevalente nelle file del Partito in tutto il mondo:

    "Nel nostro Partito [il P.C.F.], che la battaglia rivoluzionaria non ha completamente liberato del vecchio fondo socialdemocratico, l'influsso delle personalità individuali ha ancora un ruolo troppo importante ... E' nella misura in cui verranno eliminati tutti i residui piccolo borghesi dell'«Io» individualista che si formerà l'anonima schiera di ferro dei bolscevichi francesi ... Se vuole essere degno dell'Internazionale comunista cui appartiene, se vuole seguire le orme gloriose del Partito dell'Unione Sovietica, il Partito comunista francese non deve esitare a spezzare chi, al suo interno, dovesse rifiutare di piegarsi alla sua legge!" («L'Humanité», 19 luglio 1924).

L'anonimo redattore non sapeva di aver appena enunciato la legge che avrebbe regolato la vita del P.C.F. per decine di anni. Il sindacalista Pierre Monatte riassunse questa evoluzione in una sola parola: la «caporalizzazione» del P.C.F.

Sempre durante il Quinto Congresso del Comintern, nell'estate del 1924, Zinov'ev diede un esempio dei comportamenti politici che si stavano diffondendo a macchia d'olio nel movimento comunista minacciando di «spezzare le ossa» agli oppositori. Ma la cosa gli si ritorse contro: fu a lui che Stalin spezzò le ossa, destituendolo nel 1925 dalle sue funzioni di presidente del Comintern. Zinov'ev fu sostituito da Buharin, che in breve tempo andò incontro allo stesso destino. L'11 luglio 1928, alla vigilia del Sesto Congresso del Comintern (17 luglio - primo settembre) Kamenev si incontrò segretamente con Buharin e scrisse un verbale del colloquio. Vittima del regime di polizia, Buharin gli spiegò che aveva il telefono sotto controllo ed era pedinato dalla G.P.U.; in due occasioni dimostrò di avere paura: «Ci strozzerà... Non vogliamo intervenire come scissionisti, perché altrimenti ci strozzerebbe!». Il soggetto naturalmente era Stalin.

Il primo che Stalin cercò di «strozzare» fu Lev Trotsky. La sua lotta contro il trotzkismo ebbe un'eccezionale portata. Cominciò nel 1927, ma già in precedenza vi erano stati avvertimenti sinistri durante una conferenza del partito bolscevico nell'ottobre del 1926: «O l'estromissione e l'annientamento legale dell'Opposizione, o la soluzione del problema a cannonate nelle strade, come con i socialisti-rivoluzionari di sinistra nel luglio 1918 a Mosca», raccomandava Larin sulla «Pravda». L'Opposizione di sinistra (era questa la sua denominazione ufficiale), isolata e sempre più debole, era bersaglio di provocazioni da parte della G.P.U., che inventò di sana pianta l'esistenza di una tipografia clandestina diretta da un ex ufficiale di Vrangel' (che in realtà era uno dei suoi agenti), in cui sarebbero stati stampati dei documenti dell'Opposizione. In occasione del decimo anniversario della Rivoluzione d'ottobre, l'Opposizione aveva deciso di manifestare con le proprie parole d'ordine. Un brutale intervento della polizia glielo impedì e il 14 novembre Trotsky e Zinov'ev furono espulsi dal partito bolscevico. Il passo successivo, a cominciare dal gennaio 1928, fu la relegazione dei militanti più in vista in regioni decentrate oppure all'estero: Hristian Rakovskij, ex ambasciatore sovietico in Francia, fu esiliato dapprima ad Astrakhan sul Volga e poi a Barnaul in Siberia; Victor Serge fu mandato nel 1933 a Orenburg negli Urali. Quanto a Trotsky, fu trasferito di forza ad Alma Ata nel Turkestan, a 4000 chilometri da Mosca. Un anno dopo, nel gennaio 1929, fu esiliato e mandato in Turchia, sfuggendo così alla prigione toccata ai suoi sostenitori. Aumentava, infatti, il numero di coloro che, anche fra i militanti dell'ex Opposizione operaia o del gruppo del Centralismo democratico, venivano arrestati e inviati in prigioni speciali dette "politizoliator".

A partire da questo momento alcuni comunisti stranieri, membri dell'apparato del Comintern o residenti nell'URSS, furono arrestati e internati come i militanti russi del Partito; la loro situazione era assimilata a quella dei russi in quanto qualsiasi comunista straniero che soggiornasse per un periodo prolungato nell'URSS era costretto a iscriversi al partito bolscevico e quindi ad accettarne la disciplina. Fu il caso, ben noto, del comunista iugoslavo Ante Ciliga, membro dell'Ufficio politico del K.P.J., il Partito comunista iugoslavo, inviato a Mosca nel 1926 in qualità di rappresentante del K.P.J. al Comintern. Ebbe alcuni contatti con l'opposizione radunata intorno a Trotsky, quindi si allontanò sempre di più da un Comintern in cui non era possibile un vero confronto di idee e i dirigenti non esitavano a usare metodi intimidatori verso chi non la pensava come loro, con quello che Ciliga definì il «sistema di servilismo» del movimento comunista internazionale. Nel febbraio del 1929, durante l'assemblea generale degli iugoslavi a Mosca, fu adottata una risoluzione che condannava la politica della direzione del K.P.J. e, quindi, indirettamente la direzione del Comintern. In seguito gli oppositori della linea ufficiale, che erano in contatto con alcuni sovietici, organizzarono un gruppo illegale (rispetto ai canoni della disciplina del Partito). Poco dopo una commissione cominciò a indagare su Ciliga, che fu sospeso per un anno, ma non per questo pose fine alle sue attività illegali, stabilendosi a Leningrado. Il primo maggio 1930 si recò a Mosca per incontrare gli altri membri del gruppo russo- iugoslavo che, assunte posizioni molto critiche riguardo al modo in cui veniva gestita l'industrializzazione, raccomandava la formazione di un nuovo partito. Il 21 maggio Ciliga fu arrestato insieme con i suoi compagni e quindi spedito nel "politizoliator" di Verhneural'sk ai sensi dell'articolo 59. Per tre anni, detenuto in isolamento, con la sola arma dello sciopero della fame continuò a rivendicare il diritto di lasciare la Russia. Liberato per un breve periodo, tentò di suicidarsi. La G.P.U. cercò di costringerlo a rinunciare alla nazionalità italiana. Esiliato in Siberia, il 3 dicembre 1935 fu definitivamente espulso, il che costituì un caso eccezionale. Grazie a Ciliga, abbiamo una testimonianza sui "politizoliator":

    "I compagni ci consegnarono i giornali che circolavano nella prigione. Che varietà di opinioni, quanta libertà in ognuno degli articoli! Quanta passione e quanta franchezza nella presentazione di questioni non solo astratte e teoriche, ma riguardanti anche l'attualità più scottante! ... Ma la nostra libertà non si limitava a questo. Durante l'ora d'aria, in cui si riunivano i prigionieri di varie celle, i detenuti avevano l'abitudine di tenere in un angolo del cortile delle vere e proprie riunioni, con presidente, segretario e oratori che prendevano la parola a turno".

Le condizioni materiali erano queste:

    "L'alimentazione consisteva nel menò tradizionale del 'muzik' povero: pane e zuppa mattina e sera, per tutto l'anno ... Inoltre a pranzo ci davano una zuppa fatta di pesce cattivo, conserve e carne mezza marcia. La stessa zuppa, ma senza né carne né pesce, veniva servita anche a cena ... La razione quotidiana di pane era di 700 grammi, quella mensile di zucchero di un chilo, e ricevevamo anche una razione di tabacco, di sigarette, di tè e di sapone. Oltre che monotona, questa dieta era di quantità insufficiente. Tuttavia dovemmo lottare con accanimento perché non ci riducessero ulteriormente questi magri pasti, per non parlare delle lotte che ci costarono anche i più piccoli miglioramenti! Eppure, rispetto al regime delle prigioni per i delinquenti comuni, in cui marcivano centinaia di migliaia di detenuti, e soprattutto a quello dei milioni di persone rinchiuse nei campi di lavoro del Nord, in un certo senso la nostra era una situazione privilegiata!".

Si trattava, comunque, di privilegi molto relativi. A Verhneural'sk i detenuti fecero tre scioperi della fame, nell'aprile e nell'estate del 1931 e poi nel dicembre 1933, in difesa dei propri diritti e, in particolare, per ottenere la soppressione del rinnovo delle pene. A partire dal 1934 il regime politico fu eliminato quasi dappertutto (a Verhneural'sk restò in vigore fino al 1937), benché le condizioni di detenzione si fossero già inasprite: alcuni prigionieri morirono durante i pestaggi, altri furono fucilati, altri ancora tenuti nell'isolamento più totale, come Vladimir Smirnov a Suzdal' nel 1933.

***

Questa criminalizzazione degli oppositori interni, reali o presunti che fossero, si estese ben presto a responsabili comunisti di alto livello. Il dirigente del Partito comunista spagnolo José Bullejos e molti suoi compagni, convocati a Mosca nell'autunno del 1932, videro la loro linea politica sottoposta a dura critica. Avendo rifiutato di arrendersi ai diktat del Comintern, ne furono espulsi tutti insieme il primo novembre e da quel giorno si trovarono praticamente agli arresti domiciliari all'hotel Lux, la residenza riservata ai dirigenti del Comintern. Il francese Jacques Duclos, ex delegato del Comintern in Spagna, andò a notificare loro l'espulsione precisando che qualsiasi tentativo di ribellione sarebbe stato represso «con il massimo rigore previsto dal diritto penale sovietico». Bullejos e i suoi compagni riuscirono con difficoltà a lasciare l'URSS dopo due mesi di faticose trattative per ricuperare i passaporti.

Quello stesso anno aveva visto l'epilogo di una vicenda incredibile riguardante il Partito comunista francese. All'inizio del 1931 il Comintern aveva mandato un proprio rappresentante e alcuni istruttori presso il P.C.F. con il compito di riprenderne le redini. In luglio il vero capo del Comintern, Dmitrij Manuil'skij, sbarcò clandestinamente a Parigi e rivelò a uno sbalordito Ufficio politico che al suo interno c'era un gruppo che perseguiva obiettivi frazionistici. Si trattava, in realtà, di una messinscena destinata a provocare una crisi da cui la direzione del P.C.F. uscisse con minore autonomia, tanto da diventare del tutto dipendente da Mosca e dai suoi uomini. Fra i capi del presunto «gruppo» fu indicato Pierre Celor, uno dei più importanti dirigenti del Partito fin dal 1928, che fu convocato a Mosca con il pretesto di rappresentare il P.C.F. presso il Comintern. Appena arrivato, però, Celor fu trattato come un provocatore. Ostracizzato, privato dello stipendio, sopravvisse al duro inverno russo soltanto grazie alla tessera annonaria della moglie, che l'aveva accompagnato e che lavorava al Comintern. L'8 marzo 1932 fu convocato a una riunione a cui assistevano alcuni membri dell'N.K.V.D. i quali, durante un interrogatorio durato dodici ore, cercarono di fargli confessare di essere un agente della polizia infiltrato nel Partito. Celor non confessò nulla e, dopo innumerevoli pressioni e vessazioni, riuscì a rientrare in Francia l'8 ottobre 1932, dove fu subito denunciato pubblicamente come «sbirro».

Sempre nel 1932, sull'esempio del partito bolscevico, in molti partiti comunisti furono create delle sezioni di quadri che dipendevano dalla sezione centrale dei quadri del Comintern e avevano l'incarico di predisporre una documentazione completa sui militanti e di raccogliere questionari biografici e autobiografie dettagliate su tutti i dirigenti. Solo per il Partito francese prima della guerra furono trasmessi a Mosca più di 5000 dossier. Il questionario biografico comprendeva oltre 70 domande raggruppate in cinque grandi categorie: 1) origini e condizione sociale; 2) funzione nel Partito; 3) istruzione e livello culturale; 4) partecipazione alla vita sociale; 5) fedina penale e provvedimenti disciplinari. Tutto questo materiale, destinato alla selezione dei militanti, era conservato a Mosca da Anton Kraevskij, Cernomordik o Gevork Alihanov, che si succedettero a capo del servizio dei quadri del Comintern, a sua volta legato alla sezione esteri dell'N.K.V.D. Nel 1935 Mejr Trilisser, uno dei massimi responsabili dell'N.K.V.D., fu nominato segretario del Comitato esecutivo del Comintern con l'incarico di controllare i quadri. Con lo pseudonimo di Mihail Moskvin, raccoglieva informazioni e denunce e decideva chi doveva cadere in disgrazia, primo passo verso una pronta eliminazione. Questi servizi dei quadri furono incaricati, inoltre, di redigere liste nere di nemici del comunismo e dell'URSS. Molto presto, se non proprio fin dall'inizio, le sezioni del Comintern diventarono il vivaio in cui venivano reclutati gli agenti segreti che lavoravano per l'URSS. In alcuni casi i militanti che accettavano di svolgere questa attività illegale e pertanto clandestina non sapevano di lavorare in realtà per uno dei servizi sovietici: il G.R.U. o Quarto Bjuro, cioè il Servizio segreto dell'Armata rossa, il dipartimento Affari esteri della Ceka-G.P.U. ("Inostrannij Otdel", INO), l'N.K.V.D. eccetera. Tutti questi apparati costituivano un intreccio inestricabile lacerato da feroci rivalità, per cui ognuno cercava di spingere alla defezione gli agenti dell'altro. Nei suoi ricordi Elsa Porecki cita moltissimi esempi di questa concorrenza.

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[Box: LE LISTE NERE DEL P.C.F. A partire dal 1932 il P.C.F. cominciò a raccogliere informazioni sulle persone ritenute sospette o pericolose a causa delle loro attività. Queste liste nacquero, quindi, nel momento in cui gli emissari del Comintern assumevano il controllo dell'apparato dei quadri. La creazione della sezione dei quadri, destinata a selezionare i militanti migliori, mostrava anche il suo rovescio: le liste che denunciavano chi in un modo o nell'altro aveva sbagliato. Dal 1932 al giugno 1939 il P.C.F. pubblicò dodici liste nere con titoli diversi e nello stesso tempo molto simili: "Liste noire des provocateurs, traŒtres, mouchards chassés des organisations révolutionnaires de France" (Lista nera dei provocatori, traditori, spie espulse dalle organizzazioni rivoluzionarie di Francia), oppure "Liste noire des provocateurs, voleurs, escrocs, trotskistes, traŒtres chassés des organisations ouvrières de France" (Lista nera di provocatori, ladri, truffatori, trotzkisti, traditori espulsi dalle organizzazioni operaie di Francia)... Per giustificare queste liste, in cui fino allo scoppio della guerra furono inclusi oltre 1000 nomi, il P.C.F. ricorreva a una semplice argomentazione politica: «La lotta della borghesia contro la classe operaia e le organizzazioni rivoluzionarie nel nostro paese si fa sempre più aspra».
I militanti dovevano fornire segnalazioni («statura e corporatura, capelli e sopracciglia, fronte, occhi, naso, bocca, mento, forma del viso, colorito, segni particolari», come si legge nella "Liste n. 10", agosto 1938) e «qualsiasi informazione utile che faciliti [la] ricerca» degli individui denunciati, tra cui il luogo di residenza. Ogni militante doveva praticamente fingersi agente di una polizia speciale, giocare al piccolo cekista.
Alcuni dei sospetti erano probabilmente veri imbroglioni, mentre altri erano soltanto contrari alla linea del Partito, che vi appartenessero o meno. Negli anni Trenta furono presi di mira prima di tutto i militanti comunisti che avevano seguito Jacques Doriot e la sua organizzazione di Saint-Denis, poi i trotzkisti. I comunisti francesi ripresero senza esitare le argomentazioni dei fratelli maggiori sovietici: i trotzkisti diventarono «una banda forsennata e priva di principi di sabotatori, agenti deviati e assassini agli ordini dei servizi di spionaggio stranieri» ("Répertoire n. 1 des listes noires 1 à 8", s.d.).
La guerra, l'interdizione del P.C.F. che era favorevole al riavvicinamento russo-tedesco e quindi l'occupazione tedesca spinsero il Partito a rafforzare le proprie tendenze poliziesche. Furono denunciati i militanti che si erano rifiutati di ratificare l'alleanza tra Hitler e Stalin, compresi quelli impegnati nella Resistenza, come Adrien Langumier, che usava come copertura un posto di redattore a «Temps nouveaux» di Luchaire (viceversa, il P.C.F. non denunciò mai Frédéric Joliot-Curie per l'articolo molto compromettente pubblicato sullo stesso giornale il 15 febbraio 1941), o come René Nicod, ex deputato comunista di Oyonnax che si comportò in modo irreprensibile nei confronti degli ex compagni. Per non parlare di Jules Fourrier, che la «polizia del Partito» tentò invano di eliminare: Fourrier aveva votato i pieni poteri a Pétain e poi, a partire dalla fine del 1940, aveva partecipato alla creazione di una rete di resistenza; fu deportato a Buchenwald e poi a Mauthausen.
Inoltre ci furono coloro che nel 1941 presero parte alla fondazione del Partito operaio e contadino francese intorno all'ex segretario del P.C.F., Marcel Gitton, ucciso nel settembre dello stesso anno da alcuni militanti comunisti. Il P.C.F. si arrogò il diritto di dichiararli «traditori del Partito e della Francia». Talvolta gli atti di accusa sono seguiti dalla dicitura: «Ha ricevuto il castigo che meritava». Ci furono persino casi di militanti sospettati di tradimento che furono assassinati e poi riabilitati dopo la guerra, come Georges Déziré.
Nel pieno della caccia agli ebrei il P.C.F. usava strani metodi per denunciare i suoi nemici: «C... Renée, detta Tania, detta Thérèse, del quattordicesimo arrondissement. "Ebrea bessarabica"», «De B..., "ebreo straniero". Rinnegato, denigra P.C.F. e URSS». La Manodopera immigrata (Main-d'oeuvre immigrée, MOI), un'organizzazione che raccoglieva i militanti comunisti stranieri, ricorse a un linguaggio altrettanto caratteristico: «R. Ebreo (non è il suo vero nome). Lavora con un gruppo ebraico nemico». Non venne meno l'odio per i militanti trotzkisti: «D... Yvonne. 1, place du Général-Beuret, Paris 7 ... Trotzkista, era stata in contatto con il POUM (Partito operaio di unificazione marxista). Denigra l'URSS». E' molto probabile che durante gli arresti la polizia di Vichy o la Gestapo abbiano potuto mettere le mani su liste di questo genere: che cosa ne è stato delle persone che vi erano denunciate?
Nel 1945 il P.C.F. pubblicò una nuova serie di liste nere per mettere «al bando della nazione», secondo le sue stesse parole, gli avversari politici, alcuni dei quali erano sfuggiti per un soffio ad attentati mortali. L'istituzionalizzazione del metodo della lista nera rimanda in modo molto chiaro alla compilazione di elenchi di potenziali imputati da parte degli organi di sicurezza sovietici (Ceka, G.P.U., N.K.V.D.). E' un metodo universalmente adottato dai comunisti, entrato nell'uso all'inizio della guerra civile in Russia. In Polonia, verso la fine del conflitto, le liste di questo tipo comprendevano 48 categorie di individui da sorvegliare.]
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La complessa questione dei servizi fu subito messa in secondo piano da un fattore decisivo: sia il Comintern sia i servizi speciali dovettero rispondere all'autorità suprema del direttivo del P.C.U.S., rendendo conto del proprio operato addirittura a Stalin. Nel 1932 Martemiam Rjutin, che aveva condotto con zelo e senza scrupoli la repressione contro l'opposizione, entrò a sua volta in contrasto con Stalin. Redasse una piattaforma in cui si legge:

    "Oggi Stalin nel Comintern ha la statura di un papa infallibile.... Grazie a una dipendenza materiale diretta e indiretta, Stalin tiene saldamente in pugno tutti i quadri dirigenti del Comintern, non solo a Mosca ma anche nelle sedi decentrate, ed è questo l'argomento decisivo che ne conferma l'invincibilità in campo teorico".

Già alla fine degli anni Venti il Comintern, che dipendeva finanziariamente dallo Stato sovietico, aveva perso qualsiasi possibilità di essere autonomo. Ma a questa dipendenza materiale, che aggravava quella politica, si aggiunse la dipendenza indotta dal regime di polizia.

La pressione sempre maggiore dei servizi di polizia sui militanti del Comintern fece sì che tra loro si diffondessero paura e diffidenza. La delazione rovinava i rapporti interpersonali e il sospetto invadeva le menti. C'erano due tipi di delazione: le denunce volontarie e quelle estorte con la tortura, fisica e psicologica. A volte il fattore scatenante era semplicemente la paura, ma alcuni militanti consideravano un onore denunciare i propri compagni. Il caso del comunista francese André Marty è tipico di questa furia paranoica, di questo zelo sfrenato di dimostrarsi il più vigile dei comunisti. In una lettera «strettamente riservata» indirizzata al segretario generale in carica del Comintern, Georgi Dimitrov, il 23 giugno 1937, Marty sporse una lunga denuncia contro il rappresentante dell'Internazionale in Francia, Evzen Fried, dichiarandosi stupito che non fosse ancora stato arrestato dalla polizia francese, cosa che gli pareva a dir poco sospetta....

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[Box: SUI PROCESSI DI MOSCA.
Il terrore e i processi sono fenomeni che suscitarono inevitabilmente interpretazioni contrastanti.
Ecco quanto scriveva al riguardo Boris Suvarin: «E' molto esagerato, effettivamente, pretendere che i processi di Mosca siano fenomeni esclusivamente e specificamente russi. Sotto un'innegabile impronta nazionale, a un esame più approfondito emerge qualcosa di molto generalizzato.
«Prima di tutto, è bene abbandonare il pregiudizio secondo cui ciò che è accessibile al russo non lo sarebbe al francese. Nella fattispecie, le confessioni dimostrative estorte agli accusati lasciano altrettanto perplessi sia i francesi sia i russi. E coloro che, per fanatica solidarietà con il bolscevismo, le trovano naturali sono senza dubbio più numerosi fuori dell'URSS che al suo interno ...
«Nei primi anni della Rivoluzione russa tutte le difficoltà di interpretazione venivano comodamente risolte attribuendole all'"animo slavo", ma in seguito si è dovuto constatare sia in Italia sia in Germania il verificarsi di fatti in precedenza considerati specificamente russi. Quando la belva umana si scatena, malgrado le differenze formali e superficiali, le stesse cause producono effetti analoghi presso i popoli latini, germanici e slavi.
«D'altronde, non è forse vero che in Francia e in altri paesi vi sono persone di ogni genere che non trovano assolutamente nulla da ridire di fronte alle atroci macchinazioni di Stalin? La redazione dell'"Humanité", per esempio, non è affatto inferiore a quella della "Pravda" quanto a servilismo e bassezza, senza neppure la scusa di trovarsi oppressa dal peso di un regime totalitario. L'accademico Komarov, sulla Piazza Rossa di Mosca, si disonora ancora una volta chiedendo delle teste, ma non avrebbe potuto rifiutarsi di farlo senza commettere consapevolmente un suicidio. Che dire allora di un Romain Rolland, di un Langevin, di un Malraux, che ammirano e approvano il regime sovietico, la sua "cultura" e la sua "giustizia", senza esservi costretti né dalla fame né dalla tortura?»]
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Dello stesso genere è il seguente brano di una delle lettere indirizzate al «compagno L. P. Berija» (commissario per gli Affari interni dell'URSS) dalla bulgara Stella Blagoeva, un'oscura impiegata della sezione quadri del Comitato esecutivo del Comintern:

    "Il Comitato esecutivo dell'Internazionale comunista dispone di informazioni provenienti da tutta una serie di compagni, militanti di partiti fratelli, che riteniamo necessario sottoporvi perché possiate verificarle e prendere le misure del caso ... Uno dei segretari del Comitato centrale del Partito comunista d'Ungheria, Karakach, fa discorsi che dimostrano la sua insufficiente devozione al Partito di Lenin e Stalin ... I compagni sollevano inoltre una questione molto seria: perché nel 1932 il tribunale ungherese l'ha condannato a soli tre anni di prigione, mentre durante la dittatura del proletariato in Ungheria Karakach ha fatto eseguire alcune condanne a morte decise dal tribunale rivoluzionario? ... Da molti discorsi di compagni tedeschi, austriaci, lettoni, polacchi e di altri paesi emerge che l'emigrazione politica è particolarmente sporca. Bisogna estirpare il tutto con determinazione".

Arkadij Vaksberg precisa che gli archivi del Comintern contengono decine (o addirittura centinaia) di denunce, fenomeno che dimostra la decadenza morale degli uomini del Comintern o dei funzionari del P.C.U.S. Questa decadenza divenne del tutto evidente in occasione dei grandi processi contro la vecchia guardia bolscevica, che aveva dato il suo contributo all'instaurazione di un potere basato sulla menzogna assoluta.

- Il Grande terrore colpisce il Comintern.
L'assassinio di Kirov, il primo dicembre 1934, offrì a Stalin un ottimo pretesto per passare da una repressione severa a un vero e proprio regime di terrore, sia nel Comintern sia nel partito russo. La storia del P.C.U.S., e quindi quella del Comintern, erano entrate in una fase nuova. Il terrore, fino a quel momento esercitato contro la popolazione, fu esteso ai protagonisti del potere assoluto gestito dal P.C.U.S. e dal suo onnipotente segretario generale. Le prime vittime furono i membri dell'opposizione russa già in carcere. Alla fine del 1935 i detenuti liberati allo scadere della pena furono ricondotti in prigione. Parecchie migliaia di militanti trotzkisti furono radunati nella regione di Vorkuta. Circa 500 erano in miniera, un migliaio nel campo di Uhta-Peciora, per un totale di parecchie migliaia nel raggio di Peciora. Il 27 ottobre 1936 1000 di loro cominciarono uno sciopero della fame che durò 132 giorni.

Chiedevano di essere separati dai delinquenti comuni e di poter vivere con le famiglie. Il primo detenuto morì dopo quattro settimane. Altri lo seguirono, finché l'amministrazione non annunciò che le loro rivendicazioni sarebbero state accolte. Nell'autunno successivo 1200 prigionieri (circa metà dei quali erano trotzkisti) furono raggruppati nei pressi di una vecchia fornace. Alla fine di marzo l'amministrazione ne selezionò 25 che ricevettero un chilo di pane e l'ordine di prepararsi a partire. Qualche minuto dopo si udirono degli spari. L'ipotesi più pessimistica trovò conferma quando poco dopo gli altri videro tornare la scorta del convoglio. Dopo due giorni ci furono un nuovo appello e nuovi spari. E avanti così fino alla fine di maggio. Le guardie cospargevano di benzina i cadaveri per poi bruciarli e farli sparire. L'N.K.V.D. trasmetteva alla radio i nomi dei fucilati «per agitazione controrivoluzionaria, sabotaggio, banditismo, rifiuto del lavoro, tentata evasione». Non furono risparmiate nemmeno le donne: la moglie di un militante giustiziato rischiava automaticamente la pena capitale, e così i figli di un oppositore che avessero compiuto i 12 anni.

Circa 200 trotzkisti di Magadan, «capitale» della Kolyma, ricorsero anch'essi allo sciopero della fame per ottenere il riconoscimento dello status di prigionieri politici. Nel loro proclama denunciavano i «boia-gangster» e il «fascismo di Stalin, molto peggiore di quello di Hitler». L'11 ottobre 1937 furono condannati a morte e 74 di loro furono fucilati il 26 e il 27 ottobre e il 4 novembre. Le esecuzioni continuarono nel 1937-1938.

In tutti i paesi in cui esistevano dei comunisti ortodossi la consegna era di combattere l'influenza della minoranza di militanti sostenitori di Lev Trotsky. Con l'inizio della guerra di Spagna l'operazione prese un nuovo corso, che consisteva nell'associare nella maniera più falsa trotzkismo e nazismo, proprio mentre Stalin preparava il proprio riavvicinamento a Hitler.

Ben presto il terrore di massa scatenato da Stalin si abbatté sull'apparato centrale del Comintern. Nel 1965 Branko Lazic tentò una prima analisi dello sterminio degli uomini del Comintern, significativamente intitolata "Martyrologe du Comintern". Boris Suvarin concluse i suoi "Commentaires sur le «martyrologe»", che seguivano l'articolo di Lazic, con una considerazione sui modesti collaboratori del Comintern, vittime anonime della Grande purga. Non è fuori luogo ricordare le sue parole prima di affrontare questo capitolo della storia del comunismo sovietico: «I più sono scomparsi in questo massacro del Comintern, che è stato "solo un'infima parte di un massacro immenso, quello di milioni di operai e contadini laboriosi", immolati senza motivo da una tirannide mostruosa che si autodefiniva proletaria».

Tanto i funzionari dell'apparato centrale quanto quelli delle sezioni nazionali furono stritolati nell'ingranaggio della repressione, al pari dei cittadini più umili. Con la Grande purga (1937-1938) non solo gli oppositori caddero vittime degli organi repressivi, ma anche i funzionari dell'apparato del Comintern e dei suoi annessi: l'Internazionale comunista giovanile (K.I.M.), l'Internazionale sindacale rossa (Profintern), il Soccorso rosso (M.O.P.R.), l'Università comunista delle minoranze nazionali occidentali (K.U.M.N.Z.) eccetera. Figlia di un vecchio amico di Lenin, Wanda Pampuch-Bronska sotto uno pseudonimo raccontò che nel 1936 la K.U.M.N.Z. fu sciolta e tutto il personale e quasi tutti gli studenti furono arrestati.

Lo storico Mihail Panteleev, esaminando gli archivi di vari servizi e sezioni del Comintern, ha contato finora 133 vittime su un effettivo di 492 persone (pari al 27 per cento). Tra il primo gennaio e il 17 settembre 1937 la Commissione della segreteria del Comitato esecutivo, composta da Mihail Moskvin (Mejr Trilisser), Wilhelm Florin e Jan Anvelt, e poi la Commissione speciale di Controllo istituita nel maggio 1937 e composta da Dimitrov, Moskvin e Manuil'skij, decisero 256 licenziamenti. In generale il licenziamento precedeva l'arresto di un periodo di tempo variabile: Elena Walter, licenziata dalla segreteria di Dimitrov il 16 ottobre 1938, fu arrestata due giorni dopo, mentre Jan Borowski (Ludwik Komorowski), licenziato il 17 luglio dal Comitato esecutivo del Comintern, fu arrestato il 7 ottobre successivo. Nel 1937 furono arrestati 88 impiegati del Comintern e 19 nel 1938. Altri furono arrestati alla loro scrivania, come Anton Krajewski (Wladyslaw Stein), all'epoca responsabile del servizio stampa e propaganda, incarcerato il 26 maggio 1937. Molti furono arrestati al ritorno da missioni all'estero.

Tutti i servizi ebbero le loro vittime, dalla segreteria alle rappresentanze dei Partiti comunisti. Tra il 1937 e il 1938 furono arrestate 41 persone della segreteria del Comitato esecutivo. All'interno del Servizio di collegamento (O.M.S. fino al 1936) si contarono 34 arresti. Lo stesso Moskvin fu travolto dalla macchina della repressione il 23 novembre 1938 e condannato alla fucilazione il primo febbraio 1940. Jan Anvelt morì sotto tortura e il danese A. Munch-Petersen si spense nell'ospedale di un carcere per i postumi di una tubercolosi cronica. Cinquanta funzionari, tra cui 9 donne, furono fucilati. La svizzera Lydia Dìbi, responsabile della rete clandestina del Comintern a Parigi, fu convocata a Mosca ai primi di agosto del 1937. Appena vi giunse, fu arrestata insieme ai collaboratori Brichman e Wolf. Accusata di appartenenza all'«organizzazione trotzkista antisovietica» e di spionaggio per conto della Germania, della Francia, del Giappone e persino della Svizzera, fu condannata a morte dal Collegio militare del tribunale supremo dell'URSS il 3 novembre e fucilata pochi giorni dopo. La cittadinanza svizzera non le valse alcuna protezione e la famiglia venne brutalmente avvertita del verdetto senza alcuna spiegazione. La polacca L. Jankoska fu condannata a otto anni di reclusione in quanto appartenente alla famiglia di un traditore della patria, il marito Stanislaw Skulski (Mertens), a sua volta arrestato nell'agosto del 1937 e fucilato il 21 settembre. Il principio della corresponsabilità familiare, già applicato contro i semplici cittadini, fu esteso così ai membri dell'apparato.

Osip Pjatnickij (Tarscis) era stato fino al 1934 il numero due del Comintern dopo Manuil'skij, responsabile di tutta l'organizzazione (in particolare del finanziamento dei partiti comunisti stranieri e dei collegamenti clandestini del Comintern in tutto il mondo), e in seguito della sezione politica e amministrativa del Comitato centrale del P.C.U.S. Il 24 giugno 1937 intervenne al plenum del Comitato centrale per criticare l'inasprimento della repressione e l'attribuzione di poteri straordinari al capo dell'N.K.V.D., Ezov. Furioso, Stalin interruppe la seduta e ordinò che venisse esercitata la massima pressione su Pjatnickij perché si ravvedesse, ma invano. Il giorno dopo, alla ripresa dei lavori, Ezov accusò Pjatnickij di essere un vecchio agente della polizia zarista. Quest'ultimo fu arrestato il 7 luglio. Ezov costrinse Boris Mìller (Melnikov) a testimoniare contro di lui e, l'indomani stesso dell'esecuzione di Mìller, il 29 luglio 1938, il Collegio militare della Corte suprema processò Pjatnickij, che si rifiutò di dichiararsi colpevole di spionaggio a favore del Giappone. Condannato a morte, venne fucilato nella notte tra il 29 e il 30 luglio.

Molti dei funzionari del Comintern giustiziati erano stati accusati di appartenere all'organizzazione anti-Comintern diretta da Pjatnickij, Knorin (Wilhelm Hugo) e Béla Kun. Altri furono semplicemente considerati trotzkisti e controrivoluzionari. L'ex capo della Comune ungherese, Béla Kun, che all'inizio del 1937 si era opposto a Manuil'skij, fu accusato da quest'ultimo (probabilmente dietro istruzioni di Stalin), il quale presentò le critiche di Kun come rivolte direttamente a Stalin. Kun protestò la propria buona fede e indicò di nuovo in Manuil'skij e Moskvin i responsabili delle critiche rivolte al P.C.U.S. che, a suo parere, era la causa dell'inefficienza del Comintern. Nessuno dei presenti - Palmiro Togliatti, Otto Kuusinen, Wilhelm Pieck, Klement Gottwald e Arvo Tuominen - prese le sue difese. Alla fine della riunione Georgi Dimitrov fece adottare una risoluzione che rimandava l'esame della vicenda Kun a una commissione speciale. Ma invece di essere esaminato da quest'ultima, Béla Kun venne arrestato all'uscita dalla riunione. Fu giustiziato nei sotterranei della Lubjanka in data sconosciuta.

Secondo Panteleev lo scopo ultimo delle epurazioni era quello di annientare qualsiasi forma di opposizione alla dittatura stalinista. La repressione prese di mira soprattutto coloro che in passato erano stati simpatizzanti dell'Opposizione o che intrattenevano rapporti con militanti che erano stati vicini a Trotsky. Alla stessa stregua furono trattati i militanti tedeschi che avevano fatto parte della frazione diretta da Heinz Neumann (a sua volta liquidato nel 1937) o gli ex militanti del gruppo del Centralismo democratico. All'epoca, secondo la testimonianza di Jakov Matuzov, vicecapo del primo dipartimento della Sezione politica segreta del G.U.G.B.- N.K.V.D., su ogni dirigente di alto livello dell'apparato statale esisteva un dossier contenente documenti che al momento opportuno si sarebbero potuti usare contro di lui. Così, a loro insaputa, ne avevano uno Kliment Voroscilov, Andrej Vyscinskij, Lazar' Kaganovic, Mihail Kalinin, Nikita Hrusc‰v. E' del tutto probabile che anche sui dirigenti del Comintern pesassero gli stessi sospetti.

A questo va aggiunto che partecipavano attivamente alla repressione anche i massimi responsabili non russi del Comintern. Uno dei casi più sintomatici è quello di Palmiro Togliatti, uno dei segretari del Comintern, presentato dopo la morte di Stalin come un uomo aperto e contrario ai metodi terroristici. Ora, durante una riunione, Togliatti rivolse delle accuse a Hermann Schubert, un funzionario del Soccorso rosso internazionale, e gli impedì di spiegarsi. Arrestato poco tempo dopo, Schubert fu fucilato. I Petermann, una coppia di comunisti tedeschi giunti nell'URSS dopo il 1933, furono accusati da Togliatti durante una riunione di essere agenti hitleriani perché erano in corrispondenza con la loro famiglia in Germania e furono arrestati qualche settimana dopo. Togliatti era presente all'attacco contro Béla Kun e firmò la risoluzione che lo avrebbe portato alla morte. Fu inoltre coinvolto da vicino nell'eliminazione del Partito comunista polacco nel 1938. In tale occasione, approvò il terzo processo di Mosca e concluse: «Morte ai guerrafondai, morte alle spie e morte agli agenti del fascismo! Viva il partito di Lenin e di Stalin, custode vigile delle conquiste della Rivoluzione d'ottobre, garante sicuro del trionfo della rivoluzione mondiale! Viva colui che continua l'opera di Feliks Dzerzinskij: Nikolaj Ezov!».

- Il terrore all'interno dei partiti comunisti.
Dopo avere ripulito l'apparato centrale del Comintern, Stalin passò alle varie sezioni dell'Internazionale comunista. La prima a subirne le conseguenze fu quella tedesca. Oltre ai discendenti dei coloni del Volga, militanti del Partito comunista tedesco, il K.P.D., la comunità tedesca nella Russia sovietica comprendeva antifascisti rifugiatisi nell'URSS e operai che avevano lasciato la Repubblica di Weimar per partecipare all'«edificazione del socialismo». Di ciò non si tenne il minimo conto quando cominciarono gli arresti, nel 1933. In totale, due terzi degli antifascisti tedeschi in esilio nell'URSS furono vittime della repressione.

Per quanto riguarda i militanti comunisti, il loro destino ci è noto attraverso le "Kaderlisten", liste compilate sotto la responsabilità dei dirigenti del Partito comunista tedesco, Wilhelm Pieck, Wilhelm Florin e Herbert Wehner, che le utilizzarono per espellere i comunisti colpiti dalle sanzioni e/o vittime della repressione. La prima di queste liste è datata 3 settembre 1936, l'ultima 21 giugno 1938. Un altro documento della fine degli anni Cinquanta, redatto dalla Commissione di controllo del SED ("Sozialistische Einheitspartei Deutschlands": è sotto il nome di partito socialista unitario di Germania che, dopo la guerra, si ricostituì il Partito comunista nella futura R.D.T.), contiene 1136 nomi. Gli arresti raggiunsero il massimo nel 1937 (619) e continuarono fino al 1941. La sorte di metà di queste persone (666) è sconosciuta: presumibilmente, esse morirono durante la prigionia. Per contro è certo che 82 furono giustiziate, 197 morirono nelle carceri o nei campi di lavoro e 132 furono consegnate ai nazisti. Le altre 150 circa, che sopravvissero alle dure condanne, riuscirono a lasciare l'URSS dopo avere scontato la pena. Uno dei motivi ideologici addotti a giustificazione dell'arresto di questi militanti fu che non erano riusciti a impedire l'ascesa al potere di Hitler, come se Mosca non vi avesse avuto una grossa parte di responsabilità.

Ma l'episodio più tragico, in cui Stalin diede prova di tutto il suo cinismo, fu quello della consegna a Hitler degli antifascisti tedeschi. Nel 1937 le autorità sovietiche decisero di espellere i cittadini tedeschi. Il 16 febbraio 10 di loro furono condannati all'espulsione dall'O.S.O., l'Associazione di cooperazione per la difesa dell'URSS. Alcuni sono noti: Emil Larisch, un tecnico che viveva nell'URSS dal 1921; Arthur Thilo, un ingegnere arrivato nel 1931; Wilhelm Pfeiffer, un comunista di Amburgo; Kurt Nixdorf, un universitario che lavorava all'Istituto Marx e Engels. Erano stati arrestati nel 1936 con l'accusa di spionaggio o di attività fasciste e l'ambasciatore tedesco von Schulenburg era intervenuto in loro difesa presso Maksim Litvinov, il ministro sovietico degli Affari esteri. Pfeiffer tentò di farsi mandare in Inghilterra, sapendo che se fosse tornato in Germania sarebbe stato immediatamente arrestato in quanto comunista. Diciotto mesi dopo, il 18 agosto 1938, fu accompagnato alla frontiera polacca, dove le sue tracce si perdono. Arthur Thilo riuscì a recarsi all'ambasciata britannica a Varsavia. Molti non furono altrettanto fortunati. Otto Walther, che faceva il litografo a Leningrado e viveva in Russia dal 1908, arrivò a Berlino il 4 marzo 1937; si suicidò buttandosi dalla finestra della casa in cui era ospite.

Alla fine di maggio del 1937 von Schulenburg trasmise due nuove liste di tedeschi in stato di arresto di cui si auspicava l'espulsione. Fra i 67 nomi figurano quelli di vari antifascisti, tra cui Kurt Nixdorf. Nell'autunno 1937 le trattative con le autorità tedesche presero una piega nuova e i sovietici accettarono di accelerare le espulsioni, come era stato loro richiesto (circa trenta erano già state effettuate). Tra il novembre e il dicembre del 1937 furono espulsi 148 tedeschi e altri 445 nel corso del 1938. Accompagnati alla frontiera polacca o lettone, talvolta a quella finlandese, gli espulsi - tra cui alcuni membri dello Schutzbund, la Lega di protezione repubblicana del Partito socialista austriaco - venivano immediatamente controllati dalle autorità tedesche. In alcuni casi, come quello del comunista austriaco Paul Meisel nel maggio del 1938, l'espulso veniva portato fino alla frontiera austriaca passando per la Polonia e consegnato alla Gestapo. Paul Meisel, ebreo, scomparve ad Auschwitz.

Questa intesa perfetta tra la Germania nazista e la Russia sovietica prefigurava il patto russo-tedesco del 1939 «in cui si manifesta la vera natura convergente dei sistemi totalitari» (Jorge Semprun). Dopo la firma degli accordi le espulsioni continuarono in condizioni assai più drammatiche. Quando Stalin e Hitler ebbero sconfitto la Polonia, la Germania e l'URSS si trovarono ad avere una frontiera comune che permetteva di trasferire gli espulsi direttamente dalle prigioni sovietiche a quelle tedesche. Dal 1939 al 1941 furono consegnati così alla Gestapo da 200 a 300 comunisti tedeschi, come segno della buona volontà sovietica verso il nuovo alleato. Il 27 novembre 1939 fu sottoscritto un accordo bilaterale. In seguito, tra il novembre del 1939 e il maggio del 1941, furono espulse circa 350 persone, tra cui 85 austriaci. Uno di essi era Franz Koritschoner, uno dei fondatori del Partito comunista austriaco, diventato poi funzionario dell'Internazionale sindacale rossa. Dopo un periodo di deportazione nelle regioni settentrionali dell'Unione Sovietica, fu consegnato alla Gestapo di Lublino, trasferito a Vienna e quindi torturato e giustiziato ad Auschwitz il 7 giugno 1941.

Le autorità sovietiche non tennero in alcuna considerazione il fatto che molti degli espulsi erano di origine ebraica. Hans Walter David, compositore e direttore d'orchestra, ebreo e iscritto al K.P.D., fu consegnato alla Gestapo e morì in una camera a gas a Majdanek nel 1942. Si conoscono anche molti altri casi, come quello del fisico Alexander Weissberg, che sopravvisse e scrisse le sue memorie. Anche Margaret Buber Neumann, la compagna di Heinz Neumann, estromesso dalla direzione del K.P.D. e poi emigrato nell'URSS, offre una testimonianza dell'incredibile intesa tra nazisti e sovietici. Dopo essere stata deportata a Karaganda, in Siberia, fu consegnata alla Gestapo insieme con molte altre compagne di sventura nel febbraio del 1940 e fu internata a Ravensbrìck.

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[Box: SUL PONTE DI BREST-LITOVSK.
Il 31 dicembre 1939 ci svegliarono alle 6 del mattino ... Vestiti e rasati, dovemmo restare alcune ore in una sala d'attesa. Un ebreo comunista ungherese di nome Bloch era fuggito in Germania dopo il fallimento della Comune del 1919 e vi aveva vissuto con dei documenti falsi continuando a militare nel Partito. In seguito era emigrato, sempre con gli stessi documenti falsi. Anche lui era stato arrestato e, nonostante le sue proteste, doveva essere consegnato alla Gestapo tedesca ... Poco prima di mezzanotte arrivarono degli autobus che ci portarono alla stazione ... Durante la notte tra il 31 dicembre 1939 e il primo gennaio 1940 il treno partì. Riportava a casa 70 sconfitti ... Attraverso la Polonia devastata, continuammo il nostro viaggio verso Brest-Litovsk. Al ponte sul fiume Bug ci aspettava l'apparato dell'altro regime totalitario d'Europa, la Gestapo tedesca.
Tre persone rifiutarono di passare il ponte, e cioè l'ebreo ungherese di nome Bloch, l'operaio comunista condannato dai nazisti e un insegnante tedesco di cui non ricordo più il nome. Furono trascinati a forza verso il ponte. La furia dei nazisti, delle S.S., si concentrò subito sull'ebreo. Noi fummo trasferiti su un treno e portati a Lublino ... A Lublino fummo consegnati alla Gestapo. Solo allora ci rendemmo conto non solo di essere stati consegnati alla Gestapo, ma anche che l'N.K.V.D. aveva consegnato alle S.S. i documenti che ci riguardavano. Così dal mio dossier risultava, per esempio, che ero la moglie di Neumann e che Neumann era uno dei tedeschi più invisi ai nazisti...]
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Contemporaneamente ai comunisti tedeschi finirono nell'ingranaggio del terrore i quadri del Partito comunista di Palestina, molti dei quali erano emigrati in Polonia. Joseph Berger (1904-1978), ex segretario del P.C.P. dal 1929 al 1931, fu arrestato il 27 febbraio 1935 e liberato solo dopo il Ventesimo Congresso, nel 1956. Il suo è un caso eccezionale: molti altri militanti furono giustiziati o scomparvero nei campi di sterminio. Wolf Averbuch, che dirigeva una fabbrica di trattori a Rostov sul Don, fu arrestato nel 1936 e giustiziato nel 1941. La politica di eliminazione sistematica dei membri del P.C.P. o dei gruppi sionisti socialisti nell'URSS va collegata alla politica sovietica nei confronti della minoranza ebraica, esemplificata dalla costituzione di Birobidzan (il capoluogo della provincia autonoma degli ebrei nella Siberia sudorientale), i cui responsabili furono messi in stato di accusa. Il professor Josif Liberberg, presidente del Comitato esecutivo di Birobidzan, fu denunciato in quanto nemico del popolo. Dopo di lui furono eliminati gli altri quadri della regione autonoma con funzioni istituzionali. Samuil Augurskij (1884-1947) fu accusato di appartenere a un presunto Centro giudeo-fascista. L'intera sezione ebraica del partito russo (la «Evsekcija») fu smantellata. L'obiettivo era l'abbattimento delle istituzioni ebraiche proprio mentre fuori dell'URSS lo Stato sovietico cercava di procurarsi il sostegno di ebrei eminenti.

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Uno dei gruppi più duramente colpiti fu quello dei comunisti polacchi. Nelle statistiche della repressione vengono al secondo posto, subito dopo i russi. E' vero che, contrariamente alle abitudini, il Partito comunista polacco (K.P.P.) era stato sciolto in maniera ufficiale in seguito a una frettolosa votazione del Comitato esecutivo del Comintern il 16 agosto 1938. Stalin aveva sempre giudicato con sospetto il K.P.P., ritenuto colpevole di molte e varie deviazioni. Numerosi dirigenti comunisti polacchi avevano fatto parte dell'entourage di Lenin prima del 1917 e vivevano privi di tutela giuridica nell'URSS. Nel 1923 il K.P.P. aveva preso posizione a favore di Trotsky e, alla vigilia della morte di Lenin, la direzione aveva adottato una risoluzione a favore dell'Opposizione. In seguito fu criticata per il suo «luxemburghismo». Durante il Quinto Congresso del Comintern, nel giugno-luglio del 1924, Stalin estromise i leader storici del K.P.P. - Adolf Warski, Maksimilian Walecki e Wera Kostrzewa - compiendo così un primo passo verso l'assunzione del controllo da parte del Comintern. In seguito il K.P.P. fu denunciato come focolaio di trotzkismo. Questa breve sintesi dei fatti non basta a spiegare la purga radicale che colpì il Partito, molti dirigenti del quale erano di origine ebraica. Ci fu anche la questione dell'Organizzazione militare polacca (P.O.W.) nel 1933 (si veda il contributo di Andrzej Paczkowski). Bisogna tenere presente, inoltre, che la politica del Comintern tendeva a imporre alla sezione polacca un orientamento interamente volto a indebolire lo Stato polacco a vantaggio dell'URSS e della Germania. L'ipotesi secondo cui l'eliminazione del K.P.P. sarebbe stata motivata prima di tutto dalla necessità di preparare la firma degli accordi russo-tedeschi merita, quindi, di essere presa in seria considerazione. Anche il modo in cui Stalin la affrontò è indicativo: con l'aiuto dell'apparato del Comintern fece in modo che tutte le sue vittime tornassero a Mosca, stando attento a non farsi sfuggire nessuno. Sopravvisse solo chi era detenuto in Polonia, come Wladyslaw Gomulka.

Nel febbraio 1938 l'«Internationale Presse Korrespondenz», quindicinale ufficiale del Comintern, con un articolo firmato da J. Swiecicki, mise sotto accusa tutto il K.P.P. Durante la purga iniziata nel giugno del 1937 (il segretario generale Julian Lenski, convocato a Mosca, scomparve in questo periodo) furono eliminati 12 membri del Comitato centrale, numerosi dirigenti di secondo piano e diverse centinaia di militanti. La purga si estese anche ai polacchi arruolati nelle Brigate internazionali: i responsabili politici della brigata Dombrowski, Kazimierz Cichowski e Gustav Reicher, furono arrestati non appena rientrarono a Mosca. Solo nel 1942 Stalin si rese conto della necessità di ricostituire un Partito comunista polacco, il Partito operaio polacco (P.P.R.), per farne il fulcro di un futuro governo ai suoi ordini, in contrapposizione con il governo legale in esilio a Londra.

Anche i comunisti iugoslavi dovettero subire i pesanti effetti del terrore stalinista. Dichiarato fuori legge nel 1921, il Partito comunista iugoslavo era stato costretto a ripiegare all'estero, a Vienna dal 1921 al 1936 e, quindi, a Parigi dal 1936 al 1939; ma il suo nucleo principale si costituì soprattutto a Mosca dopo il 1925. Intorno agli studenti dell'Università comunista delle minoranze nazionali, dell'Università comunista Sverdlov e della Scuola leninista internazionale si formò un primo nucleo di emigrati iugoslavi, poi rafforzato da una nuova ondata giunta in seguito all'instaurazione, nel 1929, della dittatura del re Alessandro. Negli anni Trenta risiedevano nell'URSS da 200 a 300 comunisti iugoslavi, molto presenti nelle amministrazioni internazionali, del Comintern e dell'Internazionale comunista giovanile in particolare. Per questo motivo erano evidentemente collegati al P.C.U.S.

Si fecero una cattiva reputazione per via delle numerose lotte tra le fazioni che si disputavano la direzione del K.P.J. In queste circostanze l'intervento della direzione del Comintern divenne sempre più frequente e vincolante. Verso la metà del 1925 ci fu una "cistka", un accertamento-epurazione, alla K.U.M.N.Z., dove gli studenti iugoslavi, piuttosto favorevoli all'Opposizione, osteggiavano il rettore Maria J. Frukina. Alcuni studenti furono espulsi con una nota di biasimo e quattro (Ante Ciliga, Dedic, Dragiced Eberling) arrestati e mandati in Siberia. Nel 1932 ci fu una nuova epurazione all'interno del K.P.J., che portò all'esclusione di 16 militanti.

Dopo l'assassinio di Kirov il controllo sugli emigrati politici si intensificò e nell'autunno 1936 tutti i militanti del K.P.J. furono sottoposti a un accertamento prima dell'inizio del terrore. Per quanto riguarda gli emigrati politici, il cui destino è più noto di quello dei lavoratori anonimi, abbiamo notizia dell'arresto e della scomparsa di 8 segretari e di altri 15 membri del Comitato centrale del K.P.J. e di 21 segretari delle direzioni regionali o locali. Uno dei segretari del K.P.J., Sima Markovic, che era stato costretto a rifugiarsi nell'URSS, lavorava all'Accademia delle scienze; fu arrestato nel luglio 1939 e condannato a dieci anni di lavori forzati senza il diritto di corrispondenza. Morì in prigione. Altri furono giustiziati seduta stante, come i fratelli Vujovic, Radomir (membro del Comitato centrale del K.P.J.) e Gregor (membro del Comitato centrale della gioventò); Voja Vujovic, ex responsabile dell'Internazionale comunista giovanile, che aveva solidarizzato con Trotsky nel 1927, era stato il primo a scomparire e al suo arresto fece seguito quello dei fratelli. Milan Gorkic, segretario del Comitato centrale del Partito comunista della Iugoslavia dal 1932 al 1937, fu accusato di avere creato un'organizzazione antisovietica all'interno del Comintern, diretta da Knorin e Pjatnickij.

A metà degli anni Sessanta il K.P.J. riabilitò un centinaio di vittime della repressione, ma non fu mai aperta un'inchiesta sull'accaduto. E' vero, però, che un'indagine del genere avrebbe indirettamente sollevato la questione delle vittime della repressione condotta contro i sostenitori dell'URSS in Iugoslavia dopo lo scisma del 1948 e, soprattutto, avrebbe sottolineato il fatto che l'ascesa di Tito (Josip Broz) ai vertici del Partito nel 1938 era seguita a una purga particolarmente sanguinosa. Il fatto che Tito nel 1948 si fosse messo contro Stalin non diminuiva affatto la sua responsabilità nella purga degli anni Trenta.

- La caccia ai trotzkisti.
Dopo aver decimato i ranghi dei comunisti stranieri che vivevano nell'URSS, Stalin passò ai dissidenti che risiedevano all'estero. L'N.K.V.D. ebbe così l'occasione di mostrare la propria potenza a livello mondiale.

Uno dei casi più spettacolari è quello di Ignaz Reiss, che in realtà si chiamava Nathan Porecki. Reiss era uno di quei giovani rivoluzionari ebrei dell'Europa centrale usciti dalla guerra del 1914- 1918 fra cui spesso il Comintern aveva reclutato seguaci. Agitatore professionista, lavorava nella rete clandestina internazionale e aveva portato a termine le sue missioni tanto bene da essere insignito nel 1928 dell'ordine della Bandiera rossa. Dopo il 1935 fu ricuperato dall'N.K.V.D., che stava assumendo il controllo di tutte le reti all'estero, e fece dello spionaggio in Germania. Sconvolto dal primo dei grandi processi di Mosca, Reiss decise di prendere le distanze da Stalin. Conoscendo le abitudini sovietiche, preparò con cura la propria defezione e, il 17 luglio 1937, rese pubblica una lettera al Comitato centrale del P.C.U.S. in cui spiegava le proprie ragioni e attaccava in particolare Stalin e lo stalinismo, «questa mescolanza del peggiore opportunismo - un opportunismo privo di principi - di sangue e di menzogne [che] minaccia di avvelenare il mondo intero e di annientare quel che resta del movimento operaio». Reiss annunciava, inoltre, di avere aderito alla causa di Lev Trotsky. Senza saperlo, aveva firmato così la propria condanna a morte. L'N.K.V.D. mobilitò immediatamente la propria rete in Francia e riuscì a localizzare Reiss in Svizzera, dove gli fu tesa una trappola. La sera del 4 settembre a Losanna fu crivellato di colpi da due comunisti francesi, mentre una donna che in realtà era un'agente dell'N.K.V.D. tentava di uccidere sua moglie e suo figlio con una scatola di cioccolatini avvelenati. Nonostante le indagini svolte in Svizzera, gli assassini e i loro complici non furono mai trovati né condannati. Trotsky si rivolse immediatamente a Jacques Duclos, uno dei segretari del P.C.F., chiedendo al suo segretario Jan van Heijenoort di mandare il telegramma seguente al capo del governo francese:

    "Chautemps Presidente del Consiglio Parigi / Nella vicenda assassinio Ignaz Reiss / Furto dei miei archivi e reati analoghi / Mi permetto insistere necessità di interrogare almeno come testimone Jacques Duclos vicepresidente Camera dei deputati vecchio agente G.P.U.".

Duclos era vicepresidente della Camera dei deputati dal giugno 1936 e il telegramma non ebbe alcun seguito.

L'assassinio di Reiss fu senza dubbio impressionante, ma rientrava in un vasto piano di eliminazione dei trotzkisti. Non stupisce che nell'URSS i sostenitori di Trotsky siano stati massacrati come molti altri avversari del regime. Quel che può sorprendere semmai è l'astio con cui i servizi speciali liquidarono fisicamente gli oppositori all'estero o i gruppi trotzkisti costituitisi in vari paesi. Alla base di questa operazione ci fu un paziente lavoro di infiltrazione. Nel luglio 1937 scomparve il responsabile della segreteria internazionale dell'opposizione trotzkista, Rudolf Klement. Il 26 agosto fu ripescato nella Senna un corpo senza testa e senza gambe, che fu poi riconosciuto come quello di Klement. Anche il figlio di Trotsky, Lev Sedov, morì a Parigi il 16 febbraio 1938 dopo un intervento chirurgico; le circostanze sospette del suo decesso indussero le persone a lui vicine a pensare che in realtà fosse stato assassinato dai servizi sovietici.

Nei suoi ricordi Pavel Sudoplatov assicura invece che questo non è affatto vero. Ciò non toglie che Lev Sedov fosse sorvegliato dall'N.K.V.D. Una delle persone che gli erano vicine, Mark Zborowski, era un agente infiltrato nel movimento trotzkista.

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[Box: Louis Aragon,
PRELUDE AU TEMPS DES CERISES.
Canto la Ghepeù che si forma
in Francia adesso.
Canto la Ghepeù necessaria di Francia.
Canto la Ghepeù di nessuno e dappertutto.
Chiedo una Ghepeù per preparare la fine di un mondo.
Chiedete una Ghepeù per preparare la fine di un mondo,
per difendere coloro che sono traditi,
per difendere coloro che sono sempre traditi,
Chiedete una Ghepeù voi che siete piegati, voi che siete uccisi.
Chiedete una Ghepeù.
Vi occorre una Ghepeù.
Viva la Ghepeù figura dialettica dell'eroismo
da contrapporre all'immagine imbecille degli aviatori,
considerati eroi dagli imbecilli quando cadono faccia a terra.
Viva la Ghepeù immagine vera della grandezza materialista.
Viva la Ghepeù contro dio Chiappe [prefetto noto per le sue simpatie filofasciste] e la "Marsigliese".
Viva la Ghepeù contro il papa e i pidocchi.
Viva la Ghepeù contro la rassegnazione delle banche.
Viva la Ghepeù contro le manovre dell'Est.
Viva la Ghepeù contro la famiglia.
Viva la Ghepeù contro le leggi scellerate.
Viva la Ghepeù contro gli assassini tipo
Caballero Boncour MacDonald Zoergibel.
Viva la Ghepeù contro tutti i nemici del Proletariato.
VIVA LA GHEPEU'.
(1931)]
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Sudoplatov ha ammesso invece di essere stato incaricato nel marzo 1939 da Berija e Stalin in persona di assassinare Trotsky. Stalin gli disse: «Trotsky dovrebbe essere eliminato entro un anno, prima che scoppi la guerra che è inevitabile», aggiungendo poi: «Riferisca direttamente al compagno Berija e a nessun altro, ma ricordi che la responsabilità di compiere la missione con successo ricade su di Lei e solo su di Lei». Ebbe inizio così una caccia spietata al capo della Quarta Internazionale, passando per Parigi, Bruxelles, gli Stati Uniti, fino a Città del Messico, dove risiedeva. Con la complicità del Partito comunista messicano, gli agenti di Sudoplatov prepararono un primo attentato, a cui Trotsky sfuggì per miracolo il 24 maggio. Grazie a Ramòn Mercader, infiltrato sotto falso nome, Sudoplatov riuscì a sbarazzarsi di Trotsky. Mercader, conquistatosi la fiducia di una militante Trotskysta, riuscì a entrare in contatto con il «vecchio». Trotsky, poco sospettoso, accettò di incontrarlo per comunicargli la sua opinione su un articolo scritto in difesa della sua figura di rivoluzionario. Mercader lo colpì alla testa con una piccozza. Ferito, Trotsky lanciò un grido. La moglie e le guardie del corpo si precipitarono su Mercader che, compiuto il suo gesto, era rimasto come paralizzato. Trotsky morì il giorno dopo.

Lev Trotsky aveva denunciato la commistione tra i partiti comunisti, le sezioni del Comintern e i servizi dell'N.K.V.D., ben consapevole del fatto che il Comintern era sotto il dominio prima della G.P.U. e poi dell'N.K.V.D. In una lettera del 27 maggio 1940 indirizzata al procuratore generale del Messico, tre giorni dopo il primo attentato di cui era stato vittima, scriveva:

    "L'organizzazione della G.P.U. ha tradizioni e metodi ben stabiliti fuori dall'Unione Sovietica. La G.P.U. ha bisogno di una copertura legale o semilegale per la sua attività e di un ambiente favorevole per il reclutamento dei suoi agenti; trova questo ambiente e questa protezione nei cosiddetti «partiti comunisti»".

Nel suo ultimo scritto, sempre a proposito del 24 maggio, tornò con dovizia di particolari sull'attentato di cui per un soffio non era rimasto vittima. Ai suoi occhi la G.P.U. (Trotsky usa sempre il nome adottato nel 1922, quando aveva rapporti con essa) era «l'organo principale del potere di Stalin», era «lo strumento del dominio totalitario» nell'URSS, da cui «uno spirito di servilismo e cinismo [che] si è diffuso in tutto il Comintern e avvelena il movimento operaio fino al midollo». Insistette a lungo su questa dimensione particolare che era determinante sotto molti aspetti nell'ambito dei partiti comunisti:

    "In quanto organizzazioni, la G.P.U. e il Comintern non sono identici, ma sono indissolubilmente legati. Sono subordinati reciprocamente e non è il Comintern che dà gli ordini alla G.P.U., ma al contrario la G.P.U. che domina completamente il Comintern".

Quest'analisi, sostenuta da numerosi argomenti, era il frutto della duplice esperienza di Trotsky: quella acquisita quando era dirigente del nascente Stato sovietico e quella del proscritto inseguito in tutto il mondo dagli assassini dell'N.K.V.D., di cui oggi si conoscono con certezza i nomi. In particolare si trattava di dirigenti del dipartimento Incarichi speciali, istituito nel dicembre del 1936 da Nikolaj Ezov: Sergej Spigel'glas, che fallì; Pavel Sudoplatov (morto nel 1996) e Naum Ejtingon (morto nel 1981) che invece, grazie a numerose complicità, riuscirono nel loro intento.

Gran parte di quello che si sa sull'uccisione di Trotsky in Messico il 20 agosto 1940 deriva dalle varie indagini condotte immediatamente sul posto e poi riprese in seguito da Julièn Gorkin. Sul mandante dell'omicidio non sussistevano dubbi e il responsabile diretto era noto; tali informazioni sono state confermate di recente da Sudoplatov. Jaime Ramòn Mercader del Rio era figlio di Caridad Mercader, una comunista che lavorava da tempo per i servizi segreti e che divenne l'amante di Ejtingon. Mercader aveva avvicinato Trotsky usando il nome di Jacques Mornard, personaggio realmente esistito e morto nel 1967 in Belgio. Mornard aveva combattuto in Spagna, dove il suo passaporto probabilmente fu preso «in prestito» dai servizi sovietici. Mercader usò anche il nome e il passaporto di un certo Jacson, un canadese arruolato nelle Brigate internazionali e caduto al fronte. Ramòn Mercader morì nel 1978 all'Avana, dove Fidel Castro l'aveva invitato come consulente del ministero degli Interni. Insignito dell'ordine di Lenin per la sua azione delittuosa, fu sepolto con discrezione a Mosca.

Stalin si era sbarazzato, così, del suo ultimo avversario politico, ma non per questo la caccia ai trotzkisti ebbe fine. L'esempio francese è molto indicativo dell'atteggiamento acquisito dai militanti comunisti contro i membri delle piccole organizzazioni trotzkiste. Non è escluso che nella Francia occupata alcuni trotzkisti siano stati denunciati alla polizia francese o tedesca dai comunisti.

Nelle carceri e nei campi di prigionia francesi di Vichy, i trotzkisti furono sistematicamente emarginati. A Nontron (Dordogna) Gérard Bloch fu vittima dell'ostracismo del collettivo comunista diretto da Michel Bloch, figlio dello scrittore Jean-Richard Bloch. Detenuto nella prigione di Eysses, Gérard Bloch fu avvertito da un insegnante cattolico che il collettivo comunista del carcere aveva deciso di giustiziarlo, strangolandolo nel sonno.

In quest'atmosfera di odio indiscriminato la vicenda della «scomparsa» di quattro trotzkisti, tra cui Pietro Tresso, uno dei fondatori del Partito comunista italiano e membro del gruppo di partigiani «Wodli» nell'Alta Loira, assume un significato importante. Evasi dalla prigione di Le Puys-en-Velay insieme con alcuni compagni comunisti il primo ottobre 1943, cinque militanti trotzkisti furono «presi in carico» dal gruppo di resistenza comunista. Uno dei cinque, Albert Demazière, fu separato per caso dai compagni e fu l'unico superstite: Tresso, Pierre Salini, Jean Reboul e Abraham Sadek furono giustiziati alla fine di ottobre, dopo un processo farsa molto significativo. I testimoni e i protagonisti ancora vivi hanno riferito, infatti, che i militanti furono accusati di voler «avvelenare l'acqua del campo», un'accusa di sapore medievale che rimanda alle origini ebraiche di Trotsky (il cui figlio Sergej fu accusato della stessa cosa nell'URSS) e di almeno uno dei prigionieri dei partigiani (Abraham Sadek). Il movimento comunista dimostrava, così, di non essere esente dal peggior antisemitismo. Prima di essere uccisi, i quattro trotzkisti furono fotografati, probabilmente perché i ranghi superiori del P.C.F. potessero identificarli, e costretti a scrivere la propria biografia.

Persino nei campi di concentramento i comunisti cercavano di eliminare fisicamente gli avversari più prossimi sfruttando la propria posizione gerarchica. Marcel Beaufrère, responsabile per la regione bretone del Partito operaio internazionalista, arrestato nell'ottobre del 1943 e deportato a Buchenwald nel gennaio dell'anno successivo, era sospettato di essere trotzkista dal coordinatore capo dei blocchi (un comunista). Dieci giorni dopo un amico lo avvertì che la cellula comunista del blocco di cui faceva parte, il 39, l'aveva condannato a morte e voleva mandarlo al blocco delle cavie, dove ai prigionieri veniva inoculato il tifo. Beaufrère fu salvato in extremis dall'intervento di alcuni militanti tedeschi. Per sbarazzarsi di avversari politici, che pure erano vittime degli stessi uomini della Gestapo o delle S.S., bastava ricorrere al sistema concentrazionario nazista assegnandoli ai reparti più severi. Marcel Hic e Roland Filiƒtre, entrambi deportati a Buchenwald, furono mandati nel terribile campo di Dora, «con il consenso dei quadri del K.P.D. che svolgevano le funzioni amministrative nel campo», secondo quanto scritto da Rudolph Prager. Marcel Hic non resistette. Ancora nel 1948 Roland Filiƒtre sfuggì a un attentato sul posto di lavoro. Altre eliminazioni di militanti trotzkisti avvennero col favore della Liberazione. Mathieu Buchholz, un giovane operaio parigino del gruppo «La lutte de classe», scomparve l'11 settembre 1944. Nel 1947 il giornale del suo gruppo chiamò in causa gli stalinisti.

In Grecia il movimento trotzkista non era irrilevante. Un segretario del K.K.E., il Partito comunista greco, Pandelis Pouliopoulos, che venne fucilato dagli italiani, vi aveva aderito ancora prima della guerra. Durante il conflitto i trotzkisti entrarono individualmente nelle file del Fronte di liberazione nazionale (Ethnikò Apelevtherikò Métopo, EAM) fondato nel 1941 dai comunisti. Il generale dell'Esercito popolare di liberazione (Ellinikòs Laikòs Apelevtherikòs Str tos, ELAS), Aris Velouchiotis, fece giustiziare una ventina di dirigenti trotzkisti. Dopo la Liberazione i rapimenti di militanti trotzkisti si moltiplicarono; spesso essi venivano torturati perché rivelassero gli indirizzi dei loro compagni. Nel 1946, in un rapporto al Comitato centrale del Partito comunista, Vassilis Bartziotas parlava di 600 trotzkisti giustiziati dall'Organizzazione di tutela delle lotte popolari, l'OPLA, una cifra che verosimilmente comprende anche anarchici o socialisti dissidenti. Anche gli archeomarxisti, militanti che si erano dati un'organizzazione al di fuori del Partito comunista greco fin dal 1924, furono perseguitati e uccisi.

I comunisti albanesi non furono da meno. Dopo la fusione dei gruppi di sinistra, compresi i trotzkisti riuniti intorno ad Anastaste Loula, avvenuta nel novembre 1941, si riaccesero le divergenze fra trotzkisti e ortodossi (Enver Hoxha, Memet Chehu), sostenuti dagli iugoslavi. Nel 1943 Loula fu giustiziato in modo sommario. Dopo vari attentati alla sua vita Sadik Premtaj, un altro leader trotzkista particolarmente popolare, riuscì a raggiungere la Francia; nel maggio 1951 fu vittima di un nuovo tentativo di omicidio compiuto da Djemal Chami, un veterano delle Brigate internazionali al servizio della legazione albanese a Parigi.

In Cina era nato un embrione di movimento nel 1928, sotto la guida di Chen Duxiu, fondatore ed ex segretario del Partito comunista cinese. Nel 1935 aveva solo poche centinaia di iscritti, una parte dei quali durante la guerra contro il Giappone riuscì a entrare nell'Ottava Armata dell'Esercito popolare di liberazione. Mao Zedong li fece giustiziare e abolì i battaglioni da loro comandati. Alla fine della guerra civile furono ricercati e uccisi sistematicamente. Di molti di loro non si seppe mai più nulla.

In Indocina inizialmente la situazione era diversa. A partire dal 1933 i trotzkisti del gruppo «Tranh Dau» (la lotta) e i comunisti si allearono. L'influenza dei trotzkisti era particolarmente forte nel sud della penisola. Nel 1937 una direttiva di Jacques Duclos vietò al Partito comunista indocinese di continuare a collaborare con i militanti della Tranh Dau. Nei mesi successivi alla sconfitta giapponese un altro gruppo trotzkista, la Lega comunista internazionale (L.C.I.), acquisì un'influenza tale da preoccupare i dirigenti comunisti. Nel settembre 1945, all'arrivo delle truppe inglesi, l'L.C.I. criticò aspramente l'accoglienza pacifica che era stata loro riservata dal Vietminh, il Fronte democratico per l'indipendenza fondato nel maggio del 1941 da Ho Chi Minh. Il 14 settembre il Vietminh diede inizio a una vasta operazione contro i dirigenti trotzkisti, che non reagirono. La maggior parte di loro fu catturata e poi giustiziata. In seguito, dopo avere combattuto contro le truppe anglofrancesi, ritiratesi nella pianura dei Giunchi, furono annientati dalle truppe del Vietminh. Quest'ultimo attaccò poi i militanti della Tranh Dau. Imprigionati a Ben Suc, essi furono giustiziati quando le truppe francesi erano ormai vicine. Ta Thu Tau, il capo storico del movimento, fu poi arrestato e giustiziato nel febbraio 1946. Ho Chi Minh non aveva forse scritto che i trotzkisti «sono i traditori e le spie più infami»?.

In Cecoslovacchia il destino di Zavis Kalandra è emblematico di quello di tutti i suoi compagni. Nel 1936 egli era stato escluso dal Partito comunista cecoslovacco per avere scritto un opuscolo in cui denunciava i processi di Mosca. Entrato nella Resistenza, fu deportato dai tedeschi a Oranienburg. Arrestato nel 1949 con l'accusa di aver diretto un complotto contro la repubblica, fu sottoposto a tortura. Il processo nel quale pronunciò la sua autocritica ebbe inizio nel giugno del 1950. L'8 giugno fu condannato a morte. Su «Combat» del 14 giugno 1950 André Breton chiese a Paul Eluard di intervenire in favore di un uomo che tutti e due conoscevano da prima della guerra. Eluard rispose: «Ho troppo da fare con gli innocenti che proclamano la propria innocenza per occuparmi dei colpevoli che proclamano la propria colpevolezza». Zavis Kalandra fu giustiziato il 27 giugno successivo insieme con altri tre compagni.

- Antifascisti e rivoluzionari stranieri vittime del terrore nell'URSS.
La decimazione del Comintern, dei trotzkisti e di altri dissidenti comunisti costituì sì un aspetto importante del terrore comunista, ma non fu l'unico. A metà degli anni Trenta, infatti, nell'URSS vivevano moltissimi stranieri che, pur non essendo comunisti, erano stati attratti dal miraggio sovietico. Molti di loro pagarono con la libertà e spesso con la vita il loro amore per il paese dei soviet. All'inizio degli anni Trenta i sovietici condussero una campagna di propaganda sulla Carelia, giocata tanto sulle opportunità offerte da questa regione di frontiera tra l'URSS e la Finlandia quanto sul fascino esercitato dalla «costruzione del socialismo». Dalla Finlandia emigrarono quasi 12 mila persone, cui si aggiunsero circa 5000 finlandesi provenienti dagli Stati Uniti, prevalentemente iscritti all'Associazione (americana) dei lavoratori finlandesi, che si trovavano in forte difficoltà a causa della disoccupazione che era seguita alla crisi del 1929. La «febbre della Carelia» fu accentuata dal fatto che l'Amtorg (l'agenzia commerciale sovietica) prometteva un lavoro ben retribuito, un alloggio e il viaggio gratuito da New York a Leningrado. Agli emigranti veniva consigliato di portare con sé tutto ciò che possedevano.

La «corsa all'utopia», per usare l'espressione di A‹no Kuusinen, si trasformò in un incubo. All'arrivo in Carelia gli emigranti si videro confiscare macchinari, attrezzi e risparmi. Dovettero consegnare il passaporto e si trovarono prigionieri in una regione sottosviluppata e prevalentemente boscosa, in condizioni di vita durissime. Secondo Arvo Tuominen, che diresse il Partito comunista finlandese e ricoprì la carica di membro supplente al presidium del Comitato esecutivo del Comintern fino alla fine del 1939, quando fu condannato a morte (anche se la pena gli fu poi commutata in 10 anni di reclusione), furono rinchiusi in campo di concentramento almeno 20 mila finlandesi. Costretta a stabilirsi a Kirovakan, A‹no Kuusinen assistette, dopo la seconda guerra mondiale, all'arrivo degli armeni che, ingannati anch'essi da un'abile propaganda, avevano deciso di trasferirsi nella Repubblica sovietica di Armenia. Rispondendo all'appello di Stalin che chiedeva ai residenti di origine russa all'estero di rientrare nell'URSS, gli armeni, pur essendo in realtà esuli della Turchia, si mobilitarono per trasferirsi in una Repubblica di Armenia che, nella loro immaginazione, si sostituì alla terra dei loro padri. Nel settembre del 1947 si radunarono a migliaia a Marsiglia e in 3500 si imbarcarono sul "Rossija" alla volta dell'URSS. Non appena il piroscafo entrò nelle acque territoriali sovietiche nel Mar Nero, l'atteggiamento delle autorità sovietiche cambiò. Molti capirono allora di essere caduti in un'orrenda trappola. Nel 1948 arrivarono dagli Stati Uniti 200 armeni. Accolti con grandi festeggiamenti, subirono la stessa sorte: all'arrivo si videro confiscare il passaporto. Nel maggio 1956 alcune centinaia di armeni giunti dalla Francia manifestarono in occasione della visita a Erevan del ministro degli Affari esteri, Christian Pineau. Solo 60 famiglie riuscirono a lasciare l'URSS, mentre sulle altre si abbatté la repressione. Quasi tutte, poi, un po' alla volta sono rientrate.

Il terrore colpì non soltanto chi si era trasferito nell'URSS di propria spontanea volontà, ma anche chi vi era stato costretto dalla repressione di regimi dittatoriali. Secondo l'articolo 129 della Costituzione sovietica del 1936 «l'URSS concede il diritto di asilo ai cittadini stranieri perseguitati per aver difeso gli interessi dei lavoratori o a causa della loro attività scientifica o della lotta intrapresa per la liberazione nazionale». Nel romanzo "Vita e destino" Vasilij Grossman mette a confronto un S.S. e un vecchio militante bolscevico suo prigioniero. Durante un lungo monologo l'S.S. pronuncia una frase che illustra alla perfezione il destino di migliaia di uomini, donne e bambini rifugiatisi in Unione Sovietica:

    "Chi starebbe nei nostri lager se non ci fosse la guerra, se non ci fossero dentro prigionieri di guerra? I nemici del Partito, i nemici del popolo. E' una specie che lei conosce, l'avete anche nei vostri lager. E nel tranquillo tempo di pace le S.S. del Reich includerebbero nel sistema i vostri detenuti, non li lascerebbero andare, 'i vostri internati sarebbero i nostri internati'."

Che fossero venuti dall'estero rispondendo a un appello degli stessi sovietici o in cerca di una sicurezza che nel paese d'origine non avevano più a causa del loro impegno politico, tutti questi emigrati furono considerati potenziali spie. E' questa, infatti, l'accusa più frequente sulle loro notifiche di condanna.

Una delle prime ondate migratorie fu quella degli antifascisti italiani, che cominciò intorno alla metà degli anni Venti. Molti di loro, credendo di trovare nel paese del socialismo il rifugio dei propri sogni, andarono incontro a una grave delusione e caddero vittime del terrore. A metà degli anni Trenta gli italiani nell'URSS, comunisti o simpatizzanti, erano circa 600: approssimativamente 250 dirigenti politici emigrati e 350 studenti che frequentavano le tre scuole di formazione politica. Molti degli studenti lasciarono l'URSS al termine dei corsi e circa cento militanti andarono a combattere in Spagna nel 1936-1937, ma sui rimanenti si abbatté il terrore. Ne furono arrestati circa 200, generalmente per spionaggio; una quarantina, di cui 25 identificati, furono fucilati e gli altri furono mandati nei gulag, o nelle miniere d'oro della Kolyma o nel Kazakistan. Romolo Caccavale ha pubblicato un libro commovente, in cui ripercorre l'itinerario e il tragico destino di tanti di questi militanti.

Un esempio fra i molti è quello di Nazareno Scarioli, un antifascista che fuggì dall'Italia nel 1925 per trasferirsi prima a Berlino e poi a Mosca. Accolto dalla sezione italiana del Soccorso rosso, lavorò in una colonia agricola nei dintorni di Mosca per un anno, quindi fu trasferito a Jalta in un'altra colonia dove lavorava una ventina di anarchici italiani guidati da Tito Scarselli. Nel 1933 la colonia fu sciolta. Scarioli tornò a Mosca, dove fu assunto in una fabbrica di biscotti e partecipò alle attività della colonia italiana. Vennero gli anni della Grande purga. Paura e terrore divisero la comunità italiana: tutti nutrivano sospetti su tutti. Il responsabile comunista Paolo Robotti annunciò al gruppo italiano l'arresto, in quanto nemici del popolo, di 36 emigrati che lavoravano in una fabbrica di cuscinetti a sfere. Robotti costrinse i presenti ad approvare l'arresto di questi operai conosciuti da tutti. Durante la votazione per alzata di mano, Scarioli votò contro. Fu arrestato la sera del giorno dopo. Torturato alla Lubjanka, firmò una confessione. Deportato nella Kolyma, fu messo a lavorare in una miniera d'oro. Molti altri italiani conobbero la sua stessa sorte: lo scultore Arnaldo Silva; l'ingegner Renato Cerquetti; il dirigente comunista Aldo Gorelli, la cui sorella aveva sposato il futuro deputato comunista Siloto; l'ex segretario della sezione romana del P.C.I., Vincenzo Baccalà; il toscano Otello Gaggi, che a Mosca faceva il portiere; Luigi Caligaris, operaio a Mosca; il sindacalista veneziano Carlo Costa, operaio a Odessa; Edmondo Peluso, che a Zurigo aveva frequentato Lenin. Nel 1950 Scarioli, che pesava 36 chili, lasciò la Kolyma, ma rimase a lavorare in Siberia, schiavo dei sovietici. Solo nel 1954 fu amnistiato e riabilitato. Aspettò altri sei anni il visto per tornare in Italia con una misera pensione.

Questi rifugiati non erano solo comunisti, iscritti o simpatizzanti del P.C.I. Ci furono anche degli anarchici che, perseguitati in patria, scelsero di andare nell'URSS. Il caso più noto è quello di Francesco Ghezzi, sindacalista libertario che nel giugno del 1921 arrivò in Russia per rappresentare l'Unione sindacale italiana presso l'Internazionale sindacale rossa. Nel 1922 era stato in Germania, dove era stato arrestato, e il governo italiano, che lo accusava di terrorismo, ne aveva chiesto l'estradizione. Una massiccia campagna di solidarietà gli aveva evitato di finire nelle galere italiane, ma era stato costretto a tornare nell'URSS. Nell'autunno del 1924 Ghezzi, che era diventato amico di Pierre Pascal e soprattutto di Nikolaj Lazarevic, ebbe i primi guai con la G.P.U. Nel 1929 fu arrestato, condannato a tre anni di prigione e internato a Suzdal', in condizioni mortali per un ammalato di tubercolosi. I suoi amici e corrispondenti organizzarono una campagna in suo favore in Francia e in Svizzera. Fra gli altri anche Romain Rolland (in un primo tempo) firmò una petizione. Le autorità sovietiche risposero diffondendo la voce che Ghezzi era un agente dell'ambasciata fascista. Liberato nel 1931, Ghezzi riprese a lavorare in fabbrica. Alla fine del 1937 fu di nuovo arrestato, ma questa volta i suoi amici all'estero non riuscirono più ad avere sue notizie. Fu dato per morto a Vorkuta alla fine dell'agosto del 1941.

Quando l'11 febbraio 1934 a Linz i responsabili dello Schutzbund decisero di resistere a qualsiasi attacco da parte degli "Heimwehren" (gli uomini della Guardia patriottica) che miravano a mettere fuori legge il Partito socialista, non potevano certo immaginare il destino dei loro compagni.

L'aggressione degli "Heimwehren" a Linz costrinse i socialdemocratici a indire a Vienna prima uno sciopero generale e poi una rivolta. Poiché dopo quattro giorni di accaniti combattimenti Dollfuss ebbe la meglio, i militanti socialisti che erano scampati alla prigione o al campo di internamento entrarono in clandestinità oppure fuggirono in Cecoslovacchia, in alcuni casi proseguendo poi la lotta in Spagna. Molti di essi decisero di rifugiarsi in Unione Sovietica, invogliati da un'intensa propaganda che riuscì ad aizzarli contro la direzione socialdemocratica. 1l 23 aprile 1934 ne arrivarono a Mosca 300, seguiti da altri gruppi meno numerosi fino a dicembre. L'ambasciata tedesca contò 807 "Schutzbìndler" emigrati nell'URSS. Vi trovarono rifugio circa 1400 persone, insieme con i loro familiari. Il primo convoglio giunto a Mosca fu accolto dai responsabili del Partito comunista austriaco (K.P.O.) e i combattenti sfilarono nelle strade della capitale. Furono affidati al Consiglio centrale dei sindacati. Centoventi bambini, i cui padri erano caduti sulle barricate o erano stati condannati a morte, furono raccolti, mandati per un certo periodo in Crimea e poi sistemati a Mosca, nel pensionato per bambini n. 6, aperto appositamente per loro.

Dopo qualche settimana di riposo gli operai austriaci furono smistati nelle fabbriche di Mosca, Har'kov, Leningrado, Gorky o Rostov. Ben presto cominciarono a perdere l'entusiasmo a causa delle condizioni di vita che venivano loro imposte, tanto che i dirigenti comunisti austriaci dovettero intervenire. Le autorità facevano pressione perché prendessero la nazionalità sovietica; nel 1938 l'avevano presa in 300, ma molti "Schutzbìndler" si erano rivolti invece all'ambasciata austriaca nella speranza di essere rimpatriati. Sembra che nel 1936 fossero riusciti a ritornare in Austria in 77, mentre secondo l'ambasciata tedesca fino alla primavera del 1938 sarebbero ripartite in tutto 400 persone (dopo l'Anschluss nel marzo 1938 gli austriaci divennero sudditi del Reich tedesco). In 160 andarono in Spagna a combattere a fianco dei repubblicani.

Molti non ebbero la possibilità di lasciare l'URSS. Oggi si calcola che tra la fine del 1934 e il 1938 siano stati arrestati 278 austriaci. Nel 1939 Karlo Stajner incontrò a Norilsk un viennese, Fritz Koppensteiner, di cui non si ebbero mai più notizie. Alcuni furono giustiziati, come Gustl Deutch, ex responsabile del quartiere di Florisdorf ed ex combattente del reggimento Karl Marx, di cui i sovietici avevano pubblicato un opuscolo.

Nemmeno il pensionato per bambini n. 6 fu risparmiato. Nell'autunno del 1936 cominciarono gli arresti tra i genitori superstiti; i figli passarono automaticamente nella giurisdizione dell'N.K.V.D., che li mise in un orfanotrofio. La madre di Wolfgang Leonhard fu arrestata e scomparve nell'ottobre 1936, ma la cartolina dalla Repubblica dei Komi gli arrivò solo nell'estate dell'anno successivo: era stata condannata a cinque anni di campo per attività controrivoluzionaria trotzkista.

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[Box: LA TRAGICA ODISSEA DELLA FAMIGLIA SLADEK.
Il 10 febbraio 1963 l'organo socialista «Arbeiter Zeitung» pubblicò la storia della famiglia Sladek. A metà di settembre del 1934 la signora Sladek con i suoi due figli aveva raggiunto a Har'kov il marito Josef Sladek, ex "Schutzbìndler" ed ex ferroviere di Semmering, profugo nell'URSS. Nel 1937 cominciarono gli arresti dell'N.K.V.D. nella comunità austriaca di Har'kov, in ritardo rispetto a Mosca e a Leningrado. A Josef Sladek toccò il 15 febbraio 1938. Nel 1941, prima dell'offensiva tedesca, la signora Sladek chiese di poter lasciare l'URSS e si rivolse all'ambasciata tedesca. Il 26 luglio l'N.K.V.D. la arrestò insieme al figlio sedicenne Alfred, mentre Victor, che aveva otto anni, fu mandato in un orfanotrofio dell'N.K.V.D. I funzionari dell'N.K.V.D. vollero strappare a ogni costo una confessione ad Alfred: lo picchiarono e gli dissero che la madre era stata fucilata. Evacuati a causa dell'avanzata tedesca, madre e figlio si ritrovarono per caso nel campo di Ivdel, negli Urali. La signora Sladek era stata condannata a cinque anni per spionaggio e Alfred a dieci per spionaggio e agitazione antisovietica. Trasferiti nel campo di Sarma, vi trovarono Josef Sladek, che a Har'kov era stato condannato a cinque anni di carcere, ma furono di nuovo separati. Liberata nell'ottobre 1946, la signora Sladek fu confinata a Solikamsk negli Urali, dove un anno dopo fu raggiunta dal marito, malato di tubercolosi e di insufficienza cardiaca e non più in grado di lavorare. Il ferroviere di Semmering morì in miseria il 31 maggio 1948. Nel 1951 Alfred fu liberato e poté tornare dalla madre. Nel 1954, dopo una complessa trafila burocratica, poterono rientrare tutti e due in Austria a Semmering. Erano passati sette anni dall'ultima volta che avevano visto Victor. Le ultime notizie al suo riguardo risalivano al 1946.]
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Nel 1924 erano tra 2600 e 3750 gli iugoslavi che, trovandosi in Russia nel 1917, avevano deciso di rimanervi. A loro si erano aggiunti alcuni operai semplici e specializzati venuti dall'America e dal Canada con i loro strumenti di lavoro per partecipare all'edificazione del socialismo. Vivevano in colonie distribuite in tutto il territorio sovietico, da Leninsk a Saratov e fino a Magnitogorsk. Alcuni di loro (da 50 a 100) parteciparono ai lavori di costruzione della metropolitana di Mosca. Anche l'emigrazione iugoslava fu colpita dalla repressione. Bozidar Maslaric affermò che agli iugoslavi toccò «il destino più crudele», aggiungendo: «La maggior parte fu arrestata nel 1937-1938 e di loro non si seppe più nulla...». Era una considerazione soggettiva, basata sulla scomparsa di parecchie centinaia di emigrati. A tutt'oggi, non esistono dati definitivi sugli iugoslavi che lavorarono nell'URSS e in particolare su quelli che parteciparono alla costruzione della metropolitana moscovita e che, avendo protestato per le condizioni di lavoro, furono vittime di una dura repressione.

La spartizione della Polonia tra la Germania nazista e la Russia sovietica, decisa in segreto il 23 agosto 1939, divenne effettiva alla fine di settembre dello stesso anno. I due paesi invasori coordinarono gli interventi per assicurarsi il pieno controllo della situazione e della popolazione: Gestapo e N.K.V.D. collaboravano. Le comunità ebraiche furono divise e circa 2 milioni di persone, su un totale di 3 milioni 300 mila, si trovarono a vivere sotto il regime tedesco. Alle persecuzioni (incendio delle sinagoghe) e ai massacri fece seguito la segregazione nei ghetti: quello di Lòdz fu istituito il 30 aprile 1940 e quello di Varsavia, organizzato in ottobre, fu chiuso il 15 novembre.

Molti ebrei polacchi erano fuggiti verso est spinti dall'avanzata dell'esercito tedesco. Durante l'inverno del 1939-1940 i tedeschi non impedivano sistematicamente di varcare la nuova frontiera, ma chi ci provava doveva superare un ostacolo inatteso,

    "i russi custodi del «mito di classe», vestiti con lunghi cappotti di pelliccia, coi berretti a visiera e con le baionette inastate, andarono incontro ai profughi che volavano verso la «terra promessa» con cani poliziotti e con colpi di fucile mitragliatore".

Dal dicembre 1939 al marzo 1940 questi ebrei si trovarono bloccati in una specie di "no man's land" larga un chilometro e mezzo sulla riva orientale del Bug, costretti a dormire all'addiaccio. La maggior parte ritornò nella zona tedesca.

Entrato nell'esercito polacco del generale Anders, il soldato L. C. (matricola 15015) lasciò una testimonianza di questa incredibile situazione:

    "Era una zona di 600-700 metri in cui erano ammassate circa 700-800 persone ormai da qualche settimana, per il 90 per cento ebrei sfuggiti alla sorveglianza tedesca ... Eravamo malati, fradici su questa terra bagnata dalle piogge d'autunno, e ci stringevamo gli uni agli altri senza che i soviet «umanitari» si degnassero di darci un tozzo di pane o un po' di acqua calda. Non lasciavano passare nemmeno i contadini delle campagne circostanti che volevano fare qualcosa per mantenerci in vita. Di conseguenza, lasciammo molte tombe in quel territorio ... Posso affermare che coloro che tornarono a casa dalla parte tedesca fecero bene, perché l'N.K.V.D. non era migliore della Gestapo tedesca da nessun punto di vista, con la differenza che la Gestapo accorcia i tempi ammazzando la gente, mentre l'N.K.V.D. uccide e tortura in maniera molto più terribile della morte stessa, sicché chi riesce per miracolo a sfuggire alle sue grinfie resta invalido per tutta la vita...".

Simbolicamente, Israel Joshua Singer fa morire in questa terra di nessuno il suo eroe che, diventato un nemico del popolo, è fuggito dall'URSS.

Nel marzo 1940 parecchie centinaia di migliaia di profughi - alcuni parlano di 600 mila - si videro imporre un passaporto sovietico. Il patto russo-tedesco prevedeva uno scambio di profughi. Dal momento che la situazione delle famiglie smembrate, la povertà e il terrore voluto dal regime di polizia dell'N.K.V.D. peggioravano, alcuni decisero di tornare nella parte della ex Polonia occupata dai tedeschi. Julius Margolin, che si trovava a Leopoli nell'Ucraina occidentale, riferisce che nella primavera del 1940 gli «ebrei preferivano il ghetto tedesco all'uguaglianza sovietica». A quell'epoca sembrava loro più facile lasciare il Governo generale per arrivare in un paese neutrale piuttosto che tentare la fuga passando per l'Unione Sovietica. All'inizio del 1940 cominciarono le deportazioni dei cittadini polacchi (si veda il contributo di Andrzej Paczkowski), che continuarono fino a giugno. I polacchi di tutte le confessioni furono deportati in treno verso il Nord o il Kazakistan. Il convoglio di Julius Margolin impiegò dieci giorni per arrivare a Murmansk. Da fine osservatore dell'universo concentrazionario qual era, egli scrisse:

    "Ciò che differenzia i campi di lavoro sovietici da tutti gli altri luoghi di detenzione del mondo non sono solo le proporzioni immense, inimmaginabili, né le micidiali condizioni di vita. E' la necessità di mentire continuamente per salvarsi la vita, di mentire sempre, di portare per anni una maschera senza poter mai dire quello che si pensa. Nella Russia sovietica, anche i cittadini «liberi» sono costretti a mentire ... Dissimulazione e menzogna diventano così l'unico strumento di autodifesa. I raduni, le riunioni, gli incontri, le conversazioni, i manifesti affissi ai muri sono caratterizzati da un linguaggio ufficiale melenso, che non contiene una sola parola di verità. Difficilmente un occidentale può capire che cosa significhi essere privati del diritto di esprimersi liberamente e non poterlo fare per cinque o sei anni, nella maniera più totale, essere costretti a rimuovere anche il minimo pensiero «illegale» e restare muti come tombe. Sotto questa pressione incredibile tutto ciò che un individuo ha dentro si deforma e si disgrega".

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[Box: LA MORTE DEI PRIGIONIERI 41 E 42.
Membro dell'Ufficio direttivo dell'Internazionale operaia socialista, Victor Alter (nato nel 1890) era assessore comunale a Varsavia; era stato presidente della Federazione dei sindacati ebraici. Henryk Erlich era stato membro del consiglio comunale di Varsavia e redattore del quotidiano jiddisch «Folkstaytung». Entrambi appartenevano al Bund, il Partito socialista ebraico di Polonia. Nel 1939 si erano rifugiati nella zona sovietica. Alter fu arrestato il 26 settembre a Kovel' ed Erlich il 4 ottobre a Brest-Litovsk. Trasferito alla Lubjanka, Alter fu condannato a morte il 20 luglio 1941 per attività antisovietiche (si pensava che avesse condotto un'azione illegale del Bund nell'URSS in collegamento con la polizia polacca). La condanna pronunciata dal Collegio militare della Corte suprema dell'URSS fu commutata in dieci anni di campo di prigionia. Il 2 agosto anche Erlich fu condannato a morte dal tribunale militare delle forze armate dell'N.K.V.D. di Saratov; il 27 la pena gli fu commutata in dieci anni di prigionia. Liberati nel settembre 1941, in seguito agli accordi Sikorski-Majskij, Alter ed Erlich furono convocati da Berija, che propose loro di dare vita a un Comitato ebraico contro i nazisti. Accettarono. Trasferiti a Kujbyscev, furono nuovamente arrestati il 4 dicembre con l'accusa di aver intrattenuto rapporti con i nazisti! Berija ordinò che venissero messi in isolamento: ormai erano diventati i prigionieri n. 41 (Alter) e n. 42 (Erlich), di cui nessuno doveva conoscere l'identità. Considerati cittadini sovietici, il 23 dicembre 1941 furono di nuovo condannati a morte (articolo 58, 1) per tradimento. Nelle settimane successive rivolsero invano numerosi appelli alle autorità; probabilmente ignoravano di essere stati condannati. Il 15 maggio 1942 Henryk Erlich si impiccò alle sbarre della sua cella. Fino all'apertura degli archivi, si è creduto che fosse stato giustiziato.
Victor Alter minacciò di suicidarsi e Berija ordinò di intensificare la sorveglianza. Fu giustiziato il 17 febbraio 1943. La sentenza del 23 dicembre 1941 era stata approvata personalmente da Stalin. E' significativo che l'esecuzione abbia avuto luogo poco tempo dopo la vittoria di Stalingrado. Non soddisfatte dell'assassinio, le autorità calunniarono anche la memoria delle loro vittime: Alter ed Erlich avrebbero fatto propaganda a favore della firma di un trattato di pace con la Germania nazista.]
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Nell'inverno 1945-1946 il dottor Jacques Pat, segretario del Comitato operaio ebraico degli Stati Uniti, si recò in missione in Polonia per indagare sui crimini nazisti. Al suo ritorno pubblicò una serie di articoli sugli ebrei rifugiati nell'URSS sul «Jewish Daily Forwards». In base ai suoi calcoli 400 mila ebrei polacchi erano morti deportati nei campi o nelle colonie di lavoro. Alla fine della guerra in 150 mila decisero di riprendere la cittadinanza polacca per fuggire dall'URSS. Jacques Pat scrisse, dopo averne intervistati centinaia:

    "I 150 mila ebrei che oggi varcano la frontiera tra URSS e Polonia non parlano più dell'Unione Sovietica, della patria socialista, della dittatura e della democrazia. Per loro queste discussioni si sono chiuse e l'ultima parola è stata la fuga dall'Unione Sovietica".

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[Box: IL RITORNO FORZATO NELL'URSS DEI PRIGIONIERI SOVIETICI.
Se il fatto di avere rapporti con degli stranieri o di essere giunti nell'URSS dall'estero significava rendersi sospetti agli occhi del regime, quattro anni di prigionia fuori dal territorio nazionale facevano del militare russo catturato dai tedeschi un traditore meritevole di castigo; il Decreto n. 270 del 1942, modificando il Codice penale, p.r.f. 193, stabiliva che un soldato caduto in mano al nemico diventava immediatamente un traditore. Poco importava in quali condizioni fosse avvenuta la cattura e avesse avuto luogo la prigionia: nel caso dei russi, tali condizioni furono spaventose - in base alla "Weltanschauung" nazista gli slavi erano un'altra delle categorie di esseri subumani da sterminare - visto che 3 milioni 300 mila prigionieri di guerra, su 5 milioni 700 mila, morirono di fame e di maltrattamenti.
In risposta alla sollecitazione degli Alleati imbarazzati dalla presenza di soldati russi nella Wehrmacht, Stalin decise, quindi, abbastanza presto di farsi concedere dai suoi alleati il rimpatrio di tutti i russi che si trovavano nella zona occidentale. Non ebbe difficoltà a ottenerlo. A partire dalla fine di ottobre 1944 e fino al gennaio 1945 più di 332 mila prigionieri furono rispediti senza il loro consenso in Unione Sovietica (1179 da San Francisco). Non solo i diplomatici britannici e americani non si fecero alcuno scrupolo, ma affrontarono la questione con un certo cinismo perché sapevano, come Anthony Eden, che per risolverla sarebbe stato necessario ricorrere alla forza.
Durante i negoziati di Jalta (4-11 febbraio 1945) i tre protagonisti (sovietici, inglesi e americani) conclusero degli accordi segreti che riguardavano sia i soldati sia i profughi civili. Churchill e Eden accettarono che Stalin decidesse il destino dei prigionieri che avevano combattuto nella ROA, l'Armata di liberazione russa ai comandi dal generale Vlasov, come se questi ultimi potessero beneficiare di un giudizio equo garantito.
Stalin sapeva per certo che una parte di questi soldati sovietici erano stati fatti prigionieri prima di tutto per colpa della disorganizzazione dell'Armata rossa, di cui lui era il primo responsabile, dell'incapacità sua e dei suoi generali. E' certo, inoltre, che molti soldati non avevano nessuna voglia di battersi per un regime aborrito e, per riprendere un'espressione di Lenin, avevano «votato con i piedi».
Non appena furono firmati gli accordi di Jalta, non ci fu settimana in cui non partissero dalle isole britanniche convogli per l'URSS. In due mesi, dal maggio al luglio 1945, furono rimpatriate oltre un milione 300 mila persone che vivevano nelle zone occidentali di occupazione ed erano considerate sovietiche da Mosca (compresi i popoli baltici, annessi nel 1940, e gli ucraini). Alla fine di agosto erano stati consegnati più di 2 milioni di questi «russi», talvolta in circostanze tremende: i suicidi individuali o collettivi (di intere famiglie) furono frequenti, come pure le mutilazioni. Al momento di essere consegnati alle autorità sovietiche i prigionieri tentavano invano di opporre una resistenza passiva, e gli anglosassoni non esitarono a ricorrere alla forza per soddisfare le esigenze dei sovietici. All'arrivo, i rimpatriati venivano tenuti sotto controllo dalla polizia politica. Alcune esecuzioni sommarie ebbero luogo il giorno stesso dell'arrivo dell'"Almanzora" a Odessa, il 18 aprile. Lo stesso avvenne quando l'"Empire Pride" attraccò nel porto del Mar Nero. Gli occidentali temevano che l'Unione Sovietica prendesse in ostaggio i prigionieri inglesi, americani o francesi e usasse questa «moneta di scambio» per ricattarli: questo atteggiamento fu indicativo dello stato d'animo dell'Occidente di fronte ai diktat dei sovietici che, in tal modo, imposero il rimpatrio di tutti i cittadini russi o di origine russa, compresi alcuni che erano emigrati dopo la rivoluzione del 1917. Questa politica, che gli occidentali seguirono con piena consapevolezza, non ebbe neppure il risultato di facilitare il ritorno dei loro compatrioti, mentre permise all'URSS di mettere un'orda di funzionari alle calcagna dei recalcitranti e di violare apertamente le leggi delle nazioni alleate.
Sul versante francese, il «Bulletin» del governo militare in Germania affermava che il primo ottobre 1945 erano stati rispediti dal lato sovietico 101 mila «profughi». In Francia le autorità locali accettarono la creazione di 70 campi di raccolta che, nella maggior parte dei casi, godevano di una sorta di extraterritorialità, come quello di Beauregard alla periferia di Parigi, rinunciando a esercitare su di essi qualsiasi controllo e accordando agli agenti sovietici dell'N.K.V.D. attivi nel paese un'impunità che contrastava con il principio della sovranità nazionale francese. Tutte queste operazioni erano state attentamente meditate da parte dei sovietici, visto che le intrapresero fin dal settembre del 1944 con l'aiuto della propaganda comunista. Il campo di Beauregard fu chiuso solo nel novembre del 1947 dalla direzione della Sicurezza territoriale in seguito al rapimento di alcuni bambini contesi tra genitori divorziati. Roger Wybot, che diresse l'operazione, osservò: «In realtà in base alle informazioni che sono riuscito a ottenere, in questo campo più che di transito di profughi si tratta di rapimenti». Le proteste contro questa politica furono tardive e talmente rare che merita di essere segnalata quella che comparve nell'estate 1947 sulla rivista socialista «Masses»: «Che il Gengis Khan di turno chiuda ermeticamente le frontiere per trattenere i suoi schiavi si può capire, ma che ottenga il diritto di farli estradare dai territori stranieri va persino al di là della nostra morale depravata del dopoguerra ... In nome di quale diritto morale o politico si può obbligare una persona a vivere in un paese dove sarebbe soggetta a schiavitò fisica e morale? Che ringraziamento il mondo si aspetta da Stalin per essere rimasto muto davanti alle grida dei cittadini russi che si danno la morte piuttosto che tornare nel loro paese?». I redattori della rivista denunciavano alcune espulsioni recenti: «Incoraggiate dall'indifferenza criminale delle masse di fronte alla violazione del diritto minimo di asilo, le autorità militari inglesi in Italia hanno appena commesso un atto inqualificabile: l'8 maggio sono stati prelevati 175 russi dal campo n. 7 di Riccione per essere mandati, secondo quanto era stato detto loro, in Scozia e altre 10 persone dal campo n. 6, in cui erano rinchiuse intere famiglie. Una volta allontanate dal campo, queste 185 persone si sono viste togliere qualsiasi oggetto che potesse servire per suicidarsi e sono state informate che non sarebbero andate in Scozia, ma in Russia. Ciò nonostante alcune sono riuscite a darsi la morte. Lo stesso giorno sono stati prelevati anche 80 individui (tutti caucasici) dal campo di Pisa. Tutti questi sventurati sono stati mandati verso la zona russa, in Austria, a bordo di vagoni sorvegliati dalle truppe inglesi. Alcuni hanno tentato la fuga e sono stati uccisi dalle guardie».
I prigionieri rimpatriati furono internati in speciali campi detti di «verifica e filtraggio» (creati alla fine del 1941), in realtà identici ai campi di lavoro e poi integrati nel gulag nel gennaio 1946. Nel 1945 vi erano passati in totale 214 mila prigionieri. Questi prigionieri finivano nel gulag nel momento del suo massimo sviluppo: in generale furono condannati a sei anni in base all'articolo 58, 1b. Fra di loro ci furono gli ex membri della ROA che aveva partecipato alla liberazione di Praga combattendo contro le S.S.]
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[Box: I PRIGIONIERI NEMICI.
L'URSS non aveva ratificato le convenzioni internazionali sui prigionieri di guerra (Ginevra, 1929). In teoria i prigionieri erano protetti dalla convenzione anche se il loro paese non l'aveva sottoscritta, ma l'URSS non tenne in alcun conto questa disposizione. Dopo la vittoria le rimasero da 3 a 4 milioni di prigionieri tedeschi, fra cui gruppi di soldati liberati dalle potenze occidentali che, tornati nella zona sovietica, erano stati deportati nell'URSS.
Nel marzo 1947 Vjaceslav Molotov dichiarò che era stato rimpatriato un milione di tedeschi (per la precisione un milione 3974) e che nei campi di prigionia del suo paese ne restavano ancora 890532. Queste cifre furono contestate. Nel marzo 1950 l'URSS decretò che il rimpatrio dei prigionieri era concluso. Tuttavia le organizzazioni umanitarie segnalarono che nell'URSS c'erano ancora almeno 300 mila prigionieri e 100 mila civili. L'8 maggio 1950 il governo lussemburghese protestò contro la chiusura delle operazioni di rimpatrio perché 2000 suoi cittadini erano ancora trattenuti nell'URSS. Non è improbabile, visto il tasso di mortalità nei campi di prigionia, che la mancanza di informazioni riguardo a questi prigionieri fosse destinata a nascondere la triste verità sul loro destino.
Secondo una stima di una commissione speciale (la commissione Maschke), i soldati tedeschi che morirono prigionieri nei campi dell'URSS furono un milione e fra i 100 mila prigionieri fatti dall'Armata rossa a Stalingrado ci furono solo 6000 superstiti. Insieme con i tedeschi, nel febbraio 1947, c'erano circa 60 mila soldati italiani (ma spesso si parla di 80 mila). Il governo italiano rese noto che a questa data erano rientrati in patria solo 12513 prigionieri. Va segnalato inoltre che si trovarono in situazioni analoghe i prigionieri romeni e ungheresi che avevano combattuto sul fronte russo. Nel marzo 1954 furono liberati cento volontari della divisione spagnola Azul. Per completare questa sintesi bisogna ricordare infine i 900 mila soldati giapponesi fatti prigionieri in Manciuria nel 1945.]
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[Box: I MALGRE'-NOUS, GLI «ARRUOLATI LORO MALGRADO».
Un detto, che circolava nei campi di prigionia, illustra perfettamente la composizione multietnica della popolazione carceraria: «Se un paese non è rappresentato nel gulag, è perché non esiste». Anche la Francia ebbe i suoi prigionieri nel gulag, prigionieri che la diplomazia non si accanì molto a difendere e a ricuperare.
I tre dipartimenti della Mosella, del Basso e dell'Alto Reno ricevettero un trattamento particolare dai nazisti trionfanti: l'Alsazia-Lorena fu annessa, germanizzata e sottoposta al regime nazista. Nel 1942 i nazisti decisero di incorporare d'autorità nell'esercito tedesco le classi dal 1920 al 1924. Molti giovani della Mosella e dell'Alsazia che non avevano nessuna voglia di prestare servizio con l'uniforme tedesca cercarono di sottrarsi a questo «privilegio». Alla fine della guerra le classi che erano state mobilitate erano 21 nell'Alsazia e 14 nella Mosella, per un totale di 130 mila uomini. Inviati per la maggior parte al fronte russo, 22 mila di questi «arruolati loro malgrado» caddero in combattimento. I sovietici, informati dalla Francia libera di questa situazione, lanciarono appelli alla diserzione, promettendo il reintegro nei ranghi della Francia combattente. In realtà, quali che fossero le circostanze, furono fatti prigionieri 23 mila soldati provenienti dall'Alsazia-Lorena: tanti sono i dossier che le autorità russe trasmisero nel 1995 alle autorità francesi. Molti di loro furono riuniti nel campo 188 di Tambov, sotto la sorveglianza dell'M.V.D. (ex N.K.V.D.) in condizioni spaventose: malnutrizione (600 grammi di pane nero al giorno), lavoro forzato nelle foreste, alloggi primitivi (capanne di legno seminterrate), assenza totale di cure mediche. I superstiti di questi campi della morte lenta calcolano che nel 1944 e nel 1945 vi siano morti quasi 10 mila loro commilitoni.
Pierre Rigoulot fornisce il numero di 10 mila morti, nei diversi campi, o sulla via per i campi. Dopo lunghe trattative, nell'estate del 1944 furono liberati e rimpatriati ad Algeri 1500 prigionieri. Se Tambov è il campo in cui fu internata la maggior parte dei prigionieri provenienti dall'Alsazia-Lorena, ce ne furono anche altri, che contribuiscono a formare una specie di subarcipelago dei francesi che non poterono combattere per la liberazione del loro paese.]
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- Guerra civile e guerra d i liberazione nazionale.
Mentre la firma del patto russo-tedesco del settembre 1939 aveva avuto un effetto dirompente su quasi tutti i partiti comunisti, i cui iscritti non si rassegnavano all'abbandono da parte di Stalin della politica antifascista, l'attacco tedesco contro l'URSS del 22 giugno 1941 riaccese immediatamente la scintilla antifascista. Già il 23 giugno il Comintern informò per radio e radiotelegramma tutte le sezioni che era l'ora non più della rivoluzione socialista, ma della lotta contro il fascismo e della guerra di liberazione nazionale.

Contemporaneamente chiedeva a tutti i partiti comunisti dei paesi occupati un intervento armato immediato. La guerra offrì, quindi, ai comunisti l'occasione per sperimentare una nuova forma di azione: la lotta armata e il sabotaggio della macchina da guerra hitleriana, eventualmente sotto forma di guerriglia. Gli apparati paramilitari furono potenziati per formare embrionali gruppi armati comunisti che, a seconda del paese, della posizione geografica e della congiuntura, si trasformarono rapidamente in importanti formazioni di guerriglia, soprattutto in Grecia e in Iugoslavia, dal 1942 in poi, in Albania e, quindi, nell'Italia settentrionale a partire dalla fine dell'anno successivo. Nei casi più favorevoli questa lotta offrì ai comunisti l'opportunità di prendere il potere, senza tirarsi indietro nemmeno di fronte alla guerra civile, se necessario. L'esempio più rappresentativo di questo nuovo orientamento è quello iugoslavo. Già nella primavera del 1941 Hitler era stato costretto a correre in aiuto degli alleati italiani, messi in difficoltà in Grecia da un piccolo esercito molto deciso. In aprile dovette intervenire anche in Iugoslavia, dove il governo filotedesco era stato rovesciato da un colpo di Stato filobritannico. Sia in Iugoslavia sia in Grecia esisteva un Partito comunista, debole ma con una lunga esperienza alle spalle, in clandestinità da parecchi anni perché messo al bando dal regime dittatoriale di Stojadinovic e da quello di Metaxas. Dopo l'armistizio la Iugoslavia fu divisa tra l'Italia, la Bulgaria e la Germania. C'era, inoltre, il sedicente Stato indipendente di Croazia, in mano agli ustascia, gli estremisti di destra guidati da Ante Pavelic, che instaurarono un vero e proprio regime di apartheid contro i serbi. Gli ustascia fecero stragi di serbi, ma anche di ebrei e di zingari, e cercarono di eliminare qualsiasi opposizione, spingendo così molti croati a entrare nella Resistenza.

Dopo la capitolazione dell'esercito iugoslavo, il 18 aprile, i primi a entrare in clandestinità furono gli ufficiali realisti del colonnello Draza Mihajlovic, nominato prima comandante in capo della Resistenza iugoslava e poi ministro della Guerra dal governo del re in esilio a Londra. Mihajlovic formò in Serbia l'esercito dei cetnici, prevalentemente serbo. Solo dopo l'invasione dell'URSS, il 22 giugno 1941, i comunisti iugoslavi appoggiarono l'idea che bisognasse intraprendere una lotta di liberazione nazionale, «liberare il paese dal giogo fascista e non impegnarsi ancora nella rivoluzione socialista». Ma mentre Mosca intendeva risparmiare il più a lungo possibile il governo realista e non spaventare gli alleati inglesi, Tito si sentì abbastanza forte per prendere l'iniziativa e rifiutò di ubbidire al governo legale in esilio. Non ponendo alcuna riserva di tipo etnico al reclutamento - egli stesso era croato, - dal 1942 cominciò a crearsi le basi per la guerriglia in Bosnia. Diventati rivali, i due movimenti che perseguivano obiettivi contraddittori si scontrarono. Di fronte alle pretese dei comunisti Mihajlovic decise di non provocare i tedeschi e addirittura di allearsi con gli italiani. In un confuso insieme di guerra di liberazione e guerra civile, di opposizione politica e odio etnico la situazione, complicata dall'occupazione, si fece sempre più intricata. Da più parti furono compiuti massacri in cui ciascuno cercava di sterminare i propri avversari diretti e di imporre il proprio predominio.

Gli storici calcolano che su 16 milioni di abitanti i morti abbiano superato il milione. Esecuzioni, fucilazioni di prigionieri, uccisioni di feriti e rappresaglie di ogni tipo si succedettero senza tregua, favorite dal fatto che nella cultura balcanica i conflitti tra i clan sono sempre esistiti. C'è, però, una differenza tra i massacri dei cetnici e quelli dei comunisti: i cetnici, che mal sopportavano l'autorità di un'organizzazione centralista - molte bande sfuggivano al controllo di Mihajlovic -, compivano stragi fra la popolazione più per motivi etnici che politici; i comunisti, invece, seguivano principi chiaramente militari e politici. Milovan Gilas, collaboratore di Tito, testimoniò molto tempo dopo:

    "Eravamo esasperati dai pretesti addotti dai contadini per stare dalla parte dei cetnici: dicevano di avere paura che gli bruciassero le case e di subire altre rappresaglie. La questione fu sollevata durante una riunione con Tito e fu avanzata l'ipotesi che fosse possibile far cambiare parere ai contadini facendo capire loro che, se si alleavano con l'invasore [si noti lo slittamento da «cetnici» (partigiani iugoslavi realisti) all'«invasore»] anche noi avremmo bruciato le loro case ... Alla fine Tito disse, sia pur con una certa esitazione: «Be', possiamo bruciare una casa o un villaggio ogni tanto». In seguito emanò ordini a questo proposito, ordini espliciti e per ciù stesso assai più decisi".

Con la capitolazione dell'Italia nel settembre 1943 e la decisione di Churchill di offrire l'aiuto degli alleati a Tito invece che a Mihajlovic, e poi con la fondazione da parte di Tito del Consiglio antifascista di liberazione nazionale di Iugoslavia (AVNOJ) nel dicembre 1943, i comunisti si trovarono in una posizione di chiaro vantaggio politico rispetto agli avversari. Tra la fine del 1944 e l'inizio del 1945 i partigiani comunisti si accinsero a dominare tutta la Iugoslavia. All'approssimarsi della capitolazione tedesca Pavelic partì alla volta della frontiera austriaca con il suo esercito, i suoi funzionari e le loro famiglie, diverse decine di migliaia di persone in tutto. A Bleiburg fu raggiunto da guardie bianche slovene e cetnici montenegrini e tutti insieme si arresero alle truppe inglesi, che li consegnarono a Tito.

A soldati e poliziotti di tutti i tipi furono imposte marce mortali di centinaia di chilometri attraverso la Iugoslavia. I prigionieri sloveni furono portati nelle vicinanze di Kocevje, in Slovenia, dove furono uccise da 20 mila a 30 mila persone. I cetnici sconfitti non sfuggirono alla vendetta dei partigiani, che non fecero prigionieri. Milovan Gilas ha raccontato la fine dei combattenti serbi senza trovare il coraggio di rivelare i presumibilmente macabri particolari di questa ultima campagna:

    "Le truppe di Draza [Mihajlovic] furono annientate più o meno contemporaneamente a quelle di Slovenia. I piccoli gruppi di cetnici che ritornavano nel Montenegro dopo la sconfitta riferirono nuovi orrori. Nessuno ne parlava volentieri, nemmeno coloro che sbandieravano il loro spirito rivoluzionario, quasi si trattasse di un incubo spaventoso".

Catturato, Draza Mihajlovic fu giudicato, condannato a morte e fucilato il 17 luglio 1946. Al «processo» furono respinte le proposte di testimoniare in suo favore avanzate dagli ufficiali delle missioni alleate, che erano stati inviati presso il suo Stato maggiore e avevano combattuto insieme con lui contro i tedeschi. Nel dopoguerra Stalin aveva rivelato a Milovan Gilas il nocciolo della sua filosofia: «Chi occupa un territorio vi impone il proprio sistema sociale».

Con la guerra, i comunisti greci si trovarono in una situazione simile a quella dei compagni iugoslavi. Il 2 novembre 1940, pochi giorni dopo l'invasione della Grecia da parte dell'Italia, Nikos Zachariadis, segretario del Partito comunista greco, in carcere dal settembre 1936, lanciù un appello alla resistenza: «La nazione greca combatte oggi una guerra di liberazione nazionale contro il fascismo di Mussolini ... Tutti a combattere, ognuno al proprio posto». Ma il 7 dicembre un manifesto del Comitato centrale clandestino rimetteva in discussione questo orientamento e il K.K.E. rientrava nella linea ufficiale del Comintern, quella del disfattismo rivoluzionario. Il 22 giugno 1941, con un clamoroso voltafaccia, il K.K.E. ordinò a tutti i militanti di organizzare «la lotta per la difesa dell'Unione Sovietica e il rovesciamento del giogo fascista straniero».

L'esperienza della clandestinità costituiva un notevole punto di forza per i comunisti. Il 16 luglio 1941, come tutti gli altri partiti comunisti, anche quello greco istituì il Fronte nazionale operaio di liberazione (Ergatikò Ethnikò Apelevtherikò Métopo, EEAM), che comprendeva tre organizzazioni sindacali. Il 27 settembre nacque l'EAM. Questo Fronte di liberazione nazionale fu il braccio politico dei comunisti. Il 10 febbraio 1942 nasceva l'ELAS, l'Esercito popolare di liberazione nazionale, i cui primi gruppi di resistenza furono organizzati in maggio per iniziativa di Aris Velouchiotis (Thanassis Klaras), un militante esperto che aveva firmato una dichiarazione di pentimento per farsi liberare. Da quel momento in poi gli effettivi dell'ELAS aumentarono continuamente.

L'ELAS non era l'unica organizzazione militare della Resistenza greca. Nel settembre 1941 era stata fondata da militari e civili repubblicani l'EDES (Ethnikòs Demokratikòs Ellinikòs Syndesmos), l'Unione nazionale greca democratica, mentre Napoleon Zervas, un colonnello in pensione, comandava un altro gruppo di guerriglieri. La terza organizzazione era quella del colonnello Psarros, che si era costituita nell'ottobre 1942 e si chiamava EKKA (Ethnikì kai Koinikì Apelevthérosis), Movimento di liberazione nazionale e sociale. Ognuna di queste organizzazioni cercava di attirare i militanti e i combattenti delle altre.

Ma il successo e la forza dell'ELAS spinsero i comunisti a decidere di imporre la propria egemonia su tutta la resistenza armata. I gruppi di partigiani dell'EDES furono attaccati più volte, come l'EKKA, costretto a disperdere le proprie forze e poi a ricostituirsi. Alla fine del 1942 nella Tessaglia occidentale, ai piedi del monte Pindo, il maggiore Kostopoulos (un transfuga dell'EAM) e il colonnello Safaris formarono un'unità di resistenza nel cuore della zona conquistata dall'EAM; l'ELAS li accerchiù e massacrò tutti i combattenti che non riuscirono a fuggire o si rifiutarono di passare nelle sue file. Fatto prigioniero, Safaris alla fine accettò di diventare capo di Stato maggiore dell'ELAS.

La presenza di alcuni ufficiali britannici accorsi in aiuto della Resistenza greca preoccupava i capi dell'ELAS; già allora i comunisti temevano, infatti, che gli inglesi imponessero la restaurazione della monarchia. Ma l'atteggiamento del braccio militare diretto da Velouchiotis e quello del K.K.E. guidato da Georgios Siantos, che intendeva seguire la linea scelta da Mosca (una politica di coalizione antifascista) erano diversi. L'intervento degli inglesi ebbe un momentaneo effetto positivo, perché nel luglio del 1943 la missione militare britannica ottenne la firma di una specie di patto fra le tre formazioni principali: l'ELAS, a quel punto forte di circa 18 mila uomini, l'EDES di 5000 e 1'EKKA di 1000 circa.

Con la capitolazione italiana, l'8 settembre, la situazione cambiù ed ebbe inizio una guerra fratricida. Questo accadeva proprio mentre i tedeschi lanciavano una violenta offensiva contro l'EDES, costretta a ripiegare e ad affrontare gli ingenti battaglioni dell'ELAS che cercarono di annientarla. La direzione del K.K.E. decise di sbarazzarsi dell'EDES per sfruttare i nuovi rapporti di forza in modo da ostacolare la politica inglese. Dopo quattro giorni di combattimenti i partigiani agli ordini di Zervas riuscirono a rompere l'accerchiamento.

Questa guerra civile all'interno della guerra di liberazione nazionale lasciava enormi possibilità di manovra ai tedeschi, le cui truppe attaccavano ora l'una ora l'altra organizzazione della Resistenza. Gli alleati presero, quindi, l'iniziativa di porre fine alla guerra civile: gli scontri tra ELAS e EDES cessarono nel febbraio 1944 e a Plaka fu firmato un accordo. Fu una tregua effimera: poche settimane dopo l'ELAS attaccava l'EKKA di Psarros. Dopo cinque giorni di combattimento il colonnello fu sconfitto e fatto prigioniero. Fu decapitato e i suoi ufficiali furono massacrati.

L'opera dei comunisti ebbe un effetto demoralizzante sulla Resistenza e gettò nel discredito l'EAM; in intere regioni l'odio per il Fronte di liberazione nazionale era tale che alcuni partigiani entrarono nei Battaglioni di sicurezza organizzati dai tedeschi. Questa guerra intestina finì solo quando l'ELAS accettò di collaborare con il governo greco in esilio al Cairo. Nel settembre 1944 sei rappresentanti dell'EAM-ELAS entrarono nel governo di unità nazionale presieduto da Georgios Papandreu. Il 2 settembre, mentre i tedeschi cominciavano a evacuare la Grecia, l'ELAS lanciù le sue truppe alla conquista del Peloponneso che sfuggiva al suo controllo a causa della presenza dei Battaglioni di sicurezza. Le città e i paesi conquistati furono puniti. A Meligala furono massacrati 1400 uomini, donne e bambini e una cinquantina di ufficiali e sottufficiali dei Battaglioni di sicurezza.

Sembrava che niente potesse fermare l'egemonia dell'EAM-ELAS. Invece persero Atene, che fu liberata il 12 ottobre dopo lo sbarco delle truppe britanniche al Pireo. Se la direzione del K.K.E. esitò a ingaggiare una prova di forza, forse fu per fare il gioco del governo di coalizione. Mentre la direzione del Partito rifiutava di smobilitare l'ELAS come richiedeva il governo, Iannis Zegvos, ministro comunista dell'Agricoltura, chiese lo scioglimento delle unità agli ordini del governo. Il 4 dicembre le pattuglie dell'ELAS entrarono ad Atene e si scontrarono con le forze governative. Il giorno dopo quasi tutta la capitale era nelle mani dell'ELAS, che vi aveva ammassato 20 mila uomini, ma gli inglesi resistettero, contando sull'arrivo di rinforzi. Il 18 dicembre l'ELAS attaccò anche l'EDES nell'Epiro. Parallelamente agli scontri armati i comunisti misero in atto una sanguinosa epurazione antimonarchica.

L'offensiva incontrò, però, delle difficoltà e, durante una conferenza tenutasi a Varzika, i comunisti firmarono un accordo sul disarmo dell'ELAS. In realtà molte armi e munizioni furono nascoste. Aris Velouchiotis uno dei dirigenti più in vista, respinse gli accordi di Varzika e si diede alla macchia insieme con un centinaio di uomini. Entrò poi in Albania nella speranza di potervi riprendere la lotta armata. Interrogato sui motivi della sconfitta dell'EAM-ELAS, Velouchiotis rispose sinceramente: «E' perché non abbiamo ammazzato abbastanza. Agli inglesi interessava questo crocevia che è la Grecia; se noi avessimo ammazzato tutti i loro amici, non sarebbero potuti sbarcare da nessuna parte. Ma gli altri dicevano che ero un assassino: ecco a che cosa ci hanno portato». E aggiunse: «Le rivoluzioni riescono quando i fiumi diventano rossi di sangue, e vale la pena di versarlo, se la ricompensa è la perfezione della società umana». Il fondatore dell'ELAS, Aris Velouchiotis, trovò la morte nel giugno 1945 in uno scontro in Tessaglia, pochi giorni dopo essere stato espulso dal K.K.E. La sconfitta dell'EAM-ELAS scatenò l'odio accumulato contro i comunisti e gli alleati: molti militanti furono uccisi da gruppi paramilitari, altri finirono in prigione e i dirigenti vennero perlopiù deportati nelle isole.

Nikos Zachariadis, segretario generale del K.K.E., era rientrato in maggio dalla Germania, dove era stato deportato a Dachau. Le sue prime dichiarazioni illustravano chiaramente la politica del K.K.E.: «O torniamo a un regime simile a quello della dittatura monarchico- fascista ma più severo, oppure la lotta dell'EAM per la liberazione nazionale troverà coronamento nella creazione in Grecia di una democrazia popolare». Ma la Grecia, allo stremo, non era destinata a conoscere la pace civile. In ottobre il Settimo Congresso del Partito ratificò l'obiettivo definito da Zachariadis, la cui prima tappa consisteva nell'allontanamento delle truppe britanniche. Nel gennaio 1946 l'URSS manifestò il proprio interesse per la Grecia interpellando il Consiglio di sicurezza dell'ONU sul pericolo rappresentato dalla presenza inglese nel paese. Il 12 febbraio, nell'imminenza delle elezioni generali da cui sarebbe senza dubbio uscito sconfitto e che del resto invitava a boicottare con l'astensione, il K.K.E. decise di organizzare una sommossa con l'appoggio dei comunisti iugoslavi. In dicembre ci fu un incontro tra alcuni rappresentanti del Comitato centrale del K.K.E. e ufficiali iugoslavi e bulgari. I comunisti greci avevano la certezza di poter utilizzare come retrovie l'Albania, la Iugoslavia e la Bulgaria. Per tre anni vi si rifugiarono i loro combattenti, vi furono curati i feriti e custoditi i materiali militari. Tutti questi preparativi si svolsero pochi mesi dopo la creazione del Cominform; la sommossa dei comunisti greci pareva rientrare perfettamente nella nuova politica del Cremlino. Il 30 marzo 1946 il K.K.E. si assunse la responsabilità di scatenare una terza guerra civile. I primi attacchi dell'Esercito democratico, creato il 28 ottobre 1946 e guidato dal generale Markos Vafiadis, furono sferrati secondo un unico modello: venivano presi d'assalto i posti di polizia, sterminandone gli occupanti, e si giustiziavano i notabili. Per tutto il 1946 il K.K.E. continuò anche le sue attività ufficiali. Nei primi mesi del 1947 il generale Markos intensificò gli sforzi: decine di villaggi furono presi d'assalto e furono giustiziate centinaia di contadini. Il reclutamento forzato gonfiava gli effettivi dell'Esercito democratico. Quando un paese non rispondeva alla chiamata alle armi, cominciavano le rappresaglie. Un villaggio macedone pagò cara la propria reticenza: 48 case furono bruciate e furono uccisi 12 uomini, 6 donne e 2 neonati. Nel marzo 1947 cominciù lo sterminio sistematico dei sindaci e dei preti. In marzo i profughi erano già 400 mila. La politica del terrore provocò un controterrore da parte di gruppi di estrema destra che uccisero vari militanti comunisti o di sinistra.

Nel giugno 1947, dopo una visita a Belgrado, Praga e Mosca, Zachariadis annunciù l'imminente costituzione di un governo «libero». I comunisti greci sembravano convinti di poter seguire la stessa strada presa da Tito quattro anni prima. Il nuovo governo fu costituito ufficialmente in dicembre. Gli iugoslavi arrivarono al punto di fornire quasi 10 mila volontari prelevati dal loro esercito. L'importanza di questi aiuti per l'Esercito democratico è indicata in numerosi rapporti delle inchieste della Commissione speciale delle Nazioni Unite per i Balcani. La rottura tra Tito e Stalin nella primavera del 1948 ebbe conseguenze dirette per i comunisti greci. Gli aiuti continuarono a giungere fino all'autunno, ma Tito si tirò sempre più indietro fino ad arrivare alla chiusura della frontiera. Durante l'estate, mentre le forze governative conducevano una vasta offensiva, il leader dei comunisti albanesi, Enver Hoxha, fu costretto a interrompere la propria. I comunisti greci si trovarono sempre più isolati e i dissidi interni si intensificarono. Ciù nonostante i combattimenti continuarono fino all'agosto 1949. Molti combattenti ripiegarono in Bulgaria prima di trovare rifugio un po' in tutta l'Europa dell'Est, in particolare in Romania e nell'URSS. A Tashkent, capitale dell'Uzbekistan, affluirono migliaia di profughi, fra cui 7500 comunisti. Dopo la sconfitta il K.K.E. in esilio conobbe una serie di purghe, tanto che nel settembre 1955 il conflitto tra sostenitori e avversari di Zachariadis degenerò in scontro aperto e l'esercito sovietico dovette intervenire per ristabilire l'ordine; i feriti furono centinaia.

L'accoglienza riservata ai vinti della guerra civile greca nell'URSS è ancora più paradossale se si pensa che a quell'epoca Stalin aveva già in gran parte sterminato la vecchia comunità greca che risiedeva in Russia da secoli e che, nel 1917, contava tra le 500 mila e le 700 mila persone, soprattutto nel Caucaso e sulle coste del Mar Nero. Nel 1939 ne rimanevano solo 410 mila e nel 1960 177 mila. Dal dicembre 1937 in poi 285 mila greci residenti nelle grandi città furono deportati nelle regioni di Arcangelo, nella Repubblica dei Komi e nella Siberia nordorientale. Altri poterono tornare in Grecia. Sempre in questo periodo in URSS furono liquidati A. Haitas, ex segretario del Partito comunista greco, e il pedagogo J. Jordinis. Nel 1944 100 mila greci di Crimea, superstiti di una comunità una volta fiorente, furono deportati in Kirghizistan e in Uzbekistan con l'accusa di avere assunto un atteggiamento filotedesco durante la guerra. La notte del 30 giugno 1949 furono deportati nel Kazakistan 30 mila greci della Georgia. Nell'aprile 1950 subirono una sorte analoga tutti i greci di Batumi.

Negli altri paesi dell'Europa occidentale la tentazione dei comunisti di impadronirsi del potere durante la Resistenza e la Liberazione fu prontamente soffocata dalla presenza delle forze angloamericane e, dalla fine del 1944 in poi, dalle direttive di Stalin, che ingiungevano ai comunisti di nascondere le armi e aspettare un'occasione migliore per prendere il potere. Questo emerge con la massima chiarezza dall'incontro avvenuto al Cremlino il 19 novembre 1944 tra Stalin e Maurice Thorez, segretario generale del Partito comunista francese che, dopo avere trascorso gli anni della guerra nell'URSS, si accingeva a tornare in Francia.

Nel dopoguerra, e perlomeno fino alla morte di Stalin nel 1953, la violenza e il terrore cui aveva fatto ricorso il Comintern prima del conflitto continuarono a caratterizzare il movimento comunista internazionale. Nei paesi dell'Est europeo la repressione contro i dissidenti, veri o presunti, fu intensa soprattutto in occasione di grandi processi farsa (si veda il contributo di Karel Bartosek). Il terrore raggiunse l'apice con la crisi tra Tito e Stalin nel 1948. Avendo rifiutato di sottomettersi e avendo osato mettere in dubbio l'onnipotenza di Stalin, Tito divenne un novello Trotsky. Stalin cercò di farlo uccidere, ma Tito non si fidava ed era protetto dal suo apparato statale. Non riuscendo a liquidarlo, i partiti comunisti di tutto il mondo si diedero allora a una serie di assassinii politici simbolici e radiarono i titini, che fecero da capri espiatori. Una delle prime vittime fu il segretario generale del Partito comunista norvegese, Peder Furubotn, un ex membro del Comintern che, dopo aver soggiornato a lungo a Mosca, era riuscito a salvarsi tornando in Norvegia nel 1938. Il 20 ottobre 1949 durante una riunione del Partito un certo Strand Johansen, uomo dei sovietici, accusò Furubotn di titoismo. Forte del seguito che aveva nel Partito, Furubotn convocò il Comitato centrale il 25 ottobre e annunciù le dimissioni sue e del suo gruppo dirigente a condizione che si procedesse al più presto all'elezione di un nuovo Comitato centrale e che le accuse rivoltegli venissero esaminate da una commissione internazionale. Gli avversari di Furubotn furono colti alla sprovvista. Fra lo stupore generale il giorno dopo Johansen e un gruppo di suoi scagnozzi si introdussero nella sede del Comitato centrale e scacciarono, armi in pugno, i sostenitori del segretario generale. Poi tennero una riunione in cui fu votata l'espulsione dal Partito di Furubotn che, conoscendo i metodi sovietici, si era trincerato in casa insieme con alcuni amici armati. Alla fine di una specie di «rodeo» degno di un film poliziesco, il P.C.N. perse gran parte dei suoi militanti. Johansen, completamente manipolato dagli agenti sovietici, impazzì.

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[Box: I BAMBINI GRECI E IL MINOTAURO SOVIETICO.
Durante la guerra civile dal 1946 al 1948 i comunisti greci censirono in tutte le zone sotto il loro controllo i bambini di entrambi i sessi di età compresa fra i 3 e i 14 anni. Nel marzo 1948 essi furono radunati nelle zone di frontiera e parecchie migliaia di loro furono portati in Albania, in Iugoslavia e in Bulgaria. La gente dei paesi cercava di salvare i figli nascondendoli nei boschi. Tra mille difficoltà la Croce rossa ne contò 28296. Nell'estate del 1948, dopo la rottura tra Tito e il Cominform, una parte (11 mila) dei bambini trattenuti in Iugoslavia furono trasferiti, nonostante le proteste del governo greco, in Cecoslovacchia, Ungheria, Romania e Polonia. Il 17 novembre 1948 la Terza Assemblea dell'ONU approvò una risoluzione di condanna del rapimento dei bambini greci. Nel novembre 1949 fu l'Assemblea generale dell'ONU a chiedere il loro ritorno in patria.
Come queste, anche tutte le decisioni successive dell'ONU rimasero senza risposta: i regimi comunisti confinanti insistevano a dire che presso di loro questi bambini si trovavano in condizioni di vita migliori che in Grecia; in poche parole, volevano far credere che questa deportazione fosse un gesto umanitario.
Eppure l'esilio forzato dei bambini greci era caratterizzato da una miseria, da una malnutrizione e da epidemie tali che molti morirono. Riuniti in «villaggi per bambini», erano costretti a seguire corsi di istruzione politica oltre che quelli di cultura generale. A partire dai 13 anni erano obbligati a svolgere lavori pesanti come dissodare i campi nelle regioni paludose dello Hartchag, in Ungheria. Lo scopo recondito dei dirigenti comunisti era quello di formare una nuova generazione di militanti di assoluta devozione. Il fallimento fu totale. Nel 1956 un greco di nome Constantinides sarebbe caduto combattendo contro i russi a fianco degli ungheresi. Altri riuscirono a fuggire dalla Germania Est.
Tra il 1950 e il 1952 furono restituiti alla Grecia solo 684 bambini. Nel 1963 ne erano stati rimpatriati circa 4 mila (di cui alcuni nati nei paesi comunisti). In Polonia la comunità greca era composta da varie migliaia di individui all'inizio degli anni Ottanta; alcuni aderirono al sindacato Solidarnosc e finirono in prigione dopo il colpo di Stato del generale Jaruzelski. Dopo il 1989, con il processo di democratizzazione, parecchie migliaia di greci polacchi tornarono in Grecia.]
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L'ultimo atto di questo periodo di terrore nel movimento comunista internazionale ebbe luogo nel 1957. Imre Nagy, il comunista ungherese che aveva per breve tempo guidato la rivolta del 1956 a Budapest (si veda il contributo di Karel Bartosek), si era rifugiato nell'ambasciata iugoslava e si rifiutava di uscire, temendo di essere ucciso. Dopo una serie di tortuose manovre i sovietici riuscirono a catturarlo e decisero di processarlo in Ungheria. Ma non volendo assumersi da solo la responsabilità di questo assassinio legale, il Partito comunista ungherese approfittò della Prima Conferenza mondiale dei partiti comunisti, che si tenne a Mosca nel novembre 1957, per far votare la condanna a morte di Nagy da tutti i dirigenti comunisti presenti, fra cui Maurice Thorez e Palmiro Togliatti, con l'unica eccezione del polacco Gomulka. Nagy fu condannato a morte e impiccato il 16 giugno 1958.

NOTE

1. Nel suo ultimo articolo, pubblicato il 15 gennaio 1919 su «Die rote Fahne» (La bandiera rossa), Liebknecht diede libero sfogo a un lirismo rivoluzionario molto rivelatore: «Al rimbombo del fragoroso crollo economico, le schiere ancora dormienti di proletari si sveglieranno come al suono delle trombe del giudizio universale, e i cadaveri dei combattenti trucidati risorgeranno...» (K. Liebknecht, "Scritti politici", Milano, Feltrinelli, 1971, p. 378).

2. Arthur Kòstler vi vede una delle cause principali della Comune ungherese del 1919, che «fu la diretta conseguenza della politica occidentale», frutto dei «marchiani errori delle democrazie d'Occidente che volsero le spalle ai loro alleati liberali».


Ultima modifica 11.12.2003