Capitolo 1

 

Non faccio parte di alcun partito politico o di qualsivoglia gruppo. Questo libro non ha scopi politici o di parte. Il mio unico intento è quello di svelare la storia dei crimini di Stalin, ricostruendo i nessi mancanti senza i quali, i tragici avvenimenti dell'Unione Sovietica paiono un puzzle irrisolvibile.

Fino al 12 Luglio del 1938 sono stato iscritto al partito e il governo Sovietico aveva tanta fiducia nella mia persona da affidarmi diversi incarichi di elevata responsabilità.

Alla fine della guerra civile il Comitato Centrale mi ha nominato procuratore generale, dove, tra le altre cose, ho partecipato alla stesura del primo codice penale sovietico.

Nel 1924 sono stato nominato vice presidente della OGPU(in seguito NKVD). Mi è stata affidata la guida della vigilanza statale della ricostruzione dell'industria sovietica e la lotta contro la corruzione.

Nel 1926 sono stato nominato capo del dipartimento economico della sezione esteri della OGPU, con delega al commercio estero.

Nel 1936, all'inizio della guerra civile spagnola, Il Politburo mi ha inviato in Spagna in qualità di consigliere del governo repubblicano per organizzare il controspionaggio e la guerriglia dietro le linee del fronte nemico.

In quelle condizioni, al servizio del OGPU-NKVD,sono stato in grado di raccogliere e portare fuori dall'Unione Sovietica, informazioni sui crimini commessi da Stalin per mantenersi al potere. Ho potuto conoscere e annotare le istruzioni orali date da Stalin ai capi della NKVD negli incontri al Cremlino, per spezzare la resistenza dei compagni di Lenin a fornire false confessioni. I colloqui tra Stalin e alcune sue vittime, e le parole di qualcuno dei destinati a morire nei sotterranei della Lubianka. Queste rivelazioni le ho ricevute da alcuni investigatori che erano stati precedentemente sotto il mio comando. Fra di loro c'era Mironov (in seguito capo del dipartimento economico della NKVD) uno dei principali strumenti nelle mani di Stalin per la preparazione dei famigerati Processi di Mosca, e Boris Berman, vice capo del dipartimento degli esteri della NKVD. Per potare a termine i suoi crimini, Stalin non poteva fare a meno della NKVD.

 

Man mano che le sue atrocità crescevano, aumentava il numero dei suoi complici, così, preoccupato per la sua reputazione al cospetto del mondo,nel 1937, decise di eliminarli tutti, affinché in futuro, nessuno degli esecutori, potesse diventare testimone a suo carico. Nella primavera del 1937, senza processo, sono stati fucilati quasi tutti i capi della NKVD e tutti gli investigatori, i quali, su suo ordine diretto, avevano estorto le false confessioni ai padri fondatori del partito bolscevico e capi della Rivoluzione D'Ottobre. Lo stesso destino è toccato a tutti quelli che, nella NKVD, in qualche misura, sono venuti a conoscenza dei crimini di Stalin.


In Spagna ho saputo dell'arresto di Jagoda, Commissario del Popolo per gli Affari Interni e dell'eliminazione di molti miei colleghi ed amici. Era chiaro che presto sarebbe toccato a me. Ma non potevo ancora rompere apertamente con il regime stalinista. Mia madre era a Mosca, cosi come la madre di mia moglie: per le leggi barbare di Stalin sarebbero state usate come ostaggi passibili di condanna a morte se mi fossi rifiutato di tornare in URSS.

 

Sono stato in prima linea sotto il pesante bombardamento del nemico sul fronte di Spagna, e spesso mi sono sorpreso a pensare che, se fossi morto in servizio, la minaccia per la mia famiglia e per i nostri cari, sarebbe immediatamente cessata. Avrei preferito un simile destino, che rompere apertamente con Mosca.

Era una manifestazione di vigliaccheria. Lavorando con gli spagnoli, coinvolto dal loro coraggio, sognavo che, magari Stalin sarebbe caduto per mano di uno dei suoi stessi seguaci, e che le terrificante repressione di Mosca, sarebbe cessata in qualche modo.


Nell'Agosto del 37 ho ricevuto un telegramma da Slusky, capo della sezione esteri della NKVD. Si era scoperto che i servizi segreti di Franco e della Germania di Hitler avevano predisposto un piano per il mio rapimento in terra di Spagna, allo scopo di estorcermi informazioni sull'entità degli aiuti forniti dall'Unione Sovietica alla Spagna.


Slusky mi ha anche annunciato che sarebbe stata presto inviata una guardia del corpo composta da 12 uomini, i quali sarebbero stati responsabili della mia sicurezza e mi avrebbero accompagnato in tutti i miei spostamenti. Ho subito capito che questa “guardia del corpo” avrebbe ricevuto l'ordine di liquidarmi. Ho telegrafato a Slusky dicendogli che non avevo bisogno di alcuna protezione, in quanto nei miei spostamenti ero seguito dalla scorta della Guardia Civil oltre che da agenti armati della polizia segreta spagnola. Cosa peraltro vera.


La scorta sovietica non fu mai inviata, ma la cosa mi mise in allarme. Ho cominciato a sospettare che Ezhov, nuovo commissario del popolo per gli affari interni,avesse già ordinato ad una pattuglia clandestina [gruppi mobili specializzati nelle operazioni sanguinose all'estero.ndt] di eliminarmi in Spagna. Prevedendo che potesse verificarsi un fatto simile, ho mandato un mio collaboratore nella zona del fronte, affinché scegliesse una decina di esperti combattenti comunisti tedeschi. Questi, armati di fucili da guerra e bombe a mano attaccate alla cintura, mi hanno protetto tutto il tempo e seguito in tutti i miei spostamenti.


Nel'Ottobre del 1937 è arrivato in Spagna Spigelglas, vice di Slusky.il quale tre mesi prima,in Svizzera, aveva organizzato e diretto l'assassinio di Ignazio Reis, agente all'estero della NKVD che si era rifiutato di tornare a Mosca. Spigelglas,la cui moglie e figlia erano rimaste in Unione Sovietica,praticamente in ostaggio,probabilmente stava pensando di uscire dal gioco .Ma questo non lo rendeva meno pericoloso. Non era venuto in Spagna per qualche caso specifico, e questo non faceva che aumentare i miei sospetti, soprattutto quando ho saputo che, a Madrid, si era incontrato con tale Volodin, il quale si sapeva essere stato mandato da Ezhov in qualità di capo dei terroristici “gruppi mobili”.


Spigelglas e Volodin hanno dovuto tenere conto della mia difesa personale, e considerare che in caso di conflitto a fuoco ci sarebbero state gravi perdite da ambo le parti. Mi è venuto allora in mente che fossero stati mandati da Mosca con l'ordine di rapire la mia figlia quattordicenne, con lo scopo di ricattarmi per farmi tornare in Unione Sovietica. Il mio sospetto era così forte che mi sono precipitato nella casa di campagna dove vivevano mia moglie e mia figlia, le ho caricate il macchina e ho guidato fino in Francia. Lì, vicino al confine ho affittato per loro una piccola villa. Con loro ho lasciato una fidata guardia del corpo della polizia segreta spagnola che faceva anche da autista e sono tornato al mio lavoro a Barcellona.


Intanto attendevo, procrastinando la mia rottura con Mosca,sapendo così di prolungare la vita di mia madre e

di mia suocera.

Io ancora conservavo l'ingenua speranza che ci sarebbero potuti verificare dei cambiamenti a Mosca per porre fine all'incubo del terrore infinito.

Alla fine Mosca stessa ha deciso per me. Il 9 Luglio del 1938 ho ricevuto un telegramma da Yezhov, allora il secondo uomo più potente del paese dopo Stalin. Mi si ordinava di andare in Belgio, ad Anversa, e il 14 Luglio salire a bordo della nave sovietica “Svir”, dove avrei incontrato un: “compagno conosciuto da voi personalmente”. Mi si ordinava anche di partire immediatamente in macchina per l'ambasciata di Parigi, accompagnato da Biryukov, console generale in Francia, il quale “mi sarebbe stato utile come intermediario nella importante missione che dovevo compiere”.

Il telegramma era lungo e sospetto. Ezhov e coloro che lo circondavano erano meno esperti degli ex capi della NKVD, ora abolita. La questione era impostata in maniera talmente goffa da far crescere i miei sospetti e manifestare l'intenzione che volevano nascondere. Era chiaro cha la “Svir” sarebbe diventata la mia prigione galleggiante.Ho telegrafato la risposta, “ Arriveremo ad Anversa nel giorno stabilito”. Il 12 Luglio i miei collaboratori si sono riuniti per salutarmi. Ho capito che erano consapevoli che mi stavo cacciando in una trappola. Due ore dopo ero al confine francese. Ho detto addio all'agente segreto spagnolo che mi accompagnava ovunque. Il mio autista mi ha accompagnato a un Hotel di Perpignano, dove mia moglie e mia figlia mi stavano aspettando. Abbiamo preso l'espresso notturno, e la mattina del 13 Luglio eravamo a Parigi. Mi sentivo come dentro una nave che affonda improvvisamente, senza nessun piano e nessuna speranza di fuga.

Sapevo che la NKVD aveva in Francia una fitta rete di agenti, e che in 48 gli uomini di Ezhov sarebbero stati sulle mie tracce. Ciò significava che dovevo lasciare la Francia al più presto possibile.

L'unico posto sicuro mi sembrava l'America, così ho telefonato all'ambasciata americana e ho chiesto di parlare con l'ambasciatore William Bullit. Era il giorno della vigilia della festa nazionale francese, la ricorrenza della presa della Bastiglia. L'ambasciatore- mi è stato risposto- era fuori città. Su consiglio di mia moglie siamo andati al consolato canadese, dove abbiamo presentato i nostri passaporti diplomatici e chiesto un visto per il Canadà, con la scusa che volevo portare la mia famiglia in Quebec per passarvi le vacanze.

L'Unione Sovietica non aveva relazioni diplomatiche con il Canada, cosicché avevamo paura che la richiesta di visto ci venisse rifiutata. Ma il capo del consolato, che si rivelò essere stato l'ex capo per l'immigrazione in Canada, ci ha trattato umanamente, e ci ha dato una sua lettera da consegnare al responsabile per l'immigrazione in Quebec, dove si richiedeva che venissimo aiutati.

Nello stesso edificio era un parroco che, per qualche ragione, doveva fare lo stesso viaggio transatlantico. Ci disse che proprio in quel giorno, da Cherbourg, partiva il traghetto canadese “Monkler”, e che c'erano rimaste cabine libere. Mentre mia moglie correva in albergo a prendere mia figlia, mi sono precipitato a comprare i biglietti in agenzia. Siamo riusciti ad arrivare alla stazione all'ultimo momento prima della partenza. Ma nel giro di poche ore eravamo, felici, a bordo della nave. E dopo circa ancora un'altra ora, stavamo lasciando l l'Europa.

Mia figlia si godeva il viaggio a cuor leggero, essendo beatamente ignara di cosa ci stesse accadendo. Mia moglie ed io ci chiedevamo come avremmo potuto spiegarle che non avrebbe, mai più, rivisto tutti i suoi amici, le sue due nonne e la sua patria.

Dal 1926, a causa del mio lavoro abbiamo vissuto molto tempo all'estero, ma l'amore di mia figlia per la Russia e per il suo popolo non era diminuito. A causa della sua malattia ,soffriva di reumatismi articolari, aveva avuto poche opportunità di conoscere la sofferenza del suo popolo , per non parlare della brutalità del regime staliniano, di cui non sapeva niente. Con mia moglie non volevamo spezzarle la sua illusione. Provava orrore anche della minima crudeltà, e sentiva una compassione infinita per ogni sofferenza umana. Consapevoli che la malattia le avrebbe potuto far vivere una vita molto breve, abbiamo cercato di nasconderle la verità, della tirannia del regime stalinista, e della sofferenza del popolo russo.

E' stato difficile spiegarle cosa era successo alla nostra famiglia. Ma ha capito. Ci ascoltava con le lacrime agli occhi. Il mondo in cui aveva vissuto era stata tutta un'invenzione . La sua illusione divenne polvere in un istante. Seppe che suo padre e sua madre avevano partecipato alla guerra civile. E' stato doloroso quel giorno per noi. Quel giorno è diventa adulta.

Immediatamente dopo l'arrivo in Canada ho scritto una lunga lettera a Stalin, il quale mi conosceva personalmente del 1924, e ne ho inviato una copia anche ad Yezhov. In essa ho espresso a Stalin ciò che pensavo del suo regime. Ma il motivo principale di questa lettera era un altro. Salvare la vita delle nostre madri. Appellarsi alla misericordia di Stalin per salvarle sarebbe stato inutile. Trattandosi di Stalin ho scelto un metodo più efficace. Gli ho detto che se avesse osato toccare le nostre madri, avrei reso pubblico tutto ciò che sapevo di lui. Per dimostragli che non si trattava di una minaccia vana, elencavo i suoi crimini.

In più l'ho avvertito. Se anche io venissi ucciso da uno dei suoi agenti, la storia dei suoi crimini sarebbe stata immediatamente resa pubblica dal mio avvocato. Conoscendo Stalin. Ero cero che avrebbe preso sul serio le mie minace.

Ero entrato in un gioco pericoloso, per me e per la mia famiglia. Ma ero anche sicuro che Stalin avrebbe rinviato la sua vendetta, almeno fino a quando non avrebbe raggiunto l'obiettivo che si era prefissato: rapirmi e impossessarsi dei miei scritti segreti. Naturalmente avrebbe tentato di soddisfare la sua sete di vendetta, ma solo dopo essersi assicurato che i suoi crimini sarebbero rimasti nascosti.

13 Agosto 1938, esattamente un mese dopo la mia scomparsa dalla Spagna, con un visto diplomatico concessomi dal capo della rappresentanza americana a Ottawa, sono entrato negli Stati Uniti. Immediatamente , col mio avocato, sono andato a Washington, dove, al commissario per l'immigrazione ho dichiarato la rottura con il mio paese e ho chiesto asilo politico.

La caccia contro di me si è aperta subito ed è durata per 14 anni. Da una parte c'era Stalin con la sua immensa potenza e con le su orde di agenti segreti. Dall'altra io, armato soltanto della capacità di prevedere e scoprire i suoi trucchi, ma sopratutto, della dedizione e del coraggio della mia famiglia, moglie e figlia.

In tutti questi anni abbiamo evitato di scrivere alle nostre madri e ai nostri amici, per evitare di mettere le loro vite a rischio. Delle loro vicende non sapevamo niente.

Nel 1953 le nostre madri non potevano essere più in vita, così io e mia moglie abbiamo deciso di correre il rischio della pubblicazione di questo libro. A Febbraio ho iniziato a trattare con Times per la pubblicazione di qualche estratto. La trattativa era ancora in corso quando Stalin è morto. Ero terribilmente deluso che non gli sia stato concesso ancora un po' di tempo di vedere la diffusione in tutto il modo dei suo crimini segreti, e di rendersi conto che, tutti i suoi sforzi per occultarli si erano rivelati vani.

La morte di Stalin non significa la fine del timore per la mia vita. Il Cremlino ancora nasconde i suoi crimini e farà tutto quanto in suo potere per regolare i conti conti me, almeno come monito per quanti siano tentati di seguire il mio esempio.


 

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Ultima modifica 29.05.2008