Prolegomeni ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza

Immanuel Kant (1783)


Appendice180

Di ciò che si può fare per realizzare la metafisica come scienza.

Poiché tutte le vie che si sono finora tentate non hanno raggiunto lo scopo anzidetto e questo non sarà certamente mai raggiunto senza una preliminare critica della ragion pura, è ben giusto che si voglia sottoporre il tentativo, che d’una tal critica io ho messo alla luce, ad un esame rigoroso ed accurato, dove non si ritenga per più salutare ancora il rinunziare completamente ad ogni pretesa d’avere una metafisica, nel qual caso, purché si rimanga veramente fedeli [372] al proposito, non v’è nulla da obbiettare. Ora di giudizi, a prendere le cose come realmente vanno e non come dovrebbero andare, ve ne hanno di due sorta: v’è il giudizio che precede l’esame, e tale è nel caso nostro quello che il lettore pronuncia dall’alto della sua metafisica sulla Critica della ragion pura (la quale dovrebbe in antecedenza ricercarne la possibilità); e v’è un altro giudizio, quello che segue l’esame, quando il lettore riesce ad astrarre per un certo tempo dalle conseguenze che derivano dalle ricerche critiche e che verrebbero ad urtare abbastanza fortemente contro la metafisica già da lui adottata ed esamina innanzi tutto i principii onde quelle conseguenze si possono derivare. Se ciò che la metafisica comune ci porge fosse definitivamente certo (come nella geometria), varrebbe la prima maniera di giudicare: perchè quando le conseguenze di certi principi contraddicono a verità definitivamente sicure, quei principii sono falsi e debbono venir rigettati senz’altro esame. Ma se non è vero invece che la metafisica abbia una provvisione di proposizioni (sintetiche) incontestabilmente certe, e forse è vero che molte di queste, pur avendo la stessa speciosa apparenza delle migliori tra esse, sono, nelle conseguenze, fra di loro in contraddizione e in genere non si dà in essa affatto alcun criterio sicuro della verità delle proposizioni (sintetiche) propriamente metafisiche, allora non può aver luogo la maniera antecedente di giudicare, bensì deve ad ogni giudizio sul valore o non valore della critica precedere l’esame dei fondamenti della critica stessa.

Saggio d’un giudizio, sulla Critica, precedente l'esame.

Un giudizio di questo genere si può vedere nel “Göttingische gelehrte Anzeigen„, supplemento al fascicolo terzo del 19 gennaio 1783, p. 40 e seg.

Quando un autore, che si è ben famigliarizzato con l’oggetto dell’opera sua e si è costantemente applicato a far intervenire nell’elaborazione della stessa la sua riflessione personale, cade nelle mani d’un recensente, il quale è per sua parte abbastanza sagace per scoprire i punti decisivi sui quali riposa il valore od il non valore dello scritto, il quale non sta attaccato alle parole e scevera ed esamina semplicemente i principi dai quali l’autore è partito, potrà spiacere a quest’ultimo la severità del giudizio, ma ciò lascierà indifferente il pubblico [373], il quale anzi vi guadagna; e lo stesso autore potrà essere contento che gli sia porta l’occasione di correggere o di chiarire i suoi scritti presi così per tempo in esame da un conoscitore, e in tal modo, quando egli creda di avere in fondo ragione, di togliere a tempo ciò che ha dato motivo alla critica e che potrebbe in seguito riuscire di nocumento all’opera sua.

Io mi trovo col mio recensente in una posizione ben diversa. Egli sembra non vedere affatto a che cosa propriamente miri la ricerca, della quale io mi sono (felicemente od infelicemente) occupato: e, ne sia colpa l’impazienza di penetrare col pensiero un’opera voluminosa, o dispettoso umore contro la minacciata riforma di una scienza, nella quale egli credeva di aver già da lungo tempo messo tutto in chiaro, o, ciò che io non voglio supporre, un pensiero realmente limitato, che non riesce mai a levarsi al disopra della sua metafisica delle scuole: in breve, egli scorre tumultuariamente una lunga serie di proposizioni che, ove non se ne conoscano le premesse, non possono ricevere alcun senso, sparge qua e là il suo biasimo del quale il lettore non vede la ragione come non comprende il senso delle proposizioni, contro le quali esso e diretto, per modo che esso nè può servire al pubblico per informazione, nè può menomamente nuocere a me nel giudizio degli esperti; onde io avrei del tutto passato in silenzio questo giudizio, se esso non mi porgesse occasione ad alcuni schiarimenti atti a preservare in alcuni casi il lettore di questi Prolegomeni da un’errata interpretazione.

Ma per adottare pur un punto di vista dal quale egli possa presentare l’opera intiera sotto la luce più sfavorevole per l’autore, senz’aver bisogno di entrare in alcuna disamina particolare, il recensente comincia e finisce col dire: “quest’opera è un sistema di idealismo trascendentale (o, com’egli traduce, superiore*1„).

[374] A leggere queste linee vidi subito che sorta di recensione ne sarebbe uscita; a un dipresso come se alcuno che non avesse mai udito nè veduto niente di geometria, trovasse un Euclide e, richiesto di pronunciarvi sopra il suo giudizio, essendosi imbattuto nello sfogliare il libro in molte figure, venisse a dire: “Il libro e un avviamento sistematico al disegno: l’autore vi si serve di un linguaggio speciale per dare dei precetti oscuri, inintelligibili, che alla fine non riescono a più di quello che ciascuno può compiere per virtù d’una felice disposizione naturale, ecc.„.

Vediamo tuttavia che idealismo è quello che informa tutta l’opera mia, sebbene sia lungi dal costituire l'anima del sistema.

Il principio di ogni pretto idealista dalla scuola eleatica fino al vescovo Berkeley è contenuto in questa formula: “Ogni conoscenza che ci viene per i sensi e l’esperienza non è che apparenza: solo nelle idee dell’intelletto e della ragion pura vi è verità„.

Il principio fondamentale che regge e caratterizza costantemente il mio idealismo è invece: “Ogni conoscenza delle cose che ci venga solo dall1 intelletto puro o dalla ragion pura non è che semplice apparenza e solo nell’esperienza vi è verità„.

Or questo è appunto il contrario dell’idealismo vero e proprio; come sono dunque io venuto ad usare questa parola in un senso del tutto opposto e come il recensente è venuto a vedere l’idealismo dappertutto?

La risoluzione di questa difficoltà riposa su d’un punto che avrebbe potuto benissimo venir messo in luce dal contesto dell’opera quando lo si fosse voluto. Lo spazio ed il tempo, insieme a tutto ciò che essi contengono in sè, non sono cose in sè o proprietà di cose in sè, ma appartengono soltanto alle loro manifestazioni fenomeniche: fin qui io sono d’un parere solo con i predetti idealisti. Ma questi, e tra essi specialmente Berkeley, tennero lo spazio per una semplice rappresentazione empirica, che, al pari dei fenomeni in esso contenuti, ci sarebbe nota con tutte le sue determinazioni solo per mezzo dell’esperienza, ossia della percezione; [375] io invece dimostro anzitutto che lo spazio (e così pure il tempo, al quale Berkeley non fece attenzione) insieme a tutte le sue determinazioni può venir da noi conosciuto a priori perchè esso, come pure il tempo, è in noi presente anteriormente ad ogni percezione od esperienza come forma pura della nostra sensibilità e rende possibile ogni intuizione sensibile e così tutto il mondo fenomenico. Di qui segue che, siccome la verità riposa, come su propri criteri, su leggi universali e necessarie, l’esperienza non può avere presso Berkeley alcun criterio della verità, non essendosi (da lui) posto come fondamento ai fenomeni dell’esperienza alcunché a priori, onde venne per conseguenza che essa non sia se non pura apparenza; laddove per noi lo spazio e il tempo (in unione eoi concetti intellettivi puri) prescrivono a priori la loro legge ad ogni esperienza possibile, ciò che dà nel tempo stesso il criterio sicuro per distinguere in essa la verità dall’apparenza*2.

Il mio cosidetto idealismo (propriamente idealismo critico) è quindi d’una natura affatto speciale, tale cioè che abbatte l’idealismo ordinario e, solo, riesce a dare ad ogni conoscenza a priori, anche a quella della geometria, quell’obbiettiva realtà che, senza questa mia dimostrata idealità dello spazio e del tempo, non potrebbe assolutamente venir affermata anche dai più zelanti realisti. Così stando le cose, sarebbe mio desiderio, onde evitare ogni confusione, denominare altrimenti questa mia concezione; ma un’innovazione radicale non è certo qui possibile. Mi sia quindi lecito di denominarla, come già sopra si è detto, idealismo critico o meglio formale, per distinguerlo dall’idealismo dogmatico di Berkeley e dall’idealismo scettico di Cartesio.

Altro di notevole non trovo nel giudizio dato sul mio libro. Il recensente giudica da un capo all’altro en gros [376], una maniera prudentemente scelta, perchè con essa non si tradisce il proprio sapere o non sapere: un singolo giudizio esteso en détail avrebbe, quando avesse colpito, come di dovere, la questione fondamentale, messo in luce forse il mio errore, forse anche il grado di penetrazione del recensente in questa sorta di ricerche. Nè è stato il suo un artificio male trovato, al fine di togliere per tempo a lettori abituati a farsi un concetto dei libri solo dalle recensioni delle riviste anche la voglia di leggere il libro stesso, quello di recitare l’una dopo l’altra d’un fiato una fila di proposizioni che, strappate dal contesto in cui si trovano con le loro dimostrazioni e spiegazioni (e sopratutto data l’assoluta opposizione in cui si trovano con la metafisica delle scuole), debbono necessariamente apparire assurde; di mettere alla più dura prova la pazienza del lettore fino alla nausea e infine, dopo di avermi inflitto il profondo insegnamento che apparenza costante è verità, di concludere con il crudo, ma paterno ammaestramento: a che la battaglia contro il linguaggio comunemente accolto, a che e donde la distinzione idealistica? Giudizio, il quale riduce alla fine tutta la particolarità del mio libro, che doveva prima essere una specie di eresia metafisica, ad una semplice innovazione verbale e chiaramente dimostra che il mio preteso giudice non ha inteso nulla del mio libro e di più non ha nemmeno inteso bene sè stesso*3.

Il recensente parla tuttavia come un uomo che ha in sè coscienza di possedere una saggezza superiore e sovraeminente, ma che la tiene ancora nascosta: perchè nel campo della metafisica non è venuto recentemente a mia conoscenza nulla che potesse autorizzare ad un simile tono. Ma egli, se è così, fa molto male a tener nascoste al mondo le sue scoperte: perchè senza dubbio è accaduto a molti altri ancora, come a me, di trovare che, con tutte le belle cose che da lungo tempo si sono scritte in questo campo [377], non si è fatto con ciò progredire di un dito la scienza. Certo, limare definizioni, provvedere nuove stampelle a prove zoppicanti, aggiungere nuovi stracci o dare un nuovo taglio al centone della metafisica, sono cose che si trovano ancora, ma non è ciò che il mondo richiede. Il mondo è sazio di affermazioni metafisiche: ciò che si vuole è un esame a fondo della possibilità di questa scienza, delle sorgenti onde può derivarsi in essa la certezza, è di possedere criteri sicuri per distinguere l’apparenza dialettica della ragion pura dalla verità. A questo deve il recensente possedere la chiave: chè del resto non avrebbe certo mai osato parlare così dall’alto.

Ma a me viene il sospetto che un tale bisogno della scienza non gli sia forse nemmeno passato per la mente: che altrimenti avrebbe drizzato a questo punto il suo giudizio ed anche un tentativo mancato in una questione così importante avrebbe presso di lui trovato grazia. Se così è, noi siamo di nuovo buoni amici. Si sprofondi egli nella sua metafisica quanto vuole, nessuno gli farà ostacolo: ma su ciò che è fuori della metafisica, sulla sorgente della metafisica stessa, che si trova nella ragione, egli non può giudicare. E che il mio sospetto non sia infondato, lo provo con ciò che egli non ha consacrato una parola alla possibilità della conoscenza a priori, nella quale sta il vero e proprio problema, dalla cui soluzione dipende interamente il destino della metafisica ed alla quale tutta la mia Critica (come pure questi miei Prolegomeni) è rivolta. L’idealismo, nel quale egli ha urtato e si è fermato, era stato accolto nel mio sistema solo come l’unico mezzo di risolvere quel problema (sebbene certo esso abbia trovato anche in altre ragioni la sua conferma); quindi egli avrebbe dovuto mostrare o che quel problema non ha l’importanza che io (anche ora qui, nei Prolegomeni) gli ammetto o che esso non è risolto dal mio concetto dei fenomeni, oppure può essere meglio risolto per altra via; ma di questo nella sua recensione non trovo parola. Il recensente non ha dunque inteso nulla dell’opera mia e forse anche nulla dell’essenza e dello spirito della metafisica stessa: se pure, ciò che preferisco credere, non sono stati la fretta e il dispetto di doversi aprir la via con difficoltà attraverso tanti ostacoli, a gettare un’ombra sfavorevole sull’opera che gli stava dinanzi ed a togliergli la visione delle sue linee essenziali.

[368] Molto ci vuole ancora prima che una rivista erudita, siano pure i suoi collaboratori scelti con molta cura, possa mantenere il suo prestigio ben meritato altrove, nel campo della metafisica come negli altri campi. Le altre scienze e conoscenze hanno ciascuna il proprio criterio. La matematica ha il suo in sè stessa, la storia e la teologia nei libri profani e nei sacri, la scienza naturale e la medicina nella matematica e nell’esperienza, la giurisprudenza nei codici e perfino le questioni di gusto nei modelli antichi. Ma per giudicare di quel che dicesi metafisica, occorre prima trovare il criterio (io ho fatto appunto un tentativo per determinare questo criterio e l’uso suo). Che cosa si deve fare dunque, finché questo non sia trovato, quando si deve giudicare di scritti di questa natura? Se sono del genere dogmatico, si faccia come si vuole: nessuno potrà farla qui a lungo da maestro sopra gli altri, senza che venga qualcuno che gli renda il cambio. Ma se sono del genere critico, e non di critica degli scritti altrui, ma di critica della ragione, sì che il criterio del giudizio non può venir assunto come dato, ma deve ancora essere cercato, benvenuti saranno le obbiezioni e il biasimo, quando però siano accompagnati da una certa tolleranza; perchè comune è il bisogno e l’assenza di un punto di vista obbligatorio non permette ad alcuno di arrogarsi l’attitudine di giudice.

Ma per richiamare su questa mia difesa anche l’interesse della turba dei filosofanti io propongo un esperimento che è decisivo in riguardo al modo secondo il quale tutte le ricerche metafisiche devono essere dirette al loro fine comune. Questa prova è niente altro da ciò che già hanno fatto altre volte i matematici per decidere per mezzo d’una gara circa la preminenza dei rispettivi metodi e cioè una sfida al mio recensente a dimostrare a sua maniera, però, come è giusto, per mezzo di argomenti a priori, anche solo una qualunque delle proposizioni veramente metafisiche da lui affermate, cioè proposizioni sintetiche, conosciute a priori da concetti, e, se vuole, anche una delle più indispensabili, come p. es. il principio della persistenza della sostanza o quello della determinazione necessaria degli eventi naturali da parte delle loro cause. Se non è in grado di farlo (il silenzio è confessione), allora deve concedere che, poiché la metafisica senza la certezza apodittica dei principi di questa specie è men che nulla, è necessario anzitutto venir in chiaro per mezzo di una critica della ragion pura [379] circa la possibilità o l’impossibilità della metafisica; quindi è obbligato od a riconoscere che i miei principi fondamentali della Critica sono giusti od a dimostrarne la falsità. Ma poiché io prevedo fin d’ora che, per quanto egli abbia riposato finora con la più perfetta tranquillità sulla certezza dei suoi principi, tuttavia quando si tratti di venire ad una prova rigorosa, non ne troverà pur uno in tutta l’estensione della metafisica, col quale possa audacemente farsi avanti, io voglio ancora concedergli la condizione più favorevole che in una tal gara si possa aspettare e cioè togliere a lui ed addossare a me l’onere della prova.

Egli troverà in questi Prolegomeni e nella mia Critica (p. 446 a 461) otto proposizioni che, a due a due, si contraddicono l’una l’altra e che pure appartengono tutte necessariamente alla metafisica, la quale deve, in riguardo a ciascuna, o accoglierla o confutarla (sebbene non ve ne sia fra esse nessuna, che a suo tempo non sia stata sostenuta da qualche filosofo). Ora egli è libero di scegliersi a piacer suo una di queste otto proposizioni e di farla sua senza darne la dimostrazione, della quale gli fo grazia; ma di sceglierne una sola (che il perder tempo non conviene nè a lui nè a me) e poi di attaccare la mia dimostrazione della tesi opposta. Se io posso ciononostante salvare questa e per tal via mostrare che, secondo i principi necessariamente ricevuti da ogni metafisica dogmatica, si può dimostrare altrettanto chiaramente appunto il contrario della tesi da lui adottata, è con questo messo in chiaro che nella metafisica si cela un peccato d’origine, il quale non può essere esplicato e tanto meno tolto, se non si risalga fino all’origine di quella e cioè alla ragion pura; onde segue che o si deve accogliere la mia Critica o si deve metterne al posto suo un'altra migliore; in ogni caso che la mia Critica deve almeno essere studiata, il che è tutto quello che al presente io chiedo. Se io non posso invece salvare la mia dimostrazione, ciò vuol dire che da parte del mio avversario sta ferma una proposizione sintetica a priori derivata da principi dogmatici e quindi che la mia accusa alla metafisica volgare era ingiusta; in tal caso mi impegno (sebbene questo non dovrebbe affatto esserne la conseguenza) a riconoscere giusto il suo biasimo della mia Critica. Ma per questo sarebbe necessario, mi sembra, che egli uscisse dal suo incognito; perchè altrimenti non vedo come si potesse impedire che io invece d’una disfida me ne trovassi sulle braccia parecchie, da parte di avversari [380] altrettanto anonimi quanto incompetenti.

Proposta di un esame della Critica, al quale può seguire il giudizio.

Io sono obbligato al pubblico dei dotti anche per il silenzio col quale ha onorato durante un certo tempo la mia Critica: perchè questo prova almeno un procrastinamento del giudizio e così un certo sospettare che in un’opera, la quale abbandona tutte le vie consuete e ne apre una nuova, nella quale non è facile ritrovarsi subito, vi possa tuttavia essere qualche cosa che potrà ridonare vita e fecondità ad un importante ramo della conoscenza umana, ora del tutto inaridito; e quindi una certa cautela per non rompere e distruggere, con un giudizio precipitato, il tenero innesto. Un esempio di un giudizio ritardato da ragioni di questo genere mi viene ora appunto sotto gli occhi nella Gothaische gelehrte Zeitung: ogni lettore potrà (senza mettere in mezzo la mia lode che qui può essere sospetta) constatarne da sè la solidità dalla chiara e fedele esposizione di un tratto appartenente ai primi principi dell’opera mia.

Ed ora io propongo, perchè un vasto edificio non può essere subito giudicato nel suo tutto per via d’un rapido apprezzamento complessivo, di esaminarlo dalle fondamenta pezzo per pezzo e di servirsi in questo dei presenti Prolegomeni come d’un disegno generale, col quale si potrà, quando occorra, mettere a confronto l’opera stessa. Questa esigenza quando non avesse a fondamento altro che la mia presunzione dell’importanza dell’opera mia — importanza che la vanità ordinariamente annette a tutti i propri prodotti — sarebbe immodesta e meriterebbe d’essere sdegnosamente respinta. Ma tali sono ora le condizioni della filosofia speculativa, che essa si trova in procinto di spegnersi, sebbene la ragione umana si attacchi ad essa con un’aspirazione non mai spenta, la quale anche oggi, dopo tante e continue delusioni, inutilmente si sforza di convertirsi in indifferenza.

Ora nel nostro secolo illuminato183 non può supporsi che non vi siano molti uomini di merito disposti a profittare di ogni buona occasione per collaborare al comune interesse della ragione e del suo rischiaramento progressivo184, quando solo vi sia qualche speranza di giungere per tal mezzo [381] allo scopo. La matematica, la scienza naturale, le leggi, le arti, la stessa morale, non riempiono ancora interamente l’anima: vi è sempre ancora in essa uno spazio che è riservato esclusivamente alla ragione pura speculativa ed il cui vuoto ci costringe a cercare in sciocchezze o in passatempi od anche nella fantasticheria apparentemente occupazione e trattenimento, in realtà una distrazione per soffocare la voce molesta della ragione, la quale, conformemente alla destinazione sua, esige qualche cosa che la occupi per sè stessa e non la metta in attività solo in vista di altre volontà o nell’interesse delle inclinazioni. Quindi una meditazione, che si restringa ad occuparsi della ragione quale è per se stessa, costituisce per ciascuno, che solo abbia provato ad estendere in questo senso i suoi concetti, come io non senza ragione suppongo, una grande attrazione, appunto perchè in essa tutte le altre conoscenze, anzi tutti gli altri fini debbono confluire ed unificarsi in un tutto; un’attrazione molto più grande di quella di ogni altra ricerca teoretica, che ha sempre di fronte a quella un valore considerevolmente inferiore.

Io propongo questi Prolegomeni come piano e guida della ricerca e non la Critica stessa, perchè io sono ancora adesso pienamente soddisfatto di questa per quanto riguarda il contenuto, l’ordine, il metodo e l’accuratezza con la quale è stata pesata ed esaminata ogni proposizione prima di avanzarla (che ci sono voluti degli anni per soddisfarmi pienamente non dell’insieme, ma talora anche soltanto di un’unica proposizione in riguardo alla sua derivazione), ma non sono totalmente contento della mia esposizione in alcune sezioni della “Teoria degli elementi„, p. es. in quella della deduzione dei concetti intellettivi o in quella dei Paralogismi della ragion pura, dove una certa prolissità nuoce alla chiarezza; in luogo di esse si potrà prendere a fondamento dell’esame quello che e detto qui nei Prolegomeni a proposito di detti punti.

Si celebrano i tedeschi perchè dove si richiedono costanza e diligenza paziente, essi riescono meglio di ogni altro popolo. Se quest’opinione e fondata, si presenta ora l’occasione di confermare questa loro buona fama col condurre a compimento un’impresa del cui felice esito non vi è ragione di dubitare, che interessa egualmente tutti gli uomini pensanti e che tuttavia finora non è riuscita; tanto più che la scienza alla quale si riferisce è di così speciale natura che può essere portata d’un tratto alla [382] sua piena perfezione ed in quello stato permanente che non ammette più alcun ulteriore progresso, nè ulteriori scoperte o mutamenti (io non tengo qui conto del miglioramento esteriore che può ricevere dall’essere qua e là resa più chiara od arricchita di applicazioni utili sotto qualunque riguardo): un vantaggio che non ha nè può avere alcun’altra scienza, perchè nessuna si riconnette ad una facoltà conoscitiva così perfettamente isolata, indipendente dalle altre e non mescolata con esse. Ed anche il presente momento non sembra essere sfavorevole a questa mia proposta, poiché ora in Germania quasi non si sa con che cosa altro occuparsi all’infuori delle così dette scienze utili; così che non si avrà per essa non soltanto un passatempo, ma un’occupazione seria destinata a produrre un risultato duraturo.

Come e con quali mezzi si possano unificare gli sforzi dei dotti in vista d’un tal fine, altri lo vegga. Non è intanto nel pensiero mio di pretendere da alcuno una semplice adesione passiva ai miei giudizi od anche solo di lusingarmi con la speranza della stessa; ma vengano pure, com’è giusto, attacchi, rifacimenti, limitazioni od anche conferme, completamenti ed ampliamenti: sol che la questione venga esaminata a fondo, non può ora più mettersi in dubbio che non ne sorga un edifizio, il quale — sia pure esso altro dal mio — potrà passare al mondo dei posteri come un’eredità della quale essi avranno ragione di essere grati.

Mostrare qui qual sorta di metafisica, quando solo si sia ottemperato ai principi fondamentali della critica, debba attendersi in conformità ad essi e come essa non debba punto apparire misera e ridotta a cosa da poco solo perchè le si sono strappate le false penne, ma possa ancora sotto altro rispetto riuscire riccamente ed onorevolmente ornata, ci condurrebbe troppo in lungo: ma vi sono altri vantaggi, portati da questa riforma, che cadono subito sotto gli occhi. La metafisica comune portava pure con se un certo vantaggio, in quanto ricercava i concetti elementari della ragion pura, li rendeva chiari con l’analisi, distinti con le sue esplicazioni. Per questa via costituiva essa un’educazione della ragione, qualunque fosse l’indirizzo che questa credeva poi bene di seguire. Ma a questo si riduceva anche tutto il bene che faceva. Poiché questo suo merito veniva in seguito di nuovo annullato da ciò che con le sue temerarie affermazioni favoriva la vanità, con i suoi sottili [383] diversivi e palliativi lo spirito sofistico, e con la facilità con la quale si tirava con un poco di erudizione pedantesca dai più gravi problemi, la superficialità; la quale è tanto più pericolosa quanto più è in posizione di partecipare, da una parte al linguaggio della scienza, dall’altra alla forma popolare, sì che sembra essere per questa via tutto per tutti, mentre in realtà e nulla di nulla. La critica invece dà al nostro giudizio il criterio per distinguere con sicurezza il sapere dal falso sapere e fonda, dopo che è stata pienamente applicata nella metafisica, una disposizione del pensiero, che poscia estende il suo benefico influsso sopra ogni altro campo della ragione ed infonde in primo luogo il vero spirito filosofico. Ma anche il servigio che essa rende alla teologia col renderla indipendente dal giudizio della speculazione dommatica ed assicurarla pienamente contro tutti gli attacchi da questa parte, non è certo da tenersi in poco conto. Poiché la metafisica comune, se anche le prometteva un grande appoggio, non poteva dopo adempiere questa sua promessa e di più con il suscitare in aiuto suo la dogmatica speculativa, non era riuscita ad altro che ad armare contro di sé dei nemici. Le aberrazioni mistiche, le quali non possono sorgere in un secolo illuminato se non quando possono nascondersi dietro la metafisica tradizionale, sotto la cui protezione possono ardire, per così esprimermi, di vaneggiare con la ragione, vengono per opera della filosofia critica cacciate anche da quest’ultimo loro rifugio; ed oltre a tutto questo infine, per uno che insegni la metafisica, non può non essere della più grande importanza il poter dire una buona volta fra l’universale consenso che ciò che esso insegna è finalmente anche scienza e quindi causa di reale vantaggio a tutti gli uomini.


Note di Kant

*1181. Superiore niente affatto! Le alte torri e i grandi metafisici simili ad esse, intorno ai quali (sia le une che gli altri) generalmente spira molto vento, non sono fatti per me. Il mio posto e la feconda bassura (bathos) dell’esperienza e la parola “trascendentale„ il cui senso da me tante volte esplicato non è stato nemmeno compreso dal recensente (tanto fuggevolmente egli ha considerato ogni cosa) non significa ciò che è al di là di ogni esperienza, sibbene ciò che l’antecede (è a priori), pur non essendo destinato ad altro che a rendere possibile il semplice conoscere dell’esperienza. Quando questi concetti vanno al di là dell’esperienza, il loro uso dicesi trascendente: esso si distingue dall’uso immanente, cioè limitato all’esperienza. Nell’opera mia ho prevenuto abbastanza tutti i malintesi di questo genere: ma il recensente aveva tutto a guadagnare dai malintesi.

*2182. Il vero e proprio idealismo ha sempre una tendenza mistica e non può fare diversamente: il mio invece si propone solo di comprendere la possibilità della nostra conoscenza a priori circa gli oggetti dell’esperienza, problema che finora non è stato ancora, non che risolto, nemmeno posto. Con questo cade ogni idealismo mistico, il quale (come gà può vedersi da Platone) dalle nostre conoscenze a priori (anche quelle della geometria) argomentava alla possibilità d’un’altra intuizione che non quella dei sensi (l’intuizione intellettiva), perchè non gli veniva nemmeno in mente che i sensi potessero intuire anche a priori.

*3. Il recensente si batte il più delle volte con la sua stessa ombra. Quando io oppongo la verità dell’esperienza al sogno, egli non pensa affatto che qui è questione solo del noto somnium obiettive sumptum della filosofia volfiana; che è puramente formale, che non riflette punto, come non deve in una filosofia trascendentale, la distinzione del sonno e della veglia. Del resto egli appella la mia deduzione delle categorie e la tavola dei principii intellettivi “ben noti principii della logica e dell’ontologia espressi secondo la maniera idealistica„. Il lettore non ha che da consultare su questi punti i Prolegomeni, per convincersi che non si poteva pronunziare un giudizio più miserabile ed anche più storicamente ingiusto.


Note di Piero Martinetti

180) [p. 155,1]. L'appendice riflette l’accoglienza fatta alla Critica della ragion pura e in special modo la recensione Garve-Feder apparsa nel Bollettino di Gottinga. Un’opera può essere giudicata o in base a criteri preconcetti, come sarebbe se si giudicasse la Critica partendo dal presupposto della verità d’una data metafisica: o per se stessa, senza prevenzioni preesistenti. Un giudizio della prima maniera è quello dato dal recensente di Gottinga, che Kant giudica alla sua volta severissimamente. La discussione è interessante perchè Kant ne trae occasione a chiarire più d’un punto, p. es. il termine “trascendentale„ e sopratutto la sua posizione di fronte all’idealismo tradizionale. Kant lascia nell’ombra il punto essenziale, nel quale egli concorda con Berkeley, la caratterizzazione della realtà come semplice fenomeno; e mette invece in evidenza il punto nel quale si distingue, il riconoscimento d’un elemento formale organizzatore che conferisce al fenomeno subbiottivo l’obbiettività dell’esperienza. Si cfr. la nota 73. La risposta si chiude con una sfida al recensente di dimostrare rigorosamente ed inconfutabilmente una qualunque delle proposizioni sintetiche della metafisica: o di confutare (ciò che riesce allo stesso risultato) una qualsiasi delle dimostrazioni opposte delle antinomie cosmologiche. — Nell’ultima parte fa appello ai contemporanei perchè vogliano sottoporre ad imparziale esame la sua critica o quanto meno cooperare al sorgere d’una filosofia critica, mettendone in luce i più notevoli benefìzi.

181) [p. 157, nota]. In principio della Metodologia, parlando dell’edifizio delle conoscenze della ragion pura: “Certo si è veduto che, sebbene il nostro disegno mirasse a costruire una torre alta fino al cielo, il materiale era appena sufficiente per una casa, spaziosa tuttavia abbastanza per le occupazioni nostre sul piano dell’esperienza ed alta a sufficienza per abbracciare questa d’uno sguardo etc.„ (Kr. r. Vern., 465).

182) [p. 160, nota]. Il “somnium obiective sumptum„ è il disordine opposto alla verità metafisica assoluta, che è ordine perfetto, ed è un non ente (Baumgarten, Metaph., § 71).

183) [p. 164,25]. “L’età nostra è l’età della critica, alla quale tutto deve sottomettersi„ (Kr. r. Vern., 9, nota). V. il breve scritto di Kant: Was ist Aufklärung? (1784).

184) [p. 164,27]. Un simile invito in Kr. r. Vern., A 13 e 552 (nelle ultime parole della Critica). Questo concetto d’un’elaborazione collettiva della metafisica risale a Lambert ed a Leibniz; si veda Vaihinger, Comm., I, 144.



Ultima modifica 2021.07