L'imperialismo unitario

Arrigo Cervetto (1950-1980)

 


Edizioni Lotta Comunista, luglio 1981
Trascritto per internet da Mishù, settembre 2001


Capitolo quinto
LA DESTALINIZZAZIONE, 1956-1961

Nota introduttiva
Cronologia
Il corso dell'imperialismo nel 1955-56
La destalinizzazione: nuovo passo dell'imperialismo unitario e della socialdemocrazia
La struttura economica sovietica e i problemi della rivoluzione e dello Stato
Polonia: la spinta delle masse operaie a Poznan
Ungheria: primo bilancio della rivolta
Il rapporto Gomulka: atto d'accusa contro l'imperialismo russo
Nuovi sviluppi della politica imperialistica alla fine del 1956
Gli insegnamenti della rivolta ungherese (a proposito delle tesi di "Socialisme ou Barbarie")
La fisionomia della nuova classe dominante e la mediazione delle forze sociali in URSS
Sul capitalismo di Stato in URSS (a proposito di una tesi di B. Rizzi)
Trotsky sulla Russia
Il XXII Congresso del PCUS e le esitazioni del PCI nel processo di destalinizzazione

 

Polonia: la spinta delle masse operaie a Poznan

Quando Kruscev e gli altri dirigenti sovietici si precipitarono a Varsavia e ne ripartirono, speditamente come erano arrivati, tutto il mondo comprese che un grande fatto nuovo era avvenuto nel blocco orientale. Gomulka, il dirigente comunista condannato per titoismo, non solo era stato completamente riabilitato, non solo era stato nominato segretario del Partito Operaio Polacco, non solo aveva estromesso Rokossovski dal Politburo, ma aveva detto chiaramente ai russi di andarsene e di non intralciare un movimento ormai aperto da nuove e insopprimibili condizioni. La rivolta operaia di Poznan, che i dirigenti dell'imperialismo sovietico, ed i loro valletti italiani in testa, avevano spudoratamente insultato come "opera di provocatori e teppisti", alla sola distanza di quattro mesi aveva conquistato una sua prima vittoria. Senza Poznan, senza il suo eroico sacrificio, senza la volontà rivoluzionaria della sua classe operaia, la rivoluzione polacca non avrebbe raggiunto le sue attuali tappe che, seppur limitate, sono già condizioni indispensabili per un suo inevitabile prosieguo.

Questa è la prima lezione che i fatti di Polonia danno ai miserabili calunniatori di professione, ai castrati amanti della "democratizzazione", le canaglie ipocrite che plaudono alla "liberalizzazione" nei paesi dell'imperialismo sovietico e sparano sui rivoluzionari algerini. Le classi dirigenti di ogni paese hanno poco da rallegrarsi e questo, loro, lo sanno bene anche se, per una effimera e demagogica propaganda, cercano di interpretare e travisare ogni avvenimento a loro favore. Ma nella storia contano i fatti e non le parole. E i fatti dimostrano che ogni qualvolta la classe operaia, con più o meno coscienza, con più o meno chiarezza di obiettivi, adopera le sue forze rivoluzionarie, tutto il sistema capitalista ed imperialista ne è scosso e le sue fondamenta si incrinano, a Mosca come a Washington, a Varsavia come ad Algeri. E questo lo seppero così bene gli imperialisti di ogni colore che già nel corso della seconda guerra mondiale, che aveva visto i sistemi sociali e politici di molti paesi sfasciarsi in crisi, si divisero come briganti il mondo in zone d'influenza per prevenire soffocare ogni rivoluzione proletaria.

Nessun proletariato ebbe perciò la possibilità di compiere la sua rivoluzione e di intervenire in modo dissolvente nella crisi dell'imperialismo ma tutti i proletariati, sia dei paesi vinti che dei paesi vincitori, furori impiegati e fatti massacrare, grazie ai partiti cosiddetti operai ma in realtà agenti dell'imperialismo americano e sovietico, nel quadro della strategia di guerra. Il cinico abbandono della rivolta di Varsavia dell'agosto 1944, da parte dei russi, alla furia delle SS hitleriane fu barattato con il massacro spietato della gloriosa insurrezione greca. Mentre i partiti servi dell'imperialismo occidentale ed orientale si stringevano la mano nel governare, proprio come avevano ordinato i loro padroni, nei fronti di unità nazionale e per frenare e deviare, nel nome della ricostruzione nazionale, ogni anelito rivoluzionario delle masse, nelle due zone d'influenza si stabilivano i regimi di capitalismo privato e di capitalismo di Stato. Per ingannare le masse, per far sì che queste non trasformassero la guerra in un vasto capovolgimento sociale, tutti assieme chiamavano questi regimi "democrazia" o "socialismo." Tutti assieme, dividendosi le parti in perfetto accordo, si assunsero il ruolo di propagandisti della "democrazia" o del "socialismo" ben sapendo, poiché bene sapevano chi li pagava, che "democrazia" era la maschera del capitalismo monopolista e "socialismo" era la maschera del capitalismo di Stato. In questo modo si dividevano i compiti; i lavoratori, intontiti da una gigantesca propaganda orchestrata a più voci, non avevano via di scelta. Quelli che erano disgustati dalle delizie capitalistiche della "democrazia" cadevano nelle braccia del compare "socialismo", gli altri che rimanevano inorriditi dalla dittatura e dal totalitarismo cosiddetto "socialista" trovavano le sirene accoglienti della "democrazia." Per i più esigenti: tutta una serie di sfumature di partitini e partitucoli, anch'essi foraggiati dai comuni padroni, creati per raccogliere gli ultimi dispersi. L'importante per tutti era che i lavoratori non scegliessero il loro, il vero socialismo, poiché in questo caso avrebbero levato da mezzo, e non solo a parole, tutti i commessi viaggiatori della "democrazia" e dello pseudo "socialismo."

Queste verità bisogna gridarle forte oggi, bisogna che i lavoratori le facciano loro perché solo in queste verità vi è il socialismo e in tutto il resto una gigantesca e tragica menzogna.

I lavoratori debbono ricordare la storia degli ultimi anni. Debbono ricordare che mentre in Oriente le baionette russe mettevano con la forza i loro governi marionetta, in Occidente la Resistenza veniva tradita dai gruppi dirigenti che ne avevano assunto la direzione e, soffocata a volte anche con la violenza ogni spinta rivoluzionaria, convogliata nella restaurazione capitalista. Non solo. Mentre a Varsavia o a Budapest i governi filosovietici toglievano ogni libertà alla classe operaia, in Francia il governo di coalizione nazionale, composto anche dal PCF, ordinava il massacro di 45 mila nordafricani che si ribellavano. A quel tempo nessuno parlava di libertà soffocata! Nessuno, dicasi nessuno, trovò che si toglieva la "libertà di vivere" ai centomila giapponesi di Hiroshima e di Nagasaki! Allora i briganti erano uniti e i loro servi educavano i lavoratori ad esultare del "formidabile colpo" inferto alla "belva giapponese."

Bisogna ritornare al passato per comprendere i fatti di oggi. Le macchine della propaganda vorrebbero che noi prendessimo la realtà così come esse la sfornano quotidianamente. Troppo comodo, troppo semplice per farci cadere in quella imbecillità collettiva in cui senza tregua è tenuta l'umanità. Ritorniamo alla Polonia del 1945, così come potremmo tornare a qualsiasi altro paese. Se non vi fosse stata l'occupazione sovietica cosa avrebbe fatto il proletariato polacco per uscire dal disastro in cui lo aveva gettato la guerra se non una rivoluzione sociale ed una socializzazione di tutti i mezzi di produzione? Avrebbe fatto esattamente quello a cui aspirava il proletariato italiano occupato dalle truppe americane. Avrebbe fatto esattamente quello che avrebbero fatto i proletariati di ogni paese se avessero avuto alla loro testa i partiti rivoluzionari fedeli al grande insegnamento leninista di trasformare la guerra imperialista in rivoluzione sociale.

Ma se il proletariato polacco avesse tentato di fare la sua rivoluzione si sarebbe trovato bersaglio del fuoco concentrico dei russi e degli americani, così come sarebbe capitato al proletariato italiano, così come al proletariato rivoluzionario spagnolo era capitato di essere colpito di fronte dai clericali-franchisti e dai nazifascisti, ai fianchi dai "democratici inglesi" e dai "fronte popolaristi" francesi, alle spalle dagli stalinisti agenti di Mosca.

Quindi anche al proletariato polacco toccò la sorte dei proletariato degli altri paesi: lavorare duramente per la ricostruzione nazionale, pagare con uno sfruttamento ad esso imposto le conseguenze della guerra, restaurare il proprio capitalismo, pagare i sovrapprofitti al proprio imperialismo. E ciò, come in ogni paese, significa fame, miseria, mancanza di libertà. In Polonia il proletariato ha dovuto ricostruire il capitalismo di Stato ed essere sfruttato dall'imperialismo sovietico. Se la Polonia fosse rimasta nel blocco "occidentale" il proletariato polacco avrebbe ricostruito il capitalismo monopolistico, che del resto è per molti settori statale, e sarebbe stato sfruttato dall'imperialismo americano. Forse avrebbe avuto certe libertà politiche ma a condizione che le usasse nel quadro della democrazia borghese, cioè nel sostanziale appoggio al dominio politico dello Stato capitalista e di tutte le sue istituzioni parlamentari.

Certamente è meglio che abbia passato la sua seconda esperienza, quella del capitalismo di Stato. Ora che ha perso ogni illusione, è storicamente maturo per portare avanti la sua rivoluzione. Ha provato nella pratica quanti e chi sono i suoi nemici. Non ritornerà indietro alla Polonia dei "colonnelli" e dei latifondisti e intanto adesso ha buttato via i "socialisti" alla Rokossovski.

Quando dura sia stata l'esperienza pagata dai lavoratori ce lo dimostra chiaramente lo stesso rapporto di Gomulka, sul quale ritorneremo per uno studio più approfondito. Salari bassissimi per permettere una forte accumulazione per la costruzione del capitalismo statale, milioni di ore straordinarie e di supersfruttamento nelle miniere dove era stata abolita persino la festività settimanale, bassi consumi, una crisi spaventosa di alloggi, pensioni da mendicanti, disastro economico nelle campagne dove una burocrazia parassitaria succhiava il già magro rendimento e, soprattutto, uno spaventoso indebitamento verso la Unione Sovietica, tanto grave da far dichiarare a Gomulka il pericolo di una crisi generale. Risulta evidente che i famosi "prestiti socialisti" altro non sono, come tante volte abbiamo denunciato, che strumenti di rapina imperialistica sovietica.

Sempre Gomulka ha detto chiaramente che, giunta la situazione a tal punto, alla classe operaia non rimaneva altro che iniziare la rivolta di Poznan. La classe operaia nella pratica va individuando i suoi obiettivi e prova ne è che sta creando i Consigli di fabbrica che, in lotta contro i sindacati burocratizzati e le direzioni, tendono a controllare e gestire le industrie. Certamente questo non è ancora socialismo, ma è una conquista che potrà essere strappata ai lavoratori solo con le armi. Sfortunatamente manca alle masse lavoratrici polacche il partito rivoluzionario che sappia coordinare ed orientare verso obiettivi generali il loro prodigioso slancio.

Quello che è certo ormai è che la classe operaia polacca ha iniziato una sua feconda esperienza pratica, che la arricchirà di una ideologia e di un partito rivoluzionario e la condurrà a compiere a fondo la sua rivoluzione. Gomulka è solo una fase transitoria, forse necessaria, forse utile per un più sicuro passo decisivo che potrà essere tale solo quando la crisi dell'imperialismo aprirà il periodo della rivoluzione proletaria internazionale, soprattutto nei paesi fortemente industriali dell'Occidente. Solo allora le rivoluzioni che in varie forme sono iniziate all'Est avranno la possibilità obiettiva di congiungersi internazionalmente in una morsa mortale per l'imperialismo mondiale e unitario. Noi che lavoriamo per questo siamo idealmente al fianco dei nostri fratelli rivoluzionari polacchi ed ungheresi e difendiamo la bandiera che fu già di Rosa Luxemburg e della Repubblica dei Consigli ungherese del 1919, come oggi è dei giovani insorti, dagli insulti che i controrivoluzionari di ogni tinta le rivolgono. Per questo lavoriamo affinché tutti i sinceri rivoluzionari, oggi delusi e scoraggiati dai partiti cosiddetti operai, ritrovino vigore, fiducia ed unità in un nuovo partito rivoluzionario che porti avanti la bandiera della grande lotta per il comunismo e per la libertà.

(" L'Impulso " n. 15, 25 dicembre 1956)

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Ungheria: primo bilancio della rivolta

L'insurrezione ungherese, come già il rivolgimento polacco, ha messo a nudo il fattore più importante che ne è alla base e che noi da anni andiamo documentando: l'imperialismo sovietico. Intendiamo qui riferirci specificatamente all'aspetto economico di questo imperialismo, aspetto fondamentale per avere una visione obiettiva e inequivocabile degli avvenimenti ungheresi. Senza attendere o prevedere la rivolta dell'Ungheria noi, seguendo strettamente il metodo d'interpretazione economica marxista, avevamo individuato le leggi e le tendenze dell'imperialismo sovietico nei paesi satelliti e da questa analisi teorica, convalidata continuamente da dati statistici emessi dalle stesse fonti sovietiche, derivava il rifiuto assoluto di qualificare "socialista" la struttura dell'Unione Sovietica e dei paesi da essa controllati. Il riconoscimento a cui perviene l'analisi marxista deve essere un punto fermo della posizione rivoluzionaria e quindi ogni tentativo di definire "socialista" il sistema sociale sovietico deve essere condannato come azione controrivoluzionaria. Solo su di una piattaforma teorica che ha riconosciuto il carattere imperialista dell'Unione Sovietica è possibile una efficace lotta antimperialista. Ogni tentativo di presentare l'Unione Sovietica come Stato operaio degenerato non solo rivela la sua insufficienza teorica, non solo contribuisce al disorientamento del movimento operaio, non solo ritarda la formazione ideologica del partito rivoluzionario, ma innanzi tutto favorisce obiettivamente l'imperialismo sovietico in particolare e l'imperialismo mondiale in generale.

Quello che noi abbiamo sempre affermato in teoria, anche nei lunghi anni del silenzio in cui ogni minimo movimento di classe veniva avvolto nel blocco sovietico e la conferma della teoria doveva essere faticosamente rintracciata in cumuli di statistiche sofisticate, oggi appare nella più nuda e cruda realtà. Come sempre nella storia la verità diventa semplicissima quando la lotta di classe giunge al massimo della sua carica esplosiva e si trasforma in scontro armato. Proprio come diceva Marx: dalle armi della critica alla critica delle armi.

Sfruttamento imperialista, precisa nozione teorica ma ancora vaga per le masse, diventa sfruttamento del lavoro con i bassi salari, intensificazione dello sforzo della classe operaia, miseria, fame. L'Ungheria è l'esempio più evidente di questa realtà. Non può nemmeno essere presa in considerazione la sfacciata versione che gli stalinisti cercano di dare della realtà ungherese definendola un prodotto di una serie di "tragici errori." Come se l'imperialismo sovietico e il capitalismo di Stato fossero semplici errori e non lo sviluppo sovietico e ungherese del sistema mondiale capitalista e imperialista che i lavoratori di tutto il mondo, a qualsiasi paese appartengono, debbono per forza e con la forza abbattere! L'unico "tragico errore" per il movimento operaio è che vi siano ancora degli stalinisti e dei loro compari "socialisti" di tutte le tinte aggregati alle altre centrali capitaliste concorrenziali a confondere le masse lavoratrici e a servirsene come masse di manovra per la lotta dei gruppi imperialisti.

Comunque nessuna falsificazione o speculazione propagandistica può cancellare i fatti. E i fatti sono questi: a) l'imperialismo sovietico, nei vari modi che vedremo, sfruttava il proletariato ungherese; b) l'imperialismo sovietico, come quello americano o quello anglo-francese, al termine della seconda guerra mondiale incluse l'Ungheria nella sua zona d'influenza per allargare il suo campo di sfruttamento; c) solo il grado d'inferiorità dell'imperialismo sovietico nei confronti degli imperialismi occidentali più maturi (non si deve dimenticare che se l'URSS è al secondo posto mondiale come produzione globale, scende al sesto come produzione per abitante e all'ottavo posto come produttività del lavoro) ha determinato che lo sfruttamento verso l'Ungheria assumesse forme molto intense, di tipo semicoloniale, tali da provocare un fortissimo squilibrio economico, sociale e politico.

In tali condizioni è naturale che la lotta di classe prenda un impulso tale da non poter più essere contenuta nell'ordinamento politico per quanto dittatoriale esso sia. Per noi rivoluzionari il sistema capitalistico in se stesso è una dittatura, che permette e annulla le varie sfumature di libertà formali solo nella misura in cui gli interessi contingenti o storici sono minacciati dal rovesciamento e solo nel grado di necessità capitalistica dello sfruttamento della forza lavoro. Era naturale, quindi, che la dittatura più ferrea esistesse in Ungheria, dato che in quel paese l'accumulazione dei capitali da parte del capitalismo di Stato era condotta ad un ritmo accelerato e con un incremento che soltanto la compressione più violenta dei salari operai poteva consentire.

Quando il capitalismo cerca di sviluppare la propria economia, partendo da un basso livello come era partita l'Ungheria, ogni minima libertà che la classe operaia può conquistare significa economicamente minore capitalizzazione a favore di maggiori consumi, rallentamento dell'industrializzazione, calo del saggio del profitto. è questa la legge economica a cui nessun capitalismo può sottrarsi. Principalmente dove il capitalismo è più maturo, cioè dove la progressiva industrializzazione si è sviluppata in un periodo più lungo, la dominazione classista assume forme cosiddette "democratiche" e determinate libertà formali sono concesse al movimento operaio ormai inquadrato dal riformismo in una azione che non intacca minimamente le basi del sistema ma, anzi, spesse volte lo rafforza.

In questi paesi lo sfruttamento imperialista perde il suo aspetto colonialista e si basa su forme economiche più moderne quali, ad esempio, l'esportazione di capitali e lo scambio internazionale che favorisce sempre i settori progrediti. Sia nell'esportazione di capitali che nello scambio internazionale, i paesi capitalisticamente più avanzati realizzano enormi sovrapprofitti che permettono loro di frenare le proprie contraddizioni interne, quali ad esempio la perenne crisi agraria che è costantemente tamponata dalla politica di sostegno e di intervento statale. In particolare anche i paesi più avanzati non possono neppure essi prescindere da alcune forme di colonialismo e quindi assistiamo all'intervento anglo-francese nel Nord Africa e nel Medio Oriente e alla politica statunitense nell'America Latina.

Ci troviamo di fronte non a vari sistemi che operano in Oriente e in Occidente ma ad un unico sistema capitalista nella sua fase imperialista che, a seconda dei paesi in cui opera e grazie ad una infinità di altri fattori, assume varie forme apparentemente contrastanti ma sostanzialmente riducibili alla loro unicità nella base economica. Mosca e Washington, Roma e Budapest sono, perciò, episodi di un unico fenomeno, rami dello stesso albero: l'imperialismo unitario e mondiale.

La seconda guerra mondiale fu appunto una tragica manifestazione di questo fenomeno. Il proletariato internazionale fu fatto massacrare in nome del nazionalismo, della democrazia e del socialismo. A undici anni di distanza troviamo sempre il proletariato internazionale sfruttato dall'imperialismo mondiale che si camuffa sempre dietro le stesse formule. In sostanza chi perse la guerra fu il proletariato di tutti i paesi che pagò con la morte e con la fame, chi la vinse fu il capitalismo mondiale che ha avuto la possibilità di aumentare la produzione e perciò di sopravvivere: tutti i paesi, vinti o vincitori, hanno aumentato e in alcuni casi raddoppiato la loro produzione.

Da parte sovietica questo è stato possibile grazie anche allo sfruttamento dell'Ungheria. Nel 1945 l'Ungheria aveva il 40% del suo potenziale industriale distrutto. Inizia quindi la cosiddetta "edificazione del socialismo." Nel 1949 non solo era stata ricostruita tutta l'industria distrutta, ma la produzione industriale era già aumentata considerevolmente. "Edificazione del socialismo" a tempo di primato: nel 1938, 9 milioni di tonnellate di carbone, nel 1949, 11 milioni e 800 mila; nel 1938, 648 mila tonnellate di acciaio, nel 1949, 849 mila. Nel frattempo veniva compiuta un'altra tappa della edificazione socialista con una riforma di normale amministrazione borghese e che nulla ha a che fare con il socialismo: la riforma agraria per cui venivano espropriate e ridistribuite le proprietà superiori ai 100 ettari; più di 3 milioni di contadini proletarizzati dall'ordinamento latifondista diventavano piccoli proprietari morti di fame. Che razza di socialismo sia questo non si capisce. In realtà solo il capitalismo ha interesse a togliere dalle campagne un forte proletariato, pieno di carica rivoluzionaria, per farne una massa di piccoli proprietari, conservatori anche se sfruttati dal capitalismo finanziario, sostenitori retrogradi del sistema sociale basato sulla proprietà. La riforma agraria che colpisce il feudalesimo è una delle armi del capitalismo per espandersi nell'agricoltura. Era quindi naturale che quello che non aveva fatto la debole borghesia ungherese, a differenza di quella cecoslovacca più avanzata, lo facesse il capitalismo statale. Ma la questione agraria che la suddivisione della terra non può certo risolvere, in Ungheria era aggravata dal fatto che il capitalismo statale impegnato in una rapida industrializzazione non poteva certamente disporre dei capitali per l'intervento nell'agricoltura. Anzi ogni tentativo di organizzare i kolchoz (da non confondersi con la collettivizzazione che è cosa ben diversa), era un tentativo di modificare i rapporti, tramite ammassi, prezzi o imposte, con la campagna a favore dello Stato capitalista. Cioè era un conflitto tra piccolo e grande capitalismo.

Sappiamo che un centro inestinguibile della crisi capitalista è la questione agraria, dato che questa si basa sul dislivello tra la produttività del lavoro nell'industria e la produttività del lavoro nell'agricoltura. L'agricoltura è sempre una palla di piombo al piede per l'economia di ogni paese. Può essere allentata o con il sovvenzionamento statale del settore agricolo o con l'intervento di capitali in questo settore teso a far sì che con la maggiore meccanizzazione e con il minore impiego di manodopera si ottenga un maggiore rendimento unitario e si elimini dalle campagne l'eccessiva popolazione. Altrimenti, finché enormi masse vivono sull'agricoltura, è l'intera economia di un paese, con la compressione dei salari e dei consumi, che ne fa le spese. Per risolvere la questione agraria i paesi imperialisti traggono i sovrapprofitti in altri paesi. è quello che cerca di fare anche l'Unione Sovietica, paese che ha una crisi agraria determinata dal fatto che la maggioranza della sua popolazione pesa negativamente sul settore agricolo e che questo ha un bassissimo livello di produttività.

Risulta chiaro come l'Ungheria fosse e sia nell'impossibilità di attenuare la sua questione agraria. La rapida industrializzazione ungherese ha rappresentato per l'URSS la realizzazione di sovrapprofitti spesso aumentati da forme semicoloniali di sfruttamento. Una di queste forme erano le società miste ungaro-sovietiche per cui la partecipazione dei capitali sovietici, formati da quote azionarie di paesi nemici e da riparazioni di guerra, ricavava un profitto composto, come ogni profitto, da lavoro non pagato. Una seconda forma era rappresentata dalla fornitura di attrezzature industriali che, anche se fatta sulla base di parità di scambio, favoriva, come ogni scambio, il paese industrialmente più avanzato. Se teniamo conto che queste forniture avvenivano nel quadro del monopolio e alle condizioni imposte dall'URSS, possiamo comprendere come lo sfruttamento fosse più marcato. Una terza forma era composta dai prestiti sovietici concessi con l'interesse medio del 2% annuo.

In questo quadro di rapporti imperialistici, l'attività economica ungherese andava prevalentemente a vantaggio dell'URSS. Si giungeva al fatto che i prodotti sovietici (ferro e carbone, necessari al funzionamento dell'industria pesante, e macchinari) venivano pagati molto di più del loro valore di scambio e i prodotti ungheresi esportati nell'URSS (tipico è l'esempio dell'uranio) venivano acquistati a prezzi che a volte rappresentavano appena il 50% dei costi di produzione. Naturalmente chi pagava le conseguenze di questi rapporti era il lavoratore ungherese il cui salario e stipendio si aggirava su di una media di 650-750 fiorini al mese; salario veramente misero per acquistare il pane a 3,50 fiorini al kg, la pasta a 14, lo zucchero a 11, il burro a 60, la carne a 18, lo strutto a 28, l'olio di semi a 22 fiorini al litro, il caffè a 400 fiorini al kg, un vestito da uomo a 1.500 fiorini circa, un paio di scarpe a 400, una camicia a 250.

Da tempo l'economia ungherese risentiva fortemente di una situazione disastrosa. Già nel 1953 un primo tentativo di Nagy di sanare la crisi agraria aveva cozzato contro difficoltà obiettive e contro il ritorno della linea Rakosi. Gli obiettivi 1954 del Piano Quinquennale erano stati ridotti (ad esempio, la produzione del carbone prevista, per il 1954, in 27 milioni di tonnellate era ridotta a sole 23). Comunque fu portata avanti l'industrializzazione e lo squilibrio con il settore agricolo, rimasto stazionario, caratterizzò anche il "nuovo corso" economico. è evidente l'impossibilità del capitalismo statale ungherese di risolvere la crisi agraria, impossibilità aggravata dalla pesante necessità sovietica di estrarre i suoi sovrapprofitti. L'organo del Partito Comunista Ungherese "Szabad Nep" del 25 marzo 1955 fornisce un quadro interessantissimo della situazione agricola: 650 mila contadini hanno ricevuto la terra, 180 mila sono entrati nei kolchoz, 250 mila sono entrati come operai nelle SMT statali, 300 mila sono stati assorbiti nell'industria. Vi sono però ancora 700 mila contadini poveri che possiedono il 15% della terra arabile. In questa cifra noi possiamo riscontrare il fallimento della politica economica dell'imperialismo. Fatta la riforma agraria rimane una massa ingente di contadini su un pezzo insufficiente di terra. è questa massa che influisce sull'economia e determina in parte lo svolgimento politico della rivoluzione ungherese.

Ciò dimostra pure l'inconsulta menzogna di chi viene a presentarci come socialista la repubblica democratica popolare ungherese. La rivoluzione che vi è esplosa non può essere che il prodotto contraddittorio di una classe operaia che si batte contro il capitalismo statale per attuare un vero socialismo e le aspirazioni piccolo borghesi di una enorme massa di contadini stritolata dalla crisi. In nessun modo si può parlare di restaurazione del capitalismo privato nell'industria dato che questa è sorta in gran parte statale e tale non può che rimanere, se la classe operaia non ha le condizioni obiettive indispensabili per il sistema di produzione socialista in tutto il paese, cioè la socializzazione dell'industria e delle campagne con la gestione economica diretta dei Consigli operai e contadini: cosa ben diversa dalla attuale gestione statalizzata e dai kolchoz che non sono altro che cooperative di piccoli produttori. Nelle campagne è inutile parlare di restaurazione del capitalismo privato poiché questo, come del resto nell'URSS, non è mai sparito. Assurdo, caso mai, è parlare della restaurazione del latifondo feudale dato che questi non solo andrebbe contro ogni legge economica obiettiva ma si scontrerebbe con gli interessi stessi della totalità dei contadini. L'unica forma di evoluzione potrebbe essere la grande azienda capitalistica statale o privata che nazionalizzando la produzione agricola ne ridurrebbe i costi e la manodopera. Tale soluzione, non ancora raggiunta in URSS, è possibile solo in un paese capitalista già avanzato e quindi praticamente impossibile in Ungheria.

Il carattere dominante della rivoluzione ungherese è quindi questa impossibilità di risolvere la questione agraria. Da qui le sue tendenze politiche che possono essere individuate in due direzioni. Da un lato il proletariato che persegue fini genericamente socialisti; dall'altra i piccoli contadini che perseguono fini obiettivamente capitalisti. Da questo astratto schema generale bisogna scendere nella dialettica della realtà ed esaminare il movimento che non è mai una somma esatta di forze sociali pure ma è sempre un aggregato di combinazioni sociali e politiche eterogenee e in continuo sviluppo. Abbiamo una realtà che è tanto lontana dalle ipocrite e standardizzate bandiere di "libertà" e di "democrazia" della propaganda occidentale quanto dalle pagine da romanzo giallo della propaganda moscovita. Abbiamo una realtà che brucia troppo le mani dei mestatori dell'Oriente e dell'Occidente perché è una realtà incandescente, una realtà appunto rivoluzionaria.

Chi inizia la rivoluzione ungherese sono i giovani operai e i giovani studenti di Budapest: giovani che non hanno conosciuto altra realtà economica che quella del capitalismo statale, altra situazione politica che quella dello Stato poliziesco e terroristico, altra educazione che quella impartita dal regime. Non conoscono altra esperienza che quella consumata nella loro formazione. è importantissimo questo fatto e sta a dimostrare che le forze che hanno provocato la crisi sono proprio quelle sui cui avrebbe dovuto basarsi il regime. è un'altra luminosa prova che non sono le parole a fare la storia e che le condizioni materiali possono fare in un giorno quello che in anni ed anni è stato impossibile e forse impensabile.

Per noi costituisce un incitamento al nostro ottimismo rivoluzionario e la certezza che la traduzione pratica degli incrollabili principi rivoluzionari sarà sempre opera delle forze più giovani e più dinamiche della società. Non importa se queste forze trovano ostacoli insuperabili e si frantumano, non importa se inizialmente non hanno dei programmi precisi, non importa se passano velocemente come una bufera in un mondo incancrenito dall'abbrutimento capitalista.

La rivoluzione prima di un'idea è una forza: non nasce da nessun cervello ma da una società divisa in classi, è un fatto materiale che nessun opportunista o rinnegato è capace di cancellare. A qualunque conclusione essa approdi porta in avanti l'emancipazione dell'umanità: possiamo dire con orgoglio che nessuna rivoluzione ha mai perso poiché ha insegnato più di quanto dolorosamente sia costata. Così come la Comune di Parigi non è mai stata, per il proletariato internazionale, una sconfitta, noi oggi denunciamo l'imperialismo sovietico ma mai ci sogneremo di dire che la Rivoluzione d'Ottobre è stata sconfitta perché dopo di essa si è sviluppato il capitalismo di Stato. La Rivoluzione d'Ottobre come l'attuale rivoluzione ungherese sono due grandi lezioni per i lavoratori di tutto il mondo e lo saranno maggiormente quando la loro esistenza sociale sarà tale da spingerli a conquistare una nuova società. Strillino pure i dirigenti dei partiti e degli Stati, speculino o diffamino, contaminino o insultino: la realtà della rivoluzione è sorda ai loro belati ed è già troppo avanti per non vederli guazzare indietro tutti quanti nel letame del vecchio mondo. Cerchino l'uno con l'altro di recitare l'immonda commedia ancora per non molto tempo: la rivoluzione ungherese è il primo sintomo della rivoluzione internazionale che li spazzerà via tutti. Ed è per questa grande certezza che noi siamo con i rivoluzionari ungheresi.

Lo ripetiamo. In nessun modo la rivolta ungherese poteva o può condurre attualmente al socialismo. i suoi risultati potevano o possono essere la costituzione di una democrazia borghese con un settore industriale a capitalismo statale e una forte influenza contadina piccolo borghese. Ma in queste nuove condizioni la classe operaia rivoluzionaria avrebbe avuto tutta la forza per portare avanti la sua lotta per il socialismo. Non bisogna dimenticare che solo la classe operaia è una classe rivoluzionaria e che fu essa ad iniziare la rivolta trascinando tutti gli altri strati. Senza la disperata resistenza dei primi due giorni a Budapest la campagna non si sarebbe mossa poiché i piccoli contadini sono conservatori e non si muovono che quando l'ordine statale è lacerato. Il fatto che all'avanguardia di Budapest vi siano stati gli studenti, conferma la nostra interpretazione. Gli studenti ungheresi, a differenza di quelli dei paesi occidentali dove sussistono larghi strati intermedi, non sono figli della grande o della piccola borghesia ma, nella loro maggioranza, figli della classe operaia. Dal 1945 a Budapest troviamo statisticamente la confluenza di due fenomeni: l'aumento del proletariato urbano e l'aumento, di quasi cinque volte, degli studenti medi e universitari. L'aspetto nazionalistico della rivolta non definisce certo come piccolo borghesi gli studenti, in quanto è un elemento generalizzato e determinato esclusivamente dall'oppressione imperialista sovietica. In certe fasi della lotta rivoluzionaria emergono aspetti deteriori di nazionalismo imposti dallo stesso avversario.

Emersero nella stessa rivoluzione russa, per non parlare della Resistenza italiana. Ma nessuno può affermare che la maggioranza delle forze che parteciparono alla Resistenza italiana avesse dei limiti nazionalistici. Che la Resistenza italiana sia stata adoperata nel quadro della strategia imperialista è una affermazione storicamente esatta, ma è anche vero che il proletariato combatteva contro i tedeschi e contro i fascisti con l'aspirazione di portare avanti una rivoluzione sociale e politica, aspirazione praticamente frustrata dall'immaturità ideologica e dalla mancanza di un partito rivoluzionario. Così è in Ungheria. Gli episodi di diserzione e di scarsa combattività delle truppe russe nei primi giorni hanno un valore che trascende la loro importanza pratica e caratterizzano l'elemento internazionalista comune ad ogni rivoluzione. Difatti il Comando sovietico ha predisposto per la seconda offensiva un vasto cambiamento di truppe ammettendo nuovi reparti freschi, preparati politicamente e psicologicamente, completamente ignari dei motivi determinanti la rivolta; reparti composti anche da soldati mongoli che, per la loro ignoranza politica, sono facilmente utilizzabili. Non vi è peggiore veicolo del morbo rivoluzionario che l'esercito, composto da giovani lavoratori che rientrando nel loro paese possono introdurre nelle masse esperienze pericolose. Naturalissimo, quindi, il comportamento dei generali sovietici che hanno imitato la tattica dei militaristi tedeschi aggressori della rivoluzione russa. Anche allora le truppe tedesche venivano cambiate spesso dalla linea del fronte russo, ma ciò non impediva che dal loro seno sorgessero i soldati spartachisti ed i più accesi agitatori della rivoluzione tedesca.

Un altro grande insegnamento della rivoluzione ungherese è dato dallo sfasciamento totale di un regime e di uno Stato. Nessuno Stato regge alle proprie contraddizioni poiché ogni Stato è il prodotto di tali contraddizioni di classe. Può fucilare, massacrare, soffocare, reprimere, può eliminare degli uomini ma non la classe sfruttata e dominata. Altri uomini nascono e prendono il posto di quelli morti. In questo senso la lotta del proletariato è inesauribile. In Ungheria come in tutto il mondo. Possono passare gli anni, e non sappiamo quanti, ma inevitabilmente la contraddizione che è alla base della presente società, la divisione di classe, esplode con la violenza nella crisi che ha investito tutto il sistema ed il suo apparato statale. Allora poco conta se sia stato uno sgherro o un ragazzino il primo a sparare, così come poco importa conoscere il banale episodio che spinge i sanculotti all'assalto della Bastiglia. Conta, invece, vedere come anche le più terribili e mastodontiche impalcature crollino corrose dalla loro crisi interna. Conta vedere lo Stato capitalista, questo Stato potente e presente ovunque, andare in vacanza, sciogliersi, autoeliminarsi.

è successo a Budapest, dove lo Stato era rimasto poco più di una banda di poliziotti uniti solo per tentare di salvare la comune pelle statale. Succederà ovunque le contraddizioni del capitalismo maturino sino al punto in cui erano maturate a Budapest. A precipitare questa maturazione interviene l'imperialismo che è il parossismo delle contraddizioni. Ungheria e Suez sono stati i campanelli d'allarme della crisi dell'imperialismo all'interno dei suoi blocchi. Chi potrà negare che quello che è successo sulle rive del Danubio e del canale di Suez non si ripeterà in qualche altro punto della terra? Forse solo i teorizzatori delle vie pacifiche che si schierano sempre all'ombra di qualche esercito a stendere pacificamente le loro insulsaggini.

Il fatto è che la crisi dell'imperialismo non conosce sosta e più si allarga più provoca guerre e rivolte. La cosiddetta "distensione" ha dimostrato che da anni ormai non si è ancora smesso di sparare. La "pace" dell'imperialismo è quindi una menzogna. Non ce ne addoloriamo. Sappiamo che non c'è altra alternativa all'imperialismo che la rivoluzione internazionale.

Anche alla luce dell'esperienza ungherese abbiamo la piena coscienza della necessità del partito rivoluzionario che orienti le masse in movimento. Purtroppo in Ungheria il processo di formazione ideologica delle masse lavoratrici non aveva potuto materialmente pervenire alla formazione del partito di avanguardia. Il movimento rivoluzionario fu dominato dalla pura spontaneità e, pur esprimendo delle aspirazioni fondamentalmente socialiste, non ebbe ancora il tempo e la capacità di formulare il suo programma e la sua prospettiva. Certamente con il tempo anche questa capacità sarà un dato acquisito alla lotta. Per intanto molte illusioni avevano potuto farsi un posto e così pure molte concezioni estranee all'ideologia rivoluzionaria. Quando la documentazione potrà essere più selezionata e precisa avremo l'occasione di studiare la rivoluzione ungherese anche sotto questo aspetto. Per ora ci bastino queste considerazioni che hanno stabilito un punto fisso e di riferimento. Esse ci spingono a lavorare intensamente alla costruzione del partito rivoluzionario del proletariato italiano, unica garanzia di una lotta inflessibile contro tutti i fronti dell'imperialismo, unica solidarietà fattiva verso i giovani ungheresi caduti come pattuglia avanzata della rivoluzione socialista internazionale.

(" L'Impulso " n. 13, 25 novembre 1956)

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Il rapporto Gomulka:

atto d'accusa contro l'imperialismo russo

La teoria rivoluzionaria ha da tempo combattuto una delle sue più dure battaglie contro i sostenitori della teoria del "superimperialismo," A coloro i quali sostenevano che la società capitalista marciava verso una forma di superimperialismo in cui i vari gruppi imperialisti si sarebbero integrati per un totalitario e pacifico dominio del mondo, i rivoluzionari hanno sempre risposto che la natura dell'imperialismo fa sì che i vari gruppi debbono combattersi in permanenza per cercare di sopravvivere nel loro insieme e che la lotta spesso si trasferisce all'interno degli stessi gruppi provocando lacerazioni, crisi, fratture anche violente. La fase imperialista del capitalismo è, appunto, la fase dell'imputridimento e della degenerazione. Le sue manifestazioni vanno, mano a mano che si avvicina la sua fine, accumulandosi giorno per giorno. Anche i blocchi che alla fine della seconda guerra mondiale sorsero come un tentativo di strutturazione delle zone imperialiste sono ormai continuamente investiti dalla crisi e non è improbabile una futura loro diversa configurazione.

Dopo l'episodio della Jugoslavia, la crisi del blocco imperialista sovietico ha toccato una delle massime punte con l'Ungheria e con la Polonia. Per comprendere come la crisi abbia potuto svilupparsi in Polonia sino a raggiungere la fase attuale crediamo sia sufficiente commentare il rapporto di Gomulka al CC del Partito Comunista Polacco. è questo rapporto, uno dei più interessanti documenti che la storia dell'imperialismo ricordi. Se non avessimo a disposizione altro documento per definire la natura imperialistica dell'Unione Sovietica, le dichiarazioni di Gomulka potrebbero bastare. La storia non ci può ancora dire come e dove dovrà essere collocato definitivamente Gomulka, ma, comunque noi giudicheremo il suo ruolo attuale e futuro, dovremo sempre rendergli atto di aver consegnato al movimento rivoluzionario la più chiara e sincera testimonianza dello sfruttamento imperialista sul proletariato polacco.

"Nel 1949, ultimo anno del Piano Triennale, l'estrazione di carbone era di oltre 74 milioni di tonnellate. Nel 1955, ultimo anno del Piano Sessennale, sono stati estratti 94 milioni e mezzo di tonnellate di carbone. Da queste cifre risulta che la estrazione del carbone ha subito un incremento di oltre venti milioni di tonnellate; cosa questa che dovremmo evidentemente considerare una importante realizzazione se questo incremento avesse significato un aumento della capacità produttiva delle industrie minerarie. Invece dalle statistiche risulta che i minatori, nel 1955, hanno effettuato 92.634.000 ore straordinarie, pari al 15,5% del totale delle ore di lavoro effettuate in quel periodo. Calcolato in carbone ciò significa circa 14.600.000 tonnellate estratte al di fuori dell'orario normale di lavoro." Queste cifre, fornite da Gomulka, ci dicono in che modo andavano interpretate le statistiche sui "vertiginosi aumenti della produzione socialista", divulgate dai soliti bollettini di propaganda. La sbandierata superiorità del sistema, che si voleva far passare per socialista e che si pretendeva fosse testimoniata dall'aumento della produzione, risulta invece basata unicamente sul maggiore sfruttamento della forza lavoro effettuato persino con il prolungamento della giornata lavorativa! Ma questo preteso "socialismo" non risiede, secondo le teorie di Stalin, tuttora valide per Togliatti e C., proprio nel passaggio dalla proprietà privata alla proprietà statale?

Non solo lo sfruttamento capitalista si basava sul prolungamento della giornata lavorativa, ma, dati i bassi salari permessi dalla dittatura poliziesca, riduceva persino la produttività del lavoro. Avevamo, in questo caso, una delle forme limite dello sfruttamento del proletariato, qualcosa che può essere paragonato solo con le condizioni semicoloniali dei minatori cileni o boliviani: uno sfruttamento che è attuato esclusivamente sulla forza lavoro e che non introduce nessun miglioramento tecnico atto ad alzare la produttività del lavoro. è il caso del capitalismo più arretrato e soggetto al dominio imperialista che viene esercitato con metodi semicoloniali. Non si può trarre altro giudizio economico più esatto leggendo le cifre riportate da Gomulka: nel 1949 l'estrazione di carbone in una giornata di lavoro era in media di kg 1.328 per ogni lavoratore, nel 1955 era di kg 1.163, con una diminuzione del 12,4%. Considerando tutto il personale minerario, dal 1949 al 1955 la capacità estrattiva per ogni giornata lavorativa è diminuita del 36%. Neppure lo sviluppo tecnico ha fatto il preteso "Stato socialista." Come tutto ciò è stato possibile?

"è stato sistematicamente introdotto il lavoro domenicale, la qual cosa doveva minare la salute e le forze dei minatori e contemporaneamente impedire di mantenere in buono stato le installazioni. è stato instaurato un sistema consistente nel far lavorare soldati e detenuti in un certo numero di miniere."

Sembra di leggere un rapporto sulle miniere d'oro dell'Africa equatoriale. Ogni commento è superfluo.

Interessante è notare che la Polonia esportava circa 25 milioni di tonnellate di carbone, per la massima parte in URSS, in Cecoslovacchia e nella Germania Orientale. Dalle stesse fonti polacche abbiamo appreso che l'Unione Sovietica pagava il carbone polacco circa un 20% meno del prezzo internazionale e soprattutto con lo scambio di minerale di ferro, di cui gli altiforni polacchi necessitavano, di attrezzature industriali e di cereali. Se questo episodio economico non è una manifestazione delle leggi fondamentali dell'imperialismo, allora tutte le teorie di Lenin in proposito sono da gettare al macero. Il fatto è che per permettere un sovrapprofitto all'URSS i lavoratori polacchi subivano il massimo sfruttamento.

Ma non è tutta qui la dimostrazione dell'imperialismo sovietico. L'URSS, a varie riprese, fece dei grossi prestiti, rimborsabili con un interesse variante dal 2 al 2,5% annuo, alla Polonia. Il prestito non è altro che la imperialistica esportazione di capitale messa in atto da parte delle potenze mondiali. Questo sistema è dall'URSS generalizzato in tutti i paesi satelliti e asiatici, come più volte abbiamo documentato con dati inoppugnabili. Tra i prestiti concessi alla Polonia citiamo quello del 1948 per 450 milioni di dollari, rimborsabile nel 1957 con prodotti industriali. In un discorso fatto il 20 aprile 1955, Bierut dichiarava che i prestiti ottenuti dall'URSS ammontavano, in 10 anni, a 3 miliardi di rubli, di cui un terzo era già stato restituito, che nel 1954 l'URSS copriva quasi il 38% del commercio estero polacco e che la Polonia riceveva a credito dall'Unione Sovietica varie decine di grandi fabbriche (acciaierie Lenin di Varsavia, officine automobilistiche di Varsavia e Lublino, centrali di Varsavia e Dvhow, cementifici di Wierzbica, fabbriche chimiche di Kendzerin e Oswiecim, tessili di Petrokom, Zambrow, Fasty ecc.).

Tenendo conto che tutti questi prestiti, con relativi profitti e sovrapprofitti, venivano pagati dai lavoratori polacchi, si comprenderanno meglio le ammissioni di Gomulka. Inoltre bisogna tener presente che il fenomeno è generalizzato a tutte le democrazie popolari e alla Cina, e che è una condizione indispensabile dello sviluppo economico sovietico, il quale senza la possibilità di espansionismo imperialista cadrebbe in crisi. Al di là di ogni bluff o slogan propagandistico sulla "pacifica competizione" dobbiamo conoscere la realtà nei suoi dati più significativi. Dal 1954 al 1955 il blocco sovietico ha aumentato del 35% l'esportazione di prodotti manufatti principalmente verso le zone arretrate asiatiche (ecco un esempio: l'URSS sfrutta il carbone della "socialista" Polonia per investire capitali nelle acciaierie della "borghese" India).

Ma l'URSS con un volume di scambi per 25 miliardi di rubli, pari a 6,25 miliardi di dollari, rappresenta appena il 3,3% sul volume mondiale di scambi che è di circa 200 miliardi di dollari, ed è appena al sesto posto dopo Stati Uniti (che negli ultimi 5 anni, esattamente come l'URSS, hanno raddoppiato gli scambi), Gran Bretagna, Germania Occidentale, Francia e Canada. Comunque, l'URSS prima della guerra era al 16° posto e ciò dimostra che chi sta vincendo economicamente sono i due colossi americano e russo, i quali hanno raddoppiato il loro scambio commerciale mentre gli altri paesi lo hanno aumentato solo del 60% e, alla lunga, saranno largamente superati nel ritmo di incremento (ciò spiega anche il duello USA con Francia e Gran Bretagna nel Medio Oriente). Ma ciò dimostra pure che la capacità economica sovietica non può minimamente gareggiare con quella statunitense nel mercato asiatico e quindi è costretta, per rafforzarsi, ad intensificare lo sfruttamento dei paesi satelliti. Si leggano bene queste cifre: l'URSS tiene con le Democrazie Popolari e la Cina l'80% del suo commercio estero, cioè un valore di 19 miliardi di rubli sul totale dei 25, e un complesso di prestiti per un totale di 5,25 miliardi di dollari, rimborsabili in 10-15 anni all'interesse del 2-2,5% annuo. Attualmente partecipa per il 56% al commercio estero cinese e nella misura in cui questo si svilupperà certamente la incidenza sovietica non potrà che diminuire.

In questo quadro generale le parole di Gomulka sono rivelatrici: "Abbiamo contratto grossi prestiti per gli investimenti per lo sviluppo dell'industria e quando si è dovuto rimborsarne le prime rate ci siamo trovati nella situazione di un bancarottiere insolvibile. Abbiamo dovuto chiedere una moratoria ai nostri creditori. Nello stesso tempo una parte notevole di questi prestiti, sotto forma di macchine e di installazioni, non hanno potuto finora essere utilizzati nella produzione e non lo saranno per altri lunghi anni, per cui bisogna considerarli almeno in parte come irrimediabilmente perduti. Nel Piano Quinquennale il bilancio di pagamento è saldato con un deficit notevole nonostante la moratoria che ci è stata accordata e il rinvio al prossimo quinquennio del rimborso della metà della somma che avrebbe dovuto essere rimborsata nel corso dell'attuale Piano Quinquennale. In tale situazione sul Piano Quinquennale che è stato testé elaborato grava un pesante punto interrogativo."

Ci si potrà chiedere come mai l'economia polacca è giunta ad una così drammatica situazione al punto che se non otterrà altri investimenti sovietici dovrà far ricorso ad investimenti statunitensi, come recenti trattative del nuovo governo polacco hanno messo in luce. Crediamo che una delle cause risiede nella politica di industrializzazione promossa dall'URSS. Nei mesi scorsi l'URSS stava organizzando tutta l'area economica dei paesi satelliti secondo il principio della integrazione produttiva. Veniva progettato una specie di "pool" gigantesco tra URSS e Democrazie Popolari, con la creazione di un unico sistema di produzione, ramificato in compartimenti produttivi a raggio internazionale. Con tale organizzazione monoindustriale (per cui la Polonia, ad esempio, si specializzava in una determinata produzione e l'Ungheria in un'altra) l'Unione Sovietica aveva l'enorme vantaggio di controllare un vasto sistema produttivo standardizzato e, monopolizzandone esportazione e importazione, di accrescere le sue possibilità industriali per la lotta nel mercato asiatico.

Come confermano i recenti accordi conclusi da Gomulka a Mosca (nuovo prestito di 700 milioni di rubli, rifornimento di 14 milioni di quintali di grano, sanatoria di parte dei vecchi crediti con una rivalutazione dei prezzi del carbone polacco importato nel periodo 1945-1953), il progetto sovietico era troppo ambizioso e, tirando troppo la corda, ha provocato la crisi. La fretta dell'Unione Sovietica, protesa in una bluffesca competizione economica con l'America (si pensi alla propagandistica "sfida agli Stati Uniti"), ha inasprito al massimo grado i contrasti interni di classe in due direzioni: nell'industria e nell'agricoltura.

Anche su questo punto Gomulka è stato esplicito nel suo rapporto: "I giochi di prestigio con le cifre, che mostravano un aumento del 27% dei salari reali nel corso del Piano Sessennale, non sono riusciti. Al contrario, non hanno fatto che esasperare ancor più la gente. Bisognava abbandonare la posizione presa dagli statistici da strapazzo."

Quanti prestigiatori e quanti statistici da strapazzo danno spettacolo nell'arena da circo della via italiana al socialismo! Ma la realtà della lotta di classe è più forte di ogni gioco di prestigio. Lo stesso Gomulka è costretto a smentire la promessa dell'aumento del 30% dei salari, avanzata da Ochab nel luglio scorso, e dice chiaramente che ciò porterebbe ad una crisi irreparabile. "In questa situazione, dobbiamo dire alla classe operaia una verità amara. Al momento attuale non disponiamo di alcun mezzo per aumentare considerevolmente i salari, poiché la corda è già talmente tesa che rischia di rompersi. Non posso dire nulla di concreto su quando potremo disporre di altri mezzi che ci permettano di elevare il tenore di vita della classe operaia."

Per illustrare il tenore di vita delle masse lavoratrici riportiamo alcuni dati rilevati, nella scorsa estate, da Bruno Segre, direttore del periodico "Incontro", durante una visita nelle principali città polacche su invito del Movimento Mondiale della Pace. Prezzi: 1 kg di pane costa 3 zloty, 1 kg di carne 20-40, 1 kg di patate 1,80, 1 kg di pomodori 16, 1 kg di formaggio 36, 1 kg di zucchero 13, 1 litro di latte 2,50, 1 paio di scarpe da uomo 231-355, un vestito completo 2.500-5.000, un metro di tessuto di lana 760, un metro di tessuto per donna 331. Paghe: il più basso stipendio si aggira sugli 800 zloty, quello di un operaio tocca in media 1.600, quello di un operaio addetto agli altiforni 2.000, un tecnico guadagna 4.000, un insegnante 1.580, un intellettuale (traduttore, giornalista ecc.) arriva a 5.000 zloty. La stessa Commissione Interna del complesso industriale di Nowa Huta dichiarava che l'operaio doveva fare gravi sacrifici poiché per una famiglia di 3-4 persone occorrevano circa 80 zloty al giorno soltanto di cibo. Se aggiungiamo che gravissima è la crisi degli alloggi (a Varsavia e in altre città vi è una forzata coabitazione di 4-5 persone per stanza), abbiamo un quadro delle condizioni di vita dei lavoratori polacchi. Certamente per i burocrati e gli alti funzionari non è così. Ma quello è il loro "socialismo" come ammetteva apertamente "Tribuna Ludu" del 1° ottobre 1955, rispondendo ad un operaio che scriveva: "Perché, se la situazione generale è difficile, lo scrittore P. può permettersi di girare in una Warsazwa privata?" L'organo del partito sentenziava in difesa degli "intellettuali produttivi": "Le differenze nei salari, sotto un regime socialista, lungi dall'essere contrarie all'uguaglianza e alla giustizia, ne sono l'espressione." Più chiari di così! Le differenze sociali sono, per questa razza di "socialisti", sinonimo di uguaglianza e di giustizia. Sembra che la favola orwelliana sia già una realtà: "tutti gli animali sono eguali, però alcuni animali sono più eguali degli altri." Il fatto è che, come dice Gomulka: "Fatti quali quelli che ho or ora citato non potranno in alcun modo essere sottaciuti, perché dobbiamo dirci in maniera esplicita che tutta la Nazione deve fare le spese di una cattiva politica economica. E che tali spese ricadono in primo luogo sulla classe operaia."

L'altro settore in cui la crisi economica è esplosa è quello dell'agricoltura. Qui l'analisi è più complessa ed il rapporto Gomulka non ne tocca che alcuni aspetti. Per dissipare alcuni luoghi comuni, diremo subito che la crisi agricola polacca non è provocata minimamente dalla cosiddetta collettivizzazione, dato che l'85% della produzione agricola, con il 78,8% della superficie coltivabile, proviene dalla proprietà privata individuale, cioè dalla piccola proprietà. Nella crisi polacca ed ungherese si è voluto vedere, a torto e in malafede, il fallimento di una collettivizzazione che in realtà non esiste. Non solo manca una collettivizzazione, ma la cooperazione, cosa ben diversa, raggruppa appena il 6% delle piccole proprietà contadine, occupando appena l'8,6% della superficie coltivabile con una produzione corrispondente al solo 7,7% della produzione agricola totale. Poco maggiore è il peso delle aziende agricole statali: il 12,6% della superficie e l'8,4% della produzione. Quindi la crisi agricola polacca ha gli stessi caratteri di una crisi che potrebbe, ad esempio, svilupparsi in Italia se lo Stato, attraverso la politica dei prezzi, non sostenesse più il settore agricolo. La crisi agricola polacca è la manifestazione tipica dello squilibrio di fondo, nella economia capitalistica, tra il settore industriale ed il settore agricolo. In Polonia questo squilibrio acquista un carattere particolare, dato che il settore industriale è rappresentato dallo Stato e, quindi, il rapporto si presenta tra Stato e agricoltura. Perciò nessun esperimento socialista è fallito dato che non è del socialismo che si tratta ma della eterna e purulenta "questione agraria" capitalistica. Gomulka centra il problema quando dice: "Nelle nostre condizioni, come nelle condizioni di ogni paese il quale non abbia sovrabbondanza di terreno coltivabile, la politica agraria deve essere caratterizzata dalla costante tendenza ad intensificare la produzione agricola. La Polonia può approvvigionare la sua popolazione con le sue esclusive risorse unicamente incrementando i raccolti ed elevando il livello della produzione per ettaro." Qui, però, sorge una conclusione che Gomulka non può trarre: per elevare la produttività agricola occorre intensificare gli investimenti di capitali nell'agricoltura, cioè investire di meno nell'industria e di più nell'agricoltura; cosa assurda per la legge economica del capitalismo per la quale il capitale va investito dove dà un maggior profitto, cioè nell'industria, e non nell'agricoltura dove il profitto è minore.

A questa legge obiettiva del capitalismo, che non può essere sovvertita dal desiderio o dal capriccio umano, non poteva sottrarsi la Polonia. D'altra parte è solo un alto grado d'industrializzazione, in un dato paese, che può risolvere la questione agraria, a condizione però che il vasto proletariato, ivi formato, diriga ed indirizzi l'economia non secondo la legge del profitto ma secondo le collettive necessità sociali di consumo.

C'è da aggiungere che la crisi agricola polacca non è stata provocata dall'industrializzazione, ché anzi questo era un fattore di parziale soluzione, ma dallo sfruttamento cui l'imperialismo sovietico la sottoponeva. Senza lo sfruttamento sovietico lo Stato polacco avrebbe potuto, con il sovvenzionamento dei prezzi agricoli, sostenere lo squilibrio agricolo, esattamente come fanno altri paesi che hanno un analogo livello industriale.

Non si creda che le nostre considerazioni siano in contraddizione con quanto dichiara Gomulka sul maggiore rendimento della piccola proprietà nella cooperazione, per cui il valore della produzione per ettaro era di 321,10 zloty per la proprietà privata, di 517,30 zloty per le cooperative e di 393,70 zloty per le aziende statali. Calcolando i contributi fondiari e le vendite obbligatorie, il valore della produzione delle proprietà private era superiore del 37,2% in confronto delle aziende statali e del 16,7% in confronto delle cooperative. Ciò indubbiamente è vero, ma ciò dimostra pure che la crisi agricola ha investito le piccole proprietà, e non le cooperative, perché sono le piccole proprietà che vogliono aumentare i loro redditi con maggiore libertà di mercato e con minori obblighi verso lo Stato. Sappiamo, però, che maggiore libertà di mercato non vuol dire aumento del reddito agricolo, anzi significa restrizione del reddito, restrizione sopportata dal piccolo contadino solo con il consueto aumento del suo lavoro non retribuito.

Del resto, da alcuni anni la Polonia tenta misure di questo genere, come ne è prova la continua rettifica del Piano Sessennale. Nel 1954 fu ridotto l'obiettivo industriale del Piano spostando l'indice dal 90% al 58% e fissando l'aumento del 50% della produzione agricola, che in realtà non aumentò che del 9%. Tutta una serie di provvedimenti di politica economica, anche nel settore agricolo, portò alla progressiva riduzione della percentuale del reddito nazionale destinato all'investimento: nel 1951 il 28%, nel 1953 il 25%, nel 1955 il 20%. Quindi il ritmo di industrializzazione era rallentato, ma ciò non significava che maggiori capitali si fossero trasferiti nell'agricoltura o che questa aumentasse la sua produttività.

Significava solo che, raggiunto un certo livello di investimento capitalistico, il ritmo di incremento richiedeva una massa maggiore di capitale e provocava un progressivo rallentamento di sviluppo, anche se non della produzione quantitativa. Anche in questo caso abbiamo un tipico fenomeno del capitalismo che per gli imbecilli difensori della piccola produzione contadina dovrebbe corrispondere ad un risveglio e ad un aumento del settore agricolo. Questi economisti semifeudali, che non concepiscono come la questione agraria sarà risolta solo da immense aziende collettiviste, dimenticano di leggere alcune cifre del rapporto Gomulka. Nel 1955, cioè nell'anno del più basso investimento, lo Stato ha sovvenzionato, in vari modi, le cooperative agricole con 3 miliardi di zloty. Se il sovvenzionamento avesse potuto essere più proficuo verso le piccole proprietà che verso le cooperative burocratizzate, è un discorso a parte; comunque ciò sta a provare che il capitalismo privato nelle campagne ha bisogno del sovvenzionamento dello Stato per sopravvivere e per superare i momenti più acuti di una crisi cronica. E lo Stato, questo Stato che tutti chiamano "socialista", assolve anche al compito di sfruttare la classe operaia per sostenere ancora in vita un parcellare capitalismo privato nelle arretrate campagne.

(" L'Impulso " n. 14, lo dicembre 1956)

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Nuovi sviluppi della politica imperialista alla fine del 1956

La guerra di Suez e il Medio Oriente
La revisione atlantica
" Budapest val bene una Cina "
Il nuovo portabandiera di Bandung

Gli sconvolgimento d'ordine politico ed economico che si sono prodotti a ritmo serrato in questi ultimi tempi, nella loro estrema contradditorietà una cosa hanno messo in evidenza: il ruolo imperialistico degli Stati Uniti.

Quando noi parliamo d'imperialismo non parliamo solo della aggressività o del bellicismo imperialista, aspetti che i solerti partigiani della pace per tanti anni si sono incaricati di mettere in evidenza, ma ci riferiamo a tutto quel complesso di influenze economiche, di esportazione di capitali, di funzione predominante negli scambi internazionali e di penetrazione finanziaria, che la precisa teoria leninista ha identificato e consegnato al mondo quarant'anni or sono. Quindi non sono considerazioni morali quelle che noi facciamo, ma sforzo d'individuazione delle reali tendenze dell'attuale imperialismo unitario.

Una cosa interessante e significativa, ripetiamo, risulta dall'analisi del comportamento della politica statunitense così come si è venuta a delineare di fronte a quattro grossi problemi scaturiti sull'arena mondiale. Il comportamento degli Stati Uniti ed i suoi riflessi verso gli altri gruppi imperialisti hanno smantellato con la loro formidabile evidenza tutte le favole sulla distensione, le tendenze pacifiste, le forze neutralistiche, i paesi che si avviavano verso il cosiddetto socialismo, ecc. ecc.

Avrebbe veramente un grande valore didattico lo sfogliare i giornali di qualsiasi tendenza o colore politico delle due o tre ultime annate. Al lettore sprovvisto ed imbonito dalla quotidiana macchina della propaganda risulterebbero cose inaudite. Colui che ieri era pacifista oggi è guerrafondaio, colui che ieri era guerrafondaio oggi è pacifista, ecc. ecc.

Particolarmente edificante sarebbe la lettura de "l'Unità" che con tutte le cretinerie propinate per anni ha abituato larghe masse di lavoratori a rincorrere formule astratte, slogan ad effetto invece di spiegare la reale dinamica dell'imperialismo che non è fatto di "buoni" o "cattivi", di pacifisti o di bellicisti ma di forze economiche determinanti sul piano della strategia.

Ma a prescindere da tutte queste questioni, la lezione che ci viene dai fatti c'insegna ancora una volta come i contrasti dell'imperialismo siano di tale vastità e di tale natura da cambiare repentinamente i loro contorni e le loro configurazioni.

La guerra di Suez e il Medio Oriente
Quando ai primi di novembre scorso le navi e gli aerei anglo-francesi si misero in moto per tentare il colpo di testa sul canale di Suez, non fu solo il moto inconsulto di due vecchie potenze in declino ad essere sprigionato nel campo internazionale, ma fu l'avvio di un nuovo fenomeno che solo oggi possiamo valutare in tutta la sua ampiezza. Alcune indiscrezioni hanno riferito che la flotta americana fu sul punto d'intercettare e di contrastare quella anglo-francese. Ma quello che è importante è che tutta la macchina economica americana si è mossa rapidamente per intercettare e contrastare con felice esito un'azione colonialistica destinata al fallimento. La guerra di Suez, match economico colossale tra Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, è finita come doveva finire. Altro che "provocazioni organizzate in Ungheria"! Le grosse potenze occidentali erano altrimenti impegnate in quel momento. I meschini redattori dei giornali filosovietici farebbero meglio, invece di andare a spulciare tra i bollettini parrocchiali alla ricerca di qualche frase osannante al cardinale Mindszenty, a consultare tutta la stampa anglosassone e francese. La veemenza degli insulti e dei colpi bassi che gli "alleati" occidentali si sono prodigati senza risparmio, non trova assolutamente riscontro nelle ipocrite condanne morali dell'intervento sovietico in Ungheria. Le uniche minacce che da quei fogli si sono levate non sono state contro "i criminali del Cremlino" ma contro i governi che, a seconda del pulpito, risiedevano a Washington, a Londra o a Parigi.

Comunque, il colpo di testa di Suez ha favorito il nemico verso cui era diretto: gli Stati Uniti. La loro influenza sulle fonti petrolifere (scarsissima fino al dopoguerra, del 65% prima dell'affare di Suez) è enormemente aumentata. Il petrolio, tramite il loro accordo con gli Stati arabi, è condizionato dai capitalisti americani i quali negli ultimi due mesi hanno imbastito un grosso affare sulla base della vendita di giacenze petrolifere prodotte a più alto costo, dell'aumento dei noli, ecc. Il grosso affare è stato pagato da tutti, compreso il velleitario Nasser e i suoi imitatori indigeni. Gli Stati Uniti hanno in questa operazione estesa la loro penetrazione in tutto il Medio Oriente ed anche in Africa. Alcuni giornali hanno pubblicato la notizia secondo cui gli stessi nazionalisti algerini ricevono aiuti dal Nord America.

Dato che le lotte di indipendenza nazionale, se hanno lo slancio politico per essere condotte a termine, non hanno la capacità economica di sviluppare un proprio capitalismo, è naturale che il terreno su cui esse si svolgono venga inevitabilmente a trovarsi oggetto della influenza imperialistica dei paesi economicamente più forti. Attualmente il Medio Oriente e il Nord Africa costituiscono un mercato importantissimo per gli Stati Uniti i quali assecondano il movimento anticolonialista per scalzare le basi delle vecchie potenze europee. In questo senso gli Stati Uniti sono gli anticolonialisti più conseguenti poiché sanno che i paesi coloniali liberatisi dalla dominazione politica straniera hanno la necessità economica d'importare capitali per il loro sviluppo. Questi capitali possono essere forniti solo dagli Stati Uniti, la potenza imperialista più forte del mondo, poiché dispone di una massa ingente di capitali eccedenti in patria. Anche Nasser ha capito che l'Unione Sovietica può solo fornirgli degli slogan propagandistici e non certo i 1.200 milioni di dollari necessari alla costruzione della diga di Assuan (perché altrimenti glieli avrebbe già forniti). La borghesia nazionale egiziana, le borghese nazionali di tutti i paesi arabi hanno visto in pratica che solo gli Stati Uniti potranno fornire mezzi necessari al loro sviluppo: di qui il filoamericanismo degli arabi ed il filoarabismo dei nordamericani. Di qui il nuovo corso USA nel Medio Oriente che si concreterà in seguito con tutta una serie di prestiti e di investimenti, tanto più rapidi quanto più la situazione in quel settore si sarà ristabilita.

La revisione atlantica
Le discussioni sulla NATO e sui rapporti tra i paesi ad essa aderenti hanno messo in luce un secondo elemento del nuovo corso statunitense. A questo cercano di reagire Inghilterra e Francia con rilanci europeistici, mercati comuni, Euratom, ecc. ecc. Durante le discussioni atlantiche gli Stati Uniti hanno assunto una posizione neutralistica mentre il ruolo degli oltranzisti passava agli anglo-francesi che, scottati nel Medio Oriente, volevano forzare la mano in Europa. Ma anche la posizione della Germania, la nazione notoriamente più compenetrata con il capitale americano, contribuiva a sostanziare la revisione atlantica degli Stati Uniti. Formalmente nulla è cambiato in seno alla NATO, sostanzialmente però è tutta la tendenza di fondo che ha cambiato rotta. Per anni gli Stati Uniti si erano serviti della NATO, frenati dagli anglo-francesi, per puntellare la loro politica di liberalizzazione dei paesi satelliti orientali. Oggi la linea americana più recente consiste in una specie di contenimento neutralistico verso la zona sovietica, anzi sono proprio gli Stati Uniti e la Germania a propugnare una fascia neutrale che comprenderebbe i paesi satelliti orientali ed una Germania unificata. Questa fascia neutrale verrebbe offerta come garanzia di equilibrio delle zone d'influenza all'Unione Sovietica. Gli Stati Uniti si preoccupano di garantire all'URSS condizioni di rapporti militari che mantengano nel settore europeo l'attuale divisione dei blocchi. Essi sanno che l'Unione Sovietica si trova in enormi difficoltà economiche e che quindi non è in grado di controbilanciare minimamente la nuova politica asiatica nordamericana tesa alla conquista del mercato dell'Estremo Oriente. Preoccupati delle rivolte in atto e potenziali nella zona sovietica, gli Stati Uniti vorrebbero offrire concretamente le possibilità per l'URSS di rimanere il meno intaccata possibile nella sua forza politica e di prestigio. In questo senso Eisenhower accetta l'impostazione pacifistica di Bulganin come un implicito accordo di avere il terreno libero in Asia senza che l'URSS vi tenti nuove prove tipo Corea. Difatti la revisione atlantica degli USA è determinata dal nuovo interesse che questi hanno per l'Asia.

" Budapest val bene una Cina "
Un giornalista borghese che dall'esperienza ungherese ha tratto alcuni spunti interessanti, Indro Montanelli, riferiva recentemente sul "Corriere della Sera" sulla politica americana riguardante l'Ungheria. Alcune sue ammissioni andrebbero rigettate in faccia a quei calunniatori di mestiere che da due mesi stanno infangando la gloriosa classe operaia ungherese definendola come una banda fascista controrivoluzionaria manovrata dall'imperialismo occidentale. Lo stesso Montanelli spiega come la prima preoccupazione degli americani durante la rivolta ungherese sia stata quella di non esasperare i russi. Quegli ungheresi che si illusero sugli aiuti promessi dalla Radio "Europa Libera" oggi non possono che imprecare contro gli Stati Uniti. Difatti se qualcuno fu aiutato dagli Stati Uniti, questi fu il governo Kadar: lo stesso corrispondente de "l'Unità", Orfeo Evangelista, ammetteva che il governo Kadar aveva ricevuto l'aiuto di 22 milioni di dollari dagli USA. Nixon si è dichiarato disposto a concedere dei prestiti qualora il governo fantoccio ungherese li richiedesse, per un ammontare di 400 milioni di dollari. La stessa proposta è stata rivolta alla Polonia la quale non è rimasta di certo insensibile all'offerta. Coloro che, come Togliatti, parlano sempre dei cento milioni di dollari stanziati dal Congresso per l'attività spionistica nelle "Democrazie Popolari", per giustificare ogni repressione della lotta di classe nella zona sovietica, dovrebbero spiegarci a che cosa servono gli aiuti americani se non a sostenere gli attuali gruppi dirigenti filosovietici.

Gli interessi dell'imperialismo unitario, sconvolti e minacciati dalle rivolte di classe che stanno esplodendo nei paesi orientali, non solo hanno creato una specie di solidarietà implicita tra USA ed URSS ma, anche sul piano della propaganda, hanno fatto trovare loro una convergenza. A più riprese esponenti statunitensi hanno dichiarato che essi preferivano più una conversione di tipo Gomulka che una rivolta tipo Ungheria. La solidarietà giunge sino al punto che nei campi profughi ungheresi gestiti dagli americani viene esercitata una discriminazione politica.

Per quante fandonie possano fabbricare, i propagandisti moscoviti non riusciranno mai a portare una prova d'ingerenza statunitense nella eroica rivoluzione ungherese. Per contro esistono migliaia di prove ufficiali e di dichiarazioni statunitensi che testimoniano il contrario. E poi non è tanto difficile capire che gli imperialisti americani potranno sempre trattare e fare buoni affari con il Cremlino, anche con i Gomulka, ma mai e poi mai con una rivoluzione proletaria che per sua essenza è internazionalista e tende ad esportare il suo esempio in tutto il mondo.

Il nuovo portabandiera di Bandung
Abbiamo ancora nelle orecchie le stucchevoli frasi di chi ci voleva presentare il blocco afroasiatico di Bandung come un blocco di paesi a metà strada verso il socialismo. Lo stesso XX Congresso scopriva questa nuova verità e la tramandava ai posteri. Noi avevamo individuato nel blocco di Bandung il terzo blocco di paesi che si stavano incamminando verso la loro costruzione capitalistica e che quindi avevano tutto l'interesse a fare una politica neutralistica verso i blocchi militari già formati. Non vi poteva essere perciò nessuna marcia verso il socialismo di paesi arretrati e feudali, anche se una loro lotta di emancipazione politica ed economica poteva intaccare seriamente l'attuale schieramento imperialistico e maturare le condizioni della rivoluzione proletaria internazionale.

Ma, come in Medio Oriente, i paesi asiatici hanno la necessità di capitali che la loro accumulazione è insufficiente a fornire: quindi costituiscono anch'essi un enorme mercato per i gruppi imperialistici. Il loro lento sviluppo e le difficoltà economiche emerse nella zona sovietica hanno dimostrato che l'Asia non può contare sulla penetrazione imperialistica sovietica. Non è di certo dall'attuale URSS che Nehru può ottenere i miliardi di dollari occorrenti al successo del secondo Piano Quinquennale. Così è per Ciu En-lai, la cui offerta di una vice presidenza al vecchio nemico Chiang Kai-shek non è un capriccio scandalistico ma qualcosa di ben più serio, cioè una garanzia formale e sostanziale ad un ulteriore e massiccio aiuto finanziario da parte statunitense. In ogni modo, chiunque può constatare che sia in India che in Cina l'influenza economica più forte, sia in nuove attrezzature come in macchine utensili ecc., non proviene dall'URSS ma dai paesi occidentali. Al fondo di ogni motivo propagandistico vi sono degli interessi economici preponderanti. A parole tutta questa gente è contro o pro il socialismo, nei fatti punta su dei concreti mezzi economici, su dei concreti interessi economici.

Il "mistico", noi diremmo molto pratico, Pandit Nehru ha la saggezza tutta orientale di capire queste cose. Presa la bandiera di Bandung in mano, è salito su un aereo ed è andato a Washington. Là, con Eisenhower, l'ha agitata a tutto il mondo sorpreso e meravigliato poiché, ingenuamente, credeva di vederla sventolare sulle torri di Mosca. Il secondo match di questo radioso autunno è stato vinto dal grande campione: Wall Street.

Il comunicato finale dei colloqui del Presidente indiano e del Presidente statunitense, pur nella sua genericità, contiene la comune volontà degli Stati Uniti e dell'India, intermediaria anche della Cina, di perseguire i postulati della conferenza di Bandung. In altre parole gli Stati Uniti manterranno la neutralità dell'Asia ed alimenteranno le sue possibilità economiche di sviluppo. Ora che vi saranno da costruire trattori e macchine per le sterminate superfici dell'Asia, gli americani giocheranno al disarmo e risolleveranno la colomba della pace caduta così miseramente a Suez e sul Danubio.

Quando anche il serbatoio asiatico sarà esaurito, certamente non vi saranno più mestatori della pace nel mondo, ma un enorme proletariato camminerà sulla strada della sua rivoluzione.

(" L'Impulso " n. 15, 25 dicembre 1956)

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Gli insegnamenti della rivolta ungherese

(a proposito delle tesi di " Socialisme ou Barbarie ")

Un primo e sostanziale contributo allo studio della rivoluzione ungherese ci viene dai compagni del gruppo francese "Socialisme ou Barbarie", attraverso il denso fascicolo n. 20 della loro rivista, dedicato quasi interamente agli avvenimenti di Polonia e d'Ungheria. Sono più di cento pagine di serrata analisi delle giornate d'ottobre nell'Est europeo che, nella babele delle notizie e dei commenti innalzatasi in questi ultimi tempi, assumono il valore di una elaborata e organica interpretazione classista e rivoluzionaria. Il che non è poco e costituisce un valido tentativo di superare l'articolo politico di solidarietà o di presa di posizione. I saggi di "Socialisme ou Barbarie" non sono, ovviamente, ancora saggi di storia ma hanno il merito di indicare, tra la confusione in cui la rivolta ungherese è stata avvolta, alcune linee fondamentali di una futura e indispensabile opera di storia.

Quando quest'opera di storia sarà fatta sarà la storia dei Consigli operai, così come la storia della rivoluzione ungherese del 1919 è la storia del grandioso movimento dei Consigli che fiorì in terra magiara come in Russia, in Germania e in tutta l'Europa. Bene hanno fatto i compagni di "Socialisme ou Barbarie" a seguire il filo dei Consigli operai durante i giorni della lotta. è il filo della lotta di classe che ci conduce sicuri ad uscire dal labirinto politico creato da parole e nomi altisonanti, buoni per le foto e i titoli del rotocalco ma non per la più modesta e concreta comprensione della realtà.

La realtà ungherese ha, invece, un volto anonimo, ma grandioso per la sua portata storica: il volto dei Consigli operai. Furono essi il centro e la forza propulsiva della insurrezione, furono essi la colonna d'urto della rivoluzione antimperialista, furono essi il cuore, il cervello, i muscoli della rivoluzione socialista.

Perciò i gazzettieri di ogni tinta di tutto parlarono meno che della vera composizione, della vera rivendicazione, del vero atteggiamento dei Consigli operai. Il saggio "La verità sui 12 giorni di lotta" segue, invece, il movimento dei Consigli durante i giorni del governo Nagy. Le fonti d'informazione sono, tra le altre, le trasmissione delle radio controllare dai Consigli in città industriali e operaie come Miskolc, Pécs e GyØ r. Dalla documentazione risalta evidente una realtà che Radio Budapest, portavoce governativa tesa a sostenere il governo Nagy, certamente non rifletteva.

Con la definizione "dualismo del potere" Lenin sintetizzò la situazione russa dopo la rivoluzione di febbraio e alla vigilia della Rivoluzione d'Ottobre. Due poteri esistevano in Russia: da una parte Kerensky e una combinazione di partiti politici sul piano della democrazia parlamentare borghese, dall'altra i Soviet, espressione della democrazia diretta delle masse lavoratrici, cioè il potere reale contro il potere legale.

La situazione ungherese ha molte analogie col 1917 russo, anche se ha l'enorme sventura di non incontrare una situazione internazionale di crisi rivoluzionaria. Il dualismo del potere in Ungheria tra classe dirigente e classe operaia ha travolto Geroe, ha trovato un compromesso instabile con Nagy, si misura attualmente con Kadar. Tocca a Kadar il ruolo di nemico dei Consigli operai. Certamente sarebbe toccato anche a Nagy se il suo esperimento fosse riuscito. Quando Nagy costituì il governo con i borghesi Kovacs e Tildy, il Consiglio operaio di Miskolc, tramite la sua radio, condannò l'alleanza e, con una deliberazione, prese il potere in tutta la regione. Anche nelle regioni di Pécs e GyØ r governavano i Consigli. A Szeged il Consiglio programmò l'autogestione operaia e la Repubblica dei Consigli. Sempre lo stesso Consiglio di Miskolc, in contrapposto al programma Nagy, formulò un progetto di programma rivoluzionario che sottopose ai Consigli di GyØ r, Pécs, Szolnok e di tutte le altre località ungheresi, invitandoli ad elaborare un programma unico in un Congresso generale dei Consigli.

Le divisioni sovietiche, il 4 novembre, tentarono di soffocare il dualismo del potere schiacciando la classe operaia e non la presunta "controrivoluzione." Il governo Nagy non voleva restaurare niente di antico ma conservare quello che c'era, cioè il capitalismo di Stato. Un buon borghese come Tíldy dichiarava reiteratamente che bisognava difendere le basi economiche del regime. Per questa ragione il dualismo del potere aveva un equilibrio fragilissimo. Infatti i Consigli operai non volevano conservare le basi economiche del regime, cioè il capitalismo statale, ma impadronirsene, gestirle, creare insomma un'economia socialista. Per questo lo scontro di classe durante il governo Nagy avvenne tra lo Stato capitalista traballante - che Nagy, Kovacs, Tildy e compagni cercavano disperatamente di tenere in piedi - e il movimento operaio dei Consigli. Era una lotta di classe che non appariva alla superficie in tutta la sua potenza e che trovava formule politiche quali "l'indipendenza e la libertà" a deformare apparentemente la sua essenza, ma che in profondità aveva raggiunto un grado violentissimo ed inconciliabile.

Il fatto è che il potere "legale" di Nagy era ormai sospeso nel vuoto. Il potere non era più del governo, ma era quello "reale" ed effettivo dei Consigli. Tale verità era descritta unanimemente da tutti gli osservatori stranieri. A ragione tutti i giornalisti, dal reazionario al filosovietico, scrissero che a Budapest regnava l'anarchia e il caos. Per questi apologeti dell'ordine l'assenza del "potere legale" era il caos. Per noi, invece, tutto ciò significava semplicemente che il "potere reale", in una situazione in cui le istituzioni tradizionali dello Stato erano frantumate, era ormai passato alla unica forza organizzata e armata, cioè alla classe operaia e ai suoi Consigli.

La documentazione ricavata dai compagni francesi ci permette oggi di valutare questa dinamica del dualismo del potere che, in un primo tempo, ci era sfuggita. Non sempre, però, "Socialisme ou Barbarie" arriva a seguire in tutte le sue conseguenze lo sviluppo politico di questo fenomeno. Forse, come vedremo in seguito, le conclusioni d'ordine politico sono viziate, nell'analisi di "Socialisme ou Barbarie", da una certa adesione allo "spontaneismo" dei Consigli. La visione "spontaneista" porta anche a sottovalutare l'aspetto piccolo borghese del movimento contadino nella rivoluzione ungherese, a presentare l'inserimento contadino come un fattore di una rivolta unitaria popolare, a non concepire esattamente i termini oggettivi in cui il dualismo del potere si dibatteva.

La coincidenza del movimento contadino e della classe operaia nell'insurrezione ungherese è puramente tattica. I due fattori sociali marciarono uniti nella distruzione dell'apparato statale e non poteva essere altrimenti. Ma le loro esigenze e i loro conseguenti programmi li dividevano già in partenza. La base del governo Nagy era, in effetti, il tentativo di legare nel compromesso due istanze sociali diverse e di imbrigliare sul terreno della democrazia parlamentare il movimento dei Consigli operai. è ciò che ha fatto Gomulka. Nagy tentò, invece, l'esperimento quando la lotta di classe aveva ormai passato i limiti del compromesso.

Se l'esperimento Nagy fosse riuscito, la classe dirigente l'apparato capitalistico statale avrebbe instaurato, alleandosi ai partiti contadini, una forma di democrazia parlamentare e la lotta di classe si sarebbe trasferita non più sul terreno del potere ma su quello rivendicativo salariale da parte dei Consigli. Il "potere legale" si sarebbe basato sulla forza del numero dei voti. Le armi dei Consigli operai si sarebbero rivolte contro il governo Nagy o sarebbero state annullate dal numero dei voti contadini, deboli nella rivoluzione ma forti nei seggi elettorali. Questa seconda soluzione era quella più prevedibile, dato l'isolamento della rivoluzione ungherese e la situazione internazionale controrivoluzionaria. Ci spiace che "Socialisme ou Barbarie" non l'abbia prevista in tutta la sua realtà ed abbia, invece, seguito un certo ottimismo, del resto negativo per una valutazione obiettiva della questione agraria ungherese.

Con questo non vogliamo negare l'ottimismo rivoluzionario che deve animare l'analisi dei fatti ungheresi. Non vorremmo, però, che tale ottimismo oscurasse i limiti esterni ed interni contro i quali, inevitabilmente e qualunque fosse stato il corso degli eventi politici, la rivoluzione ungherese doveva andare a battere.

Una importanza fondamentale acquista, perciò, la valutazione del dualismo del potere in cui, nella situazione degli ultimi giorni, il governo Nagy venne a trovarsi. Pur considerando insormontabili tutti i problemi internazionali e nazionali, in cui la rivoluzione ungherese era stretta come in una morsa, possiamo dire che il potere reale era ormai in mano alla classe operaia che governava e gestiva tutto l'apparato della produzione. Per questo, fondamentalmente per questo, le divisioni sovietiche invasero per la seconda volta l'Ungheria.

Che il "potere reale" fosse in mano ai Consigli operai non significa che questi avessero un programma ben preciso di direzione. Significa, però, che anche il loro "programma minimo", cioè l'insieme unitario delle rivendicazioni e dei motivi politici ed economici che li ha posti sul terreno rivoluzionario, ha una radice di classe contrastante nettamente con gli interessi economici del capitalismo statale. Alle rivendicazioni dei Consigli manca una prospettiva di azione politica, ma non manca una base essenzialmente classista e rivoluzionaria. Nella loro spontaneità vi è un contenuto che inevitabilmente le porta a contrastare altri interessi. Dalle risoluzioni e dai documenti dei Consigli operai apparsi nel periodo Nagy emergono quattro rivendicazioni che per la loro natura costituiscono quattro colpi mortali al sistema di produzione capitalistico, statale o privato che sia: abolizione della gerarchia dei salari, aumenti dei salari, abolizione delle norme e autogestione operaia delle fabbriche. In qualsiasi fabbrica del mondo se gli operai ponessero queste quattro rivendicazioni non troverebbero altra risposta che la scarica di piombo che hanno trovato a Budapest, perché in nessuna fabbrica del mondo si potrebbero aumentare i salari e pacificarli senza abolire la scala gerarchica che, in Russia come in America, è un'arma di divisione operaia in mano alla direzione aziendale; si potrebbero abolire le norme o cottimi senza abolire un metodo per l'aumento della produttività e quindi dello sfruttamento operaio; si potrebbe instaurare l'autogestione operaia senza liquidare la classe dirigente. Lo ripetiamo, in qualsiasi fabbrica del mondo porre una lotta con queste rivendicazioni significherebbe iniziare la rivoluzione sociale. Di fronte a queste rivendicazioni Kruscev ed Eisenhower rispondono allo stesso modo, come allo stesso modo hanno risposto Rakosi, Geroe, Nagy, Kovacs, Tildy, Kadar.

Se i Consigli ungheresi non avessero, nel fuoco dell'insurrezione, maturato la coscienza rivoluzionaria al punto di reclamare questo loro programma minimo, non avrebbero costituito l'alternativa reale del potere e sarebbero stati facilmente manovrabili nel compromesso. Ma qualunque fosse stata la loro tattica unitaria contro il nemico principale rappresentato dall'imperialismo sovietico, essa non cancellava, agli occhi di qualsiasi governo, la loro base rivendicativa praticamente anticapitalista.

Dette queste cose, che ci trovano concordi con "Socialisme ou Barbarie", pensiamo di affrontare un altro problema che forse ci troverà discordi. Le quattro rivendicazioni dei Consigli operai, assieme a molte altre d'ordine tattico e momentaneo, rappresentano per noi il primo grado della coscienza rivoluzionaria, la prima spinta spontanea alla coscienza di classe che il proletariato riceve direttamente dalla sua esistenza sociale al contatto con il processo di produzione.

è altamente significativo che il proletariato ungherese, attraversando la nuova esperienza del capitalismo statale, sia giunto spontaneamente a porre una lotta per la realizzazione della società socialista. Senza dieci anni di capitalismo statale molti ungheresi invece di rivendicare l'autogestione delle fabbriche sarebbero a rivendicare un pezzo di terra o, come succede per le masse operaie occidentali, le nazionalizzazioni.

è importante, quindi, che l'esperienza di classe sfruttata abbia portato i lavoratori ungheresi ad acquisire una coscienza rivoluzionaria che non trova riscontro nell'immaturità dei proletariati occidentali, i quali credono ancora che le nazionalizzazioni e le statizzazioni siano il socialismo e non sono ancora coscienti del fatto che il socialismo è soprattutto l'autogestione operaia delle fabbriche.

L'esperienza del proletariato ungherese nasce proprio dalla fabbrica, sgorga dai rapporti di produzione, colpisce nella sua intima natura il processo di produzione capitalistico. Vorrei dire che è una esperienza socialista e rivoluzionaria di fabbrica, una "coscienza economica", insomma, che si pone di fronte all'economia perché, scomparsi tutti gli altri simboli ideologici che ancora circolano in Occidente (il capitalista privato, ecc.) solo l'economia è rimasta nella sua struttura spoglia da ideologie, cioè è rimasto solo lo sfruttamento di classe con il capitale e il salario.

è naturale che proprio dalla produzione nasca il primo grado della coscienza rivoluzionaria. Sotto questo aspetto l'esperienza ungherese è una esperienza nuovissima della lotta di classe che dovremo studiare a fondo e assimilare. è la prima grande esperienza storica della lotta di classe tra il proletariato ed un regime capitalistico statale che si autodefinisce socialista, esperienza che ci aiuta a comprendere in che forma si sviluppa la lotta di classe e la rivoluzione proletaria nei paesi del blocco orientale.

Ma questa nuova esperienza non deve farci dimenticare il problema di fondo della rivoluzione. Se per questa è indispensabile la "coscienza economica" delle masse che si manifesta nei Consigli, per la soluzione dei mille problemi che solleva è ancora più indispensabile che la coscienza diventi politica, cioè diventi partito rivoluzionario. L'esperienza ungherese ce lo insegna ancora una volta. i Consigli operai sono l'organo unitario della classe, sono la rivoluzione e il socialismo, ma non sono tutta la rivoluzione e tutto il socialismo. Occorre il partito che sia la coscienza ideologica di tutto il movimento e che da questo attinga la sua tattica. Non un partito che sia al di sopra dei Consigli, ma un partito che sia alla testa dei Consigli.

Nel caso specifico ungherese solo un partito rivoluzionario poteva unificare i programmi dei Consigli, oltre che unificarne l'organizzazione, per farne la base di una politica che si ponesse l'obiettivo "governo dei Consigli operai appoggiato sulle milizie operaie" e in questa linea marciasse tatticamente.

Pretendere, come sembra fare "Socialisme ou Barbarie", che tale obiettivo uscisse direttamente dai Consigli è voler pretendere troppo o, peggio, voler sottovalutare, se non annullare, il ruolo del partito rivoluzionario. Potrà essere discussa la tesi leninista del "Che fare?" sul carattere tradeunionista della spontaneità operaia e pensare che l'esperienza proletaria nella crisi imperialista fa maturare sino al livello rivoluzionario la coscienza di classe, ma il problema del partito rimane perché rimane l'ineguale sviluppo del movimento operaio e il problema tattico dell'alleanza operai-contadini.

Pensare che il ruolo del partito rivoluzionario è superato significa non aver risolto il problema politico della lotta operaia e fare assumere al Consiglio operaio le funzioni e le caratteristiche del partito politico. è una vecchia questione che riteniamo superata dalla polemica contro il sindacalismo rivoluzionario e soprattutto dalla esperienza storica negativa di questa corrente. La valutazione dei Consigli operai ungheresi non dovrebbe, pensiamo, dare nuovamente fiato, anche se in altre forme, ad una teoria che appartiene all'infantilismo operaio. Caso mai sarà auspicabile che certi aspetti del problema del partito rivoluzionario vengano ristudiati e rielaborati alla luce dei nuovi fatti storici. Basti richiamare l'attenzione alle due concezioni del partito rivoluzionario che ci ha consegnato il marxismo, cioè a quella leninista e a quella luxemburghiana.

E poi la concezione del partito non è uno schema fisso ma è la teorizzazione di un fatto dinamico espresso dalla struttura sociale. Quindi la ragione d'essere del partito risiede nella sua funzione. Non bisogna perciò contrapporre una "mistica del partito" ad una "mistica dei Consigli" e viceversa. Né il partito né i Consigli hanno poteri taumaturgici. Un esempio pratico ci può essere fornito dalla rivendicazione dell'autogestione operaia aziendale. I Consigli di fabbrica ungheresi che l'avevano posta non potevano, per la loro natura aziendale, proiettare questa rivendicazione su di un piano generale, cioè politico. Al massimo sarebbero arrivati ad un congresso che avrebbe programmato la coordinazione delle autogestioni locali. Solo il partito politico, che ha la concezione generale dei problemi economici ed una conseguente analisi specializzata, poteva elaborare, sulla base dell'autogestione, una pianificazione programmatica di tipo socialista. L'autogestione in sé non fa uscire la produzione dal quadro mercantilistico e riproduce una serie di cooperative aziendali che producono per lo scambio mercantile mantenendo le leggi obiettive del capitalismo, cioè il profitto e quindi il capitale e il salario.

Anche se in pratica enormi contraddizioni ne impedirebbero lo svolgimento, in teoria avremmo una serie di fabbriche autogestite che producono per il profitto a danno dei lavoratori di altre fabbriche o di altri settori che hanno una minore produttività. L'autogestione di questo tipo non ha niente a che fare con il socialismo, ma potrebbe essere anche la conseguenza della spontaneità aziendalistica operaia. Non a caso Tito ha incamminato i Consigli su questo binario e in Polonia si tenta di dare ai Consigli tale impostazione, accettandola come il male minore.

Solo la politica economica del partito rivoluzionario può portare le masse ad uscire dal livello aziendalistico e ad attuare l'autogestione nel quadro di una pianificazione, concordata e non burocratizzata, che tiene conto dei bisogni di tutta la società e su queste linee organizza la produzione e la distribuzione dei prodotti abolendo, sin dall'inizio, il ciclo mercantile. L'autogestione ed i Consigli, in tutta la loro ramificazione organizzativa, saranno la struttura dell'economia socialista, ma al partito spetta l'immenso compito di esserne l'ispiratore sia nel periodo formativo che in quello di transizione.

(" L'Impulso " n. 3, 10 febbraio 1957)

 


Ultima modifica 09.09.2001