Per la critica della violenza

Walter Benjamin (1920)


Traduzione indiretta dall'inglese di: Leonardo Maria Battisti.

Fonte: Walter Benjamin: Reflection. Essays, Aphorisms, Autobiographical, Writings, Schocken Books, New York, pp. 277-300. Tradotto da: Edmund Jephcott.


Una critica della violenza ha per me il compito di esporne il rapporto col diritto e con la giustizia. Infatti una causa agente è violenza autentica solo se incide in rapporti etici, definiti dai concetti di diritto e di giustizia. Circa il diritto è palese che il più elementare rapporto giuridico è quello fine-mezzo; e che la violenza sta solo nel regno dei mezzi, non dei fini. Già tali osservazioni danno alla critica della violenza una premessa non evidente. Infatti: che la violenza sia mezzo parrebbe porre già il criterio della sua critica, mercé la domanda: per ogni caso, la violenza è mezzo a fini giusti o ingiusti? In un sistema di fini giusti la critica della violenza parrebbe data a priori. Ma non è così. Infatti (posto che fosse fuori da ogni dubbio) tale sistema non fornirebbe un criterio della violenza come principio, bensì un criterio per i casi della sua applicazione, senza toccare il problema: è etica in generale la violenza come principio (pure come mezzo a fini giusti)? Tale quesito esige un criterio più preciso, che scinda la sfera stessa dei mezzi, a prescinder dai fini cui servono.

L'assenza di tale più esatta impostazione è forse il tratto predominante una vasta corrente della filosofia del diritto: il diritto naturale. Ad esso l'uso di mezzi violenti fa poco problema quanto all'uomo sentirsi in “diritto” di dirigere il proprio corpo verso la meta a cui tende. Per la concezione giusnaturalistica (che funse da base ideologica al terrorismo della Rivoluzione francese) la violenza è un prodotto naturale (come una materia prima) il cui uso si fa problematico solo se a fini ingiusti. Se, nella teoria giusnaturalistica dello Stato, le persone rinunciano a tutto il loro potere a favore dello Stato, ciò segue il presupposto (esplicitato da Spinoza nel Trattato teologico-politico) che il singolo in sé (prima della conclusione di tale contratto degno della ragione) eserciti pure de jure ogni potere che detenga de facto. Tali concezioni forse rivivono nella biologia darwiniana (che, in modo dogmatico, stima la violenza come solo mezzo originario, oltre alla violenza, conforme a tutti i fini vitali della natura). La volgare filosofia darwinistica illustra spesso come sia facile passare da tale dogma naturalistico al dogma ancor più rozzo della filosofia del diritto per cui quella violenza conforme a fini naturali è giuridicamente legittima.

Affatto opposta a tale tesi giusnaturalistica della violenza come dato naturale è la tesi giuspositivistica: il potere è un prodotto della storia. Il diritto naturale può giudicare ogni diritto esistente solo criticandone i fini, invece il diritto positivo può giudicare ogni diritto determinatosi solo criticandone i mezzi. La giustizia è il criterio dei fini; invece la legalità è il criterio dei mezzi. Malgrado tale contrasto, però le due scuole concordano sul comune dogma di base: fini giusti sono raggiungibili con mezzi legittimi, mezzi legittimi sono impiegabili a fini giusti. Con la giustizia dei fini, il diritto naturale tende a «giustificare» i mezzi; con la legittimità dei mezzi, il diritto positivo tende a «garantire» la giustizia dei fini. L'antinomia sarebbe insolubile se fosse falso il comune presupposto dogmatico (se mezzi legittimi & fini giusti fossero fra loro in contrasto irriducibile). Per capire serve abbandonare il circolo vizioso, cioè porre criteri fra loro irrelati per fini giusti & per mezzi legittimi.

Il regno dei fini (il discernimento della giustizia) è per ora escluso da questa indagine, incentrata, invece, su: sono legittimi certi mezzi che consistono in violenza? I principi giusnaturalistici non aggrediscono tale problema, trascinandolo in una casistica senza fine. Infatti il diritto naturale è cieco per la condizionatezza dei mezzi, invece il diritto positivo lo è per l'incondizionatezza dei fini. La teoria giuspositivistica è adatta per iniziare la ricerca, poiché discrimina a priori vari tipi di violenza, avulsa dai casi della sua applicazione: la violenza storicamente riconosciuta (la violenza sancita come potere) & la violenza non sancita. Beninteso: iniziar le analisi seguenti da tale discriminazione non accondiscende che le violenze siano classificate come sancite o no. Infatti una critica della violenza giudica il criterio giuspositivistico, anziché applicarlo. Si tratta di stabilir il senso di tale distinzione giuspositivistica, cioè: è reso possibile discerner l'essenza della violenza dal fissar un tale criterio o differenza? Ben presto si vedrà che è una distinzione sensata, affatto fondata in sé e non sostituibile da alcun altra; ma al contempo si appaleserà che la distinzione vale solo in un'unica sfera. Insomma: il criterio fissato dal diritto positivo per la legittimità della violenza va analizzato solo per il suo senso, invece la sfera della sua applicazione va criticata per il suo valore. Per tale critica serve trovar un criterio fuori dalla filosofia positiva del diritto, ma anche fuori dal diritto naturale. Risulterà che tale nuovo criterio si ottiene solo guardando il diritto dal punto di vista della filosofia della storia.

Il senso del discrimine fra violenza legittima e illegittima non è immediato. Bisogna badare all'equivoco giusnaturalistico (per cui tale senso sarebbe distinguere fra violenza a scopi giusti ovvero ingiusti). Piuttosto si è già accennato che il diritto positivo esige da ogni potere un attestato della sua origine storica, da cui riceve, a certe condizioni, la sua sanzione e legittimità. Poiché il riconoscimento di violenza giuridica si esprime nel modo più concreto nella sottomissione incondizionata ai loro fini, allora come criterio ipotetico per classificare le violenze si può porre: la presenza o mancanza di loro fini storici universali. I fini senza tale riconoscimento si chiameranno fini naturali; gli altri, fini giuridici. E la diversa funzione della violenza (al servizio o di fini naturali o di fini giuridici) va esposta in base a un qualunque sistema di rapporti giuridici determinati. Per semplicità, le considerazioni seguenti si riferiranno ai presenti rapporti europei.

Circa la persona singola come soggetto giuridico, tali rapporti giuridici si caratterizzano per la tendenza a non ottriar per la persona singola fini naturali in tutti i casi in cui potrebbe, all'occasione, perseguirli con la violenza. Cioè: in tutti i casi in cui fini di persone singole potrebbero esser coerentemente perseguiti con la violenza, tale ordinamento giuridico tende a fissar fini giuridici che possono venir realizzati in tal modo solo dal potere giuridico. Anzi, il potere giuridico tende a ridurre (mediante fini giuridici) pure gli spazi dove (teoricamente) i fini naturali sono consentiti entro ampi margini, allorché si perseguano quei fini naturali con troppa violenza (come nelle leggi sui limiti della punizione educativa). Si può formulare come principio universale delle presenti legislazioni europee che: tutti i fini naturali di persone singole collidono d'uopo coi fini giuridici allorché perseguiti con troppa violenza. (La contraddizione del diritto alla legittima difesa dovrebbe spiegarsi da sé nel corso delle analisi seguenti). Da tale principio segue che il diritto stima la violenza nelle mani della persona singola come capace di minare l'ordinamento giuridico. È un pericolo di vanificare i fini giuridici e l'esecutivo giuridico? No: perché così non sarebbe condannata la violenza in sé, ma solo rivolta a fini anti-giuridici. Si dirà che un sistema di fini giuridici non potrebbe mantenersi, se in qualche punto fini naturali potessero essere ancora perseguiti con la violenza. Ma ciò per ora è un dogma non provato. Per cui è meglio considerare la sorprendente possibilità che l'interesse del diritto a monopolizzare la violenza rispetto alla persona singola si spieghi con l'intenzione di difendere il diritto stesso, non fini giuridici. La violenza extra giuridica minaccia il diritto per la sua sola esistenza fuori del diritto, non per i fini che essa persegue. La stessa congettura è suggerita ancora di più ricordando quante volte già la figura del «grande» delinquente abbia suscitato la segreta ammirazione del popolo (per quanto bassi potessero essere i suoi fini). Ciò non per le sue azioni, bensì perché esse provano che la violenza è possibile. Ivi la violenza, che il diritto attuale cerca di togliere da ogni ambito di attività del singolo, insorge davvero minacciosa e, pur nella sua sconfitta nel processo giudiziario, suscita la simpatia della folla contro il diritto. Per quale funzione la violenza appaia, a ragione, pericolosa al diritto, da esserne così temuta, si chiarirà proprio là dove le è ancora permesso di esibirsi nell'attuale ordinamento giuridico.

Ciò si verifica nella lotta di classe, nella forma del diritto di sciopero ufficialmente garantito agli operai. Oggi la classe operaia organizzata è il solo soggetto giuridico, accanto agli Stati, a cui spetti un diritto alla violenza. Contro tale tesi si può obbiettare che lo sciopero come un'omissione di azioni, un non-agire, non si possa definir violenza. Tale considerazione ha facilitato al potere statale la concessione del diritto di sciopero, quando era ormai inevitabile. Ma, non essendo incondizionata, tale concessione non vale illimitatamente. Certo: l'omissione di un'azione, oppure di un servizio, dove equivalga solo a una «rottura di rapporti», può essere un mezzo puro, privo di violenza. E come (secondo la concezione dello Stato, o del diritto), col diritto di sciopero si dà ai lavoratori non tanto un diritto alla violenza, quanto il diritto di sottrarsi alla violenza esercitata indirettamente dal datore di lavoro; così può scoppiar ogni tanto un simile sciopero per esibir solo un «distacco» o un «estraniamento» dal datore di lavoro. Ma in un'omissione siffatta il fattore della violenza interviene, come ricatto, quando essa ha luogo nella disponibilità a riprendere come prima l'azione interrotta a certe condizioni che o non hanno assolutamente nulla a che fare con essa, o la modificano solo superficialmente. E in questo senso (secondo la concezione della classe operaia, opposta a quella dello Stato) il diritto di sciopero è il diritto di usar la violenza per imporre certi scopi. Il contrasto fra le due concezioni si palesa nello sciopero generale rivoluzionario. In esso, la classe operaia si richiamerà ogni volta al suo diritto di sciopero, ma lo Stato definirà tale richiamo un abuso (poiché, dirà, il diritto di sciopero non va inteso così) e emanerà decreti speciali. Infatti lo Stato può dichiarare illegittimo lo sciopero simultaneo in tutte le aziende, non essendoci per ognuna di esse il movente particolare previsto dal legislatore. Tale differenza d'interpretazione esprime la contraddizione oggettiva di una situazione giuridica per cui lo Stato riconosce una violenza ai cui scopi, essendo naturali, è a volte indifferente, ma in casi gravi (come lo sciopero generale rivoluzionario) è decisamente ostile. Infatti, benché possa parer paradossale, in certe condizioni si può definir violenza pure un comportamento assunto nell'esercizio di un diritto. Nel caso in cui tale comportamento sia attivo, è violenza quando esercita un diritto che gli compete per rovesciare l'ordinamento giuridico che gli conferisce tale diritto; nel caso in cui sia passivo, è violenza in quanto ricattatorio nel senso testé svolto. Ciò è prova solo di una contraddizione di fatto nella situazione giuridica (non una contraddizione logica nel diritto) che, in certe condizioni, il diritto si opponga con la violenza alla violenza degli scioperanti. Infatti nello sciopero lo Stato teme soprattutto quella funzione della violenza che questa indagine si propone appunto di determinare come unico fondamento sicuro della critica della violenza stessa. Poiché se la violenza fosse (come pare d'emblée) solo un mezzo di assicurarsi ciò a cui si mira, allora realizzerebbe il suo fine come mera violenza di rapina. Pertanto sarebbe affatto inetta a fondare o modificare rapporti sociali in modo relativamente stabile. Ma lo sciopero mostra che la violenza è in grado proprio di fondar e modificare rapporti giuridici, pure in disprezzo del sentimento di giustizia. Si potrebbe obbiettare che tale funzione della violenza è casuale e isolata. Basterà l'esame della violenza bellica a confutare tale obbiezione.

La possibilità di un diritto di guerra poggia sulla stessa contraddizione di fatto nella situazione giuridica data dal diritto di sciopero, cioè dal fatto che soggetti giuridici sanciscono poteri i cui fini restano per loro fini naturali, ma in casi gravi possono confliggere coi loro propri fini giuridici o naturali. In ogni caso la violenza bellica si rivolge ai suoi scopi in modo diretto e come violenza di rapina. Ma è guari sorprendente che pure (o proprio) in condizioni primitive (appena agli esordi di rapporti di diritto pubblico), addirittura quando il vincitore ha acquisito un possesso inattaccabile, sia necessaria una cerimonia di pace. Anzi, la parola «pace» come antonima di guerra (poiché esiste un significato non antonimo, kantiano, di «pace perpetua», altrettanto concreto e politico) indica proprio la necessità a priori di sanzionare ogni vittoria, indipendentemente da tutti gli altri rapporti giuridici. Tale sanzione consiste nel riconoscere i nuovi rapporti come nuovo «diritto», indipendentemente dal fatto che essi abbisognino o meno di qualche garanzia de facto per la loro sussistenza. Insito nella violenza bellica (se si può estendere quanto valga per la violenza bellica, come violenza originaria e prototipica, ad ogni violenza a fini naturali) è un carattere di creazione giuridica. Nel prosieguo si ritornerà sul portato di tale conoscenza, che spiega la citata tendenza del diritto moderno a togliere ogni violenza (anche solo rivolta a fini naturali), almeno alla persona singola come soggetto giuridico. Nel grande delinquente tale violenza minaccia il diritto vigente di porre un nuovo diritto, minaccia che ancora oggi (benché impotente) fa rabbrividire il popolo come nei tempi mitici. Ma lo Stato teme tale violenza come creatrice di diritto tanto quanto deve riconoscerla quando è costretto a concedere il diritto di guerreggiare alle potenze esterne, o il diritto di sciopero alle classi.

Nell'ultima guerra la critica della violenza militare è assurta a punto di partenza di una critica appassionata della violenza in generale, provando almeno che essa non è più esercitata o tollerata ingenuamente. Tuttavia la violenza non è stata criticata in quanto creatrice di diritto, bensì (e più spietatamente) in quanto svolge un'altra funzione. Infatti tipica del militarismo, creato dal servizio militare obbligatorio, è una duplicità nella funzione della violenza. Il militarismo è l'obbligo dell'uso universale della violenza come mezzo ai fini dello Stato. L'uso cogente della violenza è stato di recente giudicato quanto (o di più) l'uso stesso della violenza, perché nell'uso cogente la violenza appare in una funzione diversa dal suo semplice uso a fini naturali: l'uso della violenza come mezzo a fini giuridici. Infatti, nel caso della del servizio militare obbligatorio, la sottomissione dei cittadini alle leggi è un fine giuridico. Se la prima funzione della violenza è creare il diritto, questa seconda è conservare il diritto. E se in teoria il servizio militare è un caso di violenza conservatrice di diritto, allora una sua critica non è facile come immaginano le declamazioni di pacifisti e attivisti. Bensì si tratta di una critica di ogni potere giuridico, cioè la critica del potere esecutivo o legale, irrealizzabile con un programma minore. Di certo tale critica è irrealizzabile (salvo proclamarsi anarchici ingenui) rifiutando ogni coazione della persona e dichiarando «lecito ciò che piace». Un siffatto principio distoglie dalla sfera etico-storica, onde dal senso dell'agire, nonché dal senso del reale, che non si può costituire se si toglie l'«azione» dalla sua sfera. Più importante è forse che pure il tentativo usuale di rifarsi all'imperativo categorico, peraltro ridotto all'osso («Agisci in modo da trattar l'umanità, sia nella tua persona sia in ogni altra persona, sempre come scopo e mai come mezzo»), non basta a questa critica1. Perché il diritto positivo (se consapevole delle sue radici) pretenderà di riconoscere e di promuovere l'interesse dell'umanità nella persona di ogni singolo, scorgendo tale interesse nell'esibire e conservare un ordine di tipo destinale. Benché quest'ordine destinale (che dice a ragione di conservare il diritto) non può sfuggire alla critica, tuttavia nei suoi confronti è impotente ogni contestazione avanzata solo in nome di una «libertà» informe, salvo definire un ordine superiore di libertà. Ed è tanto più impotente se non contesta l'ordinamento giuridico per intero, bensì solo singole leggi o consuetudini giuridiche. Infatti il diritto salvaguarda singole leggi col suo potere, consistente nell'esistenza di un solo destino, e dell'appartenenza al suo ordinamento di ciò che esiste nonché di ciò che lo minaccia. Infatti la violenza che conserva diritto è anche una violenza che minaccia. E la sua minaccia non ha il senso della deterrenza, come la interpretano abulici teorici liberali. La deterrenza autentica ha una determinatezza che contraddice l'essenza della minaccia e che niuna legge può ottenere, poiché si spera sempre di farla franca. La legge risulta più minacciosa se somiglia a un destino da cui dipenda se il delinquente incorra nei suoi rigori. Il senso di indeterminatezza della minaccia giuridica apparirà solo nella successiva analisi della sfera del destino, da cui essa deriva. Un valido rimando a tale indeterminatezza sta nel campo delle pene. Da quando è stato messo in questione il diritto positivo, la pena di morte ha suscitato la maggiore critica. Benché i suoi argomenti non sono stati perlopiù decisivi, decisivi sono le sue motivazioni. Gli avversari di tali critici sentivano (senza saperlo spiegar, e forse senza neppure volerlo sentire) che contestar la pena di morte non attacca un livello di pena, né sulla particolare legge, bensì il diritto stesso alla sua origine. Infatti se l'origine del diritto è la violenza (violenza incoronata destino), allora è logico supporre che nel potere supremo (quello di vita e di morte) dove la violenza figura nell'ordinamento giuridico, l'origine violenta del diritto si appalesi paurosamente nella realtà attuale. Prova di ciò è che nei rapporti giuridici primitivi la pena di morte si applica pure a delitti (tipo violazioni di proprietà) a cui pare guari «sproporzionata», perché il suo senso non è di punire l'infrazione giuridica, bensì di statuire il nuovo diritto. Infatti l'esercizio del potere di vita e di morte rafforza il diritto più di ogni altro atto giuridico. Ma proprio in tale esercizio, una maggiore sensibilità rileva un che di guasto nel diritto, non soddisfando tale atto i rapporti in cui il destino si sarebbe mostrato nella sua maestà. Ma l'intelletto deve attinger a tali rapporti per riuscire a criticare la violenza conservatrice quanto la violenza creatrice del diritto.

In un modo più innaturale che nella pena di morte, tali due specie di violenza (fuse in modo quasi spettrale) sono presenti in un'altra istituzione dello Stato moderno: la polizia. Questa è sì una violenza a fini giuridici (con potere di disporre), ma anche col potere di stabilire essa stessa tali fini, entro vasti limiti (potere di ordinare). L'ignominia di tale autorità (avvertita da pochi perché solo di rado essa effettua gli interventi più duri, operando tanto più alla cieca nei settori più indifesi e contro i pensatori, dai quali le leggi non proteggono lo Stato) è che essa abolisca la divisione fra le due violenze (creatrice e conservatrice). Dalla violenza creatrice si esige la cerimonia di vittoria e dalla violenza conservatrice che non ponga nuovi fini. La violenza poliziesca è libera da ambe le condizioni: essa crea il diritto (poiché l'essenza del diritto non è promulgare le leggi, ma dar forza di legge ad ogni decreto) e conserva il diritto (posto a disposizione di quei fini). È falso dire che i fini della violenza poliziesca siano sempre identici o almeno connessi a quelli del restante diritto. Anzi, il «diritto» della polizia segna proprio il punto in cui lo Stato (vuoi per impotenza, vuoi per le connessioni immanenti di ogni ordinamento giuridico) non riesca più a garantirsi con l'ordinamento giuridico il raggiungimento dei suoi fini empirici, che intende raggiungere ad ogni costo. Al che la polizia interviene, «per ragioni di sicurezza», in casi in cui manca una chiara situazione giuridica (quando, senza alcun rapporto con fini giuridici, accompagna il cittadino con una vessazione brutale attraverso una vita regolata da ordinanze, o addirittura lo sorveglia). Al contrario del diritto (che fa della «decisione» determinata nello spazio e nel tempo una categoria metafisica, vulnerabile alla critica) l'analisi della polizia nulla incontra di sostanziale. Il suo potere è informe come la sua presenza spettrale, inafferrabile e onnipresente nella vita degli Stati civilizzati. Benché la polizia paia dappertutto uguale, va rilevato che il suo spirito è meno distruttivo dove essa incarna (nella monarchia assoluta) il potere del sovrano (dove si fondono il potere legislativo ed esecutivo) anziché nelle democrazie (dove la sua presenza, non migliorata da un simile rapporto, testimonia la massima degenerazione possibile della violenza).

Ogni violenza-come-mezzo o crea o conserva il diritto. Senza alcuno di tali attributi, rinuncia da sé ad ogni validità. Indi, pure nei casi più favorevoli, ogni violenza-come-mezzo rientra nella problematica del diritto in sé. Quanto detto finora non espone il significato di tale problematica, ma fa già apparire il diritto in una luce etica così equivoca da suscitare la domanda: esistono mezzi non violenti per regolare conflitti di interesse fra gli uomini? La domanda obbliga anzitutto a constatare che un sanamento di conflitti non violento mai può sfociare in un contratto giuridico. Poiché questo, per quanto possa stipularsi pacificamente dai contraenti, conduce sempre, in ultima istanza, a una possibile violenza. Infatti esso conferisce ad ogni parte il diritto di ricorrere a qualche violenza contro l'altra che rompa il contratto. Non solo. Come il risultato, pure l'origine di ogni contratto rinvia alla violenza. Non serve che la violenza figuri nel contratto come creatrice di diritto; essendo già rappresentata finché il potere che garantisce il contratto è a sua volta d'origine violenta. Senza la consapevolezza della presenza latente della violenza in un istituto giuridico, esso decade. Odierno esempio di ciò sono i parlamenti: essi offrono il noto, triste spettacolo, di aver perso coscienza delle forze rivoluzionarie a cui devono la loro esistenza. Specie in Germania, pure l'ultima manifestazione di tali forze non ha avuto effetto sui parlamenti. Manca loro il senso della violenza creatrice di diritto da essi rappresentata; da non destare stupore che non arrivino a decisioni degne di tale violenza, ma curino in via compromissoria una presunta condotta non violenta degli affari politici. Ma

«benché ripudi ogni violenza aperta, il compromesso è sempre un prodotto incluso nella mentalità della violenza, perché l'aspirazione al compromesso non è motivata intrinsecamente, ma dall'esterno, e cioè dall'aspirazione opposta. Pure se liberamente accettato, ogni compromesso è impossibile senza un carattere cogente. “Sarebbe meglio diversamente” è il sentimento al fondo di ogni compromesso»2.

È significativo che la decadenza dei parlamenti abbia sottratto all'ideale del sanamento pacifico dei conflitti politici tante simpatie quante forse gliene avesse procurate la guerra. Ai pacifisti si oppongono i bolscevichi e i sindacalisti che hanno criticato gli odierni parlamenti in modo caustico ma esatto. Per quanto si possa auspicare un parlamento vegeto, è impossibile, analizzando mezzi non violenti di accordo politico, considerare il parlamentarismo. Poiché ciò che il parlamentarismo ottiene in questioni vitali sono solo quegli ordinamenti giuridici affetti di violenza in origine e negli effetti.

È possibile il sanamento non violento di conflitti? Sì. I rapporti fra persone private ne danno vari esempi. L'accordo non violento si attua ovunque un atteggiamento civile consenta di usare mezzi puri di intesa. Ai mezzi legali e illegali di ogni genere (che sono sempre violenza) possono contrapporsi i mezzi non violenti in quanto mezzi puri. Cortesia, simpatia, irenismo, fiducia* e quant'altro sono la premessa soggettiva di tali mezzi puri. Ma la loro manifestazione oggettiva è determinata dalla legge (il cui ambito non è il caso di esibire qui), ché mai mezzi puri sono mezzi di soluzioni immediate, bensì sempre di soluzioni mediate. Mai si riferiscono direttamente al sanamento di conflitti fra uomo e uomo, ma solo a dispute sulle cose. Appo i conflitti umani sui beni oggettivi si apre la sfera dei mezzi non violenti. Perciò il loro campo specifico è la tecnica (nel senso più ampio della parola). Il miglior esempio è forse la conversazione, intesa come una tecnica di civile accordo. Infatti in essa non solo è possibile l'accordo non violento, ma c'è l'esclusione di principio della violenza, espressamente provata da un fatto significativo: l'impunità della menzogna. Forse niuna legislazione originaria sulla terra la punisca. Ciò significa che: c'è una sfera di intesa umana non violenta a tal punto da esser affatto inaccessibile alla violenza: la vera e propria sfera del «capirsi»: il linguaggio. Solo più tardi, in un vero processo di decadenza, la violenza giuridica è penetrata pure in tale sfera col render punibile l'inganno. Infatti l'ordinamento giuridico alle sue origini (confidando nella sua violenza vittoriosa) si limita a colpir la violenza illegale (allorché si mostri), stimando l'inganno impunibile (non avendo potere in sé) secondo il principio «jus civile vigilantibus scriptum est» del diritto romano o quello [«Augen für Geld»] dell'antico diritto germanico. Invece il diritto più tardo (persa la fiducia nella propria violenza) non si sentì più in grado di fronteggiare altre violenze. Il timore di queste violenze e la sfiducia in sé stesso definiscono la sua crisi. Il diritto inizia a porsi fini, nell'intento di evitare manifestazioni più forti della violenza conservatrice del diritto. Così si rivolta contro l'inganno per paura della violenza che potrebbe suscitare nell'ingannato (non per considerazioni morali). Poiché tale timore collide con l'originaria essenza violenta del diritto stesso, tali fini sono inadeguati ai mezzi legittimi del diritto. Essi riflettono la decadenza della specifica sfera del diritto, nonché una diminuzione dei mezzi puri. Infatti vietando l'inganno, il diritto limita l'uso di mezzi affatto non violenti, poiché essi, per reazione, potrebbero generare violenza. Tale tendenza del diritto ha contribuito pure alla concessione del diritto di sciopero, antitetico agli interessi dello Stato. Il diritto permette lo sciopero, poiché impedisce azioni violente che teme di affrontare. Infatti prima gli operai passavano subito al sabotaggio e al rogo delle fabbriche. Per indurre gli uomini a contemperare i loro interessi fuori da ogni ordinamento giuridico c'è infine un motivo efficace (avulso da ogni virtù) per suggerir di usar i mezzi puri (anziché mezzi violenti) pure a chi è più restio: il timore di svantaggi comuni che deriverebbero da un conflitto violento, checchessia il suo esito. Tali svantaggi sono evidenti in tanti casi di conflitti di interesse fra privati. Diverso il caso di conflitto fra classi e nazioni, quando superiori ordinamenti minacciano di travolgere allo stesso modo vincitori e vinti, e gli svantaggi restano celati al sentimento dei più e all'intelligenza di quasi tutti. Ma non ho spazio per l'analisi di tali ordinamenti superiori e dei loro corrispondenti interessi (che sono il miglior motivo di una politica di mezzi puri).3Basti ricordare: i mezzi puri della politica sono analoghi ai mezzi che governano i pacifici rapporti fra persone private.

Circa le lotte di classe, in certe condizioni lo sciopero va stimato un mezzo puro. Due tipi essenzialmente diversi di sciopero, la cui possibilità è già stata esaminata, vanno definiti più da vicino. Sorel ha il merito di averli distinti per primo (per ragioni politiche più che teoriche), contrapponendo fra loro sciopero generale politico & sciopero generale proletario. Questi sono antitetici pure in rapporto alla violenza. Dei partigiani del primo dice:

«il rafforzamento dello Stato è alla base delle loro concezioni. Nelle loro organizzazioni attuali i politici (cioè i socialisti moderati) gettano le basi di un potere forte, centralizzato e disciplinato, che sarà indifferente alle critiche dell'opposizione, che saprà imporre il silenzio ed emanare per decreto le sue menzogne...»4.

«...Lo sciopero generale politico prova che lo Stato nulla perderebbe della sua forza se il potere passa da privilegiati ad altri privilegiati e la massa dei produttori muta i suoi padroni».

Contro tale sciopero generale politico (che pare, del resto, riassumere la passata rivoluzione tedesca), lo sciopero generale proletario si pone solo il compito di distrugger del potere statale.

Esso «esclude tutte le conseguenze ideologiche di ogni possibile politica sociale. I suoi seguaci considerano pure le riforme più popolari come riforme borghesi».

«Tale sciopero generale proletario mostra chiaramente la sua indifferenza per i vantaggi materiali della conquista, in quanto dichiara di voler elidere lo Stato; che era la ragion d'essere dei gruppi dominanti, che privatizzano i profitti e socializzano le spese».

Mentre la prima forma di sospensione del lavoro è violenta (poiché fa solo una modifica esteriore delle condizioni di lavoro), la seconda forma, proletaria, come mezzo puro, è non violenta. Infatti essa non avviene nella disponibilità a riprendere il lavoro di prima (dopo concessioni esteriori e qualche modifica alle condizioni lavorative), bensì nella decisione di riprendere solo un lavoro affatto mutato, non più imposto dallo Stato, un rovesciamento che tale tipo di sciopero non induce bensì lo compie. Indi la prima forma realizza un diritto, la seconda è anarchica. Adducendo frasi sfuse di Marx, Sorel rifiuta qualsiasi programma, utopia, creazione di diritto per il movimento rivoluzionario:

«Lo sciopero generale [proletario] disfa tutte queste belle cose. La rivoluzione appare come una pura e semplice rivolta, senza posto per i sociologi, gli amatori di riforme sociali, o gli intellettuali che di mestiere pensano per il proletariato».

A tale profonda concezione (etica e autenticamente rivoluzionaria) non si può opporre che tale sciopero generale sia violento per le possibili conseguenze catastrofiche. Seppur si possa a ragione dire che l'economia moderna nel suo complesso somiglia a una belva che si scatena appena il domatore è distratto (più che a una macchina che si ferma se il fochista l'abbandona), è uopo giudicare la violenza di un'azione solo dalla legge dei suoi mezzi (giammai dai suoi effetti o dai suoi fini). Il potere statale (che per natura bada solo alle conseguenze) è contro proprio a tale sciopero (non agli scioperi parziali, effettivamente ricattatori). Con argomenti molto acuti, Sorel spiega come una concezione così rigorosa dello sciopero generale sia di per sé atta a ridurre l'impiego effettivo di violenza nelle rivoluzioni. Viceversa, un caso di astensione violenta, più rude e immorale dello sciopero generale politico, simile all'embargo, è lo sciopero dei medici, avvenuto in tante città tedesche. Esso costituisce l'uso della violenza più repellente e cinico in una classe professionale che per anni (senza mai tentare di resistere) «ha garantito alla morte la sua preda», per poi, alla prima occasione, lasciar la vita a sé stessa. – Più chiaramente che nelle recenti lotte di classe, mezzi di accordo non violento si sono formati nella storia millenaria degli Stati. Solo occasionalmente, nelle loro relazioni, il compito dei diplomatici consiste nel modificar gli ordinamenti giuridici. Perlopiù (in piena analogia con l'accordo fra persone private) essi devono sanar i conflitti, caso per caso, in nome dei loro Stati (pacificamente e senza trattati). Compito delicato, assolto più drasticamente dagli arbitri, ma in teoria superiore a quello dell'arbitro perché: se è fuori da ogni ordinamento giuridico, è fuori da ogni violenza. Come nei rapporti fra privati, pure quello fra diplomatici ha dato forme e virtù che, che non sono sempre state esteriori formalità, seppur tali siano divenute. 

In tutto l'ambito dei poteri previsti o dal diritto naturale o dal diritto positivo, non ce n'è uno senza questa grave problematica di ogni violenza giuridica. Ma poiché qualsiasi soluzione ai compiti umani (tacendo la liberazione dai limiti di tutte le passate condizioni storiche di vita) resta irrealizzabile escludendo a priori ogni violenza, allora il problema è necessariamente: esiste un tipo di violenza diversa da quelli delle teorie giuridiche? Ed insieme il problema: è vero il dogma fondamentale delle teorie giuridiche (fini giusti possono essere raggiunti con mezzi legittimi, mezzi legittimi possono essere adoperati a fini giusti)? E se ogni specie di violenza destinale (in quanto impiega mezzi legittimi) fosse di per sé in contraddizione insolubile con fini giusti, e se al contempo si potesse individuare una violenza di altro genere (né mezzo legittimo né illegittimo a quei fini, bensì con essi in qualche rapporto diverso da quello di mezzo)? Ciò illuminerebbe l'insolita e d'emblée avvilente scoperta dell'insolubilità di ogni problema giuridico (la quale, nella sua assenza di vie d'uscita, è paragonabile solo all'impossibilità di decider fra «giusto» e «sbagliato» nell'evoluzione delle lingue). Infatti la ragione non decide sulla giustificazione dei mezzi (bensì lo fa la violenza) né sulla giustizia dei fini (bensì lo fa Dio). Ciò è raro da intuir solo perché vige l'ostinata abitudine di concepire i fini giusti come fini di un diritto possibile, e cioè, nonché come generalmente validi (il che segue analiticamente dall'essenza della giustizia), perfino come suscettibili di generalizzazione (il che contraddice l'essenza della giustizia, come si potrebbe provare). Infatti fini giusti, universalmente validi e accettabili per una situazione, non lo sono per alcun altra (per quanto simile sotto altri rispetti). L'esperienza quotidiana esibisce una funzione della violenza non mediata, qui in gioco. La collera tipica dell'uomo lo porta agli scoppi di una violenza non rivolta come mezzo a un fine prestabilito. La violenza collerica non è mezzo, bensì manifestazione. E tale violenza conosce manifestazioni oggettive in cui può esser soggetta a critica. Esse ricorrono in modo più significativo soprattutto nel mito.

Nella sua forma archetipa la violenza mitica è pura manifestazione degli dèi: non mezzo ai loro scopi, poco manifestazione della loro volontà, soprattutto manifestazione del loro essere. La leggenda di Niobe ne è un esempio preclaro. L'azione di Apollo e di Artemide potrebbe sembrare solo una punizione. Ma la loro violenza istituisce un diritto più che punire l'infrazione di un diritto preesistente. L'orgoglio di Niobe attira contro il destino, ma non perché offenda il diritto, bensì perché sfida il destino a una lotta che esso d'uopo vince – e solo nella vittoria, semmai, genera un diritto nuovo. Quanto poco la violenza divina (in senso antico) fosse punitiva per conservar il diritto risulta dalle saghe in cui l'eroe (per esempio Prometeo) sfida con coraggio il destino, lotta con esso con alterne fortune, e la saga non lo priva della speranza di apportare un giorno un nuovo diritto agli uomini. Il popolo che ammiri il delinquente è alla ricerca di questo eroe (e della violenza giuridica del mito nata con lui). Così la violenza divina piomba su Niobe dall'incerta, ambigua sfera del destino. Tale violenza non è propriamente distruttiva. Benché rechi ai figli una morte sanguinosa, essa si arresta ante la vita della madre, lasciandola (per la fine dei figli) ancora più colpevole di prima, come muto ed eterno segno della colpa, e come un cippo fra gli uomini e gli dèi. Se tale violenza immediata nelle manifestazioni mitiche si dimostrasse strettamente affine, o addirittura identica, a quella che crea il diritto, allora la violenza immediata getta luce problematica sulla violenza creatrice di diritto, avendo definito questa come violenza indiretta (nell'esposizione della violenza bellica testé). Al contempo tale nesso promette di fare luce sul destino, che sta sempre alla base della violenza giuridica, e di portare a termine la critica di quest'ultima, a grandi linee. Infatti la funzione della violenza legislatrice è duplice: da un lato mira in quanto fine a cosa è instituito come diritto (usando la violenza come mezzo), dall'altro (nell'atto di istituire come diritto lo scopo perseguito) non congeda la violenza, piuttosto (ora come creatrice di diritto in senso stretto) la violenza istituisce come diritto, col nome di potere, un fine intimamente e necessariamente legato ad essa (anziché slegato dalla violenza). Legiferare è creare potere: un atto di manifestazione diretta della violenza. Giustizia è il principio di ogni finalità divina; potere è il principio di ogni legislazione mitica.

Quest'ultimo ha un'applicazione gravida di conseguenze nel diritto pubblico, nel cui ambito la creazione dei confini (come è attuata dalla «pace» di tutte le guerre dell'età mitica) è l'archetipo della violenza creatrice di diritto. Essa appalesa che: è il potere (non la conquista di territori, anche ingenti) a dover essere garantito dalla violenza creatrice di diritto. Dove si fissano confini, l'avversario non è annientato, anzi gli sono riconosciuti diritti, pure se il vincitore è strapotente. Cioè, in modo demonicamente ambiguo, uguali diritti: è la stessa linea a non dover esser superata da ambi i contraenti. Lì appare, in forma temibile e originaria, la stessa mitica ambiguità delle leggi che non possono essere «trasgredite», che (dice Anatole France satiricamente) vietano sia ai ricchi sia ai poveri di dormire sotto i ponti. Così Sorel pare toccar una verità non solo storico-culturale, bensì metafisica, ipotizzando che ogni diritto nacque come privilegio dei re o di notabili, cioè dei potenti. E ciò durerà, mutatis mutandis, finché durerà il diritto. Perché dal punto di vista della violenza (che sola può garantire il diritto) non c'è eguaglianza, ma, nel migliore dei casi, poteri egualmente grandi. Ma l'atto di fissare confini è importante per comprendere il diritto pure sotto un altro rispetto. Confini posti e definiti restano, almeno nelle epoche primitive, leggi non scritte. L'uomo può superarli inconsapevolmente e incorrer così nel castigo. Infatti si chiama castigo ogni intervento del diritto provocato dall'infrazione di leggi non scritte e ignote; diverso dalla pena. Ma per quanto accidentalmente possa colpir l'ignaro, tale intervento (in senso giuridico) non è un caso, ma destino, che, ancora, si mostra nella sua sistematica ambiguità. Già Hermann Cohen5, in una rapida analisi dell'antica concezione del destino, lo definì

una «cognizione ineludibile», tale che «sono i suoi stessi ordinamenti che paiono causar e produrre tale infrazione, tale caduta».

Tale spirito del diritto è attestato pure dal moderno principio che l'ignoranza della legge non esuli dalla pena. Così pure la lotta delle antiche comunità per avere leggi scritte va letta come una rivolta contro lo spirito degli statuti mitici.

Lungi dall'aprirci una sfera più pura, la manifestazione mitica della violenza immediata si rivela di fondo identica ad ogni violenza giuridica, e muta i dubbi sulla seconda in certezza che la sua funzione storica sia rovinosa, e quindi da distruggere. Il compito di distruggerla ripropone il problema: quale violenza pura immediata possa arrestar la violenza mitica immediata? Come Dio si oppone al mito, così alla violenza mitica si oppone quella divina, che ne costituisce l'antitesi in ogni punto. Se la violenza mitica crea il diritto, la violenza divina lo annienta; se quella fissa confini, questa distrugge indiscriminatamente; se la violenza mitica incolpa e castiga, quella divina discolpa; se quella incombe, questa è fulminea; se quella è sanguinosa, questa è letale ma senza sangue. Come esempio di violenza divina, alla saga di Niobe si può opporre il giudizio di Dio sulla tribù di Core [cfr. Num 16, 1-35]. Esso colpisce privilegiati (leviti), senza preavviso, senza minaccia, e non si ferma prima dell'annientamento. Ma annientando purifica. C'è un nesso evidente fra assenza di sangue & purificazione della violenza divina. Perché il sangue è il simbolo della nuda vita. La dissoluzione della violenza giuridica risale (come ivi non si può provar) alla colpevolezza della nuda vita, che affida il vivente (infelice senza colpa) al castigo, che «espia» la sua colpa – e purifica pure il colpevole, ma non da una colpa, bensì dal diritto. Infatti con la nuda vita cessa il dominio del diritto sul vivente. La violenza mitica è sanguinosa sulla nuda vita in sé e per sé; la pura violenza divina agisce su ogni vita in nome del vivente. La violenza mitica esige sacrifici, la violenza divina li accetta.

Nonché nella tradizione religiosa, tale violenza divina si ritrova nella vita odierna, almeno in una manifestazione approvata. Il potere educativo (che nella sua forma perfetta cade fuori del diritto) è una delle sue manifestazioni. Queste non si definiscono per un miracoloso intervento divino, bensì per la purificazione che avviene senza sangue e in definitiva senza creazione di diritto. Pertanto è lecito chiamare distruttiva la violenza divina; ma solo relativamente, circa i beni, il diritto, la vita e simili, giammai circa l'anima del vivente (la vita non nuda). Una tale estensione del potere puro o divino è certo destinata a suscitare, proprio oggi, i più violenti attacchi! Si obbietterà che, in forza della sua logica, essa accorda agli uomini la violenza letale reciproca. Ma non è vero. Infatti alla domanda «Posso uccidere?» risponde il comandamento irriducibile: «Non uccidere». Il comandamento precede l'azione, come Dio «previene» che accada. Ma esso non può essere osservato per timore della pena, e resta inapplicabile, incommensurabile rispetto all'azione compiuta. Dal comandamento non segue alcun giudizio sull'azione. Così non si può sapere a priori il giudizio di Dio su di essa, né il motivo di questo. Ma sbaglia chi condanni ogni uccisione violenta dell'uomo da parte dell'uomo in base al quinto comandamento. Esso non è un criterio del giudizio, ma una norma dell'azione per la persona o comunità agente, che devono cimentarvisi in solitudine, assumendosi in casi tremendi la responsabilità di prescinderne. Così lo intendeva pure l'ebraismo, che rifiutava di condannar l'omicidio in casi di legittima difesa. Ma quei teorici risalgono a un ulteriore teorema con cui pretender di fondar il comandamento stesso. È il principio della sacralità della vita, esteso ad ogni vita animale nonché vegetale, o ristretto a quella umana. La loro argomentazione, nel caso estremo dell'uccisione rivoluzionaria degli oppressori, suona così:

«Il terrorista sagace pensa “Senza uccidere, mai instaurerò il regno della giustizia”; ma noi asserriamo che, più in alto della felicità e della giustizia dell'esistenza, ci sta l'esistenza in sé»6.

Benché tale tesi sia falsa (certo ignobile), essa svela l'obbligo di cercare il motivo del comandamento in ciò che l'azione fa a Dio e all'agente stesso, anziché in ciò che l'azione fa all'assassinato. Falsa e ignobile è la tesi che l'esistenza sia superiore all'esistenza giusta, se esistenza significa solo la nuda vita (proprio come nella riflessione citata). Ma essa contiene una grande verità se l'esistenza (o meglio la vita) – due parole la cui ambiguità, come per la parola libertà, va risolta rapportandole a due sfere diverse – designa lo stato irriducibile dell'«essere umano». Cioè, se la tesi significa che: la scomparsa dell'uomo è peggiore della (svalutata) non-comparsa dell'uomo giusto. A tale ambiguità la tesi deve la sua parvenza di verità. Giammai invece l'essere umano coincide con la nuda vita dell'uomo; né con alcun altro dei suoi stati o qualità; anzi neppure con l'unicità della sua persona fisica. Più è sacro l'uomo (o quella vita in lui che resta identica nella vita terrestre, nella morte e nell'aldilà), meno lo sono i suoi stati e la sua vita fisica, vulnerabile agli altri. Cosa altrimenti lo distingue da animali e piante? E seppur animali e piante fossero sacri, non potrebbero esserlo per la loro nuda vita, né potrebbero esserlo in essa. Servirebbe indagare l'origine del dogma della sacertà della vita, forse recente. È l'ultima aberrazione dell'indebolita tradizione occidentale cercar il sacro ormai perduto nell'impenetrabilità cosmologica. (L'antichità di tutti i comandamenti religiosi contro l'omicidio nulla prova in contrario, poiché essi si basano su idee diverse dal teorema moderno). Infine dà da pensare che qui si dichiari sacro ciò che, secondo l'antico pensiero mitico, è il portatore designato della colpa: la nuda vita.

La critica della violenza è la filosofia della sua storia – la «filosofia» di questa storia perché solo l'idea del suo esito apre una prospettiva critica, dirimente e decisiva, sui suoi elementi temporali. Guardando solo da vicino al massimo si può discernere un'altalena dialettica fra le forme di violenza che crea e di violenza che conserva il diritto. La legge di queste oscillazioni dipende dal fatto che ogni violenza conservatrice (a lungo andare) indebolisce indirettamente la violenza creatrice, attraverso la repressione delle controviolenze ostili. (In questo studio si sono già annotati alcuni sintomi di ciò). Ciò dura fino a quando forze nuove o prima oppresse sopraffanno la violenza che finora creatrice diritto, fondando così un nuovo diritto destinato a una nuova decadenza. Sull'interruzione di questo ciclo delle forme mitiche del diritto, sulla destituzione del diritto e delle forze dalle quali dipende (come esse da esso), insomma: sull'abolizione dello Stato si basa una nuova epoca storica. Se oggi qua e là l'impero del mito è già scosso, l'età nuova non è così remota da stimare futile un attacco contro il diritto. Ma se alla violenza è assicurata esistenza pure dopo la fine del diritto (come pura violenza immediata), ho provato cosa e come sia possibile la violenza rivoluzionaria (suprema manifestazione di violenza pura da parte dell'uomo). Non altrettanto possibile, né altrettanto urgente per gli uomini, è capire quando, in un caso concreto, sia in atto la pura violenza. Perché solo la violenza mitica, non quella divina è riconoscibile con certezza come tale; salvo forse da effetti straordinarie, perché la forza purificante della violenza è invisibile agli uomini. Ritornano a disposizione della pura violenza divina tutte le forme eterne che il mito ha imbastardito col diritto. La violenza divina può apparire bene nella vera guerra come nel giudizio divino della folla sul delinquente. Ma riprovevole è ogni violenza mitica che crea il diritto, e che si può chiamare esecutiva. Riprovevole è pure la violenza che conserva il diritto, la violenza amministrativa, che serve la esecutiva. La violenza divina, che è insegna e sigillo, mai strumento di sacra esecuzione, è la violenza suprema.


Note

1. Caso mai si potrebbe dubitare se questa celebre citazione non contenga troppo poco, permettendo di servirsi o lasciare che altri si serva di sé o di un altro «anche» come di un mezzo, assieme a come di un fine. Si potrebbero addurre ottime ragioni a favore di questo dubbio.

2. E. Unger: Politik und Metaphysik, Berlin 1921, p. 8.

3. Ma confronta Unger, pp. 18 segg.

4. Sorel: Réfléxions sur la violence, 5ª ed., Paris, 1919, p. 250.

5. Hermann Cohen: Ethik des reinen Willens, 2ª ed., Berlin, 1907, p. 368.

6. Kurt Hiller in un annuario della Das Ziel.

*. «Pistis kai eunoia» [Senofonte]



Ultima modifica 2019.11.11