Ideologia e terrore

Hannah Arendt (1953)


Pubblicato in: The Review of Politics, Vol. 15, No. 3 (Jul., 1953), pp. 303-327

Tradotto da: Amerigo Guadagnin in Hannah Arendt: Le origini del totalitarismo, Edizioni Comunità, 1967, pp. 630-656.


[Le seguenti considerazioni derivano da uno studio sulle origini, gli elementi e il funzionamento di quella nuova forma di governo e dominio che siamo giunti a chiamare totalitaria.]*

Dovunque è giunto al potere, esso ha creato istituzioni assolutamente nuove e distrutto tutte le tradizioni sociali, giuridiche e politiche del paese. A prescindere dalla specifica matrice nazionale e dalla particolare fonte ideologica, ha trasformato le classi in masse, sostituito il sistema dei partiti non con la dittatura del partito unico, ma con un movimento di massa, trasferito il centro del potere dall’esercito alla polizia e perseguito una politica estera apertamente diretta al dominio del mondo. Quando i sistemi monopartitici, da cui esso si è sviluppato, sono diventati veramente totalitari, hanno cominciato ad operare secondo una scala di valori così radicalmente diversa da ogni altra che nessuna delle categorie tradizionali, giuridiche, morali o del buon senso, poteva più servire per giudicare, o prevedere, la loro azione.

Se è vero che gli elementi del totalitarismo si possono ritrovare andando a ritroso nella storia e analizzando le implicazioni politiche di quella che usiamo chiamare la crisi del nostro secolo, è inevitabile concludere che tale crisi non è una semplice minaccia dall’esterno, una conseguenza della politica estera aggressiva della Germania o della Russia, destinata a scomparire con la morte di Stalin o il crollo del regime nazista. Può addirittura darsi che il dramma della nostra epoca assuma la sua forma autentica – quantunque non necessariamente la più crudele – col relegamento del totalitarismo fra le cose del passato.

Nel quadro di tali riflessioni viene da chiedersi se il regime totalitario, nato da questa crisi e allo stesso tempo il suo sintomo più chiaro, è semplicemente una soluzione di ripiego che prende i suoi metodi intimidatori e i suoi strumenti organizzativi dal noto arsenale della tirannide, del dispotismo e della dittatura, e deve la sua esistenza soltanto al fallimento, deplorevole ma forse accidentale, delle tradizionali forze politiche (liberali e conservatrici, nazionaliste e socialiste, repubblicane e monarchiche, autoritarie e democratiche). O se, invece, esso ha una propria natura e può esser definito al pari di altre forme di governo che il pensiero occidentale ha conosciuto fin dai tempi della filosofia antica. Se ciò è vero, vuol dire che le nuove istituzioni ad esso proprie poggiano su una delle poche esperienze fondamentali che gli uomini possono avere quando vivono insieme e si occupano di affari pubblici. Se c’è un’esperienza fondamentale che trova la sua espressione politica nel regime totalitario, deve trattarsi, data la novità di tale forma di governo, di un’esperienza che, per qualche ragione, non è mai servita di base a un corpo politico e il cui tono generale, benché familiare per altri aspetti, non ha mai indirizzato la condotta degli affari pubblici.

Dal punto di vista della storia delle idee, ciò sembra estremamente improbabile. Le forme di governo adottate dagli uomini sono state pochissime; inventate nella più remota antichità, sono state classificate dai greci e si sono rivelate straordinariamente longeve. Se si considerano tali invenzioni, la cui idea fondamentale, malgrado le molte varianti, non è cambiata nei due millenni e mezzo che separano Platone da Kant, si è tentati di interpretare il totalitarismo come una moderna forma di tirannide, cioè un governo senza legge in cui il potere è detenuto da un uomo solo. Un potere arbitrario, non frenato dal diritto, esercitato nell’interesse del governante e contrario agli interessi dei governati, da un lato; la paura come principio dell’azione, cioè paura del popolo da parte del governante e paura del governante da parte del popolo, dall’altro: queste sono state le caratteristiche della tirannide per tutta la nostra tradizione.

Invece di dire che il regime totalitario non ha precedenti, si potrebbe anche dire che esso ha demolito l’alternativa su cui si sono basate tutte le definizioni dell’essenza dei governi nella filosofia politica, l’alternativa fra governo legale e governo illegale, fra potere arbitrario e potere legittimo. Che governo legale e potere legittimo fossero aspetti inseparabili di una stessa cosa, come d’altronde illegalità e potere arbitrario, non è mai stato posto in dubbio. Eppure, il regime totalitario ci mette di fronte a un tipo di governo completamente diverso. Certo, esso sfida tutte le leggi positive, persino quelle che ha promulgato (come nel caso della costituzione sovietica del 1936) o che non si è curato di abrogare (come nel caso della costituzione di Weimar). Ma né opera senza la guida di una legge né è arbitrario, perché pretende di obbedire rigorosamente e inequivocabilmente a quelle leggi della natura o della storia da cui si sono sempre fatte derivare tutte le leggi positive.

Esso sostiene infatti che, lungi dall’essere «senza legge», va alle fonti dell’autorità da cui il diritto positivo ha ricevuto la sua legittimazione, che, lungi dall’essere arbitrario, è più ossequiente a queste forze sovrumane di qualsiasi precedente governo, che, lungi dall’esercitare il potere nell’interesse di un uomo solo, è pronto a sacrificare gli interessi vitali immediati di chiunque all’attuazione di quella che considera la legge della storia o della natura. La sua noncuranza per il diritto positivo pretende di essere una forma superiore di legittimità che, ispirandosi alle fonti, può fare a meno della meschina legalità. Esso si vanta di aver trovato il modo per instaurare l’impero della giustizia sulla terra, qualcosa che la legalità del diritto positivo non è mai riuscita ad ottenere. Il divario fra legalità e giustizia non poteva essere colmato perché i principî di giusto e ingiusto, in cui il diritto positivo traduce la propria fonte di autorità (la «legge naturale» che governa l’intero universo, o la legge divina rivelata nella storia umana, o i costumi e le tradizioni manifestanti la legge comune ai sentimenti di tutti gli uomini), sono necessariamente generali e devono essere validi per un imprevedibile numero di casi, di modo che ogni singolo caso concreto con la sua irripetibile serie di circostanze li elude.

Disprezzando la legalità, il regime totalitario pretende di attuare la legge della storia o della natura senza tradurla in principî di giusto e ingiusto per il comportamento individuale. Esso la applica direttamente all’umanità senza curarsi del comportamento degli uomini. Si aspetta che tale legge, se correttamente eseguita, produca alla fine un’umanità di per sé destinata ad essere soltanto la sua esponente. Dietro la pretesa di dominio totale c’è sempre l’ambizione di trasformare la specie umana nell’attiva sicura portatrice di una legge a cui gli individui altrimenti si assoggetterebbero solo passivamente, con riluttanza. Se è vero che i paesi totalitari hanno perso il contatto col mondo civile commettendo crimini mostruosi, è altresì vero che questa criminalità non è stata dovuta semplicemente ad aggressività, spietatezza, bellicosità e perfidia, bensì a una deliberata rottura di quel consensus iuris che, secondo Cicerone, costituisce il «popolo» e che, come diritto internazionale, ha costituito nei tempi moderni il mondo civile nella misura in cui rimane la pietra angolare delle relazioni internazionali anche durante una guerra. Giudizio morale e punizione giuridica presuppongono entrambi questo consenso fondamentale; il delinquente può essere giudicato appunto perché partecipa al consensus iuris.

A questo punto viene in luce la differenza sostanziale fra la concezione totalitaria del diritto e le altre. La politica totalitaria non sostituisce un corpo di leggi con un altro, non instaura un proprio consensus iuris, non crea con una rivoluzione una nuova forma di legalità. La sua noncuranza per tutte le leggi positive, persino per le proprie, implica la convinzione di poter fare a meno di qualsiasi consensus iuris, pur non rassegnandosi allo stato tirannico di mancanza di ogni legge. Essa può farne a meno perché promette di liberare l’adempimento della legge dall’azione e dalla volontà dell’uomo; e promette giustizia sulla terra perché pretende di fare dell’umanità stessa l’incarnazione del diritto.

Questa identificazione di uomo e legge, che sembra cancellare il divario fra legalità e giustizia che ha tormentato il pensiero giuridico fin dall’antichità, non ha nulla in comune con il lumen naturale o la voce della coscienza con cui si suppone che la natura o la divinità, in quanto fonti del diritto naturale o dei precetti storicamente rivelati, manifestino la loro autorità nell’uomo. Tale manifestazione non ha mai fatto dell’uomo l’incarnazione vivente della legge, ma è rimasta distinta da lui come l’autorità che esigeva obbedienza. La natura e la divinità, come fonti dell’autorità del diritto positivo, erano considerate permanenti ed eterne. Le leggi positive erano mutevoli e modificabili secondo le circostanze, ma in confronto delle azioni umane possedevano una relativa permanenza, che derivava dalla presenza eterna della loro fonte di autorità. Esse erano quindi principalmente destinate a funzionare da stabilizzatori nei riguardi degli affari umani, così soggetti a variare.

Nell’interpretazione del totalitarismo, tutte le leggi sono diventate leggi di movimento. La natura e la storia non sono più fonti stabilizzatrici di autorità per le azioni dei mortali, ma esse stesse dei movimenti, dei processi. Alla base della fede nazista nelle leggi razziali come espressione della legge della natura nell’uomo vi è l’idea darwiniana dell’uomo come prodotto di un’evoluzione naturale che non si arresta necessariamente alla presente specie di esseri umani; alla base della fede nella lotta di classe come espressione della legge della storia vi è la concezione marxista della società come prodotto di un gigantesco movimento storico, che corre con rapidità sempre maggiore verso la sua fine, verso il momento in cui si annullerà come storia.

È stata spesso posta in rilievo la differenza fra l’approccio storico di Marx e quello naturalistico di Darwin, di solito e giustamente in favore del primo. Ciò ha fatto dimenticare che Marx provava un grande sincero interesse per le teorie di Darwin, e che Engels riteneva di fare il massimo complimento all’amico defunto chiamandolo il «Darwin della storia»1. A voler considerare la concezione di fondo dei due uomini, risulta che in definitiva il movimento storico e quello naturale sono la stessa cosa. L’introduzione darwiniana del concetto di evoluzione nella natura, la sua insistenza sul fatto che, perlomeno nel campo della biologia, il movimento naturale non è circolare, bensì rettilineo e avanza all’infinito in una direzione, significano in effetti che la concezione moderna della storia si è impadronita anche delle scienze della natura, che la vita naturale viene considerata storica. La legge naturale della sopravvivenza del più forte è appunto una legge storica, e come tale poté essere usata dal razzismo. D’altronde la lotta di classe marxista, in quanto forza motrice della storia, è soltanto l’espressione esterna dello sviluppo delle forze produttive, che hanno la loro origine nella forza-lavoro umana. Questa è una forza biologico-naturale, sprigionata dal «metabolismo con la natura» con cui l’uomo conserva la propria vita e assicura la continuazione della specie2. Engels vedeva chiaramente l’affinità fra le concezioni di fondo dei due uomini, perché comprendeva che in entrambe l’idea di sviluppo aveva una parte determinante. La straordinaria rivoluzione intellettuale avvenuta a metà del secolo scorso consisteva nel rifiuto di considerare o accettare qualcosa «così com’è» e nella coerente interpretazione di tutto come semplice stadio di un ulteriore sviluppo. Che la forza motrice di questo si chiamasse natura o storia, era cosa relativamente secondaria. In queste ideologie anche il termine «legge» cambiava significato: da espressione della cornice di stabilità entro la quale possono svolgersi le azioni umane, diventava l’espressione del movimento.

La politica totalitaria, che ha tentato di seguire le prescrizioni delle ideologie, ha messo a nudo la vera essenza di tali movimenti mostrando chiaramente che il processo non poteva avere una fine. Se è conforme alla legge naturale eliminare tutto ciò che è nocivo e inadatto a vivere, sarebbe la fine della natura stessa se non si potessero più trovare nuove categorie del genere; se è conforme alla legge storica che nella lotta certe classi si «estinguano», sarebbe la fine della storia umana se non si formassero nuove classi rudimentali, destinate a loro volta ad «estinguersi» sotto i dittatori totalitari. In altre parole, la legge di eliminazione, in base alla quale i movimenti totalitari assumono ed esercitano il potere, rimarrebbe una legge di movimento anche se essi riuscissero ad assoggettare l’intera umanità al loro dominio.

Per stato di diritto si intende un corpo politico in cui le leggi positive sono necessarie per attuare l’immutabile ius naturale o gli eterni precetti divini traducendoli in principî di giusto e ingiusto. Solo in tali princîpi, nel complesso di leggi positive di ciascun paese, il diritto naturale o i precetti divini acquistano una loro realtà politica. Nel regime totalitario il posto del diritto positivo viene preso dal terrore totale, inteso a tradurre in realtà la legge di movimento della storia o della natura. Come le leggi positive, pur definendo le trasgressioni, ne sono indipendenti – l’assenza di reati in una società non rende superflue le leggi denotando, casomai, la perfezione della loro autorità – così il terrore nel regime totalitario cessa di essere uno strumento per la soppressione dell’opposizione, pur essendo usato anche per tale scopo. Esso diventa totale quando prescinde dall’esistenza di qualsiasi opposizione; domina supremo quando più nessuno lo ostacola. Se la legalità è l’essenza del governo non tirannico e l’illegalità quella della tirannide, il terrore è l’essenza del potere totalitario.

Esso è la realizzazione della legge del movimento; si propone principalmente di far sì che le forze della natura o della storia corrano liberamente attraverso l’umanità, senza l’impedimento dell’azione umana spontanea e, in quanto tale, cerca di «stabilizzare» gli uomini. È il movimento stesso che individua i nemici dell’umanità contro cui scatenare il terrore; non si permette che alcuna azione libera, di opposizione o di simpatia, interferisca con l’eliminazione del «nemico oggettivo» della storia o della natura, della classe o della razza. Colpevolezza e innocenza diventano concetti senza senso; «colpevole» è chi è d’ostacolo al processo naturale o storico, che condanna le «razze inferiori», gli individui «inadatti a vivere», o le «classi in via di estinzione» e i «popoli decadenti». Il terrore esegue queste sentenze di condanna, e davanti ad esso tutte le parti in causa sono soggettivamente innocenti: gli uccisi perché non hanno fatto nulla contro il sistema, e gli uccisori perché non assassinano realmente, ma si limitano ad eseguire una sentenza di morte pronunciata da un tribunale superiore. Gli stessi governanti non pretendono di essere giusti o saggi, ma soltanto di eseguire le leggi naturali o storiche; non applicano leggi, ma eseguono un movimento in conformità alla sua legge intrinseca. Il terrore è legalità se legge è la legge del movimento di qualche forza sovrumana, la natura o la storia.

Il terrore come esecuzione di una legge del movimento, il cui fine ultimo non è il benessere degli uomini o l’interesse di un singolo, bensì la creazione dell’umanità, elimina gli individui per la specie, sacrifica le «parti» per il «tutto». La forza sovrumana della natura o della storia ha un proprio principio e un proprio fine, di modo che viene ostacolata soltanto dal nuovo inizio e dal fine individuale che è la vita di ciascun uomo.

Le leggi positive negli stati di diritto sono intese a erigere limiti e a istituire strumenti di comunicazione fra gli uomini, la cui convivenza è continuamente messa in pericolo dai nuovi uomini che nascono. Con ogni nuova nascita, un nuovo inizio viene introdotto nel mondo, un nuovo mondo viene potenzialmente in vita. La stabilità delle leggi corrisponde al moto costante degli affari umani, un moto che non può finire finché degli uomini nascono e muoiono. Le leggi circoscrivono ogni nuovo inizio e allo stesso tempo assicurano la sua libertà di movimento, la potenzialità di qualcosa d’interamente nuovo e imprevedibile. I limiti delle leggi positive sono per l’esistenza politica dell’uomo quello che la memoria è per la sua esistenza storica: garantiscono la preesistenza di un mondo comune, la cui continuità trascende i singoli inizi, e quindi una realtà che accoglie in sé tutte le nuove origini e ne è alimentata.

Il terrore totale è così facilmente scambiato per un sintomo di governo tirannico perché il regime totalitario nella sua fase iniziale deve comportarsi come una tirannide e radere al suolo i limiti posti dalle leggi umane. Ma esso non lascia dietro di sé l’illegalità arbitraria e non infierisce per imporre la volontà tirannica o il potere dispotico di un individuo su tutti gli altri e, men che meno, l’anarchia di una guerra di tutti contro tutti. Sostituisce ai limiti e ai canali di comunicazione fra i singoli un vincolo di ferro, che li tiene così strettamente uniti da far sparire la loro pluralità in un unico uomo di dimensioni gigantesche. Abolire i confini delle leggi fra gli individui, come fa la tirannide, significa annullare le libertà umane, distruggere la libertà come realtà politica vivente; perché lo spazio fra gli individui, com’è circoscritto dalle leggi, è lo spazio vivo della libertà. Il terrore totale usa questo vecchio strumento della tirannide, ma distrugge allo stesso tempo quel deserto, senza leggi e senza barriere, dominato dalla reciproca diffidenza, che è propriamente la tirannide. Questo deserto non era, certo, uno spazio vivo di libertà, ma lasciava ancora un po’ di posto ai movimenti timorosi e alle caute azioni dei suoi abitanti.

Premendo gli uomini uno contro l’altro, il terrore totale distrugge lo spazio fra di essi; se confrontato con questo vincolo di ferro, persino il deserto della tirannide, essendo ancora una specie di spazio, appare come una garanzia di libertà. Il regime totalitario non si distingue dunque dalle altre forme di governo perché riduce o abolisce determinate libertà, o sradica l’amore per la libertà dal cuore degli uomini, ma perché distrugge il presupposto di ogni libertà, la possibilità di movimento, che non esiste senza spazio.

Il terrore totale, l’essenza di un simile regime, non esiste né per gli uomini né contro di essi. Esso viene considerato uno strumento incomparabile per accelerare il movimento delle forze della natura o della storia. Tale movimento, che procede secondo la propria legge, non può alla lunga essere impedito; perché alla fine si dimostra più potente di qualsiasi forza prodotta dalle azioni e dalla volontà degli uomini. Ma può essere rallentato, e lo è quasi inevitabilmente, dalla libertà umana, che neppure i governanti totalitari sono in grado di negare, perché questa libertà – per quanto irrilevante e arbitraria possano reputarla – si identifica con la nascita degli uomini, col fatto che ciascuno di essi è un nuovo inizio, comincia, in un certo senso, il mondo da capo. Dal punto di vista totalitario, il fatto che gli uomini nascano e muoiano può essere considerato soltanto una noiosa interferenza con forze superiori. Quindi il terrore, in quanto servo fedele del movimento naturale o storico, deve eliminare dal processo non soltanto la libertà in ogni senso specifico, ma la sua stessa fonte, che è data con la nascita dell’uomo e risiede nella sua capacità di compiere un nuovo inizio. Nel ferreo vincolo del terrore, che distrugge la pluralità umana fondendola nel tutto unico che agisce infallibilmente come se fosse parte del corso della storia o della natura, è stato trovato uno strumento capace non solo di liberare le forze storiche e naturali, ma di accelerarle fino a una velocità che non avrebbero mai raggiunto se lasciate a sé stesse. In pratica, ciò significa che il terrore esegue sul posto le sentenze di morte che, a quanto suppone, la natura avrebbe pronunciato contro razze e individui «inadatti a vivere», o la storia contro le «classi morenti», senza attendere i processi più lenti e meno efficaci della natura o della storia.

In questa concezione, in cui l’essenza del governo è diventata il movimento, un antico problema del pensiero politico sembra aver trovato una soluzione simile a quella già indicata per il divario fra legalità e giustizia. Se l’essenza del governo viene definita come legalità e le leggi sono considerate le forze stabilizzatrici negli affari pubblici (come si è sempre ritenuto fin da quando Platone invocava Zeus, dio dei limiti, nelle sue Leggi), sorge il problema del movimento del corpo politico e delle azioni dei cittadini. La legalità pone dei confini alle azioni, ma non le ispira; la grandezza, ma anche la limitazione delle leggi nelle società libere è che dicono soltanto quel che non si deve, ma mai quel che si deve fare. L’indispensabile movimento di un corpo politico non si può trovare nella sua essenza, se non altro perché questa – fin da Platone – è sempre stata definita con particolare riguardo al suo carattere permanente. La durata sembrava uno dei segni più sicuri della bontà di un governo. Per Montesquieu la prova suprema della qualità scadente delle tirannidi era che soltanto esse sono soggette ad esser distrutte dall’interno, a disgregarsi per conto proprio, mentre tutti gli altri regimi sono distrutti da circostanze esterne. Perciò la definizione delle forme di stato richiedeva sempre quello che egli chiamava «principio dell’azione», un principio che, differente in ciascuna forma, ispirava governo e cittadini nella loro attività pubblica e serviva come criterio, al di là di quello meramente negativo della legalità, per giudicare tutte le azioni politiche. Tale principio era, secondo Montesquieu, l’onore nella monarchia, la virtù nella repubblica e la paura nella tirannide.

In un perfetto regime totalitario, dove tutti gli individui sono diventati un unico uomo, dove qualsiasi azione mira ad accelerare il processo della natura o della storia, dove ogni singolo atto è l’esecuzione di una sentenza di morte già pronunciata da tali forze superiori, dove il terrore ha il compito di tenere costantemente in marcia il movimento, non occorrerebbe alcun principio d’azione separato dalla sua essenza. Ma finché il regime non ha conquistato la terra e trasformato col suo vincolo di ferro ogni individuo in parte di un’unica umanità, il terrore nella sua duplice funzione di essenza del governo e di principio, non già d’azione, bensì di moto, non può essere pienamente realizzato. Come la legalità nello stato di diritto, così il terrore nello stato totalitario non è sufficiente a ispirare e a guidare il comportamento umano.

Nelle attuali condizioni un simile regime condivide ancora con altre forme di governo la necessità di una norma per il comportamento dei suoi cittadini nella vita pubblica, ma non ha bisogno, e neppure può fare uso, di un principio d’azione in senso stretto, dato che elimina appunto la capacità umana di agire. Nel regno del terrore totale nemmeno la paura può più suggerire come ci si deve comportare, perché le vittime sono scelte senza alcun riferimento ad atti o pensieri individuali, esclusivamente in base alla necessità oggettiva del processo naturale o storico. Essa è probabilmente più diffusa che altrove; ma ha perso la sua utilità pratica dal momento che le azioni da essa guidate non giovano più ad evitare i pericoli temuti. Lo stesso vale per la simpatia o l’appoggio dato al regime; perché il terrore totale sceglie, oltre che le sue vittime, anche i suoi esecutori secondo criteri oggettivi, senza tenere alcun conto delle convinzioni e simpatie dei candidati. Il deciso ripudio della convinzione come motivo dell’agire è stato messo in luce dalle grandi epurazioni avvenute al tempo di Stalin in Russia e nei paesi satelliti. L’educazione totalitaria non ha mai avuto lo scopo di inculcare convinzioni, bensì quello di distruggere la capacità di formarne. L’introduzione di criteri puramente oggettivi nella selezione delle SS è stata la grande invenzione organizzativa di Himmler; egli sceglieva i candidati in base alle fotografie, secondo presunti criteri razziali. La natura stessa decideva, non solo chi doveva essere eliminato, ma altresì chi doveva essere addestrato come carnefice.

Nessun principio di comportamento, preso dal regno della azione umana, come la virtù, l’onore e la paura, è necessario o utile per mettere in moto un corpo politico per cui il terrore non è più un mezzo di intimidazione, ma l’essenza stessa. Al suo posto è stato introdotto negli affari pubblici un principio interamente nuovo, che fa a meno della volontà umana di agire e si richiama al pressante bisogno d’intuizione della legge del movimento secondo cui il terrore procede e da cui dipendono quindi le sorti individuali.

Gli abitanti di un paese totalitario sono gettati nel vortice del processo della natura o della storia al fine di accelerarne il movimento; in tale condizione, possono essere soltanto esecutori o vittime della sua legge intrinseca. Il processo può decidere anche che gli esecutori oggi incaricati di eliminare razze inferiori, o classi decadenti, debbano domani esser sacrificati. Per guidare il comportamento dei suoi sudditi il regime ha bisogno di una preparazione che renda ciascuno di essi altrettanto adatto al ruolo di esecutore e a quello di vittima. Questa preparazione ambivalente, che sostituisce il principio dell’azione, è l’ideologia.

***

Le ideologie – ismi che per la soddisfazione dei loro aderenti possono spiegare ogni cosa e ogni avvenimento facendoli derivare da una singola premessa – sono un fenomeno molto recente e, per parecchi decenni, hanno avuto una parte trascurabile nella vita politica. Solo col senno di poi possiamo rintracciare in esse certi elementi che le hanno rese così utili per il dominio totalitario, tanto che le loro grandi potenzialità politiche non sono state scoperte prima di Hitler e Stalin.

Le ideologie sono note per il loro carattere scientifico: esse combinano l’approccio scientifico con risultati di rilevanza filosofica e pretendono di essere una filosofia scientifica. La parola «ideologia» sembra implicare che un’idea possa divenire materia di studio di una scienza, come gli animali lo sono per la zoologia, e che il suffisso-logia di ideologia, come in zoologia, non indichi altro che i logoi, le affermazioni scientifiche in proposito. Se ciò fosse vero, un’ideologia sarebbe in verità una pseudoscienza e una pseudofilosofia, infrangendo al tempo stesso le limitazioni della scienza e quelle della filosofia. Il deismo, ad esempio, sarebbe l’ideologia che considera l’idea di Dio, di cui si occupa la filosofia, nella maniera scientifica della teologia, per la quale Dio è una realtà rivelata. (Una teologia che non si basasse sulla rivelazione come realtà data, e trattasse Dio come un’idea, non sarebbe meno folle di una zoologia non più sicura dell’esistenza fisica tangibile degli animali.) Sappiamo però che questa è soltanto una parte della verità. Pur negando la rivelazione divina, il deismo non si limita a fare delle affermazioni «scientifiche» su un Dio che è soltanto un’«idea», ma si serve dell’idea di Dio per spiegare il corso del mondo. Le «idee» degli ismi – la razza nel razzismo, Dio nel deismo, ecc. – non costituiscono mai la materia delle ideologie e il suffisso-logia non indica mai semplicemente un insieme di affermazioni «scientifiche».

Un’ideologia è letteralmente quello che il suo nome sta a indicare: è la logica di un’idea. La sua materia è la storia, a cui l’«idea» è applicata; il risultato di tale applicazione non è un complesso di affermazioni su qualcosa che è, bensì lo svolgimento di un processo che muta di continuo. L’ideologia tratta il corso degli avvenimenti come se seguisse la stessa «legge» dell’esposizione logica della sua «idea». Essa pretende di conoscere i misteri dell’intero processo storico – i segreti del passato, l’intrico del presente, le incertezze del futuro – in virtù della logica inerente alla sua «idea».

Le ideologie non si interessano mai del miracolo dell’essere. Sono storiche, si occupano del divenire e del perire, dell’ascesa e del declino delle civiltà, anche se cercano di spiegare la storia con qualche «legge di natura». La parola «razza» nel razzismo non denota una genuina curiosità circa le razze umane come oggetto di esplorazione scientifica, ma è l’«idea» mediante la quale il movimento della storia viene interpretato come un processo coerente.

L’«idea» di un’ideologia non è l’eterna essenza di Platone, afferrata dagli occhi della mente, né il kantiano principio regolativo della ragione, ma è diventata uno strumento di interpretazione. La storia non appare alla luce di un’idea (quindi sub specie di eternità ideale al di là del movimento storico), ma come qualcosa che può essere calcolato per mezzo di essa. Quel che adatta la «idea» al nuovo ruolo è la sua logica intrinseca, il processo che scaturisce da essa ed è indipendente da qualsiasi fattore esterno. Il razzismo è la convinzione che nel concetto di razza sia già contenuto un movimento; altrettanto dicasi del deismo per quanto concerne il concetto di Dio.

Si suppone che il movimento della storia e il processo logico del concetto corrispondano l’uno all’altro, di modo che quanto avviene, avviene secondo la logica di un’«idea». Tuttavia, l’unico movimento possibile nel regno della logica è il processo di deduzione da una premessa. La logica dialettica, col suo procedere dalla tesi all’antitesi e poi alla sintesi, che a sua volta diventa la tesi del successivo movimento dialettico, non è diversa in linea di principio, una volta che un’ideologia se ne impadronisca; la prima tesi diventa la premessa, e il vantaggio del congegno dialettico per la spiegazione ideologica è che può giustificare le contraddizioni di fatto come stadi di un unico movimento coerente.

Appena la logica come movimento di pensiero – e non come suo necessario controllo – viene applicata a un’idea, questa si trasforma in una premessa. Le visioni ideologiche del mondo hanno compiuto questa operazione molto prima che diventasse così fruttuosa per il ragionamento totalitario. La coercizione puramente negativa della logica, la messa al bando delle contraddizioni, diventava «produttiva», di modo che tutta una linea di pensiero poteva essere iniziata, e imposta alla mente, traendo conclusioni nella maniera della mera argomentazione. Questo processo argomentativo non poteva essere interrotto né da una nuova idea (che sarebbe stata un’altra premessa con una diversa serie di conseguenze) né da una nuova esperienza. Le ideologie ritengono che una sola idea basti a spiegare ogni cosa nello svolgimento dalla premessa, e che nessuna esperienza possa insegnare alcunché dato che tutto è compreso in questo processo coerente di deduzione logica. Il pericolo inerente al passaggio dall’inevitabile insicurezza del pensiero filosofico alla spiegazione totale di un’ideologia e della sua Weltanschauung non consiste tanto nel lasciarsi irretire da un’ipotesi spesso volgare, ma sempre acritica, quanto nell’abbandonare la libertà implicita nella capacità di pensare per la camicia di forza della logica, mediante la quale l’uomo può farsi violenza quasi con la stessa brutalità usata da una forza esterna.

Le Weltanschauungen del XIX secolo non erano di per sé totalitarie. E il razzismo e il comunismo non lo erano in linea di massima più delle altre; se sono diventati le ideologie determinanti del XX secolo, è stato perché gli elementi dell’esperienza su cui erano originariamente basati (la lotta fra le razze per il dominio del mondo, la lotta fra le classi per il potere nei vari paesi) si sono rivelati politicamente più importanti di quelli delle altre ideologie. In tal senso, la vittoria ideologica del razzismo e del comunismo su tutti gli altri ismi è stata decisa prima che i movimenti totalitari se ne impadronissero. D’altronde, benché tutte le ideologie contengano elementi totalitari, questi sono pienamente sviluppati soltanto da tali movimenti, e ciò suscita l’impressione erronea che soltanto il razzismo e il comunismo abbiano un carattere totalitario. La verità è piuttosto che l’autentica natura di ogni ideologia si è rivelata esclusivamente nel ruolo da essa svolto nell’apparato del totalitarismo. A tale riguardo si notano tre elementi specificamente totalitari che sono comuni a qualsiasi tipo di pensiero ideologico.

Anzitutto, nella loro pretesa di spiegazione totale, le ideologie hanno la tendenza a spiegare non quel che è, ma quel che diviene, quel che nasce e muore. Esse si occupano in ogni caso soltanto dell’elemento di movimento, cioè della storia nel senso usuale della parola. Sono sempre orientate verso la storia anche quando, come nel caso del razzismo, partono dalla premessa della natura; questa serve semplicemente a spiegare i fatti storici riducendoli a fatti naturali. Ci si ripromette di far luce su tutti gli avvenimenti storici, di ottenere una spiegazione totale del passato, una completa valutazione del presente, un’attendibile previsione del futuro. In secondo luogo, il pensiero ideologico diventa indipendente da ogni esperienza, che non può comunicargli nulla di nuovo neppure se si tratta di un fatto appena accaduto. Emancipatosi così dalla realtà percepita coi cinque sensi, esso insiste su una realtà «più vera», che è nascosta dietro le cose percettibili, dominandole tutte, e che si avverte soltanto disponendo di un sesto senso. Questo è fornito appunto dall’ideologia, da quel particolare indottrinamento che viene impartito negli istituti appositamente creati per l’educazione di «soldati politici», nelle Ordensburgen naziste o nelle scuole del Comintern e del Cominform. Anche la propaganda del movimento totalitario serve a staccare il pensiero dall’esperienza e dalla realtà, sforzandosi sempre di attribuire un significato segreto ad ogni avvenimento pubblico e un intento cospirativo ad ogni atto politico. Una volta giunto al potere, il movimento procede a mutare la realtà secondo i suoi postulati ideologici. Il concetto di inimicizia viene sostituito da quello di congiura, e ciò produce una mentalità che spinge a sospettare sempre qualcosa di diverso dietro l’esperienza del reale, dietro la realtà dell’inimicizia o dell’amicizia.

In terzo luogo, poiché non hanno alcun potere di trasformare la realtà, le ideologie ottengono tale emancipazione del pensiero dall’esperienza ricorrendo a certi metodi di dimostrazione. Esse ordinano i fatti in un meccanismo assolutamente logico che parte da una premessa accettata in modo assiomatico, deducendone ogni altra cosa; procedono così con una coerenza che non esiste affatto nel regno della realtà. La deduzione può avvenire logicamente o dialetticamente; in entrambi i casi comporta un’argomentazione uniforme che, in quanto pensiero in termini di processo, dovrebbe essere in grado di comprendere il movimento dei processi sovrumani, naturali o storici. La comprensione ha luogo perché l’intelletto imita, logicamente o dialetticamente, le leggi dei movimenti «scientificamente» accertati e con l’imitazione si inserisce in essi. Tale argomentazione, che è sempre una specie di deduzione logica, si adegua perfettamente agli altri due elementi delle ideologie – quello del movimento e quello dell’emancipazione dalla realtà e dall’esperienza – perché il suo movimento di pensiero non deriva dall’esperienza, ma si genera da sé, e poggia su un unico punto tratto dalla realtà esperimentata e trasformato in una premessa assiomatica, rimanendo nel suo sviluppo completamente immune da qualsiasi esperienza ulteriore. Una volta stabilita la premessa, il punto di partenza, il pensiero ideologico rifiuta gli insegnamenti della realtà.

Il metodo usato dai dittatori totalitari per trasformare le rispettive ideologie in armi con cui costringere ciascuno dei sudditi a mettersi al passo col movimento del terrore era poco appariscente. L’uno si vantava della «freddezza glaciale del ragionamento» (Hitler), l’altro dell’«inesorabilità della sua dialettica», e spingevano le implicazioni a estremi di coerenza logica che, all’osservatore, apparivano ridicolmente «primitivi» e assurdi: una «classe in via di estinzione» consisteva di gente condannata a morte; le razze «inadatte a vivere» venivano sterminate. Chi ammetteva che esistevano «classi in via di estinzione» senza trarre da tale fatto la conseguenza dell’uccisione dei loro membri, o riconosceva che il diritto alla vita era legato alla razza senza trarre la conseguenza dell’eliminazione delle «razze inadatte», era semplicemente o uno stupido o un codardo. Questa logicità stringente, in quanto guida dell’azione, permea l’intera struttura dei movimenti e dei regimi totalitari. È stata esclusivamente opera di Hitler e di Stalin che, pur non avendo aggiunto una sola idea nuova al bagaglio teorico e propagandistico dei loro movimenti, devono esser considerati per questa ragione ideologi della massima importanza.

A differenza dei loro predecessori, essi non erano più attratti principalmente dal contenuto originario dell’ideologia – la lotta di classe e lo sfruttamento degli operai, o il conflitto delle razze e la difesa dei popoli germanici – bensì dal processo logico che da esso si poteva sviluppare. Secondo Stalin, né l’idea né l’oratoria, ma «l’irresistibile forza della logica soggiogava completamente l’uditorio» di Lenin. Il potere che, secondo Marx, l’idea assumeva conquistando le masse veniva ora attribuito, non già all’idea stessa, bensì al suo processo logico che, «al pari di un poderoso tentacolo, vi afferra da tutte le parti come in una morsa e dalla cui stretta siete impotenti a liberarvi; dovete arrendervi o rassegnarvi a una completa disfatta»3. Solo quando era in gioco la realizzazione degli obiettivi ideologici, la società senza classi o la razza dominatrice, questa forza poteva mostrarsi. Nel processo di attuazione, la sostanza originaria su cui le ideologie si basavano finché dovevano rivolgersi alle masse – lo sfruttamento dei lavoratori o le aspirazioni nazionali della Germania – andava gradualmente perduta, distrutta, per così dire, dal processo stesso. In conformità alla «freddezza glaciale del ragionamento» e all’«irresistibile forza della logica», gli operai russi perdevano sotto il regime staliniano persino quei diritti che avevano strappato all’oppressione zarista e il popolo tedesco subiva uno stato di guerra permanente che non si curava affatto della sua sopravvivenza. È nella natura della politica ideologica – e non un semplice tradimento commesso per interesse personale o smania di potere – che il vero contenuto dell’ideologia (la classe operaia o i popoli germanici), originariamente alla base dell’«idea» (la lotta di classe come legge della storia o la lotta delle razze come legge della natura), venga distrutto dalla logica con cui tale «idea» è attuata.

La preparazione delle vittime e degli esecutori, che il regime totalitario richiede al posto del principio d’azione di Montesquieu, non è l’ideologia stessa – il razzismo o il materialismo dialettico – ma la sua logicità intrinseca. L’argomento più persuasivo a tale riguardo, e caro a Hitler come a Stalin, era: non si può dire A senza dire B e C e così via, sino alla fine dell’alfabeto. La forza coercitiva della logicità sembra avere qui la sua fonte; deriva dal nostro timore di contraddirci. Le epurazioni staliniane riuscivano a ottenere dalle vittime la confessione di crimini che non avevano mai commesso facendo leva principalmente su tale timore e sul seguente ragionamento: Siamo tutti d’accordo sulla premessa che la storia è una lotta di classe e sul ruolo del partito nella sua condotta. Tu sai bene perciò che, storicamente parlando, il partito ha sempre ragione (nelle parole di Trockij: «Si può aver ragione soltanto con e nel partito, perché la storia non ha provveduto altro modo per essere nel giusto»). In conformità al processo storico oggettivo il partito deve ora punire determinati crimini, che devono inevitabilmente avvenire in questo momento. Per questi crimini il partito ha bisogno di responsabili; può darsi che esso, pur conoscendo i crimini, non conosca assolutamente i colpevoli. Più importante dell’identità di questi è, comunque, la punizione dei crimini, perché senza di essa la storia, anziché avanzare, sarà forse ostacolata nel suo corso. Quindi, o hai commesso i crimini o sei stato chiamato dal partito a fare la parte del criminale: in ogni caso sei diventato oggettivamente un nemico del partito. Se non confessi, cessi di aiutare la storia tramite il partito, e sei un nemico vero.

La forza del ragionamento sta in questa prospettiva: se rifiuti, contraddici te stesso e, con tale contraddizione, privi di ogni senso la tua vita.

Per la limitata mobilitazione popolare, di cui pure essi hanno ancora bisogno, i regimi totalitari contano sulla coercizione con cui ci facciamo violenza nel timore di perderci nelle contraddizioni. Questa coercizione interiore è la tirannia della logicità, alla quale non si oppone altro che la grande capacità umana di dare inizio a qualcosa di nuovo. La tirannia della logicità comincia con la sottomissione della mente alla logica come processo senza fine, su cui l’uomo si basa per produrre le sue idee. Con tale sottomissione egli rinuncia alla sua libertà interiore (come rinuncia alla sua libertà di movimento quando si inchina a una tirannia esterna). La libertà in quanto intima capacità umana si identifica con la capacità di cominciare, come la libertà in quanto realtà politica si identifica con uno spazio di movimento fra gli uomini. Sull’inizio nessuna logica, nessuna deduzione cogente ha alcun potere, perché la sua catena presuppone l’inizio, sotto forma di premessa. Come il ferreo vincolo del terrore è inteso a impedire che, con la nascita di ogni nuovo essere umano, un nuovo inizio prenda vita e levi la sua voce nel mondo, così la forza autocostrittiva della logicità è mobilitata affinché nessuno cominci a pensare, un’attività che, essendo la più libera e pura fra quelle umane, è l’esatto opposto del processo coercitivo della deduzione. Il regime totalitario può esser sicuro solo nella misura in cui riesce a mobilitare la forza di volontà dell’uomo per inserirlo in quel gigantesco movimento della storia o della natura che usa l’umanità come suo materiale e non conosce né nascita né morte.

La coercizione del terrore totale, che irreggimenta le masse di individui isolati e le sostiene in un mondo che per esse è diventato un deserto, e la forza autocostrittiva della deduzione logica, che prepara ciascun individuo nel suo isolamento contro tutti gli altri, si completano a vicenda per far marciare il movimento. Come il terrore, anche nella sua forma pretotale, semplicemente tirannica, distrugge tutti i legami fra gli uomini, così l’autocostrizione del pensiero ideologico distrugge tutti i legami con la realtà. La preparazione è giunta a buon punto quando gli individui hanno perso il contatto coi loro simili e con la realtà che li circonda; perché, insieme con questo contatto, gli individui perdono la capacità di esperienza e di pensiero. Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più.

***

Ritorniamo ora a un problema sollevato all’inizio di queste considerazioni: quale esperienza di base nella convivenza umana permea una forma di governo che ha la sua essenza nel terrore e il suo principio d’azione nella logicità del pensiero ideologico? È evidente che una simile combinazione non è mai stata usata prima nelle varie forme di dominio politico, e che l’esperienza su cui essa si fonda deve essere umana e nota agli uomini, in quanto anche questo che è il più «originale» dei corpi politici è stato inventato dagli uomini e in qualche modo risponde ai loro bisogni.

Si è spesso osservato che il terrore può imperare con assolutezza solo su individui isolati l’uno dall’altro e che quindi una delle prime preoccupazioni di ogni regime tirannico è quella di creare tale isolamento. L’isolamento può essere l’inizio del terrore; ne è certamente il terreno più fertile; ne è sempre il risultato. Esso è, per così dire, pretotalitario; la sua caratteristica è l’impotenza, in quanto il potere deriva sempre da uomini che operano insieme, che «agiscono di concerto» (Burke); gli individui isolati sono impotenti per definizione.

L’isolamento e l’impotenza, cioè la fondamentale incapacità di agire, sono sempre stati tipici delle tirannidi. In queste i contatti politici fra gli individui sono spezzati e le capacità di azione e di potere frustrate. Ma non tutti i contatti sono interrotti, non tutte le capacità umane distrutte. L’intera sfera della vita privata con le capacità di esperienza, creazione e pensiero rimane intatta. Sappiamo ora che il ferreo vincolo del terrore totale non lascia alcuno spazio per tale sfera e che l’autocostrizione della logica totalitaria distrugge la capacità umana di esperienza e di pensiero, oltre che quella di azione.

Quel che si chiama isolamento nella sfera politica prende il nome di estraniazione nella sfera dei rapporti sociali. L’isolamento e l’estraniazione non sono la stessa cosa. Posso essere isolato – cioè in una situazione in cui non posso agire perché non c’è nessuno disposto ad agire con me – senza essere estraniato; e posso essere estraniato – cioè in una situazione in cui come persona mi sento abbandonato dal consorzio umano – senza essere isolato. L’isolamento è quel vicolo cieco in cui gli uomini si trovano spinti quando viene distrutta la sfera politica della loro vita, la sfera in cui essi operano insieme nel perseguimento di un interesse comune. Ma, per quanto lesivo del potere e della capacità di azione, esso lascia intatte le attività creative e, anzi, risponde a una loro esigenza. L’uomo, in quanto è homo faber, tende a isolarsi con la sua opera, a lasciare temporaneamente il regno della politica. A differenza dell’azione (praxis) e della fatica bruta, la creazione (poiesis, la fabbricazione di cose) viene sempre compiuta in un certo isolamento dalle faccende comuni, a prescindere dal fatto che ne risulti un pezzo artigianale o un’opera d’arte. Nell’isolamento l’uomo rimane in contatto col mondo come artificio umano; solo quando viene distrutta la forma più elementare di creatività, la capacità di aggiungere qualcosa di proprio al mondo comune, l’isolamento diventa insopportabile. Ciò può avvenire in un mondo dove i principali valori sono dettati dalla fatica, dove tutte le attività umane sono state trasformate in fatica. In tali condizioni non rimane altro che lo sforzo bruto, compiuto per mantenersi in vita, dato che sono rotti i rapporti col mondo come artificio umano. L’individuo isolato che ha perso il suo posto nel regno politico dell’azione è abbandonato anche dal mondo delle cose se è considerato, non più un homo faber, ma un animal laborans il cui necessario «metabolismo con la natura» non interessa più nessuno. L’isolamento diventa allora estraniazione. La tirannide basata sull’isolamento lascia generalmente intatte le capacità creative dell’uomo; ma la tirannide imposta a «uomini di fatica», ad esempio, a un popolo di schiavi nell’antichità, diviene automaticamente un dominio esercitato su individui estraniati, oltre che isolati, e tende ad essere totalitaria. Mentre l’isolamento concerne soltanto l’aspetto politico della vita, l’estraniazione concerne la vita umana nel suo insieme. Il regime totalitario, al pari di ogni tirannide, non può certo esistere senza distruggere il settore pubblico, senza distruggere con l’isolamento le capacità politiche degli uomini. Ma esso come forma di governo è nuovo in quanto, lungi dall’accontentarsi dell’isolamento, distrugge anche la vita privata. Si basa sull’estraniazione, sul senso di non appartenenza al mondo, che è fra le più radicali e disperate esperienze umane.

L’estraniazione, che è il terreno comune del terrore, l’essenza del regime totalitario e, per l’ideologia, la preparazione degli esecutori e delle vittime, è strettamente connessa allo sradicamento e alla superfluità che, dopo essere stati la maledizione delle masse moderne fin dall’inizio della rivoluzione industriale, si sono aggravati col sorgere dell’imperialismo alla fine del secolo scorso e con lo sfacelo delle istituzioni politiche e delle tradizioni sociali nella nostra epoca. Essere sradicati significa non avere un posto riconosciuto e garantito dagli altri; essere superflui significa non appartenere al mondo. Lo sradicamento può essere la condizione preliminare della superfluità, come l’isolamento può esserlo dell’estraniazione. Presa in sé, prescindendo dalle sue recenti cause storiche e dal suo nuovo ruolo politico, l’estraniazione è allo stesso tempo contraria alle esigenze fondamentali della condizione umana e una delle esperienze basilari della vita di ognuno. Persino l’esperienza del mondo materiale dipende dal nostro contatto con gli altri uomini, dal nostro senso comune che regola e controlla tutti gli altri sensi e senza il quale ognuno di noi resterebbe rinchiuso nella sua particolarità di dati sensibili, di per sé inattendibili e ingannevoli. Solo perché abbiamo il senso comune, cioè solo perché gli uomini, e non un uomo solo, abitano la terra, possiamo fidarci dell’esperienza immediata dei nostri sensi. Eppure, basta ricordare che un giorno dovremo lasciare questo mondo comune, che andrà avanti come prima e per la cui continuità siamo superflui, per rendersi conto dell’estraniazione, del senso di abbandono da parte di tutto e di tutti.

L’estraniazione non è solitudine. La solitudine richiede che si sia soli, mentre l’estraniazione si fa sentire più acutamente in compagnia di altri. A parte alcune osservazioni di sfuggita – usualmente formulate in tono paradossale, come la frase di Catone (riferita da Cicerone, De republica I, 17): «mai era meno solo di quando era solo» o, meglio, «mai era meno estraniato di quando si trovava in solitudine» – sembra che Epitteto, lo schiavo filosofo di origine greca, sia stato il primo a distinguere fra estraniamento e solitudine. La sua scoperta fu in un certo senso accidentale, dato che il suo interesse era rivolto principalmente non alla solitudine o all’estraniazione, bensì all’essere da solo (monos) nel senso dell’indipendenza assoluta. Stando a Epitteto (Dissertationes 3, 13), l’uomo estraniato (eremos) si trova circondato da altri con cui non può stabilire un contatto o alla cui ostilità è esposto. L’uomo solitario, invece, «può essere insieme con sé stesso», perché gli uomini hanno la capacità di «parlare con sé stessi». Nella solitudine, in altre parole, sono con me stesso, e perciò due-in-uno, mentre nell’estraniazione sono effettivamente uno, abbandonato da tutti. La riflessione, in senso stretto, si svolge in solitudine ed è un dialogo fra me e me; ma questo dialogo del due-in-uno non perde il contatto col mondo dei miei simili, perché essi sono rappresentati nell’io con cui conduco il dialogo del pensiero. Il problema della solitudine è che questo due-in-uno ha bisogno degli altri per ridiventare uno: un individuo non scambiabile, la cui identità non può mai essere confusa con quella altrui. Per la conferma della mia identità io dipendo interamente dagli altri; ed è la grande grazia della compagnia che rifà del solitario un «tutto intero», salvandolo dal dialogo della riflessione in cui si rimane sempre equivoci, e ridandogli l’identità che gli consente di parlare con l’unica voce di una persona non scambiabile.

La solitudine può diventare estraniazione; ciò avviene quando, chiuso completamente in me stesso, sono abbandonato dal mio io. I solitari corrono sempre il pericolo dell’estraniazione, quando non possono più trovare la grazia redimente della compagnia che li salva dalla dualità, dall’equivocità e dal dubbio. Storicamente è come se soltanto nel XIX secolo questo pericolo fosse tanto aumentato da farsi notare. Esso è venuto in piena luce quando i filosofi, per i quali soltanto la solitudine è un modo di vita e una condizione di lavoro, non si sono più accontentati del fatto che «la filosofia è solo per i pochi» e hanno cominciato a ripetere che nessuno li comprendeva. Caratteristico a tale riguardo è l’aneddoto che riporta le parole di Hegel sul letto di morte, parole che non si sarebbero potute mettere in bocca a nessun grande filosofo prima di lui: «Nessuno mi ha compreso tranne uno; e anche lui mi ha frainteso». Per contro, c’è sempre la possibilità che un uomo estraniato ritrovi sé stesso e cominci il dialogo della solitudine. Ciò capitò, sembra, a Nietzsche a Sils Maria quando concepì Zarathustra. In due poesie («Sils Maria» e «Aus hohen Bergen») egli parla della vuota attesa e dell’ansia dell’abbandonato, finché d’improvviso «um Mittag war’s, da wurde Eins zu Zwei… / Nun feiern wir, vereinten Siegs gewiss, / das Fest der Feste; / Freund Zarathustra kam, der Gast der Gäste!» (Era mezzogiorno quando Uno divenne Due… Ed ora celebriamo, certi della vittoria unita, la festa delle feste; venne l’amico Zarathustra, l’ospite degli ospiti).

Quel che rende l’estraniazione così insopportabile è la perdita del proprio io, che può essere realizzato nella solitudine, ma confermato nella sua identità soltanto dalla compagnia fidata e fiduciosa dei propri simili. In tale situazione l’uomo perde la fede in sé stesso come partner dei suoi pensieri e quella fiducia elementare nel mondo che è necessaria per fare delle esperienze. Io e mondo, capacità di pensiero ed esperienza vengono perduti nello stesso momento.

L’unica capacità della mente umana che non ha bisogno dell’io, dell’altro o del mondo per funzionare e che è indipendente dall’esperienza come dalla riflessione è il ragionamento logico che ha la sua premessa nell’evidente. Le norme elementari dell’evidenza cogente, la tautologia della proposizione «due più due fanno quattro», non possono essere snaturate neppure in condizioni di assoluta estraniazione. È l’unica «verità» sicura su cui gli esseri umani possono ripiegare una volta persa la reciproca garanzia, il senso comune, di cui hanno bisogno per fare esperienza, vivere e conoscere la loro via in un mondo comune. Ma questa verità è vuota o, meglio, non è affatto verità, perché non rivela alcunché. (Definire la coerenza come verità, alla maniera di certi logici moderni, significa negare l’esistenza della verità.) Nell’estraniazione l’evidente non è più quindi un semplice mezzo dell’intelletto e comincia ad essere produttivo, a sviluppare proprie linee di «pensiero». Che i processi mentali caratterizzati da una rigorosa logicità evidente, da cui non c’è manifestamente via di scampo, abbiano qualche attinenza con l’estraniazione, è stato già osservato da Lutero (che non era probabilmente secondo a nessuno in fatto di esperienza nei fenomeni della solitudine e dell’estraniazione, e una volta ha osato affermare che «ci deve essere un Dio perché l’uomo ha bisogno di un essere in cui confidare») in una nota poco conosciuta al passo della Bibbia in cui si dice che non è bene che l’uomo sia solo. Un uomo estraniato, osserva Lutero, «deduce sempre una cosa dall’altra e pensa tutto per il peggio»4. L’estremismo dei movimenti totalitari, lungi dall’aver qualcosa a che fare col vero radicalismo, consiste in effetti in questo pensare «tutto per il peggio», in questo processo deduttivo che giunge sempre alle peggiori conclusioni possibili.

Quel che prepara così bene gli uomini moderni al dominio totalitario è l’estraniazione che da esperienza limite, usualmente subita in certe condizioni sociali marginali come la vecchiaia, è diventata un’esperienza quotidiana delle masse crescenti del nostro secolo. L’inesorabile processo in cui il totalitarismo inserisce le masse da esso organizzate appare come un’evasione suicida da questa realtà. La «freddezza glaciale del ragionamento» e il «poderoso tentacolo» della dialettica che «vi afferra come in una morsa» si presentano come l’ultimo punto d’appoggio in un mondo dove non ci si può fidare di niente e di nessuno. È l’intima coercizione, il cui unico contenuto consiste nell’evitare rigorosamente le contraddizioni, che sembra confermare l’identità di un uomo al di fuori di ogni rapporto con altri. Essa lo adatta al ferreo vincolo del terrore anche quando è solo, e il dominio totalitario non prova mai a lasciarlo solo tranne nella situazione estrema della reclusione cellulare. Distruggendo ogni spazio fra gli individui, comprimendoli l’uno contro l’altro, si annientano anche le potenzialità creative dell’isolamento; insegnando ed esaltando il ragionamento logico dell’estraniazione, in cui l’uomo sa di essere completamente perduto se lascia andare la prima premessa da cui prende l’avvio l’intero processo, si eliminano le già scarse probabilità di una trasformazione dell’estraniazione in solitudine e della logica in pensiero. Se si confronta questa pratica con quella della tirannide, si ha l’impressione che si sia trovato il modo di mettere in moto il deserto, di scatenare una tempesta di sabbia capace di coprire ogni parte della terra abitata.

Le condizioni della nostra esistenza politica sono oggi minacciate da tali tempeste di sabbia devastatrici. Il pericolo non è che possano creare qualcosa di durevole. Il dominio totalitario, al pari della tirannide, racchiude in sé i germi della propria distruzione. Come la paura e l’impotenza, da cui quella deriva, sono principî antipolitici e gettano gli uomini in una situazione contraria alla azione politica, così l’estraniazione e la deduzione logico-ideologica del peggio, ad essa legata, rappresentano una situazione antisociale e contengono un principio distruttivo per ogni convivenza umana. Cionondimeno, l’estraniazione organizzata è infinitamente più pericolosa dell’impotenza disorganizzata di tutte le persone soggette alla volontà tirannica e arbitraria di un singolo. Essa minaccia di devastare il mondo così come lo conosciamo – un mondo che dovunque sembra giunto alla fine – prima che un nuovo inizio nascente da questa fine abbia avuto il tempo di affermarsi.

A parte tali considerazioni – che come predizioni sono di scarsa utilità e ancor meno di conforto – rimane il fatto che la crisi del nostro tempo e la sua esperienza centrale hanno portato alla luce una forma interamente nuova di governo che, in quanto potenzialità e costante pericolo, ci resterà probabilmente alle costole per l’avvenire, al pari di altre forme che, apparse in momenti storici diversi e basate su diverse esperienze di fondo, hanno accompagnato dopo d’allora l’umanità a prescindere dalle temporanee sconfitte: monarchie e repubbliche, tirannidi, dittature e dispotismo.

Ma rimane altresì vero che ogni fine nella storia contiene necessariamente un nuovo inizio; questo inizio è la promessa, l’unico «messaggio» che la fine possa presentare. L’inizio, prima di diventare avvenimento storico, è la suprema capacità dell’uomo; politicamente si identifica con la libertà umana. «Initium ut esset, creatus est homo», «affinché ci fosse un inizio, è stato creato l’uomo», dice Agostino5. Questo inizio è garantito da ogni nuova nascita; è in verità ogni uomo.


Note

*. Così inizia il testo pubblicato a sé. Il testo pubblicato invece come ultimo capitolo della seconda edizione de Le origini del totalitarismo inizia, nella traduzione di Guadagnin, con: Nei precedenti capitoli abbiamo ripetutamente sottolineato come il totalitarismo sia, oltre che più radicale, essenzialmente diverso da altre forme conosciute di oppressione politica come il dispotismo, la tirannide e la dittatura.

1. Nell’orazione funebre per Marx, Engels disse:

«Come Darwin ha scoperto la legge dello sviluppo della vita organica, così Marx ha scoperto la legge dello sviluppo della storia umana».

Un’affermazione analoga si trova nella sua introduzione all’edizione del Manifesto comunista del 1890; e nell’introduzione all’Origine della famiglia egli menziona ancora una volta, l’una accanto all’altra, la «teoria dell’evoluzione di Darwin» e la «teoria del plusvalore di Marx».

2. Sulla concezione marxiana del lavoro come «eterna necessità naturale, per consentire il metabolismo fra l’uomo e la natura», v. Il Capitale, vol. I, parte I, cap. 1 e 5. Il brano citato si trova nel cap. 1, sez. 2.

3. Discorso di Stalin del 28 gennaio 1924 (citato da LENIN, Selected Works, Mosca 1947, I, p. 33). È interessante notare che la «logica» di Stalin è fra le poche qualità elogiate da Chruščëv nel suo discorso demolitore al XX congresso.

4. «Warum die Einsamkeit zu fliehen?», in Erbauliche Schriften.

5. De Civitate Dei, libro 12, cap. 20.



Ultima modifica 2019.12.02