MIA: Storia: Storia sovietica: 100° anniversario della Rivoluzione russa: La storia della rivoluzione di febbraio

La storia della rivoluzione di febbraio

I lavoratori russi scesero in sciopero durante la giornata internazionale della donna del 1917. Finirono per rovesciare lo zarismo

di Kevin Murphy

Che lo sciopero più importante della storia del mondo abbia avuto inizio a partire dalle lavoratrici tessili di Pietrogrado in occasione della Giornata internazionale della Donna del 1917 (23 febbraio del vecchio calendario giuliano) non fu una coincidenza. Lavorando fino a tredici ore al giorno mentre i loro mariti e figli erano al fronte, su queste donne, che attendevano in fila per ore e al gelo nella speranza di avere un po’ di pane, ricadeva interamente il peso del sostegno delle loro famiglie. Come riferisce Tsuyoshi Hasegawa nel suo decisivo studio sulla rivoluzione di febbraio, «non fu necessaria nessuna propaganda per incitare queste donne all’azione».

La profonda crisi sociale russa affondava le proprie radici nella totale incapacità del regime zarista di realizzare qualsiasi riforma significativa, e nell’abissale divario economico tra i ricchi e il resto della società russa. La Russia era governata da un autocrate, lo zar Nicola II, che più volte aveva sciolto la Duma, un organo elettivo senza reale potere che era legalmente dominato da membri delle classi possidenti.

Alla vigilia della guerra, gli scioperi giunsero ai livelli toccati nella rivoluzione del 1905 e i lavoratori innalzarono barricate nelle strade della capitale. La guerra diede allo zarismo un temporaneo sollievo, ma le ripetute sconfitte militari e circa sette milioni di morti risvegliarono inedite accuse di corruzione del regime da parte di praticamente tutti i settori della società. Era tanto profondo il marciume che il futuro primo ministro, il principe Lvov, organizzò una cospirazione – pur non intervenendovi personalmente – per deportare lo Zar e rinchiudere la zarina in un monastero. Rasputin, un monaco ciarlatano che aveva guadagnato un’enorme influenza alla corte dello zar, venne ucciso, non da anarchici, ma da monarchici, nel dicembre del 1916.

A sinistra, i bolscevichi erano la forza dominante in un più ampio settore di rivoluzionari che avevano diretto la più grande ondata di scioperi della storia mondiale (i settori dei socialisti moderati favorevoli alla guerra frequentemente evitavano gli scioperi).

Per anni avevano combattuto lo zarismo. Trenta scioperi politici furono proclamati in cinque anni dalla strage delle miniere d’oro del fiume Lena nel 1912, in cui morirono 270 lavoratori. I rivoluzionari avevano sfidato una dopo l’altra le ondate di arresti da parte della polizia segreta dello zar (l’Okhrana). Il numero dei rivoluzionari arrestati nel 1915 e nel 1916 mostra la forza relativa dei diversi raggruppamenti di sinistra a Pietrogrado: 743 bolscevichi, 553 senza partito, 98 socialisti rivoluzionari (SR), 79 menscevichi, 51 Mežrajonstsy, 39 anarchici. Circa seicento bolscevichi nelle fabbriche metallurgiche, metalmeccaniche e tessili, facevano del distretto di Vyborg di gran lunga il più militante durante la guerra.

Il 9 gennaio 1917, il dodicesimo anniversario del massacro della Domenica di sangue che diede inizio alla rivoluzione del 1905, 142.000 lavoratori scesero in sciopero. Quando la Duma aprì i suoi lavori il 14 febbraio, altri 84.000 lavoratori scesero in piazza organizzati dai menscevichi favorevoli alla guerra.

La crescente scarsità di cibo indusse il governo a requisire il grano nelle campagne. Mentre i panifici di Pietrogrado restavano chiusi e le forniture erano ormai ridotte a livello di riserve per alcune settimane, le autorità zariste esacerbarono la crisi sostenendo che non vi era alcuna penuria. L’Okhrana riferì di numerosi scontri tra polizia e lavoratori in fila per il pane a Pietrogrado. Le madri, «che vedono i loro bambini affamati e malati sono molto più prossime alla rivoluzione che i signori Miliukov, Rodichev e compagnia, e, naturalmente, sono molto più pericolose».

Il 22 febbraio, il bolscevico Kaiurov si rivolse a un’assemblea di donne di Vyborg, esortandole a non scioperare in occasione della Giornata internazionale della Donna e a seguire «le istruzioni del partito». Con suo sommo rincrescimento – in seguito avrebbe scritto che era “indignato” perché le donne bolsceviche avevano ignorato le direttive del partito – cinque fabbriche tessili si fermarono il giorno dopo.

Le operaie che dirigevano lo sciopero nelle officine tessili Neva gridarono: «In strada! Scioperate! Ne abbiamo abbastanza!». Aprirono le porte e guidarono centinaia di donne verso le vicine fabbriche metallurgiche. Lanciando palle di neve contro le finestre della fabbrica metallurgica Nobel, la folla di donne convinse i lavoratori a unirsi a loro, agitando le braccia e gridando: «Fuori! Smettete di lavorare!». Le donne marciarono anche verso la fabbrica Erikson, dove Kaiurov e altri bolscevichi si riunirono brevemente con i socialisti rivoluzionari e i menscevichi della fabbrica e unanimemente decisero di persuadere gli altri lavoratori a unirsi a loro.

La polizia riferì di folle di donne e giovani lavoratori che reclamavano “pane” e intonavano inni rivoluzionari. Durante il corteo, le donne presero le bandiere rosse dalle mani degli uomini, dicendo: «È la nostra giornata. Porteremo noi le bandiere». Sul ponte Liteinyi, nonostante le ripetute cariche dei manifestanti, la polizia riuscì a impedire che raggiungessero il centro della città. Nel tardo pomeriggio, centinaia di lavoratori che avevano attraversato il ghiaccio furono attaccati dalla polizia. Nel centro, «un migliaio di persone, prevalentemente donne e giovani» raggiunsero la Prospettiva Nevsky, ma vennero dispersi. L’Okhrana informò che le manifestazioni erano così accese che era «necessario rafforzare i distaccamenti di polizia dappertutto».

Sessantamila dei 78.000 scioperanti erano dal distretto di Vyborg. Benché intonassero slogan contro la guerra e lo zarismo, la rivendicazione principale era per il pane. Senza dubbio, le autorità zariste ritenevano trattarsi solo di un’altra rivolta per il cibo, ma erano allarmate dalle oscillazioni delle loro fedeli truppe cosacche nell’attaccare i manifestanti. Quella notte, i bolscevichi di Vyborg si riunirono e decisero di organizzare uno sciopero generale di tre giorni con cortei verso la Prospettiva Nevsky.

Il giorno dopo, il movimento degli scioperanti raddoppiò fino a raggiungere i 158.000 partecipanti, diventando il più grande sciopero politico della guerra. Settantacinquemila lavoratori di Vyborg incrociarono le braccia, così come fecero circa ventimila in ciascuno dei distretti di Pietrogrado, Vassilevski e Mosca, e più di novemila nel distretto di Narva. I giovani operai diressero la lotta per le strade, combattendo contro la polizia e le truppe sui ponti e lottando per il controllo della Prospettiva Nevskij nel centro della città.

Nella fabbrica Aviaz, gli oratori menscevichi e socialisti rivoluzionari fecero appello a rovesciare il governo, sollecitarono i lavoratori a non partecipare ad atti irresponsabili e li esortarono a dirigersi verso il Palazzo di Tauride, dove i membri della Duma disperatamente cercavano di convincere lo zar a fare concessioni. I bolscevichi della fabbrica Erikson chiesero agli operai di marciare verso la piazza Kazan armati di coltelli, attrezzi metallici e ghiaccio per l’imminente scontro con la polizia.

Una folla di 40.000 manifestanti si scontrò con polizia e soldati sul ponte Liteinyi, ma venne ancora respinta. Duemilacinquecento operai della fabbrica Erikson furono affrontati da cosacchi sulla via Sampsonievsky. Gli ufficiali caricarono la folla, ma i cosacchi proseguivano con cautela attraverso il corridoio aperto dagli ufficiali. «Alcuni di loro sorridevano – ricorda Kaiurov – e uno fece l’occhiolino ai lavoratori». In molti luoghi le donne presero l’iniziativa: «Abbiamo mariti, padri e fratelli al fronte … anche voi avete madri, mogli, sorelle, figli. Noi chiediamo il pane e la fine della guerra».

I manifestanti non tentarono minimamente di fraternizzare con l’odiata polizia. I giovani fermarono i tram intonando inni rivoluzionari e scagliando blocchi di ghiaccio e bulloni contro la polizia. Dopo che diverse migliaia di lavoratori ebbero attraversato il ghiaccio, furiosi combattimenti scoppiarono tra manifestanti e polizia per il controllo della Prospettiva Nevsky. Nel frattempo, i lavoratori riuscirono ad organizzare riunioni nei tradizionali siti rivoluzionari di piazza Kazan e presso la famosa statua “dell’ippopotamo” di Alessandro III a piazza Znamenskaya. Le rivendicazioni divennero più politiche dato che gli oratori non chiedevano solo pane, ma denunciavano anche la guerra e l’autocrazia.

Il giorno 25, lo sciopero divenne generale, con più di 240.000 operai ai quali si aggiunsero impiegati, insegnanti, camerieri e cameriere, studenti universitari e persino studenti delle scuole superiori. I tassisti giurarono che avrebbero trasportato solo i “dirigenti” della rivolta.

Ancora una volta, i lavoratori cominciarono a tenere assemblee nelle loro fabbriche. In una rumorosa riunione nella fabbrica Parvianen di Vyborg, oratori bolscevichi, menscevichi e socialisti rivoluzionari esortarono i lavoratori a marciare alla volta della Prospettiva Nevsky. Un oratore concluse il proprio intervento con la frase rivoluzionaria: «Via, mondo obsoleto, marcio da cima a fondo. La giovane Russia sta arrivando!».

I manifestanti furono protagonisti di diciassette violenti scontri con la polizia, mentre soldati e operai riuscirono a liberare i compagni arrestati dalla polizia. I ribelli riuscirono a prevalere, sconfiggendo le forze zariste su molti ponti o attraversando il ghiaccio verso il centro. Prendendo il controllo della Prospettiva Nevskij, i manifestanti si riunirono di nuovo in piazza Znamenskaya. La polizia e i cosacchi menavano colpi sulla folla, ma quando il capo della polizia caricò i manifestanti fu ucciso: da una sciabola cosacca. Le lavoratrici ebbero ancora una volta un ruolo cruciale: «Abbassate i fucili», chiedevano alle truppe. «Unitevi a noi».

In serata, il lato di Vyborg era controllato dai ribelli. I manifestanti avevano assaltato la stazione di polizia, impossessandosi di pistole e sciabole delle guardie zariste e costringendo la polizia e i gendarmi alla fuga.

La ribellione spinse lo zar Nicola II al limite. «Ordino di liquidare per domattina i disordini nella capitale», proclamò, e ordinò al comandante Khabalov della guarnigione di Pietrogrado di disperdere la folla con armi da fuoco. Khabalov era scettico («Come poteva essere fermata la protesta il giorno dopo?»), ma accettò l’ordine. Nel municipio, il ministro degli interni Protopopov, incitò i difensori dell’autocrazia a porre fine ai disordini: «Pregate e sperate nella vittoria», disse. Il giorno successivo, di buon ora, erano stati affissi proclami di divieto delle manifestazioni e di avviso che l’editto sarebbe stato fatto rispettare con le armi.

Alle prime ore di domenica 26, la polizia arrestò il nucleo del Comitato bolscevico di Pietrogrado e altri socialisti. Le fabbriche vennero chiuse, i ponti sollevati e il centro della città si trasformò in una piazza d’armi. Khabalov telegrafò alla guarnigione: «Tutto è tranquillo in città fin dal mattino». Subito dopo questo rapporto, migliaia di lavoratori attraversarono il ghiaccio e apparvero sulla Prospettiva Nevsky cantando inni rivoluzionari e intonando slogan, ma i soldati aprirono il fuoco su di loro in modo sistematico.

Unità del reggimento Volynsky furono incaricate di fare incursioni preventive in piazza Znamenskaya. Pattuglie a cavallo menavano colpi sulla folla, ma non riuscivano a disperderla. Allora, il comandante ordinò alle truppe di aprire il fuoco. Benché alcuni soldati avessero sparato in aria, cinquanta manifestanti rimasero uccisi in piazza Znamenskaya e nei dintorni, mentre i lavoratori si sparpagliarono per nascondersi nelle case e nei caffè. Gran parte della carneficina fu portata a termine dalle truppe d’élite utilizzate per formare sottufficiali.

Tuttavia, l’eccidio non schiacciò la ribellione.

Un rapporto della polizia descrive il sorprendente livello di resistenza e di sacrificio dei ribelli:

«Nel corso dei disordini è stato osservato come un fenomeno generale che la folla ribelle ha adottato un atteggiamento di estrema sfida verso le pattuglie militari, nei cui confronti, quando fu intimato l’ordine di disperdersi, vennero lanciate pietre e blocchi di ghiaccio prelevati dalla strada. Agli spari d’avvertimento in aria la folla non solo non si disperse ma rispose alle scariche con risate di scherno. Solo quando i colpi sono stati sparati in mezzo alla folla è stato possibile disperderla. I partecipanti … si nascondevano nei cortili delle case vicine e, non appena il fuoco cessava, uscivano di nuovo per strada».

Gli operai chiesero ai soldati di deporre le armi, cercando di intavolare conversazioni con loro per convincerli conquistandone i cuori. Come ha osservato Trotsky, nei contatti «degli operai e delle operaie con i soldati, sotto il crepitio costante di fucili e mitragliatrici, si decideva la sorte del potere, della guerra e del Paese».

La sera del 26, i dirigenti bolscevichi di Vyborg si incontrarono in un orto alla periferia della città. Molti suggerirono che era il momento di recedere dalla rivolta, ma la proposta venne respinta. Il sostenitore più accanito della continuazione della battaglia fu in seguito smascherato come agente dell’Okhrana. Dal punto di vista militare, la rivoluzione avrebbe dovuto fermarsi dopo il 26. Ma la polizia non sarebbe riuscita a schiacciare la rivolta senza il supporto di migliaia di soldati.

Il pomeriggio precedente, i lavoratori si era avvicinati alla caserma Pavlovsky: «Dite ai vostri commilitoni che anche il reggimento Pavlovsky sta sparando contro di noi – abbiamo visto i soldati con la vostra uniforme lungo la Prospettiva Nevsky». I soldati «sembravano angosciati e pallidi». Appelli simili si ascoltavano nelle caserme di altri reggimenti. Quel pomeriggio, i soldati del reggimento Pavlovsky furono i primi a unirsi ai ribelli (tuttavia, rendendosi conto che erano rimasti isolati, tornarono alle loro caserme e trentanove leader dell’ammutinamento vennero immediatamente arrestati).

Alle prime ore del 27, la rivolta aveva raggiunto il reggimento Volynsky, i cui reparti addestrati avevano sparato sui manifestanti in piazza Znamenskaya. Quattrocento ammutinati dissero al tenente: «Non spareremo più e non vogliamo versare il sangue dei nostri fratelli invano». Quando l’ufficiale rispose leggendo l’ordine dello zar di sopprimere la rivolta, venne sommariamente fucilato. Altri soldati del reggimento Volynsky si unirono ai ribelli e poi avanzarono fino alla vicina caserma del Reggimento Preobraženskij e del Reggimento dei Lituani, che anch’essi si ammutinarono.

In seguito, uno dei partecipanti descrisse la scena: «Un camion carico di soldati con i fucili in mano si fece strada tra la folla per la Via Sampsonievsky. Bandiere rosse garrivano dalle baionette dei fucili, una cosa mai vista prima … le notizie portate dal camion – che le truppe si erano ammutinate – si diffusero a macchia d’olio». Mentre un reparto addetto alla repressione comandato dal generale Kutepov marciava senza controllo per ore, sparando sui manifestanti e i camion carichi di lavoratori, in serata Kutepov scrisse: «Una gran parte delle mie truppe si è mescolata nella folla».

Quella mattina, il generale Khabalov andava spavaldo nelle caserme della città, minacciando con la pena di morte i soldati che si fossero ribellati. Alla sera, il generale Ivanov, le cui truppe erano in marcia per sostenere i reparti fedeli allo zar, telegrafò a Khabalov per valutare la situazione.

Ivanov: In quali parti della città state mantenendo l’ordine?
Khabalov: Tutta la città è nelle mani dei rivoluzionari.
Ivanov: Tutti i ministeri funzionano correttamente?
Khabalov: I ministeri sono stati occupati dai rivoluzionari.
Ivanov: Quali forze di polizia sono a vostra disposizione in questo momento?
Khabalov: Assolutamente nessuna.
Ivanov: Quali istituzioni tecniche e di approvvigionamento del Ministero della Guerra sono ora sotto il vostro controllo?
Khabalov: Nessuna.

Informato della situazione, il generale Ivanov decise di ritirarsi. La fase militare della rivoluzione era finita.

Il paradosso della rivoluzione di febbraio è stato che, quantunque avesse rovesciato lo zarismo, lo abbia poi sostituito con un governo di liberali non eletti che erano terrorizzati dalla stessa rivoluzione che li innalzò al potere. Il giorno 27, un deputato liberale della Duma scrisse: «… Si udivano sospiri … degli “eccoci qua” oppure chiare espressioni di timore per le loro vite», interrotte dal sollievo per notizie, rivelatesi inesatte, secondo cui «i disordini sarebbero presto stati soffocati». Un altro osservatore riferì che «erano terrorizzati, tremavano, si sentivano prigionieri nelle mani di elementi ostili che li trascinavano su un sentiero sconosciuto».

Durante la rivoluzione, «la posizione della borghesia era abbastanza chiara: da un lato, mantenersi a distanza dalla rivoluzione e consegnarla allo zarismo, e dall’altro sfruttarla per i propri scopi». Questa era la valutazione di Sukhanov, un dirigente del Soviet di Pietrogrado, che simpatizzava con i menscevichi e avrebbe svolto un ruolo cruciale nel consegnare il potere ai liberali.

Sukhanov ottenne parecchi aiuti da molti socialisti moderati. Il leader menscevico Skobelev avvicinò Rodzianko, presidente della Quarta Duma, per ottenere uno spazio nel Palazzo di Tauride. Il suo scopo era quello di organizzare un Soviet dei deputati degli operai per mantenere l’ordine. Kerensky dissipò i timori di Rodzianko che il Soviet sarebbe potuto diventare pericoloso, dicendogli: «Qualcuno deve prendere il controllo dei lavoratori».

A differenza del Soviet degli operai del 1905, sorto come strumento di lotta di classe, il soviet formatosi il 27 febbraio venne creato dopo la rivolta e i dirigenti del suo comitato esecutivo erano quasi tutti intellettuali che non avevano attivamente partecipato alla rivoluzione.

C’erano anche altre carenze: i rappresentanti dei 150.000 soldati di stanza a Pietrogrado avevano un peso esageratamente sproporzionato in questo soviet degli operai e dei soldati. Era a schiacciante maggioranza maschile: c’era solo una manciata di donne delegate tra i 1.200 delegati (fino quasi a 3.000), sicché le lavoratrici erano deplorevolmente sottorappresentate. Il soviet neanche discusse la manifestazione del 19 marzo per il suffragio femminile, in cui vi furono 25.000 partecipanti, tra cui migliaia di donne della classe operaia.

Certo, il Soviet di Pietrogrado approvò il famoso Ordine numero 1 – che invitava i soldati ad eleggere i propri comitati per organizzare le loro unità e obbedire ai loro ufficiali e al governo provvisorio solo se gli ordini non fossero stati in contraddizione con quelli del Soviet – ma quel decreto venne approvato solo per iniziativa stessa dei soldati radicali.

Eppure, la formazione del Soviet indusse i liberali e l’alleato socialista rivoluzionario, Kerensky, ad agire. Rodzianko sostenne che «se non prendiamo il potere, saranno altri a farlo», perché già avevano «scelto alcune canaglie nelle fabbriche». «Se non avessimo formato immediatamente un governo provvisorio – scrisse Kerensky – il soviet si sarebbe autoproclamato l’autorità suprema della rivoluzione». Secondo questo piano, un gruppo autonominato, definitosi Comitato provvisorio, avrebbe agito come un contrappeso del soviet. Ma i cospiratori non riponevano molta fiducia nel proprio piano; lasciarono i dirigenti menscevichi e socialisti rivoluzionari nei soviet a fare il loro sporco lavoro.

La meccanica menscevica della rivoluzione indicava che «il governo che prenderà il posto degli zar dovrà essere esclusivamente borghese». Sukhanov scrisse: «Tutta la macchina statale … può obbedire solo a Miliukov».

I negoziati tra l’esecutivo del Soviet e i dirigenti liberali non eletti si svolsero il primo di marzo. «Miliukov aveva pienamente compreso che il Comitato Esecutivo era in una posizione perfetta per dare il potere al governo borghese oppure no», scrisse Sukhanov, aggiungendo: «Il potere destinato a sostituire lo zarismo deve essere solo un potere borghese … Dobbiamo conformarci a questo principio. In caso contrario, la rivolta non avrà successo e la rivoluzione fallirà».

I dirigenti del Soviet erano persino disposti a lasciar cadere il programma minimo dei “tre capisaldi” su cui tutti i gruppi rivoluzionari erano d’accordo (la giornata di otto ore, la confisca dei latifondi e la repubblica democratica), se solo i liberali avessero voluto prendere il potere. Spaventato dalla prospettiva di dover governare, Miliukov testardamente insisté per fare un ultimo disperato tentativo di salvare la monarchia.

Incredibilmente, i socialisti acconsentirono e permisero che il fratello dello zar, Michele, decidesse da sé solo se governare. Non avendo ottenuto alcuna garanzia sulla sua sicurezza personale, il Granduca rifiutò cortesemente. Tutti questi negoziati dietro le quinte vennero, naturalmente, svolti senza che gli lavoratori e i soldati ne fossero a conoscenza.

Il sistema di doppio potere che emerse da tali discussioni – il Soviet da un lato e il governo provvisorio non eletto dall’altro – sarebbe durato otto mesi.

Ziva Galili ha descritto questi negoziati come «il momento migliore dei menscevichi». Trotsky li ha paragonati a una commedia di vaudeville divisa in due parti: «In una, i rivoluzionari chiedevano ai liberali di salvare la rivoluzione; nell’altra, i liberali imploravano la monarchia di salvare il liberalismo».

Perché gli operai e i soldati, che avevano combattuto così valorosamente per rovesciare lo zarismo, permisero al Soviet di consegnare il potere a un nuovo governo che rappresentava le classi possidenti? Innanzitutto, perché la maggior parte dei lavoratori non aveva ancora scelto tra le politiche dei vari partiti socialisti. Poi, gli stessi bolscevichi non avevano molto chiaro ciò per cui combattevano, in parte perché conservavano una comprensione (rapidamente superata) della rivoluzione come democratico‑borghese, in cui avrebbe governato un governo rivoluzionario provvisorio. Ciò che questo significasse in pratica, soprattutto dopo la formazione del governo provvisorio, era lasciato alla libera interpretazione.

Benché i militanti bolscevichi abbiano svolto un ruolo chiave nelle giornate rivoluzionarie, spesso lo hanno fatto a dispetto dei loro dirigenti. Le operaie tessili scioperarono a febbraio nonostante le obiezioni da parte dei dirigenti di partito, che consideravano “non ancora maturi” i tempi per l’azione militante.

L’ufficio politico del partito bolscevico a Pietrogrado (Shliapnikov, Molotov e Zalutsky) era anche inadeguato. Persino dopo lo sciopero del 23 febbraio, Shliapnikov sostenne che era prematuro convocare uno sciopero generale. E l’organismo neppure fu in grado di stampare un volantino da distribuire alle truppe e respinse le richieste di armamento dei lavoratori in vista degli scontri imminenti.

Gran parte dell’iniziativa partì, o dal comitato distrettuale di Vyborg, che assunse un ruolo dirigente di fatto nell’organizzazione del partito in città, oppure dai militanti di base, soprattutto il primo giorno in cui le donne ignorarono i dirigenti del partito ed ebbero un ruolo decisivo nella propagazione del movimento di sciopero.

Per tutto il mese di marzo, i bolscevichi furono preda della confusione e della divisione. Quando il Soviet di Pietrogrado consegnò il potere alla borghesia il 1° marzo, non uno degli undici bolscevichi nel comitato esecutivo del soviet si oppose. Quando i bolscevichi di sinistra delegati nel Soviet presentarono una mozione perché il Soviet stesso formasse un governo, solo in diciannove votarono a favore, mentre molti altri bolscevichi votarono contro. Il 5 marzo, il Comitato bolscevico di Pietroburgo sostenne l’appello lanciato dal Soviet agli operai perché ritornassero al lavoro, anche se la giornata lavorativa di otto ore – una delle principali richieste del movimento rivoluzionario – non era ancora stata istituita.

L’Ufficio politico del partito sotto Shliapnikov si avvicinò ai radicali di Vyborg, che chiedevano al Soviet di assumere il governo. Ma quando Kamenev, Stalin e Muranov tornarono dall’esilio della Siberia e presero il controllo dell’Ufficio politico il 12 marzo, la politica del partito virò bruscamente a destra, per la gioia dei dirigenti menscevichi e socialisti rivoluzionari e scatenando la rabbia di molti militanti del partito nelle fabbriche, alcuni dei quali chiesero l’espulsione del nuovo triumvirato.

Lenin era tra i più arrabbiati. Il 7 marzo, scrisse dalla Svizzera: «Questo nuovo governo è già legato mani e piedi al capitale imperialista, alla politica imperialista di guerra e di rapina». Kamenev, al contrario, sulla Pravda del 15 marzo sostenne che il «popolo libero» sarebbe «rimasto saldamente al suo posto, risponderà colpo su colpo, proiettile su proiettile». E, alla fine di marzo, Stalin si espresse a favore dell’unificazione con i menscevichi e sostenne che il governo provvisorio aveva «assunto il ruolo di garantire le conquiste della rivoluzione».

Lenin era così preoccupato della svolta a destra della direzione bolscevica che il 30 marzo scrisse di preferire «l’immediata scissione con qualcuno del nostro partito, chiunque sia, anziché fare concessioni al socialpatriottismo di Kerensky e C.». Non era necessario un avvocato per interpretare le parole di Lenin o capire a chi stesse riferendo: «Kamenev deve rendersi conto che porta una responsabilità storica mondiale».

L’essenza del leninismo dal 1905 è stata la sua enfasi sulla diffidenza completa nei confronti del liberalismo, ritenuto una forza controrivoluzionaria, e una critica tagliente verso quei socialisti impegnati nella ricerca di una conciliazione con i liberali. Eppure, la stessa formulazione di Lenin nel 1905, che invocava la creazione di un governo rivoluzionario provvisorio per realizzare una rivoluzione borghese, contrastava con quelle che lui definiva le «idee assurde e semianarchiche» di Trotsky, che rivendicava invece una «rivoluzione socialista». Lo stesso Lenin effettuava ora una svolta verso questa “assurda” idea di socialismo, mentre i vecchi e conservatori bolscevichi comprensibilmente lo accusavano di “trotskismo”.

Sotto molti aspetti, il colpo di stato dei primi di marzo ha seguito il modello tipico di eventi simili verificatisi durante l’ultimo secolo – una piccola cricca non eletta da nessuno che usurpa il potere per i suoi interessi di casse a spese di un movimento che l’ha portata al potere. C’erano due grandi differenze, però. Innanzitutto, che c’era un partito delle masse lavoratrici che avrebbe lottato instancabilmente per i loro obiettivi. E, in secondo luogo, che c’erano i soviet.

La rivoluzione russa era appena iniziata.

https://assaltoalcieloblog.wordpress.com/2017/03/20/la-storia-della-rivoluzione-di-febbraio


Kevin Murphy insegna Storia Russa nell’University of Massachusetts di Boston. Il suo libro Revolution and Counterrevolution: Class Struggle in a Moscow Metal Factory ha vinto nel 2005 il Deutscher Memorial Prize

Kevin Murphy: The Story of the February Revolution


Ultimo aggiornamento su 30 maggio