Il libro nero del comunismo

 


INTRODUZIONE: Parte prima.
UNO STATO CONTRO IL SUO POPOLO

Violenze, repressioni, terrori nell'Unione Sovietica (di Nicolas Werth).
1. Paradossi e malintesi dell'Ottobre
2. Il «braccio armato della dittatura del proletariato»
3. Il Terrore rosso
4. La «sporca guerra»
5. Da Tambov alla grande carestia
6. Dalla tregua alla «grande svolta»
7. Collettivizzazione forzata e dekulakizzazione
8. La grande carestia
9. «Elementi estranei alla società» e cicli di repressione
10. Il Grande terrore (1936-1938)
11. L'impero dei campi
12. L'altra faccia della vittoria
13. Apogeo e crisi del gulag
14. L'ultimo complotto
15. L'uscita dallo stalinismo
In conclusione

5. DA TAMBOV ALLA GRANDE CARESTIA
Alla fine del 1920 il regime bolscevico sembrava trionfare. L'ultimo esercito bianco era stato battuto, i cosacchi potevano dirsi sconfitti e i distaccamenti di Mahno erano in rotta. Tuttavia, anche se la guerra dichiarata, quella dei Rossi contro i Bianchi, era finita, lo scontro fra il regime e alcune grandi categorie sociali proseguiva a pieno ritmo. L'apogeo delle guerre contadine si colloca all'inizio del 1921, quando intere province sfuggivano al controllo dei bolscevichi.

Nella provincia di Tambov, in una parte delle province del Volga (Samara, Saratov, Caricyn, Simbirsk) e in Siberia occidentale, i bolscevichi tenevano soltanto le città. Le campagne erano sotto il controllo di centinaia di bande di Verdi, o addirittura di veri e propri eserciti contadini. Fra le unità dell'Armata rossa ogni giorno scoppiavano ammutinamenti. Scioperi, sommosse e proteste operaie si moltiplicavano negli ultimi centri industriali del paese ancora in attività, a Mosca, Pietrogrado, Ivanovo-Voznesensk e Tula. Alla fine di febbraio del 1921 si ammutinarono anche i marinai della base navale di Kronstadt, al largo di Pietrogrado. La situazione era esplosiva, il paese stava diventando ingovernabile. Di fronte alla minaccia di un vero e proprio maremoto sociale che rischiava di travolgere il regime, i dirigenti bolscevichi furono costretti a fare marcia indietro e a prendere l'unico provvedimento in grado di placare temporaneamente il malcontento più imponente, più generale e più pericoloso, quello dei contadini: promisero di eliminare le requisizioni, sostituendole con l'imposta in natura. In questo contesto di scontri fra regime e società, a partire dal marzo del 1921 incominciò a delinearsi la NEP, la Nuova politica economica.

L'impostazione storico-politica, che per lungo tempo ha prevalso, dava eccessivo rilievo alla «rottura» del marzo del 1921. La sostituzione delle requisizioni con l'imposta in natura, decisa in fretta e furia l'ultimo giorno del Decimo Congresso del Partito bolscevico sotto la minaccia di una conflagrazione sociale, non comportò né la fine delle insurrezioni contadine e degli scioperi operai, né un allentamento della repressione. Gli archivi oggi accessibili mostrano che nella primavera del 1921 la pace sociale non si instaurò da un giorno all'altro. Le tensioni rimasero molto forti almeno fino all'estate del 1922, e in alcune regioni per molto più tempo. Le squadre di requisizione continuarono a setacciare le campagne, gli scioperi operai furono selvaggiamente soffocati, gli ultimi militanti socialisti vennero arrestati, e lo «snidamento dei banditi dalle foreste» proseguì con ogni mezzo: fucilazioni in massa di ostaggi, bombardamento dei villaggi con gas asfissiante. In fin dei conti, fu la grande carestia del 1921-1922 a piegare le campagne più turbolente, quelle che le squadre di requisizione avevano spremuto maggiormente e che erano insorte per sopravvivere. La carta della carestia combacia esattamente con quella delle zone in cui negli anni precedenti erano state effettuate le requisizioni più significative e con quella delle zone in cui si erano verificate le insurrezioni contadine più importanti. Oltre a essere un'«alleata» del regime, l'arma finale della pacificazione, la carestia servì da pretesto ai bolscevichi per sferrare un colpo decisivo alla Chiesa ortodossa e all'intellighenzia, che si erano mobilitate per lottare contro il flagello.

La rivolta contadina di Tambov fu la più lunga, la più importante e la meglio organizzata di tutte quelle scoppiate da quando erano incominciate le requisizioni, nell'estate del 1918. La provincia di Tambov, a meno di 500 chilometri a sudest di Mosca, dall'inizio del secolo era uno dei bastioni del Partito socialista rivoluzionario, erede del populismo russo. Fra il 1918 e il 1920, nonostante le repressioni che si erano abbattute sul partito, i militanti restavano numerosi e attivi. Ma la provincia di Tambov era anche il granaio più vicino a Mosca, e dall'autunno del 1918 in questa provincia agricola densamente popolata imperversavano oltre cento squadre di requisizione. Nel 1919 erano scoppiate decine di "bunt", sommosse senza futuro che furono tutte soffocate implacabilmente. Nel 1920 le quote previste per la requisizione vennero aumentate in modo significativo, passando da 18 a 27 milioni di pud, mentre i contadini avevano ridotto notevolmente le terre coltivate a grano, sapendo che tutto quello che non facevano in tempo a consumare sarebbe stato inesorabilmente requisito. Realizzare le quote significava dunque far morire di fame i contadini. Il 19 agosto 1920 nel borgo di Hitrovo alcuni incidenti del tipo in cui erano normalmente coinvolte le squadre di vettovagliamento degenerarono. Le stesse autorità locali ammisero i fatti: «I distaccamenti compivano una serie di abusi; saccheggiavano tutto ciò che capitava loro sottomano, persino i guanciali e gli attrezzi da cucina, si spartivano il bottino e coprivano di botte sotto gli occhi di tutti anche vecchi di settant'anni. I vecchi erano puniti per l'assenza dei figli disertori, che si nascondevano nella foresta ... I contadini erano indignati anche perché il grano confiscato, trasportato fino alla stazione più vicina, era lasciato lì a marcire sotto il cielo».

La rivolta scoppiata a Hitrovo si propagò fulmineamente. Alla fine di agosto del 1920 più di 14 mila uomini, per la maggior parte disertori, armati di fucili, forconi e falci avevano cacciato o massacrato tutti i «rappresentanti del potere sovietico» di tre distretti della provincia di Tambov. Nel giro di alcune settimane l'insurrezione contadina, che all'inizio non si distingueva in nulla da centinaia d'altre scoppiate in Russia e in Ucraina negli ultimi due anni, in quel bastione tradizionale dei socialisti rivoluzionari si trasformò in un movimento insurrezionale ben organizzato sotto la direzione di un capo militare ispirato, Aleksandr Stepanovic Antonov.

Antonov era un socialista rivoluzionario militante dal 1906; dal 1908 alla Rivoluzione di Febbraio del 1917 era stato esiliato in Siberia, e poi, come molti altri socialisti rivoluzionari «di sinistra», aveva aderito al regime bolscevico e aveva svolto le mansioni di capo della milizia di Kirsanov, il suo distretto natale. Nell'agosto del 1918 aveva rotto con i bolscevichi e aveva assunto la guida di una delle innumerevoli bande di disertori che controllavano la campagna, affrontando le squadre di vettovagliamento e aggredendo i rari funzionari sovietici che si arrischiavano a recarsi nei villaggi.

Nell'agosto del 1920, quando nel distretto di Kirsanov scoppiò l'insurrezione contadina, Antonov creò un'efficiente organizzazione di milizie, ma anche un notevole servizio di informazione che si infiltrò persino nella Ceka di Tambov. Istituì inoltre un servizio di propaganda, che diffondeva volantini e proclami denunciando la «commissariocrazia bolscevica» e mobilitando i contadini su una serie di rivendicazioni popolari, come la libertà di commercio, la fine delle requisizioni, le libere elezioni e l'abolizione dei commissari bolscevichi e della Ceka.

Parallelamente, l'organizzazione clandestina del Partito socialista rivoluzionario istituì l'Unione dei lavoratori contadini, una rete clandestina di militanti contadini ben inseriti localmente. Nonostante le forti tensioni esistenti fra Antonov, socialista rivoluzionario dissidente, e la direzione dell'Unione dei lavoratori contadini, il movimento della provincia di Tambov disponeva di un'organizzazione militare, di un servizio di informazioni e di un programma politico che gli davano una forza e una coerenza sconosciute prima alla maggior parte dei movimenti contadini, a eccezione del movimento mahnovista. Nell'ottobre del 1920 il potere bolscevico controllava ormai soltanto la città di Tambov e alcuni rari centri urbani di provincia. I disertori entrarono a migliaia nell'esercito contadino di Antonov, che al suo apogeo era costituito da oltre 50 mila uomini armati. Alla fine, il 19 ottobre, rendendosi conto della gravità della situazione, Lenin scrisse a Dzerzinskij: «Una rapidissima (ed esemplare) liquidazione dell'insurrezione è assolutamente necessaria.... Bisogna manifestare maggiore energia».

All'inizio di novembre i bolscevichi disponevano di appena 5000 uomini delle Truppe di sicurezza interna della Repubblica, ma dopo la sconfitta di Vrangel' in Crimea, gli effettivi delle truppe speciali inviate a Tambov aumentarono rapidamente, fino a raggiungere i 100 mila uomini, compresi i distaccamenti dell'Armata rossa, sempre minoritari perché considerati poco affidabili per reprimere insurrezioni popolari.

All'inizio del 1921 le insurrezioni contadine divamparono in nuove regioni: in tutto il Basso Volga (province di Samara, Saratov, Caricyn, Astrakhan) ma anche nella Siberia occidentale. La situazione diventava esplosiva, la carestia minacciava queste regioni ricche ma saccheggiate spietatamente da anni. Il 12 febbraio 1921, nella provincia di Samara il comandante del distretto militare del Volga riferiva: «Folle di molte migliaia di contadini affamati assediano i depositi dove i distaccamenti hanno stivato il grano requisito per le città e l'esercito. La situazione è degenerata più volte, e l'esercito ha dovuto sparare sulla folla ebbra di collera». Da Saratov, i dirigenti bolscevichi locali telegrafarono a Mosca: «Il banditismo ha conquistato l'intera provincia. I contadini si sono impadroniti di tutte le riserve - 3 milioni di pud - nei depositi di Stato. Sono ben armati grazie ai fucili forniti loro dai disertori. Intere unità dell'Armata rossa si sono volatilizzate».

Nello stesso momento, a oltre 1000 chilometri verso est, si stava formando un nuovo focolaio di disordini contadini. Il governo bolscevico, dopo aver prosciugato tutte le risorse possibili nelle prospere regioni della Russia meridionale e dell'Ucraina, nell'autunno del 1920 aveva preso di mira la Siberia occidentale, dove le quote di consegna furono fissate arbitrariamente in funzione delle esportazioni di cereali realizzate nel... 1913! Ma si potevano paragonare le rese destinate a esportazioni pagate in rubli oro sonanti alle rese che i contadini riservavano a requisizioni estorte con la forza? I contadini siberiani insorsero, come dappertutto, per difendere il frutto del proprio lavoro e assicurarsi la sopravvivenza. Nel periodo gennaio- marzo 1921 i bolscevichi persero il controllo delle province di Tjumen', Omsk, Celjabinsk ed Ekaterinburg, un territorio più vasto della Francia; la Transiberiana, l'unica ferrovia che collegasse la Russia europea alla Siberia, fu interrotta. Il 21 febbraio un esercito popolare contadino si impadronì della città di Tobol'sk, che le unità dell'Armata rossa riuscirono a riconquistare solo il 30 marzo. All'inizio del 1921, dall'altra parte del paese, nelle capitali - quella vecchia, Pietrogrado, e quella nuova, Mosca - la situazione era quasi altrettanto esplosiva. L'economia era pressoché bloccata, i treni non circolavano più, quasi tutte le fabbriche erano chiuse o lavoravano a ritmo ridotto per la penuria di combustibile e l'approvvigionamento delle città non era più assicurato. Gli operai erano in miseria oppure giravano nei villaggi circostanti alla ricerca di cibo, o, ancora, discutevano negli stabilimenti gelidi e semismantellati, perché ognuno aveva rubato tutto quello che poteva portar via per scambiare i «manufatti» con un po' di cibo.

«Il malcontento è generale» concludeva il 16 gennaio un rapporto del Dipartimento informazioni della Ceka. «Negli ambienti operai prevedono una prossima caduta del regime. Non lavora più nessuno, la gente ha fame. Sono imminenti scioperi di vasta portata. Le unità della guarnigione di Mosca sono sempre meno sicure e possono sfuggire in qualsiasi momento al nostro controllo. Si impongono misure preventive». Il 21 gennaio un decreto governativo impose di ridurre di un terzo, a partire dal giorno dopo, le razioni di pane a Mosca, Pietrogrado, Ivanovo-Voznesensk e Kronstadt. Questo provvedimento, sopraggiunto in un momento in cui il regime non poteva più sbandierare la minaccia del pericolo controrivoluzionario e fare appello al patriottismo di classe delle masse operaie - infatti le ultime armate bianche erano state annientate -, diede fuoco alla miccia. Dalla fine di gennaio alla metà di marzo del 1921 si succedettero quotidianamente scioperi, comizi di protesta, marce della fame, manifestazioni, occupazioni di fabbriche. Tanto a Mosca come a Pietrogrado i disordini raggiunsero il culmine tra la fine di febbraio e l'inizio di marzo. Tra il 22 e il 24 febbraio si verificarono gravi incidenti fra distaccamenti della Ceka e manifestanti operai che cercavano di forzare l'ingresso delle caserme per fraternizzare con i soldati. Alcuni lavoratori furono uccisi e vennero eseguiti centinaia di arresti.

A Pietrogrado i disordini acquisirono nuova diffusione a partire dal 22 febbraio, quando gli operai di molte grandi fabbriche elessero, come nel marzo del 1918, una «assemblea dei plenipotenziari operai» a forte colorazione menscevica e socialista rivoluzionaria. Nel suo primo proclama questa assemblea chiedeva l'abolizione della dittatura bolscevica, libere elezioni dei soviet, libertà di parola, di associazione e di stampa, e il rilascio di tutti i prigionieri politici. Per raggiungere questi obiettivi l'assemblea proclamò lo sciopero generale. Il comando militare non riuscì a impedire che in diversi reggimenti si tenessero dei comizi, durante i quali furono approvate mozioni di sostegno agli operai. Il 24 febbraio alcuni distaccamenti della Ceka aprirono il fuoco su una manifestazione operaia, uccidendo 12 lavoratori. Quel giorno furono arrestati quasi mille fra operai e militanti socialisti. Ciò nonostante, il numero dei manifestanti continuava ad aumentare, e migliaia di soldati disertavano le proprie unità per unirsi agli operai. A quattro anni di distanza dalle giornate di febbraio che avevano rovesciato il regime zarista, sembrava che la scena si ripetesse: manifestanti operai e soldati ammutinati fraternizzavano. Il 26 febbraio alle 21 Zinov'ev, il dirigente dell'organizzazione bolscevica di Pietrogrado, inviò a Lenin un telegramma da cui trapelava il panico: «Gli operai sono entrati in contatto con i soldati di guarnigione.... Aspettiamo sempre le unità di rinforzo richieste a Novgorod. Se le truppe fidate non arrivano nelle prossime ore, verremo sopraffatti».

Due giorni dopo si verificò l'avvenimento che i dirigenti bolscevichi temevano più di ogni altra cosa: l'ammutinamento dei marinai di due corazzate della base navale di Kronstadt, al largo di Pietrogrado. Il 28 febbraio alle 23 Zinov'ev inviò un altro telegramma a Lenin: «Kronstadt: le due navi principali, la "Sevastopol'" e la "Petropavlovsk", hanno adottato risoluzioni S.R.-Centurie nere e dato un ultimatum cui dobbiamo rispondere entro ventiquattr'ore. Fra gli operai di Pietrogrado la situazione resta molto instabile. Le grandi imprese sono in sciopero. Riteniamo che gli S.R. accelereranno il movimento».

Le rivendicazioni che Zinov'ev definiva «S.R.-Centurie nere» erano esattamente le stesse formulate dalla stragrande maggioranza dei cittadini dopo tre anni di dittatura bolscevica: rielezione a scrutinio segreto dei soviet dopo una fase di dibattito e libere elezioni; libertà di parola e di stampa, anche se si precisava «in favore degli operai, dei contadini, degli anarchici e dei partiti socialisti di sinistra»; parità di razionamento per tutti e rilascio di tutti i detenuti politici membri di partiti socialisti, di tutti gli operai, i contadini, i soldati, i marinai imprigionati per le loro attività in movimenti operai e contadini; costituzione di una commissione incaricata di esaminare i casi di tutti i detenuti nelle prigioni e nei campi di concentramento; fine delle requisizioni; abolizione delle divisioni speciali della Ceka; libertà assoluta per i contadini di fare quello che volevano sulla loro terra e di allevare bestiame proprio, a condizione che se la cavassero con i propri mezzi.

A Kronstadt gli avvenimenti precipitarono. Il primo marzo si tenne un immenso comizio che riunì oltre 15 mila persone, un quarto della popolazione civile e militare della base navale. Mihail Kalinin, presidente del Comitato esecutivo centrale dei soviet, arrivato sul posto per cercare di salvare la situazione, fu cacciato fra gli schiamazzi della folla. L'indomani gli insorti, ai quali si unì almeno la metà dei 2000 bolscevichi di Kronstadt, formarono un Comitato rivoluzionario provvisorio che tentò subito di entrare in contatto con gli scioperanti e i soldati di Pietrogrado.

I rapporti quotidiani della Ceka sulla situazione a Pietrogrado nella prima settimana di marzo del 1921 attestano l'ampio sostegno popolare su cui poteva contare l'ammutinamento di Kronstadt: «Il Comitato rivoluzionario di Kronstadt aspetta da un giorno all'altro un'insurrezione generale a Pietrogrado. Gli ammutinati sono entrati in contatto con un gran numero di industrie.... Oggi, durante un comizio alla fabbrica Arsenal, gli operai hanno votato una risoluzione che invitava a unirsi all'insurrezione. Per mantenere i contatti con Kronstadt è stata eletta una delegazione di tre persone: un anarchico, un menscevico, un socialista rivoluzionario».

Per tagliare le gambe al movimento, il 7 marzo la Ceka di Pietrogrado ricevette l'ordine di «intraprendere azioni decisive contro gli operai». In quarantott'ore furono arrestati oltre 2000 operai, simpatizzanti e militanti socialisti o anarchici. A differenza degli ammutinati, gli operai non avevano armi e non potevano opporre alcuna resistenza ai distaccamenti della Ceka. Dopo aver eliminato la base che sosteneva l'insurrezione, i bolscevichi prepararono minuziosamente l'assalto contro Kronstadt. L'incarico di liquidare la ribellione fu affidato al generale Tuhacevskij. Per sparare sul popolo, il vincitore della campagna di Polonia del 1920 fece appello alle giovani reclute della Scuola militare, senza tradizione rivoluzionaria, e alle truppe speciali della Ceka. Le operazioni incominciarono l'8 marzo. Dieci giorni dopo Kronstadt cadde: da entrambe le parti vi furono migliaia di morti. La repressione dell'insurrezione fu spietata. Nei giorni successivi alla disfatta furono passate per le armi diverse centinaia di insorti. Gli archivi resi accessibili di recente attestano, nel solo periodo aprile-giugno, 2103 condanne a morte e 6459 condanne a pene detentive o ai lavori forzati. Subito prima che Kronstadt venisse conquistata, quasi 8000 persone erano riuscite a fuggire attraverso le distese ghiacciate del golfo fino in Finlandia, dove vennero internate in campi profughi, a Terijoki, Vyborg e Ino. Nel 1922 molte di esse rientrarono in Russia ingannate da una promessa di amnistia, ma furono subito arrestate e mandate nei campi di concentramento delle isole Soloveckie e di Holmogory, uno dei più terribili, nei dintorni di Arcangelo. Secondo fonti anarchiche, dei 5000 prigionieri di Kronstadt inviati a Holmogory quelli ancora vivi nella primavera del 1922 erano meno di 1500.

Il campo di Holmogory, che si trovava su un grande fiume, la Dvina, era tristemente famoso per il modo sbrigativo con cui ci si sbarazzava di molti detenuti. I malcapitati venivano imbarcati su chiatte e precipitati nelle acque del fiume con una pietra al collo e le braccia legate. Mihail Kedrov, uno dei principali dirigenti della Ceka, aveva inaugurato questi annegamenti di massa nel giugno del 1920. Molte testimonianze concordano sul fatto che nel 1922 sarebbero stati annegati nella Dvina un gran numero di ammutinati di Kronstadt, di cosacchi e contadini della provincia di Tambov deportati a Holmogory. Nello stesso anno, una commissione speciale di evacuazione deportò in Siberia 2514 civili di Kronstadt semplicemente perché erano rimasti nella cittadella durante gli avvenimenti.

***

Dopo aver soffocato la rivolta di Kronstadt, il regime impegnò tutte le sue forze per dare la caccia ai militanti socialisti, lottare contro gli scioperi e la «negligenza» operaia, sedare le insurrezioni contadine che continuavano a pieno ritmo benché ufficialmente fosse stata dichiarata la fine delle requisizioni, e reprimere la Chiesa. Già il 28 febbraio 1921 Dzerzinskij aveva ordinato a tutte le Ceka provinciali: «1) di arrestare immediatamente tutta l'intellighenzia anarchicheggiante, menscevica, socialista rivoluzionaria, in particolare i funzionari che lavorano nei commissariati del popolo per l'Agricoltura e l'approvvigionamento; 2) dopo questo esordio, di arrestare tutti i menscevichi, i socialisti rivoluzionari e gli anarchici che lavorano nelle fabbriche in cui possa verificarsi la proclamazione di scioperi o manifestazioni».

Anziché segnare un allentamento della politica repressiva, l'introduzione della NEP, nel marzo del 1921, fu accompagnata da una recrudescenza della repressione contro i militanti socialisti moderati. Tale repressione non era dettata dal pericolo che si opponessero alla Nuova politica economica, quanto piuttosto dal fatto che la reclamavano da tempo, dimostrando così la propria perspicacia e la giustezza della propria analisi. Nell'aprile del 1921 Lenin scriveva: «L'unico posto per i menscevichi e gli S.R., dichiarati o camuffati, è la prigione».

Alcuni mesi dopo, ritenendo che i socialisti fossero ancora troppo «turbolenti», scrisse: «Se menscevichi e S.R. mostrano ancora la punta del naso, fucilarli senza pietà!». Fra il marzo e il giugno del 1921 furono arrestati più di 2000 militanti e simpatizzanti socialisti moderati. Tutti i membri del Comitato centrale del Partito menscevico finirono in prigione. Nel gennaio del 1922, rischiando di essere deportati in Siberia, incominciarono lo sciopero della fame: dodici dirigenti, fra cui Dan e Nikolaevskij, furono allora espulsi e arrivarono a Berlino nel febbraio del 1922.

Nella primavera del 1921 uno degli obiettivi prioritari del regime era di far ridecollare la produzione industriale calata a un decimo dei livelli del 1913. Anziché allentare la pressione sugli operai, i bolscevichi mantennero, o addirittura intensificarono, la militarizzazione del lavoro istituita negli anni precedenti. A opinione di molti, la politica condotta dopo l'adozione della NEP nella grande regione industriale e mineraria del Donbass, che produceva oltre l'80 per cento del carbone e dell'acciaio del paese, dimostra chiaramente i metodi dittatoriali impiegati dai bolscevichi per «far ricominciare a lavorare gli operai». Alla fine del 1920 Pjatakov, uno dei dirigenti più importanti e intimo di Trotsky, era stato nominato a guidare la Direzione centrale dell'industria carbonifera. Nel giro di un anno riuscì a quintuplicare la produzione di carbone, con una politica di sfruttamento e di repressione della classe operaia senza precedenti, basata sulla militarizzazione del lavoro dei 120 mila minatori alle sue dipendenze. Pjatakov impose una disciplina rigorosa: qualsiasi assenza era considerata «atto di sabotaggio» e punita con la detenzione in campo di concentramento, o addirittura con la pena di morte: nel 1921 furono giustiziati 18 minatori per «parassitismo aggravato». Pjatakov decretò l'allungamento dell'orario di lavoro (in particolare introdusse il lavoro di domenica) e generalizzò il «ricatto della carta annonaria» per ottenere dagli operai un aumento della produttività. Tutti questi provvedimenti furono presi in un momento in cui gli operai venivano retribuiti esclusivamente con una quantità di pane che andava da un terzo alla metà di quello necessario per sopravvivere, e in cui alla fine della giornata di lavoro dovevano prestare l'unico paio di scarpe che possedevano ai compagni del turno successivo. Come ammetteva la stessa Direzione dell'industria carbonifera, fra le svariate ragioni alla base del forte assenteismo operaio figuravano, oltre alle epidemie, la «fame permanente» e l'«assenza quasi totale di abiti, di pantaloni e di scarpe». Per ridurre il numero delle bocche da sfamare, dato l'incombere della carestia, il 24 giugno 1921 Pjatakov ordinò l'espulsione dalle città minerarie di tutte le persone che non lavoravano nelle miniere e che rappresentavano perciò un «peso morto». Ai membri delle famiglie dei minatori furono ritirate le carte annonarie. Le norme di razionamento vennero rapportate strettamente alle prestazioni individuali di ciascun minatore, e fu introdotta una forma primitiva di salario a cottimo.

Tutte queste misure contrastavano con le idee di eguaglianza e di «razionamento garantito» in cui si cullavano ancora molti operai, tratti in inganno dalla mitologia operaistica bolscevica, e prefiguravano molto da vicino le misure antioperaie degli anni Trenta. Le masse operaie erano solo la "rabsila" (la forza lavoro) da sfruttare nel modo più efficace possibile, aggirando la legislazione sul lavoro e gli inutili sindacati, il cui unico ruolo era ormai quello di stimolare la produttività. La militarizzazione del lavoro sembrava la forma più efficace per inquadrare questa manodopera indocile, affamata e poco produttiva. Non si può fare a meno di rilevare l'affinità fra questa forma di sfruttamento del lavoro libero e i lavori forzati dei grandi complessi penitenziari creati all'inizio degli anni Trenta. Come molti altri episodi di quegli anni di formazione del bolscevismo, che non possono essere ridotti semplicemente alla guerra civile, ciò che accadeva nel Donbass nel 1921 preannunciava un certo numero di procedure che dovevano costituire l'essenza dello stalinismo.

Fra le altre operazioni prioritarie per il regime bolscevico nella primavera del 1921, c'era la «pacificazione» di tutte le regioni controllate da bande e distaccamenti contadini. Il 27 aprile 1921 l'Ufficio politico ("Politbjuro") affidò al generale Tuhacevskij la guida delle «operazioni di liquidazione delle bande di Antonov nella provincia di Tambov». Tuhacevskij, alla testa di quasi 100 mila uomini, molti dei quali appartenevano ai distaccamenti speciali della Ceka e disponevano di artiglieria pesante e di aerei, riuscì a sconfiggere i distaccamenti di Antonov, esercitando una repressione d'inaudita violenza. Tuhacevskij e Antonov-Ovseenko, presidente della Commissione plenipotenziaria del Comitato esecutivo centrale nominata per insediare un vero e proprio regime di occupazione della provincia di Tambov, fecero largo uso di sistemi come prendere ostaggi, giustiziare, internare in campo di concentramento, sterminare con gas asfissianti e deportare interi villaggi sospettati di aiutare o di ospitare i «banditi».

L'Ordine del giorno n. 171, datato 11 giugno 1921 e firmato da Antonov-Ovseenko e da Tuhacevskij, chiarisce i metodi con i quali fu «pacificata» la provincia di Tambov. L'ordine prescriveva in particolare:

    "1. Fucilare sul posto senza processo qualsiasi cittadino che rifiuti di declinare le proprie generalità.
    2. Le Commissioni politiche di distretto o le Commissioni politiche di circoscrizione hanno il potere di emettere l'ordine di prendere ostaggi nei villaggi ove siano nascoste delle armi, e di fucilarli qualora le armi non vengano consegnate.
    3. Nel caso in cui si trovino armi nascoste, fucilare sul posto senza processo il primogenito della famiglia.
    4. Se una famiglia nasconde un bandito nella sua casa è passibile di arresto e di deportazione fuori della provincia; i suoi beni sono confiscati e il primogenito della famiglia viene fucilato senza processo.
    5. Le famiglie che nascondono membri della famiglia di un bandito o suoi averi devono essere trattate alla stregua dei banditi stessi, e il primogenito della famiglia va fucilato sul posto senza processo.
    6. In caso di fuga della famiglia di un bandito, spartirne i beni fra i contadini fedeli al potere sovietico, e bruciare o demolire le case abbandonate.
    7. Applicare con rigore e senza pietà il presente Ordine del giorno".

Il giorno successivo alla promulgazione dell'Ordine n. 171, il generale Tuhacevskij ordinò di gassare i ribelli. «I resti delle bande disciolte e alcuni banditi isolati continuano a raccogliersi nelle foreste.... Le foreste in cui si nascondono i banditi devono essere ripulite per mezzo dei gas asfissianti. Si deve calcolare ogni cosa in modo che la nube di gas penetri nella foresta e stermini tutto quello che vi si nasconde. L'ispettore dell'artiglieria deve fornire immediatamente le quantità richieste di gas asfissianti, oltre a specialisti competenti per questo genere di operazioni». Il 19 luglio, di fronte all'opposizione di molti dirigenti bolscevichi a questa forma estrema di «sradicamento», l'Ordine n. 171 fu annullato. Nel mese di luglio del 1921 le autorità militari e la Ceka avevano già creato 7 campi di concentramento dove, secondo i dati ancora parziali, erano rinchiuse almeno 50 mila persone, per la maggioranza donne, vecchi e bambini, «ostaggi» e familiari dei contadini-disertori. In tali campi la situazione era spaventosa: il tifo e il colera erano endemici e i detenuti, seminudi, mancavano di tutto. Durante l'estate del 1921 arrivò la carestia. In autunno la mortalità raggiunse il 15- 20 per cento al mese. Il primo settembre 1921 si contavano ormai solo alcune bande, che complessivamente comprendevano poco più di un migliaio di uomini armati, rispetto ai 40 mila del febbraio del 1921, quando il movimento contadino era all'apogeo. A partire dal novembre del 1921, quando ormai le campagne erano già da tempo «pacificate», molte migliaia dei detenuti più validi furono deportati nei campi di concentramento della Russia settentrionale, ad Arcangelo e a Holmogory.

Come attestano i rapporti settimanali della Ceka ai dirigenti bolscevichi, in diverse regioni (Ucraina, Siberia occidentale, province del Volga, Caucaso) la «pacificazione» delle campagne continuò almeno fino alla seconda metà del 1922. Le abitudini prese negli anni precedenti erano dure a morire e, anche se ufficialmente le requisizioni erano state abolite nel marzo del 1921, il prelievo dell'imposta in natura che sostituiva le requisizioni spesso veniva eseguito con estrema brutalità. Le quote, molto elevate rispetto alla situazione catastrofica dell'agricoltura nel 1921, mantenevano una tensione costante nelle campagne, dove un buon numero di contadini aveva conservato le armi.

Secondo quanto riferiva il vicecommissario del popolo per l'Agricoltura Nikolaj Osinskij descrivendo le impressioni di un viaggio nelle province di Tula, Orel e Voronez compiuto nel maggio 1921, i funzionari locali erano convinti che le requisizioni sarebbero state ripristinate in autunno. Le autorità locali «non potevano considerare i contadini altrimenti che come sabotatori nati».

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[Box: RAPPORTO del presidente della Commissione plenipotenziaria di 5 membri sulle misure repressive contro i banditi della provincia di Tambov. 10 luglio 1921.
Le operazioni di ripulitura della volost' (circoscrizione) Kudrjukovskaja sono incominciate il 27 giugno con il villaggio Osinovki, che in passato ha dato asilo a gruppi di banditi.
L'atteggiamento dei contadini nei confronti dei nostri distaccamenti repressivi era caratterizzato da una certa diffidenza. I contadini non denunciavano i banditi delle foreste, e se interrogati rispondevano di non sapere niente.
Abbiamo preso quaranta ostaggi, dichiarato il villaggio in stato d'assedio e dato due ore agli abitanti per consegnare i banditi e le armi nascoste. Gli abitanti del villaggio, riuniti in assemblea, esitavano sulla condotta da tenere, ma non si decidevano a collaborare attivamente alla caccia ai banditi. Certo non prendevano sul serio le nostre minacce di giustiziare gli ostaggi. Alla scadenza del termine, ne abbiamo fatti giustiziare 21 davanti all'assemblea del villaggio. L'esecuzione pubblica, per fucilazione individuale, con tutte le formalità d'uso, in presenza di tutti i membri della Commissione plenipotenziaria, dei comunisti eccetera, ha provocato un notevole effetto fra i contadini...
Quanto al villaggio Karaevka, che per la sua collocazione geografica era una postazione privilegiata dei gruppi di banditi ... la Commissione ha deciso di cancellarlo dalla carta geografica. Tutta la popolazione è stata deportata, i beni confiscati, a eccezione delle famiglie dei soldati in servizio nell'Armata rossa, che sono state trasferite nel borgo Kurdjuki e alloggiate nelle case confiscate alle famiglie dei banditi. Dopo aver recuperato alcuni oggetti di valore, intelaiature delle finestre, oggetti di vetro, di legno eccetera, le case del villaggio sono state messe a fuoco...
Il 3 luglio abbiamo incominciato le operazioni nel borgo Bogoslovka. Di rado avevamo incontrato contadini così indocili e organizzati. Quando si discuteva con loro, rispondevano tutti all'unanimità, dal più giovane al più vecchio, con un'aria stupita: «Banditi da noi? Neanche per idea! Forse ne abbiamo visti passare una volta nei paraggi, ma non sappiamo nemmeno se fossero banditi. Noi viviamo tranquilli, non facciamo male a nessuno, non sappiamo nulla».
Abbiamo adottato gli stessi provvedimenti di Osinovki, prendendo 58 ostaggi. Il 4 luglio abbiamo fucilato pubblicamente un primo gruppo di 21 persone, l'indomani 15, abbiamo messo in condizione di non nuocere 60 famiglie di banditi, cioè 200 persone circa. Insomma, alla fine abbiamo raggiunto lo scopo, e i contadini sono stati costretti a partire a caccia dei banditi e delle armi nascoste...
La ripulitura dei villaggi e dei borghi suddetti si è conclusa il 6 luglio. L'operazione è stata coronata dal successo, e ha conseguenze che vanno addirittura al di là delle due volost' limitrofe. Prosegue la resa dei banditi.
Il presidente della Commissione plenipotenziaria di 5 membri, Uskonin. ("Krestjanskoe vosstanie v Tambovskoj gubernii v 1919-1921", cit., p. 218).]
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Per accelerare la raccolta dell'imposta in Siberia, la regione che doveva fornire il grosso dei prodotti agricoli in un momento in cui la carestia devastava tutte le province del Volga, nel dicembre del 1921 vi fu inviato come plenipotenziario straordinario Feliks Dzerzinskij. Istituì dei «tribunali rivoluzionari volanti» incaricati di rastrellare i villaggi e di condannare sul posto a pene detentive in prigione o nei campi i contadini che non pagavano il tributo.

Questi tribunali, affiancati da «distaccamenti fiscali», si comportarono come le squadre di requisizione: commisero un tale numero di abusi che lo stesso presidente del Tribunale supremo, Nikolaj Krylenko, dovette ordinare un'inchiesta sull'operato di questi organi nominati dal capo della Ceka. Il 14 febbraio 1922 un ispettore scriveva da Omsk: «Gli abusi delle squadre di requisizione hanno raggiunto un livello inimmaginabile. I contadini arrestati vengono sistematicamente rinchiusi in magazzini non riscaldati, frustati e minacciati di morte. Quelli che non hanno completato la quota di consegna vengono legati, costretti a correre nudi lungo la strada principale del villaggio, poi sono rinchiusi in un magazzino non riscaldato. Moltissime donne sono state picchiate fino a perdere conoscenza, infilate nude in buche scavate nella neve...». In tutte le province la tensione rimaneva molto alta.

Lo attestano questi brani di un rapporto della polizia politica dell'ottobre 1922, un anno e mezzo dopo l'inizio della NEP:

    "Nella provincia di Pskov le quote fissate per l'imposta in natura rappresentano i 2 terzi del raccolto. Quattro distretti hanno impugnato le armi ... Nella provincia di Novgorod le quote non saranno raggiunte, nonostante la riduzione del 25 per cento accordata di recente in considerazione della scarsità del raccolto. Nelle province di Rjazan' e di Tver', la realizzazione delle quote al 100 per cento condannerebbe i contadini a morire di fame ... Nella provincia di Novo-Nikolaevsk, la carestia incombe e i contadini fanno provvista di erbe e di radici per il proprio consumo.... Ma tutti questi fatti appaiono insignificanti rispetto alle informazioni che ci pervengono dalla provincia di Kiev, dove si assiste a un'ondata di suicidi senza precedenti: i contadini si uccidono in massa perché non possono né pagare le imposte né riprendere le armi che sono state confiscate. La carestia che si è abbattuta da un anno su tutta una serie di regioni rende i contadini molto pessimisti riguardo all'avvenire".

Comunque, nell'autunno del 1922 il peggio era passato. Dopo due anni di carestia, i sopravvissuti avevano accantonato un raccolto che avrebbe consentito loro di passare l'inverno, a condizione però che le imposte non venissero riscosse al cento per cento. «Quest'anno il raccolto dei cereali sarà inferiore alla media degli ultimi dieci anni»: così il 2 luglio 1921 la «Pravda» aveva citato per la prima volta il «problema alimentare» sul «fronte agricolo» in un breve trafiletto in ultima pagina. Dieci giorni dopo Mihail Kalinin, presidente del Comitato esecutivo centrale dei soviet, in un "Appello a tutti i cittadini della R.S.F.S.R." pubblicato sulla «Pravda» il 12 luglio 1921, ammetteva: «In molti distretti la siccità di quest'anno ha distrutto il raccolto».

«Questa calamità non dipende soltanto dalla siccità» spiegava una risoluzione del Comitato centrale del 21 luglio. «Deriva e dipende da tutta la storia passata, dal ritardo della nostra agricoltura, dalla mancanza di organizzazione, dalla scarsità delle cognizioni agronomiche, dalla povertà tecnica, dalle forme superate di rotazione delle colture. E' aggravata dalle conseguenze della guerra e del blocco, dalla guerra che i latifondisti, i capitalisti e i loro lacchè continuano a farci, dalle azioni incessanti dei banditi che eseguono gli ordini di organizzazioni ostili alla Russia sovietica e a tutta la sua popolazione di lavoratori».

Nella lunga enumerazione delle cause di questa «calamità» di cui non si osava ancora dire il nome, mancava il fattore principale: la politica delle requisizioni che da anni spremeva un'agricoltura già molto fragile. I dirigenti delle province colpite dalla carestia, convocati a Mosca nel giugno del 1921, furono concordi nel ribadire le responsabilità del governo, e in particolare dell'onnipotente commissariato del popolo per il Vettovagliamento, riguardo alla diffusione e all'aggravarsi della carestia. Il rappresentante della provincia di Samara, un certo Vavilin, spiegò che da quando erano incominciate le requisizioni il Comitato provinciale per il vettovagliamento continuava a gonfiare le valutazioni relative al raccolto.

Nonostante il cattivo raccolto del 1920, quell'anno erano stati requisiti 10 milioni di pud di cereali. Erano state confiscate tutte le riserve, comprese le sementi per l'anno successivo. Già a gennaio del 1921 molti contadini non avevano più niente da mangiare. La mortalità era cominciata ad aumentare in febbraio. Nel giro di due o tre mesi, nella provincia di Samara sommosse e ribellioni contro il regime in pratica cessarono. Vavilin spiegava: «Ora non ci sono più rivolte. Si vedono fenomeni nuovi: folle di migliaia di affamati assediano pacificamente il Comitato esecutivo dei soviet o del Partito, e aspettano per giorni chissà quale miracoloso arrivo di cibo. Non si riesce a cacciare la folla, ogni giorno le persone muoiono come mosche.... Ritengo che nella provincia ci siano almeno 900 mila affamati».

Leggendo i rapporti della Ceka e del Servizio informazioni militare si constata che fin dal 1919 molte regioni erano afflitte dalla penuria di cibo. Nel corso del 1920 la situazione non aveva cessato di peggiorare. A partire dall'estate del 1920 la Ceka, il commissariato del popolo per l'Agricoltura e il commissariato del popolo per l'Approvvigionamento, perfettamente consapevoli della situazione, elencavano nei loro rapporti province e distretti «affamati» o «in preda alla carestia». Nel gennaio del 1921, fra le cause della carestia diffusasi nella provincia di Tambov un rapporto indicava l'«orgia» di requisizioni del 1920. Come attestano i discorsi riferiti dalla polizia politica, per il popolo minuto era evidente che il potere sovietico voleva «far crepare di fame tutti i contadini così temerari da resistergli». Il governo, pur perfettamente informato sulle inevitabili conseguenze della politica delle requisizioni, non adottò alcun provvedimento. Il 30 luglio 1921, proprio mentre la carestia si stava diffondendo in un numero crescente di regioni, Lenin e Molotov inviarono un telegramma a tutti i dirigenti dei comitati regionali e provinciali del partito, chiedendo loro di «rinforzare gli apparati di raccolta ... di sviluppare un'intensa propaganda presso la popolazione rurale, spiegandole la necessità economica e politica di pagare le imposte puntualmente e totalmente ... di mettere a disposizione delle agenzie di raccolta dell'imposta in natura tutta l'autorità del Partito e il totale potere di repressione dell'apparato statale»!.

Di fronte all'atteggiamento delle autorità, che perseguivano a ogni costo la loro politica di sfruttamento della popolazione rurale, gli ambienti informati e illuminati dell'intellighenzia si mobilitarono. Nel giugno del 1921 agronomi, economisti e universitari costituirono in seno alla Società moscovita dell'agricoltura un Comitato sociale di lotta contro la carestia. Fra i primi a aderire al comitato furono gli eminenti economisti Kondrat'ev e Prokopovic, ex ministro dell'Approvvigionamento del governo provvisorio, Ekaterina Kuskova, giornalista vicina a Ma'ksim Gor'kij, scrittori, medici, agronomi. Grazie alla mediazione di Gor'kij, ben introdotto negli ambienti dirigenziali bolscevichi, una delegazione del Comitato, che Lenin aveva rifiutato di ricevere, a metà luglio del 1921 ottenne un'udienza con Lev Kamenev. Dopo il colloquio Lenin, sempre diffidente riguardo alla «sensibilità morbosa» di certi dirigenti bolscevichi, mandò un biglietto ai colleghi dell'Ufficio politico: «Mettere assolutamente la Kuskova in condizione di non nuocere.... Della Kuskova accettiamo il nome, la firma, un vagone o due [di viveri] da parte di coloro che provano simpatia per lei (e per quelli della sua specie). Nient'altro». Alla fine i membri del Comitato riuscirono a convincere un certo numero di dirigenti della propria utilità. Erano i rappresentanti più famosi della scienza, della letteratura e della cultura russe, noti in Occidente, e la maggior parte di loro aveva già partecipato attivamente all'organizzazione degli aiuti alle vittime della carestia del 1891. Avevano inoltre numerosi contatti fra gli intellettuali di tutto il mondo e avrebbero potuto farsi garanti di un'equa distribuzione di eventuali aiuti internazionali. Erano pronti a dare il proprio avallo, ma esigevano che il Comitato avesse un riconoscimento ufficiale.

Il 21 luglio 1921 il governo bolscevico decise, non senza riluttanza, di legalizzare il Comitato, che prese il nome di Comitato panrusso di aiuto agli affamati, e al quale fu conferito l'emblema della Croce rossa. Era autorizzato a procurarsi in Russia e all'estero viveri, foraggio, medicinali, e a ripartire i soccorsi fra la popolazione bisognosa, a ricorrere a trasporti eccezionali per eseguire le consegne, a organizzare mense popolari, a creare sezioni e comitati locali, a «comunicare liberamente con gli organismi e i procuratori che intenderà designare all'estero» e anche a «discutere i provvedimenti adottati dalle autorità centrali e locali, che a suo parere riguardino la questione della lotta contro la carestia». In nessun altro momento della storia sovietica furono concessi altrettanti diritti a un'organizzazione sociale. Le concessioni del governo erano proporzionate alla crisi che travagliava il paese, quattro mesi dopo l'instaurazione ufficiale, e molto timida, della NEP.

Il Comitato si mise in contatto con il capo della Chiesa ortodossa, il patriarca Tihon, che creò subito un Comitato ecclesiastico panrusso di aiuto agli affamati. Il 7 luglio 1921 il patriarca fece leggere in tutte le chiese una lettera pastorale: «Per la popolazione affamata la carne dei cadaveri è diventata un piatto prelibato, difficile da trovare. Ovunque risuonano pianti e gemiti. Si arriva già al cannibalismo... Tendete una mano caritatevole ai vostri fratelli e alle vostre sorelle! Con l'accordo dei fedeli, per soccorrere gli affamati potete utilizzare i tesori della chiesa che non hanno valore sacramentale, come anelli, catene e braccialetti, le decorazioni che ornano le sante icone eccetera».

Dopo aver ottenuto l'aiuto della Chiesa, il Comitato panrusso di aiuto agli affamati contattò svariate istituzioni internazionali, fra cui la Croce rossa, i quaccheri e l'American Relief Association (ARA), che risposero tutte positivamente. Ciò nonostante, la collaborazione fra il regime e il Comitato doveva durare soltanto cinque settimane. Il Comitato fu sciolto il 27 agosto 1921, sei giorni dopo che il governo ebbe firmato un accordo con i rappresentanti dell'American Relief Association, presieduta da Herbert Hoover. Per Lenin, ora che gli americani inviavano i primi cargo di provviste, il Comitato aveva esaurito le sue funzioni: «il nome e la firma della Kuskova» erano serviti da garanzia ai bolscevichi. E tanto bastava.

    "Propongo di sciogliere il Comitato oggi stesso, venerdì 26 agosto ... Arrestare Prokopovic per intenzioni sediziose ... e tenerlo tre mesi in prigione ... Espellere immediatamente da Mosca, oggi stesso, gli altri membri del Comitato, mandarli separati gli uni dagli altri nei capoluoghi di distretto, se possibile lontano dalla rete ferroviaria, in domicilio coatto ... Domani pubblicheremo un comunicato governativo breve e secco, di cinque righe: Comitato sciolto per rifiuto di lavorare. Dare la direttiva ai giornali di iniziare da domani a coprire di ingiurie i membri del Comitato. Figli di papà, Guardie bianche, più disposti a farsi un giro all'estero che a recarsi in provincia, metterli in ridicolo con ogni mezzo e maltrattarli almeno una volta alla settimana per due mesi".

La stampa seguì alla lettera le istruzioni di Lenin e si scatenò contro i sessanta intellettuali di fama che erano entrati nel Comitato. I titoli degli articoli pubblicati dimostrano chiaramente il carattere diffamatorio di questa campagna: "Non si scherza con la fame!" («Pravda», 30 agosto 1921); "Speculavano sulla fame" («Kommunisticeskij trud», 31 agosto 1921); "Il Comitato di aiuto... alla controrivoluzione" («Izvestija», 30 agosto 1921). A una persona andata a intercedere in favore dei membri del Comitato arrestati e deportati Unshliht uno dei vice di Dzerzinskij alla Ceka, dichiarò: «Lei dice che il Comitato non ha commesso alcun atto di slealtà. E' vero. Ma è diventato un polo di attrazione per la società. E questo non possiamo ammetterlo. Sa, quando si mette in un bicchiere d'acqua un ramoscello che non ha ancora getti, inizia a germogliare in fretta. Il Comitato ha incominciato altrettanto in fretta a estendere le sue ramificazioni nella collettività sociale.... Abbiamo dovuto togliere il rametto dall'acqua e spezzarlo».

Al posto del Comitato, il governo creò una Commissione centrale di soccorso agli affamati, un pesante organismo burocratico composto di funzionari di vari commissariati del popolo, molto inefficiente e corrotto. Nel pieno della carestia, che nell'estate del 1922 era al culmine e affliggeva quasi 30 milioni di persone, la Commissione centrale assicurò un soccorso alimentare irregolare a meno di 3 milioni di persone. L'ARA, la Croce rossa e i quaccheri, dal canto loro, nutrivano circa 11 milioni di persone al giorno. Nonostante la mobilitazione internazionale, fra il 1921 e il 1922 almeno 5 dei 29 milioni di persone colpite dalla carestia morirono di fame. L'ultima grande carestia che aveva colpito la Russia nel 1891, più o meno nelle stesse regioni (Medio e Basso Volga, e una parte del Kazakistan), aveva fatto da 400 mila a 500 mila vittime. In quell'occasione Stato e società avevano fatto a gara per soccorrere i contadini afflitti dalla siccità. All'inizio del decennio 1890-1900 il giovane avvocato Vladimir Ul'janov Lenin viveva a Samara, capoluogo di una delle province più colpite dalla carestia del 1891. Fu l'unico rappresentante dell'intellighenzia locale che, oltre a non partecipare al soccorso sociale agli affamati, si pronunciò categoricamente contro gli aiuti. Come ricordava un suo amico, «Vladimir Il'ic Ul'janov ebbe il coraggio di dichiarare apertamente che la carestia aveva molte conseguenze positive, e cioè la nascita di un proletariato industriale, affossatore dell'ordine borghese». «Distruggendo l'economia contadina arretrata» spiegava «la carestia ci avvicina oggettivamente all'obiettivo finale, il socialismo, tappa immediatamente successiva al capitalismo. Inoltre la carestia distrugge la fede, non solo nello zar, ma anche in Dio».

Trent'anni dopo il giovane avvocato, divenuto capo del governo bolscevico, riprendeva l'idea: la carestia poteva e doveva servire a «colpire mortalmente il nemico alla testa». Il nemico era la Chiesa ortodossa. «L'elettricità prenderà il posto di Dio. Lasciate che il contadino preghi l'elettricità, avvertirà il potere delle autorità più di quello del cielo» disse Lenin nel 1918, discutendo con Leonid Krasin riguardo all'elettrificazione della Russia. I rapporti fra il nuovo regime e la Chiesa ortodossa si erano già deteriorati subito dopo l'ascesa al potere dei bolscevichi. Il 5 febbraio 1918 il governo bolscevico aveva decretato la separazione della Chiesa dallo Stato, e della scuola dalla Chiesa, proclamato la libertà di coscienza e di culto, annunciato la nazionalizzazione dei beni della Chiesa. Contro questo attentato al ruolo tradizionale della confessione ortodossa, che sotto lo zarismo era religione di Stato, il patriarca Tihon aveva protestato con vigore in quattro lettere pastorali ai credenti. I bolscevichi moltiplicarono le provocazioni, «sottoponendo a perizia» le reliquie dei santi, cioè profanandole, organizzando «carnevali antireligiosi» durante le grandi feste religiose, imponendo che il grande monastero della Trinità, nei dintorni di Mosca, dove erano conservate le reliquie di San Sergio da Radonez, fosse trasformato in museo dell'ateismo. In questo clima già teso, mentre molti preti e vescovi erano stati arrestati per essersi opposti alle provocazioni, con il pretesto della carestia i dirigenti bolscevichi, su iniziativa di Lenin, lanciarono una vasta operazione politica contro la Chiesa. Il 26 febbraio 1922 la stampa pubblicò un decreto del governo che ordinava «la confisca immediata nelle chiese di tutti gli oggetti preziosi d'oro e d'argento, e di tutte le pietre preziose che non servono direttamente al culto»: «Questi oggetti saranno inviati agli organi del commissariato del popolo per le Finanze, che li trasferirà ai fondi della Commissione centrale di soccorso agli affamati». Le operazioni di confisca incominciarono ai primi di marzo e furono accompagnate da numerosi scontri fra le squadre incaricate di prelevare i tesori delle chiese e i fedeli. I più gravi si verificarono il 15 marzo 1922 a Sciuja, una cittadina industriale della provincia di Ivanovo, dove i soldati spararono sulla folla dei fedeli, uccidendo una decina di persone. Lenin prese a pretesto questa strage per intensificare la campagna antireligiosa.

In una lettera del 19 marzo 1922 indirizzata ai membri dell'Ufficio politico, spiegava con il suo tipico cinismo come si poteva sfruttare la carestia per «colpire mortalmente il nemico alla testa»:

    "Riguardo agli avvenimenti di Sciuja, che saranno discussi all'Ufficio politico, secondo me va presa una ferma decisione fin da ora, nel quadro del piano generale di lotta su questo fronte.... Se si pensa a quanto riferiscono i giornali sull'atteggiamento del clero rispetto alla campagna di confisca dei beni della Chiesa, e sulla presa di posizione sovversiva del patriarca Tihon, risulta evidente che il clero delle Centurie nere sta mettendo in atto un piano studiato per infliggerci proprio in questo momento una sconfitta decisiva.... Ritengo che il nemico stia commettendo un errore strategico madornale. Infatti il momento attuale è straordinariamente favorevole a noi, e non a loro. Abbiamo novantanove possibilità su cento di sferrare al nemico un colpo mortale alla testa ottenendo il successo, e di assicurarci per i prossimi decenni le posizioni che vogliamo. Con tutta questa gente affamata che si nutre di carne umana, con le vie disseminate di centinaia, migliaia di cadaveri, ora e solo ora possiamo (e di conseguenza dobbiamo) confiscare i beni della Chiesa con un'energia brutale, spietata. E' proprio adesso e soltanto adesso che l'immensa maggioranza delle masse contadine può sostenerci, o più esattamente, che non può essere in grado di sostenere il pugno di preti delle Centurie nere e di piccoli borghesi reazionari... Possiamo così procurarci un tesoro di molte centinaia di milioni di rubli oro (pensate alle ricchezze di certi monasteri!). Senza questo tesoro, non è immaginabile eseguire i compiti dello Stato in generale, ristrutturare l'economia in particolare, e difendere le nostre posizioni. Dobbiamo impadronirci a tutti i costi di questo tesoro di molte centinaia di milioni di rubli (forse anche di molti miliardi!).
    Si può fare con successo soltanto adesso. Tutto fa pensare che in un altro momento non raggiungeremmo i nostri scopi, perché soltanto la disperazione generata dalla fame può indurre un atteggiamento benevolo, o almeno neutrale, delle masse nei nostri confronti... Perciò sono giunto alla conclusione categorica che è il momento di annientare il clero delle Centurie nere con la massima decisione e spietatezza, con una brutalità tale da fargliela ricordare per decenni. Prevedo di mettere in atto il nostro piano in questo modo: ufficialmente i provvedimenti saranno adottati soltanto dal compagno Kalinin. Il compagno Trotsky non dovrà comparire sulla stampa o in pubblico... Uno dei membri più energici e più intelligenti del Comitato esecutivo centrale dovrà essere inviato ... a Sciuja, con istruzioni verbali di un membro dell'Ufficio politico. Tali istruzioni stabiliranno che la sua missione a Sciuja è di arrestare il maggior numero possibile di membri del clero, piccoli borghesi e borghesi, almeno qualche dozzina, con l'accusa di partecipazione diretta o indiretta alla resistenza violenta contro il decreto sulla confisca dei beni della Chiesa. Al ritorno dalla missione, tale responsabile renderà conto all'Ufficio politico in assemblea plenaria, oppure a due dei suoi membri. Sulla base del rapporto, l'Ufficio politico darà dettagliati ordini verbali alle autorità giudiziarie, affinché il processo dei ribelli di Sciuja venga eseguito il più in fretta possibile, e si risolva soltanto con l'esecuzione per fucilazione di un ingente numero di membri delle Centurie nere di Sciuja, ma anche di Mosca e di altri centri religiosi... Più sarà ingente il numero dei rappresentanti del clero passati per le armi, meglio sarà per noi. Dobbiamo dare immediatamente una lezione a tutte le persone di questo genere, in modo tale che per decenni non tentino nemmeno più di opporre resistenza...".

Come attestano i rapporti settimanali della polizia politica, la campagna di confisca dei beni della Chiesa raggiunse l'apogeo in marzo, aprile e maggio del 1922, provocando 1414 incidenti registrati, e l'arresto di parecchie migliaia di sacerdoti, monaci e monache. Secondo fonti ecclesiastiche, nel 1922 furono uccisi 2691 preti, 1962 monaci e 3447 monache. Il governo organizzò molti grandi processi pubblici ai membri del clero a Mosca, Ivanovo, Sciuja, Smolensk e Pietrogrado. In ottemperanza agli ordini di Lenin, il 22 marzo, una settimana dopo gli incidenti di Sciuja, l'Ufficio politico propose una serie di provvedimenti: «Arrestare il sinodo e il patriarca, non subito ma fra 15-25 giorni. Rendere pubbliche le circostanze del caso di Sciuja. Entro una settimana far processare i preti e i laici di Sciuja. Fucilare i sobillatori della ribellione». In una nota all'Ufficio politico, Dzerzinskij segnalava: «Il patriarca e la sua banda ... si oppongono apertamente alla confisca dei beni della Chiesa. ... Già ora ci sono motivi più che sufficienti per arrestare Tihon e i membri più reazionari del sinodo. La G.P.U. ritiene che: 1) sia opportuno arrestare il sinodo e il patriarca; 2) non si debba autorizzare la designazione di un nuovo sinodo; 3) qualsiasi prete che si opponga alla confisca dei beni della Chiesa dovrebbe essere condannato come nemico del popolo al domicilio coatto nelle regioni del Volga più colpite dalla carestia». A Pietrogrado furono condannati ai lavori forzati 76 ecclesiastici e 4 vennero giustiziati, fra cui il metropolita Benjamin, eletto nel 1917, il quale, pur essendo molto vicino al popolo, aveva perorato calorosamente l'idea della separazione fra Stato e Chiesa. A Mosca, 148 fra ecclesiastici e laici furono condannati ai lavori forzati e 6 alla pena capitale, eseguita immediatamente. Il patriarca Tihon fu posto in domicilio coatto al monastero Donskoj di Mosca.

Qualche settimana dopo queste parodie giudiziarie, il 6 giugno 1922 si aprì a Mosca un grande processo politico, annunciato sulla stampa il 26 febbraio: 34 socialisti rivoluzionari erano accusati di «attività controrivoluzionarie e terroristiche contro il governo sovietico», fra le quali figuravano in particolare l'attentato del 31 agosto 1918 contro Lenin e la «direzione politica» della rivolta contadina di Tambov. La prassi seguita fu la stessa che sarebbe stata ampiamente usata negli anni Trenta: gli imputati erano un insieme eterogeneo di autentici dirigenti politici, fra cui 12 membri del Comitato centrale del Partito socialista rivoluzionario, diretto da Avram Goc e Dmitrij Donskoj, e di agenti provocatori incaricati di testimoniare contro i coimputati e di «confessare i propri crimini». Questo processo permise anche, come scrive Hélène Carrère d'Encausse, di «sperimentare il metodo delle accuse inscatolate una dentro l'altra come bambole russe, che partendo da un fatto preciso - dal 1918 i socialisti rivoluzionari si opponevano davvero all'assolutismo della gestione bolscevica - afferma il principio ... che in ultima analisi qualsiasi opposizione equivale alla collaborazione con la borghesia internazionale».

Il 7 agosto 1922, come risultato di questo processo farsa, durante il quale le autorità inscenarono manifestazioni popolari reclamando la pena di morte per i «terroristi», 11 degli accusati, e precisamente i dirigenti del Partito socialista rivoluzionario, furono condannati alla pena capitale. Di fronte alle proteste della comunità internazionale mobilitata dai socialisti russi in esilio, e più ancora di fronte alla minaccia concreta di una ripresa delle insurrezioni nelle campagne dove rimaneva vivace lo «spirito socialista rivoluzionario», l'esecuzione delle sentenze fu sospesa «a patto che il Partito socialista rivoluzionario cessasse qualsiasi attività sovversiva, terrorista e insurrezionale». Nel gennaio del 1924 le condanne a morte furono commutate in cinque anni di internamento in campo di concentramento. Tuttavia i condannati non vennero mai liberati, e furono giustiziati negli anni Trenta, in un momento in cui la dirigenza bolscevica non teneva più in alcun conto né l'opinione pubblica internazionale né il pericolo di insurrezioni contadine.

In occasione del processo ai socialisti rivoluzionari era stato applicato il nuovo Codice penale, entrato in vigore il primo giugno 1922. Lenin aveva seguito con molta attenzione l'elaborazione del codice, che doveva legalizzare la violenza esercitata contro i nemici politici, dato che ufficialmente la fase delle eliminazioni sbrigative, giustificate dalla guerra civile, si era conclusa. Dopo aver esaminato i primi abbozzi, Lenin fece delle osservazioni, e il 15 maggio 1922 le inviò a Kurskij, il commissario del popolo per la Giustizia: «Secondo me bisogna estendere la condanna alla fucilazione (con la commutazione in esilio) a tutte le forme di attività dei menscevichi, "dei socialisti rivoluzionari eccetera". Trovare una formulazione che ponga queste attività "in relazione" con la "borghesia internazionale"». Due giorni più tardi, Lenin scriveva nuovamente:

    "Compagno Kurskij, voglio aggiungere al nostro colloquio questa bozza per un paragrafo supplementare del Codice penale ... L'essenziale è chiaro, credo. Bisogna affermare apertamente, intendo in senso politico, e non in termini strettamente giuridici, il principio che motiva l'essenza e la giustezza del terrore, la sua necessità, i suoi limiti. Il tribunale non deve sopprimere il terrore, dirlo equivarrebbe a mentirsi o a mentire, ma dargli un fondamento, legalizzarlo in base a dei principi, con chiarezza, senza barare o nascondere la verità. La formulazione deve essere il più aperta possibile, perché solo la coscienza legale rivoluzionaria e la coscienza rivoluzionaria creano le condizioni per applicarlo nei fatti".

Seguendo le istruzioni di Lenin, il Codice penale identificava il reato controrivoluzionario con qualsiasi atto «inteso ad abbattere o a indebolire il potere dei soviet operai e contadini stabilito dalla rivoluzione proletaria», ma anche con qualsiasi atto che contribuisse «ad aiutare il partito della borghesia internazionale, il quale non riconosce l'eguaglianza dei diritti del sistema comunista di proprietà succeduto al sistema capitalista, e cerca di rovesciarlo con la forza, l'intervento militare, il blocco, lo spionaggio, il finanziamento alla stampa e altri mezzi simili».

Erano punibili con la morte non solo tutte le attività (rivolta, sommossa, sabotaggio, spionaggio eccetera) che potevano essere qualificate come «atti controrivoluzionari», ma anche la partecipazione e il supporto prestato a un'organizzazione «nel senso di aiuto a un partito della borghesia internazionale». Era considerata un crimine controrivoluzionario punibile con la privazione della libertà «che non potrebbe essere inferiore a tre anni» o la messa al bando definitiva anche la «propaganda in favore di un partito della borghesia internazionale».

Nel quadro della legalizzazione della violenza intrapresa all'inizio del 1922, va citato il fatto che la polizia politica cambiò nome. Il 6 febbraio 1922 un decreto aboliva la Ceka e la sostituiva subito con la G.P.U. ("Gosudarstzlennoe politiceskoe upravlenie", Amministrazione politica statale), che dipendeva dal commissariato del popolo per gli Interni. Pur cambiando il nome, i responsabili e le strutture rimanevano identici, e questo attesta con chiarezza la continuità dell'istituzione. Che cosa poteva significare allora il cambiamento di etichetta? Nominalmente la Ceka era una commissione straordinaria, e questo suggeriva il carattere transitorio della sua esistenza e di quanto la giustificava. G.P.U. (pronunciato "ghepeù") suggeriva invece che lo Stato doveva disporre di istituzioni normali e permanenti di controllo e di repressione politica. Dietro al cambiamento del nome si delineavano la perpetuazione e la legalizzazione del terrore come sistema per risolvere i rapporti conflittuali fra il nuovo Stato e la società.

Una delle disposizioni inedite del nuovo Codice penale era la messa al bando definitiva, con divieto di rientrare in URSS, sotto pena di messa a morte immediata. Fu attuata a partire dall'autunno del 1922, in seguito a una grande operazione di espulsione che colpì quasi duecento intellettuali di fama sospettati di opporsi al bolscevismo. Fra questi spiccavano tutti coloro che avevano fatto parte del Comitato di lotta contro la carestia, sciolto il 27 luglio 1921. Il 20 maggio 1922, in una lunga lettera a Dzerzinskij, Lenin espose un vasto piano di «esilio degli scrittori e dei professori che hanno aiutato la controrivoluzione». «Bisogna preparare la cosa più accuratamente» scriveva Lenin. «Convocare a Mosca una riunione con Messing, Mantsev e ancora qualche altro. Impegnare i membri dell'Ufficio politico e dedicare due o tre ore alla settimana all'esame di una serie di pubblicazioni e di libri.... Raccogliere sistematicamente informazioni sull'anzianità politica, il lavoro e l'attività letteraria dei professori e degli scrittori.»

E Lenin faceva un esempio:

    "Tutt'altra cosa è la rivista di Pietrogrado, l'«Ekonomist», edita dall'undicesima sezione della Società tecnica russa. Quello, secondo me, è un vero centro di Guardie bianche. Nel n. 3 ( soltanto nel terzo!!! Nota bene!) è pubblicato sulla copertina l'elenco dei collaboratori. Questi, penso, sono quasi tutti legittimi candidati all'esilio. Sono tutti controrivoluzionari dichiarati, complici dell'Intesa, appartengono a un'organizzazione di servi e spie dell'Intesa, di corruttori della gioventù studiosa. Bisogna fare in modo da acciuffare continuamente e sistematicamente queste «spie militari» e esiliarle".

Il 22 maggio l'Ufficio politico istituì una commissione speciale di cui facevano parte Kamenev, Kurskij, Unshliht, Mancev (due assistenti diretti di Dzerzinskij), incaricata di schedare un certo numero di intellettuali per arrestarli e poi espellerli. I primi a essere espulsi, nel giugno del 1922, furono i due principali dirigenti dell'ex Comitato sociale di lotta contro la carestia, Sergej Prokopovic ed Ekaterina Kuskova. Un primo gruppo di 160 famosi intellettuali, filosofi, scrittori, storici, professori universitari, arrestati fra il 16 e il 17 agosto, fu espulso via mare in settembre. Tra gli altri vi erano alcuni nomi che avevano già acquisito o dovevano acquisire fama internazionale: Nikolaj Berdjaev, Sergej Bulgakov, Sem‰n Frank, Nikolaj Loskij, Lev Karsavin, Fedor Stepun, Sergej Trubeckoj, Aleksandr Izgoev, Ivan Lapscin, Mihail Osorgin, Aleksandr Kisvetter. Dovettero tutti firmare un documento in cui si affermava che in caso di ritorno in Russia sarebbero stati immediatamente fucilati. Gli espulsi erano autorizzati a portare con sé un cappotto e un soprabito, un abito, la biancheria di ricambio, due camicie e due camicie da notte, due paia di mutande, due di calze! Oltre a questi effetti personali, ogni espulso poteva tenere con sé 20 dollari in valuta.

Contemporaneamente alle espulsioni, la polizia politica continuava la schedatura di tutti gli intellettuali di secondo piano sospetti, destinati alla deportazione amministrativa in zone remote del paese, legalizzata da un decreto del 10 agosto 1922, oppure all'internamento nei campi di concentramento. Il 5 settembre 1922 Dzerzinskij scrisse al suo vice Unshliht:

    "Compagno Unshliht! Nell'ambito della schedatura dell'intellighenzia, le cose sono ancora assai artigianali! Da quando Agranov è andato via, non abbiamo più un responsabile competente in questo settore. Zarajskij è un po' troppo giovane. Mi sembra che per andare avanti la faccenda dovrebbe essere presa in mano dal compagno Menzinskij ... E' indispensabile preparare un buon piano di lavoro, che correggeremo e completeremo regolarmente. Bisogna classificare tutta l'intellighenzia in gruppi e sottogruppi: 1) scrittori; 2) giornalisti e politici; 3) economisti (indispensabile fare dei sottogruppi: a) finanziari; b) specialisti dell'energia; c) specialisti dei trasporti; d) commerciali; e) specialisti della cooperazione eccetera); 4) tecnici specialisti (anche in questo caso si impongono dei sottogruppi: a) ingegneri; b) agronomi; c) medici eccetera); 5) professori universitari, loro assistenti eccetera. Le informazioni su tutti questi signori devono pervenire alle nostre sezioni ed essere sintetizzate dalla divisione «Intellighenzia». Ogni intellettuale deve avere il suo fascicolo presso di noi.... Bisogna tenere sempre presente che il nostro dipartimento non ha soltanto il compito di espellere o di arrestare degli individui, ma anche di contribuire all'elaborazione della linea politica generale rispetto agli specialisti: tenerli sotto stretta sorveglianza, dividerli, ma anche promuovere quelli che sono pronti, non solo a parole ma concretamente, a sostenere il potere sovietico".

Alcuni giorni dopo, Lenin inviò un lungo memorandum a Stalin, in cui con il suo senso maniacale per i particolari si dilungava sulla «ripulitura definitiva» della Russia da tutti i socialisti, gli intellettuali, i liberali e altri «signori»:

    "Riguardo alla questione dell'espulsione dei menscevichi, dei socialisti popolari, dei cadetti eccetera mi piacerebbe fare alcune domande sul perché questo provvedimento, che si era avviato prima della mia partenza, non si è ancora concluso. E' stato deciso di estirpare tutti i socialisti popolari? Pecehonov, Mjakotin, Gornfel'd, Petriscev e gli altri? Penso che dovrebbero essere tutti espulsi. Sono più pericolosi degli S.R. perché sono più astuti. E anche Potresov, Izgoev e tutti quelli della rivista «Ekonomist» (Ozerov e molti altri). I menscevichi Rozanov (medico, furbo), Vigdorcik (Migulo o qualcosa del genere), Ljubov' Nikolaevna Radcenko e la sua giovane figlia (a quanto si sostiene, le più perfide nemiche del bolscevismo), N. A. Rozkov (deve essere espulso, è incorreggibile) ... La Commissione Mancev-Messing dovrà stilare delle liste e molte centinaia di questi signori dovranno essere espulsi senza pietà. Ripuliremo la Russia una volta per tutte.... Tutti gli autori della Casa degli scrittori, e anche del Pensiero (a Pietrogrado). Har'kov deve essere ispezionata da cima a fondo, non abbiamo la minima idea di che cosa vi accada, per noi è un paese straniero. La città deve essere ripulita in modo radicale e rapido, non oltre la fine del processo agli S.R. Occupatevi degli autori e degli scrittori di Pietrogrado (i loro indirizzi compaiono su «Novaja Russkaja Misl'», n. 4, 1922, p. 37) e anche della lista degli editori privati (p. 29). E' arcimportante!"

6. DALLA TREGUA ALLA «GRANDE SVOLTA»
Per un po' meno di cinque anni, dall'inizio del 1923 alla fine del 1927, vi fu una pausa nello scontro fra il regime e la società. Gran parte dell'attività politica dei dirigenti bolscevichi era monopolizzata dalle lotte per la successione di Lenin, che era morto il 24 gennaio 1924 ma che dal marzo del 1923 viveva ormai totalmente isolato da qualsiasi attività politica in seguito al terzo attacco cerebrale. Durante quei pochi anni la società lenì le sue ferite. Durante la tregua i contadini, che rappresentavano oltre l'85 per cento della popolazione, tentarono di ricostituire la rete degli scambi, di ottenere di più dai frutti del loro lavoro e di vivere «come se l'utopia contadina funzionasse», per usare la bella espressione di Michael Confino, il grande storico del ceto rurale russo. L'«utopia contadina», che i bolscevichi chiamavano volentieri "eserovscina" - la traduzione più fedele sarebbe «mentalità socialista rivoluzionaria» - si basava su principi che da decenni costituivano il fondamento di tutti i programmi contadini: eliminazione dei proprietari terrieri, ripartizione della terra in funzione delle bocche da sfamare, libertà di disporre liberamente dei frutti del proprio lavoro e libertà di commercio, autogoverno contadino rappresentato dalla comunità di villaggio tradizionale, e presenza esterna dello Stato bolscevico ridotta alla sua espressione più semplice: un soviet rurale per un certo numero di villaggi e una cellula del Partito comunista in un villaggio su cento!

Ripresero a funzionare i meccanismi di mercato, che erano stati cancellati dal 1914 al 1922, e che ora venivano riconosciuti almeno in parte dal potere, tollerati temporaneamente come segno di «arretratezza» in un paese a maggioranza contadina. Subito ripresero le migrazioni stagionali verso le città, frequentissime sotto il vecchio regime; poiché l'industria di Stato trascurava il settore dei beni di consumo, l'artigianato rurale ebbe un notevole sviluppo, penuria e carestia si attenuarono e i contadini ricominciarono a mangiare a sazietà.

Ma la calma apparente di quei pochi anni non poteva mascherare le tensioni profonde sempre vive fra il regime e una società che non aveva dimenticato la violenza di cui era stata vittima. Per i contadini esistevano ancora molti motivi di malcontento. I prezzi dei prodotti agricoli erano troppo bassi, i manufatti troppo cari e troppo rari, le tasse troppo pesanti. Avevano la sensazione di essere dei cittadini di seconda categoria rispetto agli abitanti dei centri urbani e soprattutto agli operai, che spesso erano considerati dei privilegiati. I contadini si lamentavano anche degli innumerevoli abusi di potere compiuti dai rappresentanti di base del regime sovietico, che si erano formati alla scuola del «comunismo di guerra». Continuavano a subire l'arbitrio assoluto di un potere locale erede al tempo stesso di una certa tradizione russa e delle pratiche terroristiche degli anni precedenti. «Nell'apparato giudiziario, in quello amministrativo e in quello poliziesco sono diffusissimi l'alcolismo generalizzato, la pratica corrente delle bustarelle ... il burocratismo e un atteggiamento di grossolanità generale rispetto alle masse contadine» ammetteva un lungo rapporto della polizia politica della fine del 1925 sulla «situazione della legalità socialista nelle campagne».

Pur condannando gli abusi più evidenti dei rappresentanti del potere sovietico, i dirigenti bolscevichi in genere continuavano a considerare le campagne una "terra incognita" pericolosa, «un ambiente formicolante di kulak, di socialisti rivoluzionari, di popi, di ex proprietari terrieri non ancora eliminati», secondo l'espressione immaginifica di un rapporto del capo della polizia politica della provincia di Tula.

Come attestano i documenti del dipartimento Informazione della G.P.U., anche la classe operaia continuava a essere tenuta sotto stretta sorveglianza. Dopo anni di guerra, di rivoluzione, di guerra civile, la classe operaia era un gruppo sociale in via di ricostruzione, e veniva ancora sospettato di mantenere dei legami con il mondo ostile delle campagne. Gli informatori, presenti in tutte le industrie, davano la caccia a intenzioni e atti devianti, a quegli «umori contadini» che si presumeva gli operai riportassero in città quando tornavano dal periodo di vacanza, durante il quale lavoravano nei campi. I rapporti di polizia dividevano il mondo operaio in «elementi ostili», senz'altro influenzati da gruppuscoli controrivoluzionari, «elementi politicamente arretrati», di solito provenienti dalle campagne, ed elementi degni di essere considerati «politicamente coscienti». Interruzioni del lavoro e scioperi, abbastanza rari in quegli anni in cui la disoccupazione era forte e chi aveva un lavoro poteva contare su un tenore di vita relativamente migliore, venivano studiati con cura; i sobillatori erano arrestati.

I documenti interni della polizia politica, oggi parzialmente accessibili, mostrano che dopo anni di formidabile espansione questa istituzione incontrava alcune difficoltà, dovute in particolare all'interruzione dell'operazione intrapresa dai bolscevichi per trasformare la società. Nel periodo 1924-1926 Dzerzinskij fu persino costretto a battagliare duramente contro certi dirigenti secondo i quali bisognava ridurre in modo drastico gli effettivi della polizia politica, le cui attività erano in declino. Per la prima e unica volta, fino al 1953, gli effettivi della polizia politica diminuirono notevolmente. Nel 1921 la Ceka dava lavoro a 105 mila civili circa e a quasi 180 mila militari di diversi corpi speciali, comprese le guardie di confine, le Ceka adibite alle ferrovie e le guardie dei campi di concentramento. Nel 1925 tali effettivi si erano ridotti a 26 mila civili circa e a 63 mila militari. A queste cifre si aggiungevano circa 30 mila informatori: allo stato attuale delle conoscenze documentarie non si sa quanti fossero invece nel 1921. Nel dicembre del 1924 Nikolaj Buharin scrisse a Feliks Dzerzinskij: «Ritengo che dobbiamo passare con maggiore celerità a una forma più "liberale" di potere sovietico: meno repressione, più legalità, più discussioni, più potere locale (sotto la direzione del Partito, ovviamente) eccetera».

Alcuni mesi dopo, il primo maggio 1925, il presidente del Tribunale rivoluzionario Nikolaj Krylenko, che aveva presieduto la farsa giudiziaria del processo ai socialisti rivoluzionari, inviò all'Ufficio politico una lunga dichiarazione in cui criticava gli abusi della G.P.U., che secondo lui eccedeva i diritti conferitile per legge. In effetti, molti decreti emanati fra il 1922 e il 1923 avevano limitato le competenze della G.P.U. ai casi di spionaggio, banditismo, falsa moneta e «controrivoluzione». Per questi crimini la G.P.U. era l'unico giudice e il suo Collegio speciale poteva comminare pene di deportazione e di invio al confino (fino a tre anni), di internamento in campo di concentramento o addirittura la pena di morte. Nel 1924, su 62 mila incartamenti aperti dalla G.P.U., 52 mila e più erano stati trasmessi ai tribunali ordinari. Gli organi giudiziari speciali della G.P.U. avevano conservato oltre 9000 casi, una cifra considerevole vista la congiuntura politica stabile; lo ricordava anche Nikolaj Krylenko, che concludeva: «Le persone deportate e mandate al confino in buchi sperduti della Siberia e senza un soldo vivono in condizioni spaventose. Vi sono sia ragazzi di diciotto-diciannove anni degli ambienti studenteschi, sia vecchi di settant'anni, soprattutto membri del clero, e vecchie "appartenenti alle classi socialmente pericolose"».

Perciò Krylenko proponeva di limitare la qualificazione di «controrivoluzionario» solo ai membri riconosciuti dei «partiti politici che rappresentano gli interessi della borghesia», onde evitare «una interpretazione abusiva del termine da parte dei servizi della G.P.U.».

Di fronte a queste critiche, Dzerzinskij e i suoi assistenti non mancarono di tempestare i massimi dirigenti del Partito, e soprattutto Stalin, di rapporti allarmistici sulla permanenza di gravi problemi interni, di minacce separatiste orchestrate dalla Polonia, i paesi baltici, la Gran Bretagna, la Francia e il Giappone. Secondo il rapporto delle attività della G.P.U. per il 1924, la polizia politica aveva:

    "- arrestato 11453 «banditi», 1858 dei quali giustiziati sul posto; - fermato 926 stranieri (espellendone 357) e 1542 «spie»;
    - evitato una «insurrezione di Guardie bianche» in Crimea (132 persone giustiziate nell'ambito di questo caso);
    - effettuato 81 «operazioni» contro gruppi anarchici, conclusesi con 266 arresti;
    - «liquidato» 14 organizzazioni mensceviche (540 arresti), 6 organizzazioni di socialisti rivoluzionari di destra (152 arresti), 7 organizzazioni di socialisti rivoluzionari di sinistra (52 arresti), 117 organizzazioni «varie di intellettuali» (1360 arresti), 24 organizzazioni «monarchiche» (1245 arresti), 85 organizzazioni «clericali» o «settarie» (1765 arresti), 675 «gruppi di kulak» (1148 arresti);
    - espulso, in due grandi operazioni, nel febbraio e nel luglio del 1924, circa 4500 «ladri», «recidivi» e «nepmen» (commercianti e piccole imprese private) di Mosca e Leningrado;
    - posto «sotto sorveglianza individuale» 18200 persone «socialmente pericolose»;
    - sorvegliato 15501 imprese e amministrazioni varie; - letto 5.078.174 lettere e corrispondenze varie".

Fino a che punto sono affidabili questi dati, così burocraticamente scrupolosi e precisi da sfiorare il ridicolo? Erano inseriti nel progetto di bilancio della G.P.U. per il 1925, e avevano la funzione di dimostrare che la polizia politica non abbassava la guardia davanti alle minacce esterne e meritava quindi i fondi stanziati in suo favore. Nonostante tutto sono preziosi per lo storico, perché al di là delle cifre e delle categorie arbitrarie dimostrano che i metodi e i nemici potenziali restavano immutati, così come la struttura, momentaneamente meno attiva ma pur sempre operativa.

Malgrado i tagli di bilancio e alcune critiche di dirigenti bolscevichi incoerenti, l'inasprimento della legislazione penale non poteva non incoraggiare l'attivismo della G.P.U. Infatti i "Principi fondamentali della legislazione penale dell'URSS", adottati il 31 ottobre 1924, proprio come il nuovo Codice penale del 1926, allargavano sensibilmente la definizione di reato controrivoluzionario, e codificavano il concetto di «persona socialmente pericolosa». La legge includeva fra i reati controrivoluzionari tutte le attività che, senza mirare direttamente a rovesciare o indebolire il potere sovietico, erano di per se stesse «in modo manifesto al delinquente» un «attentato alle conquiste politiche o economiche della rivoluzione proletaria». Insomma, la legge puniva non solo le intenzioni dirette, ma anche le intenzioni eventuali o indirette.

Del resto era definita «socialmente pericolosa ... qualsiasi persona responsabile di un atto pericoloso per la società, o i cui rapporti con un ambiente criminale o l'attività passata comportano un pericolo». Le persone accusate in base a questi criteri così flessibili potevano essere condannate anche senza aver commesso alcuna colpa. Lo si precisava chiaramente: «Il Tribunale può applicare misure di protezione sociale alle persone riconosciute socialmente pericolose, sia per aver commesso un reato specifico, sia nel caso in cui, perseguite con l'accusa di aver compiuto un reato specifico, vengano dichiarate innocenti dal Tribunale ma riconosciute socialmente pericolose». Tutte queste disposizioni codificate nel 1926, fra le quali compariva il famoso articolo 58 del Codice penale con i suoi 14 commi che definivano i reati controrivoluzionari, consolidavano la base legale del terrore. Il 4 maggio 1926 Dzerzinskij inviò una lettera al suo assistente Jagoda in cui esponeva un vasto programma di «lotta contro la speculazione» che ben rivelava i limiti della NEP e una certa persistenza fra i massimi dirigenti bolscevichi dello «spirito da guerra civile»:

    "La lotta contro la «speculazione» riveste oggi un'importanza estrema.... E' indispensabile ripulire Mosca da parassiti e speculatori. Ho chiesto a Pauker di raccogliermi tutta la documentazione disponibile sulla schedatura degli abitanti di Mosca riguardo a questo problema. Per il momento non ho ricevuto niente da lui. Non pensa che alla G.P.U. dovrebbe essere costituito un dipartimento speciale di colonizzazione, finanziato da un fondo speciale alimentato con le confische...? Bisogna popolare le zone inospitali del paese con i parassiti (e famiglia) delle nostre città, seguendo un piano prestabilito approvato dal governo. Dobbiamo ripulire le città a ogni costo dalle centinaia di migliaia di speculatori e di parassiti che vi prosperano... Questi parassiti ci divorano. Per colpa loro non ci sono merci per i contadini, per colpa loro i prezzi salgono e il nostro rublo cala. La G.P.U. deve affrontare il problema di petto e con la massima energia".

Una delle specificità del sistema penale sovietico era il fatto che esistevano due tipi distinti di procedimento contro i reati penali, uno giudiziario e l'altro amministrativo, e due strutture di detenzione, una gestita dal commissariato del popolo per gli Interni, l'altra dalla G.P.U. Accanto alle prigioni tradizionali, dove erano rinchiusi i prigionieri condannati in base a un procedimento giudiziario «ordinario», esisteva un complesso di campi gestiti dalla G.P.U., dove venivano rinchiuse le persone condannate dagli organi giudiziari speciali della polizia politica per crimini di sua competenza: tutte le forme di reati controrivoluzionari, grande banditismo, falsificazione monetaria, reati commessi da membri della polizia politica.

Nel 1922 il governo propose alla G.P.U. di installare un vasto campo nell'arcipelago delle Soloveckie, cinque isole del Mar Bianco al largo di Arcangelo, la maggiore delle quali ospitava un grande monastero della Chiesa ortodossa russa. Dopo aver cacciato i monaci, la G.P.U. organizzò sull'arcipelago un complesso di campi raggruppati sotto la sigla SLON ("Soloveckie lageri osobennogo naznacenija", Campi speciali delle Soloveckie). I primi ospiti, provenienti dai campi di Holmogory e Pertominsk, arrivarono alle Soloveckie all'inizio di luglio del 1923. Alla fine dell'anno vi erano già 4000 detenuti, 15 mila nel 1927 e quasi 38 mila alla fine del 1928.

Una peculiarità del complesso penitenziario delle Soloveckie era di essere autogestito. A parte il direttore e alcuni responsabili, nel campo erano i detenuti a svolgere tutte le mansioni. Nella stragrande maggioranza si trattava di ex collaboratori della polizia politica condannati per abusi particolarmente gravi. L'autogestione, praticata da individui del genere, era sinonimo di arbitrio totale, e in breve peggiorò il destino quasi privilegiato, in buona parte ereditato dal vecchio regime, di cui beneficiavano i detenuti con lo status di prigionieri politici. Sotto la NEP, l'amministrazione della G.P.U. distingueva infatti tre categorie di detenuti.

Nella prima rientravano i politici, cioè soltanto i membri del Partito menscevico, di quello socialista rivoluzionario e di quello anarchico; nel 1921 questi detenuti avevano ottenuto un regime relativamente clemente da Dzerzinskij, che sotto lo zarismo era stato a lungo prigioniero politico e aveva trascorso quasi dieci anni in prigione o in esilio: ricevevano un'alimentazione migliore, chiamata «razione politica», conservavano alcuni effetti personali, potevano farsi mandare giornali e riviste. Vivevano in comunità, e soprattutto erano esentati da lavori forzati di qualsiasi genere. Questa condizione di privilegio fu soppressa alla fine degli anni Venti.

La seconda categoria, la più numerosa, comprendeva i «controrivoluzionari»: membri di partiti politici non socialisti, membri del clero, ex ufficiali dell'esercito zarista, ex funzionari, cosacchi, partecipanti alle insurrezioni di Kronstadt e di Tambov, e qualsiasi altra persona condannata ai sensi dell'articolo 58 del Codice penale.

Della terza categoria facevano parte i detenuti comuni condannati dalla G.P.U. (banditi, falsari) e gli ex cekisti condannati dalla loro istituzione per crimini e reati vari. I controrivoluzionari, costretti a coabitare con i detenuti comuni che dettavano legge all'interno del campo, erano sottoposti al più totale arbitrio, alla fame, al freddo estremo in inverno, alle zanzare in estate (una delle torture più frequenti consisteva nell'appendere le persone nude nei boschi, e lasciarle in pasto alle zanzare, particolarmente numerose e temibili in quelle isole settentrionali costellate di laghi). Per passare da un settore all'altro, ricorda uno dei più celebri prigionieri delle Soloveckie, lo scrittore Varlam Scialamov, i detenuti esigevano che venissero loro legate le mani dietro la schiena e che questo fosse espressamente previsto nel regolamento: «Era l'unico mezzo di autodifesa dei detenuti contro la laconica formula "ucciso durante un tentativo di evasione"».

Fu proprio nei campi delle Soloveckie che fu organizzato davvero, dopo gli anni di improvvisazione della guerra civile, il sistema di lavoro forzato che avrebbe conosciuto uno sviluppo folgorante a partire dal 1929. Fino al 1925 i detenuti furono impiegati, in modo non molto produttivo, in vari lavori all'interno dei campi. A partire dal 1926 l'amministrazione decise di stipulare dei contratti di produzione con un certo numero di organismi statali e di sfruttare più «razionalmente» il lavoro forzato, diventato fonte di profitto e non più - conformemente all'ideologia dei primi campi di «lavoro correttivo» degli anni 1919-1920 - fonte di «rieducazione». I campi delle Soloveckie, riorganizzati sotto la sigla USLON ("Upravlenie severnyh Ingerej osobennogo naznacenija", Direzione dei campi speciali del nord), si diffusero sul continente, incominciando dalle coste del Mar Bianco. Nel 1926-1927 furono creati nuovi campi nei pressi della foce della Pecora, a Kem', e in altri punti di quella costa inospitale ma con un entroterra ricco di foreste. I detenuti erano incaricati di eseguire un programma preciso di produzione, soprattutto il taglio dei boschi e del legname. L'aumento esponenziale dei programmi di produzione richiese ben presto un numero crescente di detenuti. Nel giugno del 1929 essa indusse a riformare radicalmente il sistema detentivo, trasferendo dalle prigioni ai campi di lavoro tutti i prigionieri condannati a pene superiori ai tre anni. Questo provvedimento diede un impulso formidabile ai campi di lavoro. I «campi speciali» dell'arcipelago delle Soloveckie, laboratorio sperimentale del lavoro forzato, furono senza dubbio la matrice di un altro arcipelago in gestazione, un arcipelago immenso, adeguato all'intero paese-continente: l'«Arcipelago Gulag».

***

Le attività ordinarie della G.P.U., con il loro lotto annuale di alcune migliaia di condanne ai lavori forzati o al domicilio coatto, non escludevano un certo numero di operazioni repressive speciali di grande portata. In realtà negli anni calmi della NEP, dal 1923 al 1927, gli episodi di repressione più massicci e cruenti ebbero luogo nelle repubbliche periferiche della Russia, in Transcaucasia e in Asia centrale. Tali regioni in generale avevano resistito accanitamente all'invasione russa nel diciannovesimo secolo ed erano state riconquistate tardi dai bolscevichi: l'Azerbaigian nell'aprile del 1920, l'Armenia nel dicembre del 1920, la Georgia nel febbraio del 1921, il Daghestan alla fine del 1921, e il Turkestan, con Bukhara, nell'autunno del 1920. Continuavano inoltre a opporre forte resistenza alla sovietizzazione. «Controlliamo soltanto le città principali, anzi il centro delle città principali» scriveva nel gennaio del 1923 Peters, l'inviato plenipotenziario della Ceka nel Turkestan. Dal 1918 alla fine del 1920, e in certe regioni fino al 1935-1936, la maggior parte dell'Asia centrale, a eccezione delle città, era tenuta dai "basmac". Il termine "basmac" (in usbeco, «brigante») era applicato dai russi ai diversi tipi di partigiani, stanziali ma anche nomadi, usbechi, kirghisi, turkmeni, che agivano in molte regioni autonomamente gli uni dagli altri.

Il focolaio principale della rivolta era situato nella valle della Fergana. Dopo la conquista di Bukhara da parte dell'Armata rossa nel settembre del 1920, l'insurrezione si diffuse alla regione orientale e a quella meridionale dell'ex emirato di Bukhara, e nella regione settentrionale delle steppe turkmene. All'inizio del 1921 lo Stato maggiore dell'Armata rossa calcolava che i "basmac" armati fossero 30 mila. La direzione del movimento era eterogenea, formata da capi locali discendenti dai notabili di villaggio o di clan, da capi religiosi tradizionali ma anche da nazionalisti musulmani estranei alla regione, come Enver Pascià, l'ex ministro della Difesa della Turchia, ucciso nel 1922 durante uno scontro con squadre della Ceka. Il movimento dei "basmac" era un'insurrezione spontanea, istintiva, contro «l'infedele», «l'oppressore russo», l'antico nemico ricomparso sotto nuove spoglie, che non si proponeva soltanto di impadronirsi di terre e bestiame, ma anche di profanare il mondo spirituale musulmano. La lotta contro i "basmac", guerra di «pacificazione» a carattere coloniale, mobilitò per oltre dieci anni una parte importante delle forze armate e delle truppe speciali della polizia politica, che fra i suoi principali dipartimenti aveva proprio il Dipartimento orientale. Allo stato attuale è impossibile valutare, anche in maniera approssimativa, il numero delle vittime di questa guerra.

Il secondo grande settore del Dipartimento orientale della G.P.U. era la Transcaucasia. Nella prima metà degli anni Venti furono particolarmente colpiti dalla repressione il Daghestan, la Georgia e la Cecenia. Il Daghestan resistette alla penetrazione sovietica fino alla fine del 1921. La confraternita musulmana della Naqshbandiyya, sotto la direzione dello sceicco Uzun Hadzi, prese la guida di una grande rivolta di montanari, e la lotta assunse il carattere di guerra santa contro l'invasore russo. Durò più di un anno, ma certe regioni furono «pacificate» soltanto nel 1923-1924, a costo di massicci bombardamenti e di massacri di civili.

Dopo tre anni di indipendenza sotto un governo menscevico, la Georgia fu occupata dall'Armata rossa nel febbraio del 1921, ma per esplicita ammissione di Aleksandr Mjasnikov, segretario del Comitato del Partito bolscevico della Transcaucasia, continuò a configurarsi come «un problema abbastanza arduo». Al minuscolo Partito bolscevico locale, che in tre anni di potere era riuscito a reclutare appena 10 mila persone, si opponevano una fascia intellettuale e nobiliare nettamente ostile ai bolscevichi, costituita da quasi 100 mila persone, e una struttura menscevica ancora abbastanza forte: infatti nel 1920 il partito menscevico contava oltre 60 mila aderenti. Nonostante il terrore esercitato dall'onnipotente Ceka della Georgia, che godeva di ampia autonomia da Mosca ed era capeggiata da un giovane dirigente di polizia venticinquenne con un grande futuro davanti a sé, Lavrentij Berija, alla fine del 1922 i dirigenti menscevichi in esilio riuscirono a organizzare, insieme ad altri partiti antibolscevichi, un Comitato segreto per l'indipendenza della Georgia, che preparò un'insurrezione. Tale insurrezione incominciò il 28 agosto 1924 nella cittadina di Ciatura, e vi parteciparono per la maggior parte contadini della regione di Gori: nel giro di pochi giorni furono conquistati 5 dei 25 distretti georgiani. Gli insorti dovettero affrontare forze superiori dotate di artiglieria e di aviazione, e furono sconfitti in una settimana. Lavrentij Berija e Sergo Ordzonikidze, primo segretario del Comitato del Partito bolscevico della Transcaucasia, approfittarono della scusa dell'insurrezione per «farla finita una volta per tutte con il menscevismo e l'aristocrazia georgiana». Secondo dati resi pubblici di recente, fra il 29 agosto e il 5 settembre del 1924 furono fucilate 12578 persone. La repressione assunse una tale portata da turbare persino l'Ufficio politico. La direzione del Partito mandò un richiamo all'ordine a Ordzonikidze, chiedendogli di non procedere a esecuzioni in massa sproporzionate e a esecuzioni politiche senza l'esplicita autorizzazione del Comitato centrale. Ciò nonostante le esecuzioni sommarie continuarono per mesi. Davanti al plenum del Comitato centrale, riunitosi nell'ottobre del 1924 a Mosca, Sergo Ordzonikidze ammise: «Forse abbiamo esagerato un po', ma non ci si può più far niente!».

Un anno dopo la repressione dell'insurrezione georgiana dell'agosto del 1924, il regime lanciò una vasta operazione di «pacificazione» della Cecenia, dove tutti concordavano sul fatto che il potere sovietico non esisteva. Dal 27 agosto al 15 settembre 1925, oltre 10 mila uomini delle truppe regolari dell'Armata rossa, dirette dal generale Uborevic e fiancheggiate da unità speciali della G.P.U., tentarono di disarmare i partigiani ceceni che controllavano l'interno del paese. Furono prese decine di migliaia di armi, e quasi mille «banditi» vennero arrestati. Di fronte alla resistenza della popolazione, il dirigente della G.P.U. Unshliht ammise: «Le truppe sono state costrette a ricorrere all'artiglieria pesante e al bombardamento dei covi dei banditi più ostinati». Alla fine di questa nuova operazione di «pacificazione», eseguita durante quello che si suole chiamare «l'apogeo della NEP», Unshliht concludeva così il suo rapporto: «Come ha dimostrato l'esperienza della lotta contro i "basmac" in Turkestan, contro il banditismo in Ucraina, nella provincia di Tambov e altrove, la repressione militare è efficace solo nel caso in cui sia seguita da una profonda sovietizzazione del paese».

A partire dalla fine del 1926, dopo la morte di Dzerzinskij, la G.P.U., diretta ormai da Vjaceslav Rudol'fovic Menzinskij, braccio destro di Dzerzinskij e anch'egli di origine polacca, a quanto pare incominciò di nuovo a essere molto sollecitata da Stalin, che preparava contemporaneamente l'offensiva politica contro Trotsky e Buharin. Nel gennaio del 1927 la G.P.U. ricevette l'ordine di accelerare la schedatura degli «elementi pericolosi per la società e antisovietici» nelle campagne. Nel giro di un anno il numero delle persone schedate passò da 30 mila a 72 mila circa. Nel settembre del 1927 la G.P.U. lanciò in molte province campagne di arresti di kulak e altri «elementi pericolosi per la società». A posteriori, queste operazioni sembrano esercizi preparatori per le grandi retate della «dekulakizzazione», effettuate nell'inverno 1929-1930.

Fra il 1926 e il 1927 la G.P.U. Si dimostrò molto attiva anche nella caccia agli oppositori comunisti, catalogati come «zinovievisti» o «trotzkisti». La pratica di schedare e seguire gli oppositori comunisti era nata molto presto, nel periodo 1921-1922. Nel settembre del 1923, per «rinsaldare l'unità ideologica del Partito», Dzerzinskij aveva proposto che i comunisti si impegnassero a trasmettere alla polizia politica qualsiasi informazione in loro possesso sull'esistenza di frazioni o deviazioni in seno al Partito. La proposta aveva suscitato una levata di scudi da parte di un certo numero di responsabili, fra cui Trotsky. Ciò nonostante, negli anni successivi l'abitudine di far sorvegliare gli oppositori si generalizzò. Fra gennaio e febbraio del 1926 l'epurazione dell'organizzazione comunista di Leningrado, diretta da Zinov'ev, coinvolse ampiamente i servizi della G.P.U. Gli oppositori non furono solo esclusi dal Partito, ma molte centinaia di essi vennero esiliati in città remote del paese e continuarono a vivere in modo assai precario, perché nessuno osava offrire loro lavoro. Nel 1927 la caccia agli oppositori trotzkisti - alcune migliaia in tutto il paese - mobilitò per mesi una parte dei servizi della G.P.U. Furono tutti schedati e centinaia di attivisti vennero arrestati e poi esiliati con un semplice provvedimento amministrativo. Nel novembre del 1927 furono espulsi dal Partito e arrestati tutti i principali dirigenti dell'opposizione: Trotsky, Zinov'ev, Kamenev, Radek, Rakovskij. Tutti quelli che rifiutarono di fare pubblicamente autocritica furono esiliati. Il 19 gennaio 1930 la «Pravda» annunciò la partenza da Mosca di Trotsky e di un gruppo di trenta oppositori, esiliati ad Alma Ata.

Un anno dopo Trotsky fu bandito dall'URSS. La trasformazione di uno dei principali artefici del terrore bolscevico in «controrivoluzionario» apriva una nuova fase, sotto la guida del nuovo uomo forte del Partito: Stalin.

All'inizio del 1928, subito dopo aver eliminato l'opposizione trotzkista, la maggioranza staliniana dell'Ufficio politico decise di rompere la tregua con la società, che le sembrava deviasse sempre più dalla via su cui volevano condurla i bolscevichi. Come dieci anni prima, il nemico principale restava l'immensa maggioranza contadina, guardata come una massa ostile, incontrollata e incontrollabile. Incominciò così il secondo atto della guerra contro la classe rurale che, come osserva giustamente lo storico Andrea Graziosi, «fu comunque abbastanza diverso dal primo. L'iniziativa era ormai interamente nelle mani dello Stato, e l'attore sociale non poteva far altro che reagire, sempre più debolmente, agli attacchi sferrati contro di lui».

Anche se nel complesso l'agricoltura si era risollevata dalla catastrofe degli anni 1918-1922, alla fine degli anni Venti il «nemico contadino» era più debole - e lo Stato più forte - che all'inizio del decennio. Lo dimostrano, per esempio, la migliore informazione di cui disponevano le autorità su quanto accadeva nei villaggi, la schedatura degli «elementi estranei alla società», che permise alla G.P.U. di portare a buon fine le prime retate durante la «dekulakizzazione», lo sradicamento graduale ma effettivo del «banditismo», il disarmo dei contadini, la crescita costante della percentuale di riservisti presenti ai richiami periodici, lo sviluppo di una rete scolastica più fitta. La corrispondenza fra i dirigenti bolscevichi e gli stenogrammi delle discussioni al vertice del Partito rivelano che nel 1928 la direzione staliniana - proprio come del resto i suoi oppositori Buharin, Rykov e Kamenev - era pienamente consapevole dei rischi di un nuovo attacco contro la classe contadina. «Avrete una guerra contadina come nel 1918-1919» avvertì Buharin. Stalin era pronto, a qualunque costo. Sapeva che questa volta il regime ne sarebbe uscito vincitore.

Alla fine del 1927 la «crisi dell'ammasso» fornì a Stalin il pretesto cercato. Il mese di novembre del 1927 fu caratterizzato da un calo spettacolare dei prodotti agricoli conferiti agli organismi statali preposti, calo che in dicembre assunse proporzioni catastrofiche. Nel gennaio del 1928 fu necessario arrendersi all'evidenza: nonostante il raccolto fosse stato buono, i contadini avevano conferito solo 4 milioni 800 mila tonnellate, invece dei 6 milioni 800 mila dell'anno precedente. Questa crisi, che Stalin definì subito «sciopero dei kulak», si poteva spiegare con il calo dei prezzi offerti dallo Stato, la penuria dei manufatti e il loro alto costo, la disorganizzazione delle agenzie preposte all'ammasso e le voci di guerra; era causata insomma dal malcontento generale dei contadini verso il regime. Il gruppo staliniano ne approfittò per ricorrere di nuovo alle requisizioni e a tutta una serie di misure repressive già sperimentate ai tempi del comunismo di guerra. Stalin si recò personalmente in Siberia. Altri dirigenti, come Andreev, Mikojan, Postyscev o Kosior partirono per le grandi zone cerealicole: la regione delle Terre nere, l'Ucraina e il Caucaso settentrionale. Il 14 gennaio 1928 l'Ufficio politico inviò una circolare alle autorità locali, chiedendo loro di «arrestare gli speculatori, i kulak e altri disorganizatori del mercato e della politica dei prezzi». Nelle campagne furono inviati «plenipotenziari» - già il termine ricordava le requisizioni degli anni 1918-1921 - e distaccamenti di militanti comunisti, per epurare le autorità locali giudicate compiacenti verso i kulak e per scovare le eccedenze nascoste, se necessario con l'aiuto dei contadini poveri, cui veniva promesso un quarto dei cereali trovati presso i «ricchi».

Uno dei provvedimenti destinati a penalizzare i contadini che non volevano consegnare i prodotti agricoli nei termini prescritti e a prezzi irrisori, equivalenti a un terzo o a un quarto di quelli di mercato, consisteva nel raddoppiare, triplicare o quintuplicare le quantità stabilite all'inizio. Si fece anche ampio ricorso all'articolo 107 del Codice penale, che prevedeva una pena di tre anni di prigione per qualsiasi azione che contribuisse a far salire i prezzi. Per finire, in due anni le imposte sui kulak furono decuplicate. Si procedette inoltre alla chiusura dei mercati, misura che ovviamente non colpiva solo i contadini agiati. In poche settimane tutti questi provvedimenti interruppero bruscamente la tregua fra il regime e la classe contadina, che durava bene o male dal 1922-1923. Le requisizioni e le misure repressive ebbero soltanto l'effetto di aggravare la crisi: nell'immediato le autorità riuscirono a raccogliere con la forza una quantità di prodotti appena inferiore a quella del 1927, ma per l'anno successivo, come ai tempi del comunismo di guerra, i contadini reagirono diminuendo il seminato.

La «crisi dell'ammasso» dell'inverno 1927-1928 ebbe un'influenza determinante per la svolta che presero gli avvenimenti in seguito: infatti Stalin ne trasse tutta una serie di conclusioni sulla necessità di creare nelle campagne delle «fortezze del socialismo» (immensi kolhoz e sovhoz), di collettivizzare l'agricoltura per poter avere il controllo diretto sulla produzione agricola e i produttori senza essere costretti a tener conto delle leggi di mercato, e di sbarazzarsi una volta per tutte dei kulak, «liquidandoli come classe». Nel 1928 il regime ruppe anche la tregua che aveva concluso con un'altra categoria sociale, gli "spec", cioè gli «specialisti borghesi» provenienti dall'intellighenzia del vecchio regime, che alla fine degli anni Venti occupavano ancora la stragrande maggioranza dei quadri intermedi sia nelle industrie sia nelle amministrazioni. In occasione del plenum del Comitato centrale dell'aprile del 1928 fu annunciato che nella regione di Sciahty, un bacino carbonifero del Donbass, era stata scoperta un'impresa di «sabotaggio industriale» all'interno del cartello Donugol'; l'impresa dava lavoro a «specialisti borghesi» e intratteneva rapporti con gli ambienti finanziari occidentali. Qualche settimana dopo, 53 imputati, in maggioranza ingegneri e funzionari, comparvero in giudizio nel primo processo politico dopo quello intentato ai socialisti rivoluzionari del 1922. Undici imputati furono condannati a morte e cinque giustiziati. Il processo esemplare, di cui la stampa si occupò diffusamente, illustrava uno dei miti principali del regime, quello del «sabotatore al soldo dello straniero» che sarebbe servito a mobilitare militanti e informatori della G.P.U., e a «spiegare» tutti gli insuccessi economici, ma che avrebbe anche permesso di «sequestrare» quadri per i nuovi «uffici speciali di costruzione della G.P.U.», diventati famosi con il nome di "sciarashkin". Migliaia di ingegneri e di tecnici condannati per sabotaggio scontarono la pena nei cantieri e nelle imprese del primo piano quinquennale. Nei mesi successivi al processo di Sciahty, il dipartimento economico della G.P.U. fabbricò diverse decine di casi analoghi, soprattutto in Ucraina. Solo nel complesso metallurgico Jugostal' di Dnepropetrovsk, nel corso del mese di maggio del 1928 furono arrestati 112 quadri.

I quadri industriali non furono l'unico bersaglio della vasta operazione contro gli specialisti lanciata nel 1928. Parecchi professori e studenti di origine «estranea alla società» furono esclusi dagli istituti di istruzione superiore in occasione di una delle molte campagne di epurazione delle università e di promozione di una nuova «intellighenzia rossa e proletaria».

L'inasprimento della repressione e le difficoltà economiche degli ultimi anni della NEP, caratterizzati da una crescente disoccupazione e dall'incremento della criminalità, ebbero come risultato un aumento spettacolare del numero delle condanne penali: 578 mila nel 1926, 709 mila nel 1927, 909 mila nel 1928, un milione 178 mila nel 1929.

Per tentare di arginare questo flusso che ingorgava le prigioni, dove nel 1928 potevano essere ospitate solo 150 mila persone, il governo adottò due importanti decisioni. La prima, promulgata con il Decreto del 26 marzo 1928, prevedeva che per i reati minori la reclusione di breve durata fosse sostituita da lavori correttivi svolti senza remunerazione «nelle industrie, nei cantieri, nello sfruttamento boschivo». Il secondo provvedimento, emanato con il Decreto del 27 giugno 1929, doveva avere conseguenze enormi. Prevedeva infatti che tutti i detenuti nelle prigioni condannati a pene superiori a tre anni fossero trasferiti in campi di lavoro il cui obiettivo era di «valorizzare le ricchezze naturali delle regioni orientali e settentrionali del paese». L'idea era nell'aria da diversi anni. La G.P.U. si era impegnata in un vasto programma di produzione di legname per l'esportazione e aveva già chiesto a svariate riprese altra manodopera alla Direzione principale dei luoghi di detenzione del commissariato del popolo per gli Interni, che gestiva le prigioni comuni; i «suoi» prigionieri dei campi speciali delle Soloveckie, 38 mila nel 1928, non erano infatti sufficienti per realizzare la produzione prevista.

La preparazione del primo piano quinquennale pose all'ordine del giorno i problemi di ripartizione della manodopera e di sfruttamento delle regioni inospitali ma ricche di risorse naturali. In quest'ottica, la manodopera penitenziaria fino ad allora inutilizzata, se sfruttata adeguatamente poteva diventare una vera ricchezza: controllarla e gestirla avrebbe fruttato soldi, influenza e potere. I dirigenti della G.P.U., soprattutto Menzinskij e il suo vice Jagoda, erano pienamente consapevoli della posta in gioco e godevano dell'appoggio di Stalin. Nell'estate del 1929 misero a punto un ambizioso piano di «colonizzazione» della regione di Narym, nella Siberia occidentale, che si estendeva su 350 mila chilometri quadrati di taiga, e non cessarono di reclamare l'applicazione immediata del Decreto del 27 giugno 1929. In questo contesto nacque l'idea della «dekulakizzazione», vale a dire la deportazione in massa di tutti coloro che venivano considerati contadini agiati. Negli ambienti ufficiali si pensava infatti che i kulak si sarebbero senz'altro opposti con forza alla collettivizzazione.

Tuttavia, Stalin e i suoi sostenitori impiegarono un anno intero per vincere le resistenze opposte anche in seno alla direzione del Partito alla politica di collettivizzazione forzata, di dekulakizzazione e di industrializzazione accelerata, tre elementi inscindibili di un programma coerente di trasformazione brutale dell'economia e della società. Questo programma era basato sul blocco dei meccanismi di mercato, l'espropriazione delle terre dei contadini e la valorizzazione delle ricchezze naturali delle regioni inospitali del paese per mezzo del lavoro forzato di milioni di proscritti,

«dekulakizzati» e altre vittime di questa «seconda rivoluzione». L'opposizione detta «di destra», guidata in particolare da Rykov e Buharin, riteneva che la collettivizzazione avrebbe avuto come conseguenze inevitabili lo «sfruttamento militar-feudale» della classe contadina, la guerra civile, l'imperversare del terrore, il caos e la carestia: fu battuta nell'aprile del 1929. Nell'estate di quell'anno la stampa attaccò quotidianamente i «destrorsi» con una campagna di rara violenza, accusandoli di «collaborazione con gli elementi capitalisti» e di «collusione con i trotzkisti». Alla fine, totalmente screditati, gli oppositori fecero pubblica autocritica al plenum del Comitato centrale del novembre del 1929.

Mentre al vertice si svolgevano i diversi episodi della lotta fra chi sosteneva e chi negava la necessità di abbandonare la NEP, il paese piombava in una crisi economica sempre più profonda. Nel 1928-1929 la produzione agricola diede risultati catastrofici. Nonostante il ricorso sistematico a tutto un arsenale di misure coercitive che colpivano i contadini nel loro complesso - forti multe, pene detentive per chi rifiutava di vendere i suoi prodotti agli organismi statali -, la campagna di ammasso produsse assai meno cereali della precedente, creando allo stesso tempo un clima di estrema tensione nelle campagne. Dal gennaio del 1928 al dicembre del 1929, cioè prima della collettivizzazione forzata, la G.P.U. registrò oltre 1300 sommosse e «manifestazioni di massa» nelle campagne, durante le quali furono arrestate decine di migliaia di contadini. Un'altra cifra attesta il clima che regnava allora nel paese: nel 1929 oltre 3200 funzionari sovietici furono vittime di «atti terroristici». Nel febbraio del 1929 le tessere annonarie, che erano scomparse dall'inizio della NEP, ricomparvero nelle città, dove c'era carenza di tutto da quando le autorità avevano chiuso la maggior parte delle attività di piccolo commercio e delle botteghe artigiane, definite imprese «capitalistiche».

Per Stalin la situazione critica dell'agricoltura era dovuta all'azione dei kulak e di altre forze ostili che si accingevano a «minare il potere sovietico». La posta in gioco era chiara: i «capitalisti rurali» o i kolhoz! Nel giugno del 1929 il governo annunciò l'inizio di una nuova fase, quella della «collettivizzazione di massa». Gli obiettivi del primo piano quinquennale, ratificato in aprile dal Sedicesimo Congresso del Partito, furono rivisti e accresciuti. Inizialmente il piano prevedeva entro la fine del quinquennio la collettivizzazione di 5 milioni di focolari, cioè il 20 per cento circa delle colture. In giugno fu annunciato un obiettivo di 8 milioni di focolari per il solo 1930: in settembre di 13 milioni! Durante l'estate del 1929 le autorità mobilitarono decine di migliaia di comunisti, sindacalisti, membri delle organizzazioni comuniste giovanili (i komsomol), operai e studenti, mandandoli a lavorare nei villaggi sotto la direzione dei responsabili locali del Partito e degli agenti della G.P.U. Le pressioni sui contadini continuarono a intensificarsi, mentre le organizzazioni locali del Partito rivaleggiavano in zelo per battere i primati di collettivizzazione. Il 31 ottobre 1929 la «Pravda» chiedeva la «collettivizzazione totale», senza alcun limite all'operazione. Una settimana dopo, in occasione del dodicesimo anniversario della Rivoluzione, Stalin pubblicò il suo famoso articolo "La grande svolta", basato su una valutazione sostanzialmente errata secondo cui «il contadino medio si era orientato verso i kolhoz». La NEP aveva fatto il suo tempo.


Ultima modifica 05.12.2003