L'imperialismo unitario

Arrigo Cervetto (1950-1980)

 


Edizioni Lotta Comunista, luglio 1981
Trascritto per internet da Antonio Maggio, agosto 2001


 

Capitolo tredicesimo
LA VERA SPARTIZIONE DEL MONDO, 1968-1970

Nota introduttiva
Cronologia
La vera spartizione del mondo tra URSS e USA
Tendenze di sviluppo dell'imperialismo europeo sul mercato mondiale

L'esportazione di capitali dell'imperialismo mondiale nelle zone in sviluppo
L'esportazione di capitali dell'imperialismo russo nelle zone in sviluppo
La concentrazione del capitale nella fase imperialistica

 

La vera spartizione del mondo tra URSS e USA

Le ragioni oggettive dell'alleanza USA-URSS
In Europa USA e URSS non hanno contrasti di fondo
Gli usa contro una superpotenza europea
Il ruolo frenante dell'Europa orientale

La crisi cecoslovacca ha condotto giornali, partiti e gruppi a parlare di "divisione del mondo" tra Russia e America. Occorre analizzare da un punto di vista di classe e rivoluzionario quale è la vera natura di questa divisione, poiché è proprio su questa concezione che si vanno ponendo le basi del socialimperialismo europeo, di cui il PCI è un esempio.

L'analisi marxista della politica internazionale deve fondarsi sull'analisi dei rapporti reciproci dei vari Stati e gruppi di Stati e non sulle loro ideologie e sulle loro propagande. L'insieme di questi rapporti fornisce il quadro generale dell'attuale fase imperialistica nei suoi aspetti specifici, quadro entro il quale deve essere vista la politica imperialistica di una potenza come quella russa nei riguardi dell'area economico-sociale e politica dell'Europa Orientale.

Vedremo in seguito come si svolge particolarmente la politica imperialistica russa in quest'area. Per ora vediamo in quale altra serie di rapporti internazionali si colloca la azione dell'URSS. In primo luogo, nei rapporti con gli Stati Uniti. Nel corso della seconda guerra mondiale imperialistica si è stabilita una poderosa alleanza USA-URSS che di fatto dura tuttora. Quando affrontiamo il problema di definire questa oggettiva alleanza dobbiamo, come prima cosa, sbarazzare il terreno da ogni elemento sovrastrutturale, ideologico, giuridico; dobbiamo, cioè, sapere individuare nella selva di elementi ideologici, le tendenze oggettive che regolano i rapporti tra queste due potenze imperialistiche e la natura specifica della loro alleanza. Certamente questa alleanza, come ogni alleanza imperialistica, non è un idillio: ha avuto ed hai suoi momenti di tensione e le sue oscillazioni, ma anche nelle sue maggiori frizioni non è mai giunta all'orlo della rottura.
E' incomprensibile la storia di questi ultimi venticinque anni se non si tiene presente questo dato oggettivo che è diventato ormai lampante e addirittura teorizzato nella ideologia della "coesistenza pacifica". Meno chiaro era ovviamente, nel periodo della cosiddetta "guerra fredda", ma anche allora era un profondo errore di analisi marxista, che finiva col deformare tutte le prospettive della strategia rivoluzionaria, non vedere che la " guerra fredda " non poteva rompere la alleanza oggettiva USA-URSS e tanto meno poteva condurre ad un loro conflitto.

Le tendenze che portano ai conflitti imperialistici sono tendenze oggettive e rispondono a reali ed inarrestabili esigenze fondamentali del sistema capitalistico.

La politica estera degli Stati corrisponde a queste esigenze: vi corrisponde più o meno bene e il grado di corrispondenza è l'effettivo margine di lotta politica tra le varie frazioni della classe dominante, ma vi corrisponde.

Se noi analizziamo queste tendenze fondamentali operanti nel capitalismo statunitense e nel capitalismo russo, troviamo che nessuna di queste ha agito nel senso di poter determinare una guerra russo-americana nel secondo dopoguerra. In primo luogo, i rapporti di forza, i rapporti di forza militare, cioè i rapporti di "potenza economica", tra i due imperialismi erano e sono, troppo sproporzionati per costituire un fattore di guerra. Se la guerra imperialista è lotta per la ripartizione del mercato mondiale, gli obiettivi raggiungibili dalla " potenza economica " statunitense lo potevano essere senza una eccessiva opposizione russa, poiché in pratica la concorrenza russa, e quindi la sua effettiva capacità di incidere sul mercato o di volere una maggiore parte nella suddivisione, non era e non è tale da intralciare gli Stati Uniti.

Non si vede perché gli Stati Uniti dovevano, e devono, fare una guerra contro l'URSS per ottenere quello che possono ottenere senza eccessiva lotta. La lotta imperialistica diventa conflitto armato quando i rapporti tra due o più potenze creano una situazione sul mercato mondiale, e nel loro mercato interno, che non permette all'una o alle altre di avvantaggiarsi nei confronti dell'antagonista.

In termini militari questa situazione si esprime in un equilibrio relativo di forze, mai in una accentuata sproporzione. In quest'ultimo caso la potenza fortemente svantaggiata ha già perso il confronto con la potenza fortemente avvantaggiata, e lo ha già perso sul piano della concorrenza economica e finanziaria e senza bisogno di affrontare una guerra militare. E' una potenza imperialistica in decadenza che ha perso la guerra economica, oppure è una potenza imperialistica in ascesa che non può ancora vincere la guerra economica e deve attendere per poterlo fare, deve ancora svilupparsi, deve prendere tempo. L'URSS si trovava, e si trova, in quest'ultima posizione e quindi non aveva e non ha alcun interesse oggettivo ad un confronto militare con gli USA da cui sarebbe uscita ed uscirebbe perdente.

Si può determinare, comunque, un'altra situazione per cui un imperialismo forte è portato ad un confronto militare con un imperialismo più debole nel caso che questi voglia conservare o pretendere posizioni che non corrispondono alla sua effettiva forza. E' una situazione in cui sono in movimento altre potenze imperialistiche che, in un modo o nell'altro, appoggiano l'imperialismo più debole contro l'imperialismo più forte per indebolire questo ultimo e rafforzarsi a loro volta di conseguenza .

In questa situazione si determina uno schieramento di forze ed un sistema di alleanze imperialistiche il cui risultato sarà, in termini militari, un equilibrio relativo di forze per cui la guerra militare diventa possibile perché offre finalmente delle concrete possibilità per i contendenti di poter modificare l'assetto precedente della ripartizione del mercato mondiale, modificazione resa ormai impossibile con le battaglie della guerra economica. Neppure quest'ultima ipotesi può essere indicata come possibile nei rapporti USA-URSS del secondo dopoguerra.

Solo una ipotesi può essere formulata per un attacco militare statunitense all'URSS nell'immediato dopoguerra: togliere all'URSS l'Europa Orientale. Vedremo in seguito come anche questa ipotesi non avesse ragioni oggettive di esistenza.

Formuliamo tutta questa serie di ipotesi per dimostrare come la prospettiva della guerra USA-URSS formulata dal 1947 al 1952-53 da alcuni gruppi era una astrazione ideologica e non il risultato di una analisi marxista: mancando l'applicazione della scienza marxista, mancava di conseguenza una strategia sulle prospettive della lotta rivoluzionaria e sul comportamento tattico del proletariato rivoluzionario.

Mancando una chiara visione strategica mancava, perciò, un vero partito rivoluzionario, poiché si può definire partito rivoluzionario solo quell'organismo politico che oggettivamente agisce nel processo delle leggi di movimento della società perché coscientemente ne conosce lo sviluppo, ne segue il corso, ne anticipa gli sbocchi e regola tutte le sue azioni tattiche in un determinato coordinamento o, per meglio dire, su coordinate prospettiche.

Per illustrare la nostra tesi sulla impossibilità oggettiva di una guerra USA-URSS, tesi che ovviamente sta al centro di una determinata concezione strategica poiché la prospettiva di una guerra di quel tipo determinava di per sé un comportamento specifico in chi la intravedeva formuliamo pure l'ipotesi di un attacco statunitense all'URSS nel primo decennio del dopoguerra. Data la sproporzione di forze tra gli USA e l'URSS l'obiettivo di questo attacco non poteva consistere esclusivamente nell'abbattimento della potenza russa ma doveva necessariamente estendersi all'abbattimento delle risorgenti potenze europee e all'accaparramento del loro mercato naturale dell'Europa Orientale e balcanica, strappato all'URSS. Questa ipotesi era oggettivamente possibile, ma ad una condizione: che il conflitto non fosse ristretto agli USA ed all'URSS ma che riguardasse gli USA, da un lato, e l'URSS e le potenze europee, o alcune di esse, dall'altro, cioè una guerra America Europa.

In nessun caso, potenze risorgenti, anche se a diverso grado, come la Francia e la Germania, avrebbero permesso una conquista americana dell'Europa orientale e balcanica ed un forte ridimensionamento della potenza russa, perché ciò avrebbe rappresentato un totale dominio dell'Europa da parte degli USA ed il rinvio per una serie consistente di cicli economici, almeno 3050 anni, della possibilità di poter avvicinare la potenza economica dei vari imperialismi europei alla potenza economica americana. L'alleanza con l'URSS sarebbe stata perle potenze europee (specie per la Germania e, in secondo luogo, per la Francia) un atto naturale di sopravvivenza. E questo era ben presente alla politica estera staliniana la quale, sullo sfondo dell'alleanza con gli USA stabilita ad Yalta, si è sempre lasciata aperta l'alternativa "europea" e "tedesca". Sul piano ideologico tale alternativa si esprimeva nella propaganda rivolta alle"borghesie nazionali" europee contro lo "sfruttamento coloniale" dell'imperialismo americano.

è inutile aggiungere che questa alternativa per l'URSS rimane sempre valida ed aperta e ciò corrisponde alla logica imperialistica che si sviluppa in più direzioni e che deve tener conto di uno scacchiere in cui operano più forze imperialistiche e non solo due.
Le ragioni oggettive dell'alleanza USA-URSS
La nostra tesi sull'impossibilità oggettiva della guerra USA-URSS tiene presente tutte le forze imperialistiche, ma considera che nel ventennio scorso il grado di sviluppo di una serie di potenze europee (Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia) e asiatiche (Giappone) non; permetteva loro un ruolo relativamente autonomo: questa considerazione è, per lo meno, valida per il primo decennio dal 1945.

Le due potenze effettive rimanevano USA e URSS e queste non avevano contrasti fondamentali e vitali nel loro rapporto. Un contrasto fondamentale e vitale esisteva, ed esiste, tra le potenze europee, specie la Germania, e l'URSS: l'Europa Orientale e balcanica, oggetto permanente di lotta tra Germania, Francia, Inghilterra, Italia e Russia in tutto l'Ottocento capitalistico e in tutto il Novecento imperialistico, lotta che è già sfociata in due guerre mondiali. A conclusione della seconda guerra mondiale imperialistica, che sanciva la sconfitta del piano tedesco di creare un suo impero orientale, tutta l'area in questione cadeva sotto il dominio russo.

E ciò corrispondeva ai rapporti di forza intercorrenti tra l'accresciuto imperialismo russo e gli sconfitti imperialismi europei, cioè al rapporto URSS-Europa, anche se corrispondeva meno ai rapporti di forza URSS-America.

Il più colpito rimaneva indubbiamente l'imperialismo tedesco, ma danneggiati ne risultavano pure gli imperialismi inglese, francese ed italiano, seppure in modo differenziato e minore. La divisione della Germania, attuata principalmente dagli USA e dall'URSS e secondata dalla Gran Bretagna e dalla Francia, veniva a favorire, innanzitutto, le due superpotenze ma pure la Gran Bretagna, la Francia e l'Italia che ritrovavano un equilibrio nel loro rapporto reciproco di a seconde potenze ", equilibrio che non si è sostanzialmente alterato in un ventennio.( Sul totale del Prodotto Nazionale Lordo dei paesi dell'OCDE, per il 1966, la Germania Occidentale incide per 1'8,5% circa, la Gran Bretagna per il 7,8%, la Francia per il 7,6%, l'Italia per il 4,5%, mentre gli Stati Uniti incidono per il 54% ed il Giappone per il 7%; tre considerazioni: 1) Gran Bretagna" Germania Occ., Francia sono equilibrate sul 78% e su di un P.N.L. di 101)120 miliardi di dollari,
2) una Germania unificata arriverebbe sui 150' miliardi di dollari del P.N.L. e cioè arriverebbe a superare di circa il 50% sia la Gran Bretagna che la Francia,
3) Gran Bretagna, Germania Occ., Francia e Italia assieme arrivano al 28,4% del P.N.L. dell'OCDE.
Ma se le due superpotenze, con la divisione tedesca, equilibravano i rapporti tra le "seconde potenze" europee, non potevano cancellare il comune interesse di queste all'Europa Orientale e balcanica e, tanto meno, eliminare il danno, derivato loro dal fatto che l'intera zona fosse andata in mano ad una sola potenza, l'URSS, che in questo modo era diventata la superpotenza continentale. Per impedire che lo diventasse la Germania, nella prima e nella seconda guerra mondiale Gran Bretagna e Francia si allearono con la Russia. Oggettivamente Gran Bretagna, Francia e Germania Occ. avevano ed hanno interesse a togliere o a ridurre l'area orientale e balcanica in mano russa, per procedere ad un altro tipo di ripartizione in cui la loro forza economica, sostanzialmente equivalente, possa pesare in modo proporzionale.

Ma questo comune interesse, a cui si collega quello italiano, urta contraddittoriamente con l'interesse inglese, francese ed italiano (che in questo caso combacia con quello americano e russo) a non volere un rafforzamento tedesco che vada oltre il loro parallelo rafforzamento e, cioè, a non volere l'unificazione tedesca che farebbe compiere un rapido balzo alla Germania.

Qui sta una delle principali contraddizioni nei rapporti delle potenze imperialistiche europee, che gioca a favore degli USA e dell'URSS, che frena il loro blocco, che ne paralizza l'espansione nell'area orientale e balcanica e che permette una libertà d'iniziativa militare all'URSS.

Ma le tendenze di sviluppo negli imperialismi europei vedono, da un lato, la decadenza inglese e francese e, dall'altro, l'ascesa tedesca ed italiana e ciò significa che: 1) Le proporzioni tra Gran Bretagna, Francia e Germania sono destinate a modificarsi a svantaggio delle prime due, 2) i capitalismi nord-europei ed europei meridionali gravitano sempre più attorno al centro tedesco e, subordinatamente, al centro italiano, 3 ) ciò costringe Gran Bretagna e Francia ad appoggiarsi al centro tedesco, in condizione di compartecipanti alla tendenza di sviluppo imperialistico poiché le due alternative che hanno (dissociarsi e frenare la forza centripeta tedesca oppure appoggiarsi maggiormente agli USA o all'URSS) ridurrebbero fortemente la loro potenza e le condurrebbero alla loro pratica liquidazione come potenze imperialistiche.

In Europa USA e URSS non hanno contrasti di fondo
Negli anni '50 la possibilità di una guerra contro l'URSS poteva quindi consistere solo nell'appoggio degli Stati Uniti alla Germania Occ., alla Gran Bretagna e alla Francia, o solo alla prima, per la riconquista dell'Europa Orientale e Balcanica. Ma in questo caso, se Stati Uniti (potenze europee fossero stati d'accordo su questo obiettivo non vi sarebbe stato bisogno di guerra perché l'URSS avrebbe ceduto con previsione degli accordi di Yalta, su accordi precisi vi erano stati, o arretrando in pratica, dalla Cecoslovacchia ad esempio. Non si riescono però a vedere gli interessi oggettivi che dovevano portare gli Stati Uniti ad appoggiare gli interessi europei, cioè a rafforzare Gran Bretagna, Francia e Germania a scapito della Russia. Infatti non c'erano, non ci sono e non ci saranno finché la Russia non si alleerà con un blocco di potenze asiatiche, di cui oggi, solo il Giappone può costituire un componente apprezzabile sulla composizione di uno schieramento abbastanza equilibrato. (Europa + Stati Uniti superano largamente URSS + Asia).

Proseguiamo ancora nelle varianti della ipotesi della guerra anti URSS degli anni '50 e non tanto per una esercitazione sui "se" storici, che da un punto di vista marxista non ha alcun valore, quanto perché ci permette di delineare il quadro dei rapporti interimperialistici attuali nel loro divenire e di mettere a fuoco tutte le loro contraddizioni.

Supponiamo la variante di un appoggio USA alla Germania Occ. contro l'URSS per l'Europa Orientale e danubiana, ma con un sostanziale disaccordo inglese e francese. Gran Bretagna e Francia sarebbero rimaste neutrali, avrebbero frenato l'appoggio USA o avrebbero potuto allearsi all'URSS la quale, in questo modo, avrebbe potuto resistere maggiormente alla revisione di Yalta ma, in definitiva, avrebbe dovuto cedere perché il sostegno anglo francese non poteva essere determinante.

E per quanto si introducano nel rapporto USA-URSS ipotesi di guerre non si riesce a trovarne le ragioni oggettive. In Europa, Stati Uniti e Russia non avevano e non hanno, contrasti di fondo. Ne avevano e ne hanno in Asia, in Africa, nel Medio Oriente, ma in Europa no.

Chi li ha concepiti, e li concepisce in Europa, non può essere un marxista perché ha concepito e concepisce che sia sparita una realtà storica, sociale, politica: l'imperialismo europeo.

Questa realtà sparirà solo con una rivoluzione socialista, non con una guerra imperialista. I dirigenti imperialisti statunitensi lo sapevano bene. Sapevano che in dieci anni gli imperialisti europei avrebbero ricostruito il loro potenziale e che in venti anni lo avrebbero raddoppiato o triplicato. Nessuna potenza imperialista al mondo avrebbe potuto impedirlo, poiché una tale potenza imperialistica non è mai esistita e mai esisterà se non nella fantasia "superimperialistica" di un Kautsky o di un qualche volgare ideologo piccolo borghese e contrabbandiere dell'antimperialismo a senso unico. E quello che sapevano i dirigenti imperialistici dovevano e devono saperlo i rivoluzionari se vogliono essere tali e se vogliono conoscere come funziona il nemico che devono combattere a fondo nei fatti e non nelle parole.

La stessa realtà dell'economia mondiale, in tutta la sua rete commerciale, che permetteva agli Stati Uniti e all'URSS di svilupparsi, avrebbe permesso inevitabilmente all'Europa imperialistica di ricostruirsi e di rafforzarsi. Era una questione di cicli economici. O i cicli si interrompevano ed avevamo crisi gigantesche del capitalismo che avrebbero colpito principalmente gli Stati Uniti e l'URSS, le due "superpotenze" vincitrici, o i cicli si compivano e accanto alla potenza americana e russa sarebbe riapparsa quella europea e, assieme a questa, sarebbero riapparsi tutti i problemi che avevano prodotto la seconda guerra mondiale e che erano stati dilazionati ma non risolti. Il primo problema a riapparire sarebbe stato inevitabilmente quello dell'Europa Orientale e Balcanica. L'unica potenza che avesse nel passato cercato di risolverlo a suo vantaggio, avendone tutta la capacità industriale, era stata la Germania. Gli Stati Uniti appoggiarono i nemici della Germania per impedire che questa diventasse una grande potenza europea e quindi mondiale, realizzando con mezzi militari l'unificazione del capitalismo europeo sotto la sua egemonia.

Gli usa contro una superpotenza europea
L'unificazione del capitalismo europeo era, ed è, la più grande minaccia alla supremazia americana perché un grande imperialismo europeo, inglobante come nel piano tedesco una parte dell'URSS, ha la forza di fare una fortissima concorrenza agli USA non solo nel Medio Oriente e in Africa ma pure in Asia e in America Latina.

Con questo non si vuol dire che i gruppi imperialistici europei non possano fare concorrenza all'imperialismo americano: l'hanno fatta e la fanno.

Si vuole semplicemente dire che un più alto grado di concentrazione dei gruppi europei, con il conseguente grado di unificazione a tutti i livelli commerciali, doganali, politici, militari, moltiplica la capacità di concorrenza sul mercato mondiale. Ma tutto questo movimento imperialistico se dal lato politico prende gli aspetti di Stati nazionali o regionali, dal lato economico non rappresenta altro che un processo di internazionalizzazione del capitale. La concorrenza imperialistica diventa la concorrenza sul piano mondiale di gruppi altamente internazionalizzati, i quali, a questo fine, utilizzano gli Stati nazionali e possono giungere ad unificarli, in forma federale o unitaria, in Stati supernazionali.

La dinamica degli Stati corrisponde ai movimenti di fondo del capitale internazionalizzato e quindi anche le tendenze storiche della politica mondiale degli Stati deve corrispondere allo sviluppo storico della struttura capitalistica.

Ciò spiega le costanti della politica mondiale statunitense. Da quando gli Stati Uniti si posero, all'inizio del nostro secolo, alla testa delle potenze industriali il loro interesse fondamentale fu quello di rimanervi poiché questa posizione permette loro di avere un maggior peso nella ripartizione del plusvalore mondiale. Eppure, per parecchi anni ancora, negli Stati Uniti vi sarà una forte incidenza di investimenti stranieri, specie inglesi, come del resto in parte vi è ancora oggi. Nessun marxista si sognava allora di dire che gli Stati Uniti erano una a colonia inglese " per il fatto che vi erano forti investimenti inglesi, come invece oggi dell'imperialismo europeo dicono che è una " colonia americana " perché ci sono forti investimenti americani, maoisti e castristi, marxisti a parole, borghesi nei fatti. Da quando gli Stati Uniti sono la prima potenza industriale, hanno orientato la loro politica estera al fine di impedire che si formasse una potenza che li tallonasse o li superasse e quindi hanno lottato contro ogni tentativo di formazione di un grande Stato che abbia basi industriali.

Per l'America Latina questo pericolo non sussisteva e attualmente non sussiste, anche se politicamente questo Stato esiste con gli Stati Uniti del Brasile.

Possiamo dire perciò che il pericolo per gli Stati Uniti esiste soltanto in una prospettiva lontana, per quanto riguarda l'America Latina.

Per l'Africa e il Medio Oriente, neppure questa lontana prospettiva può allarmare la politica americana e, qualora, sorgessero grossi Stati africani e mediorientali non potrebbero ancora colpire oggettivamente gli interessi vitali dell'imperialismo americano.

Poiché di interessi vitali stiamo trattando, cioè di quegli interessi che una volta colpiti porterebbero inevitabilmente l'imperialismo americano alla decadenza o allo sfacelo a beneficio di altri imperialismi e non come dicono alcuni, a beneficio dei socialismo, perché senza la rivoluzione proletaria internazionale contro tutti i gruppi imperialistici la decadenza di un imperialismo significa l'ascesa di altri. Individuare gli interessi dell'imperialismo americano significa, perciò, individuare i punti fondamentali sui quali la potenza americana arriva allo scontro militare e non può fare ritirate parziali. I due punti fondamentali sono l'Europa e l'Asia e non perché la vita o la morte degli Stati Uniti si giochino in questi due continenti e neppure perché in Europa o in Asia gli USA abbiano capitali da perdere (come se un capitale internazionalizzato potesse essere vanificato non dalla crisi ma dalla concorrenza!), ma perché è proprio l'Asia e l'Europa che sono in grado di partorire quei grossi Stati imperialisti che possono strappare l'egemonia americana negli altri continenti, ridurre la potenza americana nei mercati che la sostanziano, asfissiarla lentamente, trascinarla alla decadenza.

Le due guerre mondiali imperialiste, da un punto di vista americano, rappresentano il tentativo di impedire la formazione di una forte potenza oggettivamente anti americana. Ciò spiega perché nella prima come nella seconda guerra gli Stati Uniti si schierano contro la Germania e si alleano, oltre che con la Gran Bretagna e la Francia, con la Russia .

Il ruolo frenante dell'Europa orientale
Per l'Asia la situazione era più semplice: solo con la seconda guerra mondiale il Giappone rappresenterà il concorrente più pericoloso e in grado di egemonizzare l'Asia e di intaccare gli interessi vitali americani. Contro il Giappone, non a caso, sarà concentrato il massimo sforzo americano. Sconfitto il Giappone, non ci saranno altri concorrenti e l'appello nipponico sarà rovesciato: "l'Asia agli Americani".

Con l'unificazione dello Stato cinese ad opera del maoismo, sulla base dell'alleanza con la Cina, la Russia tenterà alcuni assaggi per incrinare l'egemonia statunitense in Asia, ma dopo la guerra di Corea, abbandonerà il timido tentativo e lascerà l'alleato a protestare contro la "revisione" nelle tendenze di sviluppo dell'imperialismo russo.

Infatti, oltre al fatto che l'India è la zona su cui tende di più la penetrazione dell'imperialismo russo in Asia, l'URSS non era e non è assolutamente in grado di poter svolgere una efficace concorrenza agli Stati Uniti ed al Giappone in quel continente. La guerra di Corea e la stessa guerra del Vietnam ne sono una clamorosa conferma. L'espansione della potenza russa in Asia ha dei limiti oggettivi, per ora invalicabili: limiti rappresentati dalla debole capacità di esportazione di capitali. In più di dieci anni i prestiti russi alla Cina sono stati effettivamente tanto scarsi da compromettere l'iniziale alleanza e da provocare in brevissimo tempo una rottura. Tale debolezza oggettiva della tendenza "asiatica" di sviluppo imperialistico russo è la componente principale dell'alleanza USA-URSS.
è un dato oggettivo che presiede alla elaborazione della strategia imperialistica americana tendente ad impedire la formazione di una grossa potenza concorrente europea ed asiatica. La Russia può diventarlo, ma in parecchi decenni e lottando strenuamente contro le potenze imperialistiche europee che, unificate, di fatto la superano.

Il Giappone, con una potenza rapportabile a quella tedesca, non può in Asia unificare un gruppo di potenze imperialistiche, come è il caso dell'Europa, e diventare a breve scadenza una "superpotenza" paragonabile agli Stati Uniti. Potrebbe allearsi all'imperialismo europeo unificato, ma come in ogni alleanza anche in questa gli Stati Uniti hanno margini per impedirla con contropartite. Il problema per gli USA rimane sempre quello della superpotenza europea: il fatto è che in Europa di superpotenze ve ne sono due. Una è l'URSS, con la quale gli USA si sono alleati, e l'altra è una costellazione di "potenze medie" il cui processo di unificazione statale, come abbiamo visto, è un processo complesso e contraddittorio. Tra l'una e l'altra vi è in mezzo l'Europa orientale e balcanica, cioè un mercato che per ambedue rappresenta lo sbocco di una tendenza vitale di sviluppo imperialistico. A Yalta non vi è stata una divisione del mondo, perché gli Stati Uniti che lo avevano conquistato non dovevano dividerlo con nessuno e tanto meno con l'URSS che usciva dalla guerra distrutta. Vi fu una cessione all'URSS dell'Europa Orientale e balcanica da parte degli USA. Questi cedettero un mercato che non era loro ma dell'imperialismo europeo e si tennero tutti gli altri mercati.

Presero, come si usa dire, due piccioni con una fava... altrui: legarono la Russia per un tempo indefinito ad una alleanza oggettiva che aveva per pegno un mercato che l'URSS doveva sfruttare e mantenere con la forza militare ed impedirono che questo mercato cadesse in breve tempo sotto l'influenza di un risorto imperialismo tedesco. Inglobando il mercato europeo orientale l'URSS si sarebbe certamente rafforzata ma avrebbe dovuto necessariamente difenderlo dalla penetrazione tedesca, cosa che sta facendo da più di dieci anni. E la resistenza russa, anche se parziale come è dimostrato dalla crescente invasione del MEC, avrebbe finito col rallentare lo sviluppo della potenza tedesca e, di riflesso, delle altre potenze europee. Sotto questo aspetto, e per i risultati ottenuti, Yalta non è altro che una edizione americana della inglese "teoria dell'equilibrio" in Europa. Il calcolo americano si è dimostrato abbastanza preciso. Senza Yalta la potenza russa sarebbe ridimensionata alla sua effettiva capacità industriale, il processo di unificazione dell'imperialismo europeo, avrebbe potuto utilizzare, più di quanto ha fatto la Russia, tutto il mercato dell'Est, sarebbe giunto ad un grado più avanzato e la regressione del peso specifico della potenza americana si sarebbe ancora più accentuata. Ma come ogni equilibrio anche quello dell'Europa può rovesciarsi. La crisi cecoslovacca è un sintomo di una situazione in movimento e che non prospetta facili assestamenti. L'assetto interimperialistico emerso dal 1945 scricchiola sempre di più. Il sistema imperialistico prepara una delle sue più gigantesche crisi che, come sempre, sarà la classe operaia a pagare. Oggi più che mai è necessario che il proletariato internazionale si prepari a combattere contro tutti i gruppi imperialisti se non vuole essere travolto, se non vuole essere uno strumento della forsennata concorrenza che agita tutto il sistema imperialistico. Chi non è contro tutto l'imperialismo mondiale, chi non è contro l'imperialismo americano, russo ed europeo, è uno strumento in mano della concorrenza di un gruppo imperialistico.

Non può essere un comunista, non può essere un rivoluzionario.

Tutta la lotta rivoluzionaria deve essere diretta a demolire tutti i centri della ripartizione imperialista del mondo, deve essere contro la spartizione di Yalta ma deve impedire che si preparino altre spartizioni colpendo conseguentemente, in tutte le loro metropoli, i predoni imperialisti di ieri e gli aspiranti predoni di oggi.

("Lotta Comunista" n.29-30, settembre-ottobre 1968)
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Tendenze di sviluppo dell'imperialismo europeo sul mercato mondiale

Uno degli aspetti che occorre analizzare nei rapporti tra i gruppi imperialisti è quello riguardante le correnti di scambio, anche se ovviamente i movimenti del commercio internazionale non colgono tutta la dinamica dello sviluppo imperialistico. Però, assieme ad altri indici (grado di concentrazione industriale e di centralizzazione finanziaria, grado e ritmo di esportazione di capitali, grado e ritmo di sviluppo di alcuni settori industriali, ecc.), quello concernente il commercio estero contribuisce a dare una rappresentazione quantitativa e qualitativa della "potenza economica" e del rapporto tra "potenze economiche".
Prendiamo come base di analisi i rapporti commerciali tra MEC e Stati Uniti, tra MEC e COMECON, tra MEC ed altre zone. Da questa analisi emergono alcune tendenze di sviluppo che ci permettono di inquadrare le linee di politica estera dei vari paesi capitalistici. Questa analisi va ad integrare e a confermare, in generale, quella da noi svolta all'inizio del decennio in corso.
Innanzitutto, occorre vedere il meccanismo ed il ritmo di sviluppo dello scambio commerciale all'interno del MEC.
Nel decennio 1958-1967 lo scambio tra i sei paesi del MEC passa da 6,7 miliardi di dollari a 24,1: è aumentato del 260% circa, cioè di più di 2 volte e mezza. Dei tre paesi imperialisti fondamentali del MEC, l'Italia è quello che commercialmente ha marciato più forte: ha aumentato le importazioni del 396% e le esportazioni del 456%, cioè ha avuto un ritmo di sviluppo commerciale non solo superiore alla Francia e alla Germania ma superiore a quello generale del MEC, dimostrando così il suo dinamismo imperialista. La esportazione italiana trova nella Germania il principale sbocco, con 1,6 miliardi di dollari; segue la Francia con circa 1 miliardo di dollari. L'export italiano nel MEC segna un totale di circa 3,3 miliardi di dollari. Interessante è vedere il ritmo dell'export italiano nel decennio: verso la Francia +814%, l'Olanda +570%, il Belgio +482%, la Germania +400%.
Ancora più interessante è vedere la composizione dell'export italiano: i " beni di investimento " rappresentano il 20% dell'export complessivo. Il 13,7% delle importazioni globali della Francia dall'Italia è costituito da " beni di investimento ". L'Italia si colloca al 4° posto dell'import mondiale della Francia, dopo la Germania, il Belgio e gli Stati Uniti.
Il ritmo francese si distanzia parecchio da quello italiano (Esportazioni +324%, Importazioni +338%) e, a differenza di quello italiano, registra un più forte ritmo di import che di export.
Anche quello tedesco è distanziato da quello italiano (Esportazioni +233%, Importazioni +262%) ed è più accelerato nell'import che nell'export; ma la Germania incide maggiormente nel commercio mondiale, a differenza della Francia, ed ha un forte attivo nella sua bilancia mondiale. Nel 1966 la Germania esportava per 20,1 miliardi di dollari e la Francia per 10,9.
PRIMA TENDENZA: RIDUZIONE DEL COMMERCIO CON GLI USA
Il ritmo commerciale europeo, riflesso di quello industriale, ha permesso al MEC, e alle sue tre maggiori potenze imperialistiche, di rovesciare, nel decennio 1958-1967, i rapporti che nel 1958 aveva con gli USA. Ciò ha rafforzato la posizione delle tre potenze europee nei confronti di quella americana.
Nel 1958 gli USA esportavano nei paesi MEC 1,6 miliardi di dollari e ne importavano 2,8: avevamo, quindi, un intercambio totale USA-MEC di 4,4 miliardi ed un intercambio totale tra i paesi del MEC di 6,7 miliardi di dollari, cioè l'intercambio USA-MEC era circa il 66% dell'intercambio tra i paesi del MEC. Nel 1967, con 10,2 miliardi, è poco più del 42%; da circa i 2/3 è ridisceso a poco più di 1/3, da uno scarto di 2,3 miliardi di dollari è passato ad uno scarto di circa 14 miliardi. Nell'incremento mondiale del commercio gli Stati Uniti hanno visto ridotto il loro peso specifico nel commercio MEC e si sono orientati verso altre zone, senza, peraltro, aumentare il loro peso specifico su quei mercati in quanto che il MEC, spinto da un ritmo che gli ha permesso di ridurre il peso commerciale USA in Europa, ha rafforzato la sua potenza di espansione commerciale su tutti i mercati, anche se con ritmi differenziati.
Vediamo questo fenomeno, che ci rappresenta un aspetto fondamentale della concorrenza imperialistica, in dati assoluti, in percentuali e in ritmi di sviluppo.
SECONDA TENDENZA: AUMENTO DEL COMMERCIO MONDIALE
Nel 1958 il totale dell'intercambio (export ed import) dei paesi MEC (interscambio dentro il MEC + intercambio extra MEC) era di 38,7 miliardi di dollari (6,7 interscambio MEC e 32 extra MEC). Nel 1967 era di 86,4 miliardi di dollari (24,1 del MEC e 62,3 extra MEC).
Mentre, nel decennio, l'intercambio USA-MEC aumentava di 5,8 miliardi di dollari, l'intercambio totale del MEC aumentava di 47,7 miliardi, l'intercambio del MEC con le altre zone aumentava di 30,3 miliardi, l'intercambio del MEC con le altre zone (esclusi gli USA) aumentava di 24,5 miliardi di dollari, passando da 27,6 a 52,1.
Nel 1958 l'intercambio USA-MEC rappresentava l'11% circa dell'intercambio totale del MEC (intercambio interno + intercambio extra MEC), il 14% circa dell'intercambio esterno dei paesi MEC, il 16% circa dell'intercambio esterno (esclusi gli USA). Nel 1967, rappresenta, rispettivamente, il 12% circa, il 16% circa ed il 20% circa, incidendo con 10,2 miliardi di dollari su, rispettivamente, 86,4 62,3 e 52,1 miliardi di dollari .
Praticamente è rimasto stazionario, anche se nell'ultima voce è aumentato del 4% circa. Ma quello che è interessante vedere è che nel 1958 l'intercambio totale MEC superava di 34,3 miliardi di dollari l'intercambio USA-MEC, l'intercambio esterno lo superava di 27,6, l'intercambio esterno (esclusi gli USA) di 23,2.
Nel 1967 lo scarto è diventato di 76,2 nell'intercambio totale, di 52,1 nell'intercambio esterno, di 41,9 nell'intercambio esterno (esclusi USA).
Nella prima voce abbiamo, di differenza tra il 1958 ed il 1967, 41,9 miliardi di dollari in più, nella seconda voce 24,5 miliardi di dollari in più, nella terza voce 18,7 miliardi in più.
Mentre l'intercambio USA-MEC è aumentato, in dieci anni, di soli 5,8 miliardi di dollari, quello del MEC con le zone extra MEC, cioè con i mercati dove operano gli Stati Uniti, è aumentato di ben 24,5 miliardi di dollari, cioè di ben 18,7 miliardi di dollari in più dell'aumento dell'intercambio USA-MEC .
Questo significa che il ritmo USA verso il MEC ha dato 5,8 miliardi di dollari in più e quello MEC verso i mercati EFTA, Africa, Asia, America Latina ed Europa Orientale ha dato 18,7 miliardi di dollari in più.
TERZA TENDENZA: INCREMENTO DEL COMMERCIO CON L'EFTA
Vediamo l'intercambio MEC verso questi mercati.
Verso l'EFTA passa da 8,5 miliardi di dollari nel 1958 a 17,5 nel 1967: cioè raddoppia (1958: import 3,6 export 4,9; 1967: import 7,1, export 10,4).
Aumento di 9 miliardi. Ciò testimonia di un processo in corso per cui i gruppi imperialistici del MEC estendono la loro influenza su di una serie di paesi capitalistici del nord Europa, dell'Europa meridionale e, in parte, sulla Gran Bretagna stessa e che vede tutti questi paesi gravitare sempre più verso il centro commerciale dell'imperialismo europeo e rallentare sempre più i legami commerciali con gli Stati Uniti. L'intercambio con l'EFTA rappresenta circa il 20% dell'intercambio totale del MEC, il 28% circa dell'intercambio esterno totale ed il 34% circa dell'intercambio esterno (esclusi gli USA).
Nel 1958 rappresentava, invece, il 22% circa dell'intercambio totale ma solo il 26% circa dell'intercambio esterno e solo il 31% dell'intercambio esterno (esclusi gli USA).
QUARTA TENDENZA: RADDOPPIO DEL COMMERCIO CON LE ZONE ARRETRATE
L'intercambio verso l'Africa (Stati Africani esterni) passa da 2 miliardi di dollari (1958) a circa 4 (1967). Anche qui raddoppio e aumento di 2 miliardi.
Il peso specifico di questo mercato è ancora basso: poco più del 4,5% dell'intercambio totale del MEC, poco meno del 6,5% dell'intercambio esterno, circa 1'8% dell'intercambio esterno (esclusi gli USA). La situazione è poco cambiata dal 1958, quando le percentuali erano praticamente le stesse.
Siccome l'intercambio è aumentato solo di 2 miliardi ne deriva che il mercato è dominato abbastanza saldamente dagli Stati Uniti e, in parte, dalla Gran Bretagna.
Lo stesso si può dire per l'Asia occidentale e l'Estremo Oriente, proprio a testimoniare il dominio americano, insidiato solo dall'ascesa giapponese.
Sommando l'intercambio delle due parti dell'Asia con il MEC abbiamo nel 1967 un totale di 6,7 miliardi di dollari (nel 1958: 4,2). L'aumento è di 2,5 miliardi, ma l'incremento è di nemmeno il 60%, inferiore di gran lunga al ritmo di incremento commerciale mondiale e al ritmo commerciale MEC sia all'interno che in tutte le direzioni all'esterno. Di conseguenza l'incidenza " asiatica " nel commercio mondiale del MEC rimane sempre bassa (circa l'8% nel 1967), anzi si abbassa (circa l'11% nel 1958). La retrocessione è sempre forte anche se confrontiamo l'incidenza " asiatica ", sul commercio esterno del MEC (esclusi gli USA): nel 1958 (il 15%) e nel 1967 (il 13%). Difatti dei 18,7 miliardi che il MEC ha in più, nel decennio, sui mercati in concorrenza con gli USA, l'Asia ne ha utilizzato solo 2,5.
Dato il forte sviluppo dell'imperialismo giapponese, anche una probabile retrocessione degli USA in Asia, di cui la guerra del Vietnam è un chiaro sintomo, non potrà favorire a breve scadenza l'imperialismo europeo. L'espansione imperialistica del Giappone ne riceverà tutti i benefici e questa " chiusura " asiatica può diventare uno dei fattori dell'aggravamento della crisi dell'imperialismo europeo ed una spinta oggettiva a cercare di penetrare maggiormente nel mercato dell'Europa Orientale.
Il mercato asiatico rappresenta e rappresenterà come sempre, uno dei fattori fondamentali della crisi dell'imperialismo mondiale e dei suoi conflitti, esempio tipico come è dell'ineguale sviluppo del capitalismo.
Ma prima di passare al mercato dell'Europa Orientale, analizziamo quello dell'America Latina. Qui l'imperialismo MEC è passato da un intercambio di 3,2 miliardi di dollari nel 1958 a 4,7 del 1967. L'aumento è stato di 1,5 miliardi e l'incremento di appena il 50%, ancora meno di quello " asiatico ", ma nella prospettiva è meno negativo per l'imperialismo europeo per tre motivi: I) l'export industriale MEC è di 2 miliardi di dollari, 2) la sua incidenza sul mercato latino americano è molto più alta che in Asia, 3) l'export di capitali europei nell'America Latina è molto più alto che in Asia e non ha un fortissimo distacco da quello statunitense, anzi in qualche paese lo supera.
Insomma, le condizioni per la concorrenza imperialistica sono più favorevoli agli europei nell'America Latina che in Asia, per il semplice motivo che lì, oltre alla concorrenza tra di loro, devono affrontare la concorrenza di un solo imperialismo, seppur potente come gli USA, mentre in Asia ne devono affrontare due, Stati Uniti e Giappone, l'ultimo dei quali è sempre più temibile perché ha ritmi più forti di quelli MEC.
QUINTA TENDENZA: RADDOPPIO DELL'EXPORT NELLE ZONE ARRETRATE
Le esportazioni del MEC nell'America Latina raggiungono, nel 1967, i 2 miliardi di dollari. Rappresentano solo il 6% dell'export totale extra MEC che è, appunto, di 31,6 miliardi. Però se escludiamo dall'export totale extra MEC le Zone EFTA ed USA (in tutto 14,8) abbiamo 16,8 miliardi di esportazione dei paesi del MEC in Asia, Africa, America Latina ed Europa Orientale, cioè sui mercati ove si sviluppa la concorrenza con gli imperialisti americani, russi e giapponesi.
Nel 1958 l'export dei paesi MEC in questi mercati era di 9,4 miliardi di dollari (mentre le importazioni erano di 9,7, aumentate a 17,9 nel 1967).
L'export è, quindi, aumentato nel decennio di 7,4 miliardi (l'import di 8,2).
Se si tiene presente che questo è il tipico intercambio che vede favorite le nazioni industriali, per le note ragioni di scambio in cui i prezzi delle materie prime ribassano in confronto ai prezzi dei prodotti industriali, si vede chiaramente come queste correnti commerciali del MEC collochino i paesi imperialisti europei in progredienti posizioni nella ripartizione mondiale dei profitti provenienti dalle aree sottosviluppate.
L'intercambio totale del MEC con queste aree è passato dai 19,1 miliardi di dollari nel 1958 a 34,7 nel 1967, cioè è aumentato di 15,6 miliardi ossia è quasi raddoppiato. L'aumento di 15,6 miliardi è quasi tre volte quello di 5,8 miliardi che vi è stato nell'intercambio USA-MEC.
Possiamo quindi vedere come ha operato questa tendenza commerciale dell'imperialismo europeo: commerciare per 10,2 miliardi di dollari con gli Stati Uniti, commerciare per 17,5 con l'EFTA, commerciare per 34,7 con il resto del mondo .
In termini spiccioli: su 10 dollari commerciati dai capitalisti MEC fuori dai loro confini doganali, 1,5 li commerciano con gli USA, 3 con l'EFTA e 5,5 con il resto del mondo. E' vero che l'intercambio MEC-USA è più che raddoppiato: ma come abbiamo visto ci da' 5,8 miliardi in più, mentre quello MEC nelle zone sottosviluppate ci da ben 15,6 miliardi di dollari in più, cioè ci dimostra la capacità e la tendenza di espansione dell'imperialismo europeo.
Riprendiamo l'analisi dell'export MEC in queste zone per poter meglio caratterizzare queste tendenze. Abbiamo visto che questo export ha un totale di 16,8 miliardi di dollari nel 1967 e che è aumentato, dal 1958, di 7,4 (cioè è quasi raddoppiato).
SESTA TENDENZA: TRIPLICAMENTO DEL COMMERCIO CON L'EUROPA ORIENTALE
Siccome cerchiamo di individuare i mercati di maggiore penetrazione dell'imperialismo europeo prendiamo i due mercati che più ci interessano, sotto questo aspetto, e vediamo quanto essi assorbono dell'export di 16,8 miliardi e quanto essi abbiamo inciso sui 7,4 miliardi di dollari di aumento dal 1958.
L'export nell'America Latina rappresenta circa il 12% dell'export MEC nelle zone arretrate e quello nell'Europa Orientale il 12,5% con 2,1 miliardi.
Dei 7,4 miliardi di export in più dal 1958 l'America Latina ne ha assorbito 0,4 mentre l'Europa Orientale 1,5, cioè un buon quinto. Mentre l'export nella America Latina mantiene le posizioni ed aumenta di 0,4 (nel frattempo l'intercambio è passato da 3,2 a 4,7 miliardi come abbiamo visto precedentemente), quello nell'Europa Orientale triplica abbondantemente, passando da 0,6 a 2,1.
Così triplicano le importazioni (da 0,6 a 2 miliardi di dollari) e triplica l'intercambio, passando da 1,2 a 4,1. Il ritmo di aumento del mercato europeo orientale è stato vertiginoso. Mentre l'export MEC in Asia, Africa, America Latina ed Europa Orientale prese insieme è quasi raddoppiato, quello nell'Europa Orientale è più che triplicato; per l'intercambio vale la stessa constatazione.
Se ricerchiamo le ragioni di questo fenomeno ci imbattiamo di fronte ad una precisa situazione: la scarsa concorrenza statunitense in quel mercato e la debolezza finanziaria e commerciale dell'imperialismo russo. E' in corso, è vero, una avanzata dell'imperialismo giapponese ma, per ora, riguarda la parte asiatica dell'URSS: inoltre, è da ritenere che il Giappone svilupperà la sua capacità concorrenziale in Asia e non potrà, a breve scadenza, costituire una minaccia all'espansione imperialistica europea nell'Europa Orientale e balcanica. La debolezza finanziaria e commerciale dell'imperialismo russo è, d'altra parte, accentuata dallo sforzo che questo imperialismo fa per penetrare in Asia, nel Medio Oriente e, parzialmente in America Latina. Sezione del sistema capitalistico mondiale, il capitalismo di Stato Russo ha svolto in quarant'anni una oggettiva opera di diffusione dei rapporti capitalistici di produzione che nei cicli economici del secondo dopoguerra arriva a maturazione. Il capitalismo statale russo ha compiuto una vasta opera di accumulazione, estraendo masse ingenti di plusvalore dalla forza lavoro, con la quale ha portato avanti l'industrializzazione e la riforma agraria capitalistica. Il risultato raggiunto è che ogni residuo feudale è stato eliminato dalla vastissima area dell'Europa Orientale balcanica e della Russia asiatica e che tutte le potenzialità capitalistiche di quel mercato vastissimo si sono dispiegate a tutte le forze capitalistiche agenti sul mercato mondiale. Più intensa ed accelerata è stata l'industrializzazione e la riforma agraria staliniana, più rapida e radicale è stata l'eliminazione di tutte le forze frenanti lo sviluppo capitalistico, più forte si manifesta la capacità di assorbimento capitalistico di quel mercato sia in capitali che in mezzi di produzione e in beni di consumo. Ciò spiega perché quel mercato registra ritmi di sviluppo sconosciuti ad altri mercati dove la debolezza della rivoluzione democratico borghese, come ad esempio in Cina, rappresenta la debolezza dello sviluppo delle forze produttive capitalistiche. Ciò spiega perché l'imperialismo europeo trova uno sbocco in quel mercato alla sua incipiente crisi.
Ed è proprio su questo mercato che si vengono scontrando le tendenze dell'imperialismo russo ed europeo, determinando una dialettica di forti integrazioni e di acuti conflitti ed attestando rapporti di forza corrispondenti ai reali rapporti economici e commerciali.
Tutta la politica mondiale non è altro che il movimento sovrastrutturale di un ben più profondo movimento del capitale che agisce nelle forme commerciali e finanziarie dell'epoca imperialistica.
Non è l'ideologia che muove la politica delle potenze imperialistiche, ma sono le correnti commerciali e finanziarie del capitalismo. La scarsa concorrenza statunitense sul mercato europeo orientale determina l'atteggiamento " disimpegnato ", degli USA in quella zona Il " disimpegno " americano non è, quindi, una scelta ideologica ma la conseguenza di una necessità.
Gli USA non possono dilatare la loro capacità concorrenziale anche nell'Europa Orientale; dovrebbero diradarla in altre zone, per esempio in America Latina, con il risultato di vedere la concorrenza imperialistica europea, compressa in Europa, espandersi sul continente Sudamericano. La capacità concorrenziale sul mercato mondiale di ogni singolo imperialismo è un dato oggettivo, proporzionato alla struttura capitalistica di ogni singolo paese. Ed è in rapporto a queste proporzioni che il mercato mondiale viene ripartito.
Ma i ritmi di sviluppo delle zone di mercato ripartite determinano, a loro volta, i ritmi di espansione dei vari imperialismi in una spirale infernale che prepara crisi, guerre e rivoluzioni.
Gli Stati Uniti devono cedere il mercato europeo orientale agli imperialisti del MEC i quali si scontrano con gli imperialisti russi che vogliono difendere il loro mercato ma che finanziariamente ne sono incapaci. Ma se la tendenza dell'imperialismo MEC su quel mercato proseguisse all'attuale ritmo, inevitabilmente gli imperialisti europei vedrebbero accresciuta la loro capacità concorrenziale per intensificarla nell'America Latina. Gli scontri interimperialistici si accentuerebbero anche in quel continente.
Il marxismo rivoluzionario deve essere in grado di individuare tutte le tendenze di sviluppo dell'imperialismo e di preparare il proletariato alla sua lotta di classe, nel presente, ma soprattutto nell'avvenire.

("Lotta Comunista" n.29-30, settembre-ottobre 1968)

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L'esportazione di capitali dell'imperialismo mondiale nelle zone in sviluppo

L'esportazione di capitali in Asia, Africa e America Latina
Il ruolo delle potenze imperialistiche nell'esportazione dl capitali
Il rapporto tra P.N.L. ed esportazione dl capitali per potenza imperialistica
L'incidenza dell'imperialismo USA e dell'imperialismo europeo
La crescente capitalizzazione dell'esportazione imperialistica
L'ineguale sviluppo come legge del mercato mondiale
L'esportazione dl capitali concentrata nelle zone in sviluppo
I sovrapprofitti realizzati da sei potenze imperialistiche
I sovrapprofitti realizzati dall'imperialismo italiano

L'esportazione dei capitali rappresenta il contrassegno fondamentale dell'imperialismo. Nelle tendenze di sviluppo dell'esportazione di capitali debbono essere individuate le tendenze di sviluppo del sistema imperialistico nel suo complesso e le tendenze di sviluppo di ogni singola potenza imperialistica dentro questo sistema. L'esportazione di capitali è il contrassegno fondamentale dell'imperialismo, ma non può e non deve in nessun modo essere staccata dalle correnti del commercio internazionale determinato dall'imperialismo perché i due fenomeni sono parti integranti di uno stesso processo e senza l'uno non vi è l'altro.
La crescente tendenza all'esportazione di capitali rappresenta la caratteristica fondamentale della maturità imperialistica degli scambi mercantili basati su rapporti di produzione capitalistici.
L'analisi dello sviluppo delle tendenze all'esportazione dei capitali deve essere, quindi, strettamente collegata all'analisi dello sviluppo delle tendenze del commercio mondiale e i risultati dell'una e dell'altra si trovano ad essere strettamente compenetrati.
Gli aspetti che esamineremo nella presente analisi di una delle tendenze di sviluppo della esportazione dei capitali devono essere collegati a quelli emersi à alla analisi che abbiamo compiuto sulle tendenze commerciali dell'imperialismo europeo sul mercato mondiale, poiché non sono che due facce della stessa medaglia e due momenti di una stessa dimostrazione della natura dell'imperialismo mondiale.
L'esportazione di capitali in Asia, Africa e America Latina
Prendiamo come campo d'analisi la esportazione di capitali nelle zone arretrate dell'Asia, dell'Africa e dell'America Latina. In confronto ai quattro mercati (Asia, Africa, America Latina ed Europa Orientale) presi in esame in un precedente studio sulle tendenze dell'esportazione di merci dell'imperialismo europeo abbiamo tolto il mercato dell'Europa Orientale, per la difficoltà di reperire dati omogenei dalle fonti ufficiali. Inoltre, sempre in confronto al precedente quadro commerciale, sono considerate le tendenze di tutti i paesi imperialisti che operano sul mercato americano afro-asiatico. C'è da aggiungere un'altra considerazione: le fonti ufficiali, sia occidentali che sovietiche, mascherano questo aspetto della esportazione mondiale dei capitali con varie denominazioni (" aiuti ai paesi sottosviluppati ", " contributi finanziari ", " contributi pubblici ", " contributi privati ", " aiuti socialisti " ecc. ). Come vedremo, non si tratta né di " aiuti " né di " contributi " ma semplicemente di esportazione di capitali regolata da tassi di interesse.
E' necessario precisare ciò perché attorno a questo fenomeno è sorta una specifica ideologia fondata sull'ipocrisia dell'" aiuto " dei " paesi ricchi " ai " paesi poveri " e alimentata, oltre che da preti e mercanti di ogni genere, " democratico " e " socialista " (ossia dagli agenti dell'esportazione), da una risma varia di " sottosviluppisti " che in varie sedi vogliono reclamare, contrattare, riformale gli " aiuti " occidentali e sovietici. L'OCDE, in una sua pubblicazione ufficiale, ci fornisce un quadro generale delle esportazioni di capitali nelle zone sottosviluppate. Da questa, come da altre fonti che citeremo, è difficile ricavare un quadro preciso del fenomeno che stiamo trattando. Le ragioni di questa difficoltà sono molteplici. Le principali sono costituite da: 1) criteri e metodi di rilevamento differenziati, in generale, nei vari organismi; 2) proliferazione di enti ed organismi preposti a queste attività (tanto che l'OCDE nel suo bilancio parla di" mancanza di organizzazione e di coordinamento nel settore degli aiuti " e propone una specie di segretariato unico mondiale tra tutti gli organismi bilaterali e multilaterali, BIRD, FMI, BIS ecc.); 3) discordanze notevoli nei bilanci, nelle valutazioni, nelle previsioni di tali organismi.
Ma dato che il nostro compito non è quello di mettere ordine nella burocrazia mondiale, ma quello di individuare le tendenze di sviluppo dell'imperialismo, pensiamo che i dati disponibili siano più che sufficienti a questo scopo e che ci permettano di stabilire alcune necessarie comparazioni.
Il totale dell'export di capitali nei paesi sottosviluppati è stato: 1960 = 8,7 miliardi di dollari; 1961 = 9,6; 1962 = 8,9; 1963 = 9,1; 1964 = 9,6; 1965 = 10,7;1966 = 10,4.
Di questo, la parte dei membri del CAD (cioè dei paesi dell'OCDE dove sono tutte le potenze imperialistiche occidentali) è stata: 1960 = 7,9 miliardi di dollari; 1961 = 9,1; 1962 = 8,3; 1963= 8,5; 1964 = 9,1; 1965 = 10,2; 1966= 9,9.
La parte dell'URSS e del COMECON è stata: 1960 = 0,4 miliardi di dollari; 1961 = 0,5; 1962 = 0,6; 1963 = 0,6; 1964= 0,5; 1965 = 0,5.
Questo totale fornito dall'OCDE è al netto del rimborso di capitali per ammortamento dei prestiti, cioè è il totale dei capitali esportati nei paesi arretrati con l'esclusione dei capitali rimborsati da questi paesi. Ci permette perciò di vedere l'esportazione netta dei capitali, ma non tutto il movimento dei capitali. L'OCDE sul totale che abbiamo indicato opera una successiva operazione per ricavare le effettive entrate di capitali dei paesi sottosviluppati, operazione indicata come " contributo netto multilaterale addizionale ", e che sarebbe la differenza tra le entrate annuali totali degli organismi multilaterali e i versamenti effettuati nello stesso anno, al netto del capitale destinato a sottoscrizioni, titoli e rimborsi da parte dei paesi sottosviluppati In certa misura questa voce è importante per valutare il movimento di capitali e l'esportazione di capitali da parte della classe capitalistica degli stessi paesi sottosviluppati.
Ma dato che questa voce non disaggrega le sue componenti, abbiamo preferito non adoperarla.
Importante è piuttosto vedere quali forme assume questa esportazione di capitali. Prendiamo l'anno 1966. Il 70% circa è organizzato da enti statali e interstatali (la Banca Mondiale ad esempio; questi organismi traggono i capitali dai versamenti dei vari Stati ed emettendo obbligazioni sul mercato finanziario mondiale) e circa il 30% proviene da gruppi privati (questa quota poi è composta da 2/3 di investimenti diretti e da 1/3 di crediti privati alla esportazione). L'OCDE, per mascherare ancora di più questo meccanismo della vita imperialistica, propone di escludere non solo la parte riguardante i crediti privati all'esportazione ma tutto " l'apporto privato ", dal computo degli " aiuti ": avremmo così " aiuti " puri e semplici, dati dal capitalismo statale di ogni paese e dalle sue Banche mondiali! Questo " aiuto " puro e non privato, sarebbe stato nel 1966 di 5,9 miliardi di dollari (" assistenza bilaterale ufficiale ", cioè capitali esportati da organismi statali di ogni singolo paese imperialista), di 0,5 miliardi di dollari (" assistenza multilaterale ufficiale ", cioè capitali esportati da organismi internazionali creati in collaborazione dai vari Stati imperialisti) e di 0,5 miliardi di dollari esportati dal COMECON. Il totale del capitalismo statale mondiale è quindi di ben 6,9 miliardi di dollari. L' " aiuto " del capitalismo statale è consistente, solo che è un " aiuto " che deve essere rimborsato con salati interessi. L'OCDE è d'accordo con l'URSS: il capitalismo è solo " privato "!
Sulla base di comuni " interessi " (riscossi annualmente, soldo su soldo, e non solo storicamente! ) anche la teoria di tutti i gruppi imperialistici finisce con convergere.
Non a caso i teorici sovietici affermano che: " ... le relazioni economiche si integrano con la politica estera sovietica nel suo insieme " (Grande Enciclopedia Sovietica ).
Giungono così a giustificare gli interessi che riscuotono dai loro prestiti alle zone arretrate come " prezzo del sacrificio compiuto in vista della rinuncia temporanea ad una parte delle disponibilità nazionali ".
E' la classica teoria marginalista, la teoria del " rentier " come la definì Bukharin. Non c'è capitalista che non sia d'accordo con la giustificazione sovietica. La differenza sta nel fatto che il capitalista non si proclama marxista come fa il capitalista statale sovietico il quale è ormai costretto ad abbandonare, anche formalmente, la teoria marxista per la quale è la forza-lavoro e non il capitale a produrre plusvalore. E siccome le " disponibilità nazionali " esportate sono capitali, i teorici dell'imperialismo sovietico hanno dovuto riscoprire e restaurare, a più di cinquant'anni dalla demolizione marxista, il vecchio rudere "marginalista" del parassitismo imperialista, sino a ripetere quello che ogni borghese ha ripetuto alla noia: il sovrapprofitto imperialistico è il "prezzo del sacrificio nazionale" e non il risultato dello sfruttamento della forzalavoro su scala internazionale.
Il ruolo delle potenze imperialistiche nell'esportazione dl capitali
Analizziamo adesso la composizione dell'export di capitali nelle zone "sottosviluppate" (impieghiamo ancora questo termine prima di poterlo definire meglio in seguito).
1966 = 10,4 miliardi di dollari di export totale. Il CAD (OCDE) interviene con 9,9, il Comecon (praticamente l'URSS) con 0,5. Il rapporto è di 1 a 20 circa, cioè per un dollaro russo esportato abbiamo ben 20 dollari occidentali.
Delle sette maggiori potenze imperialistiche del mondo, sei (USA, Giappone, Germania Occ., Francia, Gran Bretagna, Italia) fanno parte del CAD ed una (URSS) del COMECON. Queste sette potenze praticamente totalizzano l'export di capitali nelle zone arretrate. Vi sono certamente, altre potenze imperialistiche minori ma la loro incidenza, ai fini dell'analisi delle tendenze di sviluppo imperialistico in questo terreno, è irrilevante o comunque non in grado di produrre sensibili variazioni nel nostro schema a sette potenze (basterà ricordare che semplifichiamo sulla grandezza del miliardo e non su quella del milione di dollari).
Come incidono le sette potenze sull'export di capitali nelle zone arretrate? Determinare, anche approssimativamente, il loro grado di incidenza significa ricostruire il "quadro vivente", secondo l'espressione di Lenin, dell'imperialismo: riuscire cioè a vedere, così come è stato fatto per le tendenze commerciali, il fenomeno imperialistico nella sua dinamica, nelle parti (potenze) che lo compongono, nei rapporti sempre mutevoli che queste parti hanno tra di loro, nell'ineguale sviluppo di ogni parte (potenza) nei confronti delle altre, nella diversità del ritmo di sviluppo che determina l'ineguaglianza, negli inevitabili squilibri che si vengono a determinare nei rapporti tra le potenze, nelle molteplici conseguenze sociali e politiche (cioè a livello di classi e di Stati) che saranno il risultato appariscente di tutto questo movimento contraddittorio.
Il movimento della struttura determina il movimento della sovrastruttura. L'economia dell'imperialismo come struttura unitaria e mondiale determina le molteplici politiche internazionali dei molteplici Stati nazionali imperialistici.
E' un " uno ", che si trasforma in" molti ", come direbbe Mao ma che lo stesso Mao non vuole intendere per ovvie ragioni...
Ma ritorniamo al quesito: in quale modo le sette potenze incidono sull'export di capitali nelle zone arretrate.
La legge oggettiva che regola questo " modo di esportazione " risiede nella centralizzazione e nella concentrazione del capitale e, quindi, nella caduta tendenziale del saggio di profitto e nella derivante eccedenza di capitali nelle metropoli imperialiste. Dato che esiste tra le stesse potenze imperialistiche un ineguale sviluppo della centralizzazione e della concentrazione del capitale, avremo perciò un ineguale sviluppo della legge della caduta tendenziale del saggio di profitto e della eccedenza di capitali.
Il grado di incidenza nell'export di capitali varia di conseguenza, per ogni potenza imperialistica ed è destinato a variare sia a breve che a lungo ciclo.
E' proprio in questo campo che le tendenze di sviluppo delle varie potenze imperialistiche subiscono le più forti variazioni e le più acute oscillazioni, quali segni testimonianti la più aspra concorrenza tra i gruppi imperialistici.
Il rapporto tra P.N.L. ed esportazione dl capitali per potenza imperialistica
L'OCDE prende come termine di riferimento d'incidenza dell'export di capitali nelle zone arretrate, il loro peso percentuale sul reddito nazionale delle singole potenze imperialistiche (manca l'URSS).
1965 = Francia 1,88%; Germania Occ. 0,83%; Italia 0,65%; Giappone 0,74%; Regno Unito 1,17%; Stati Uniti 0,98%.
Queste percentuali non rappresentano la reale eccedenza di capitali poiché si riferiscono solo all'esportazione di capitali nei mercati sottosviluppati e non in tutti i mercati. Ci indicano, caso mai, che per alcune potenze (Francia e Gran Bretagna) i mercati "sottosviluppati" sono più importanti che per le altre (USA, Giappone, Italia e Germania) che operano più fortemente sui mercati sviluppati. Ci indicano inoltre che sono proprio le due classiche potenze "colonialiste" (Francia e Gran Bretagna) ad essere imperialismi in decadenza. Non è un caso che siano gli imperialismi più dinamici a registrare le percentuali del reddito nazionale, a differenza di quelle anglo-francesi dell'l,l -1,8, più basse dello 0,6 - 0,9. Segno che la Francia e la Gran Bretagna sono spinte ad indirizzare il loro export più nei loro mercati tradizionali ex-coloniali che in altri mercati dove più forte è la concorrenza degli imperialismi più dinamici. Una serie di fatti dimostrano queste tendenze:
1 ) la crisi monetaria inglese e francese a spese del rafforzamento tedesco;
2) negli investimenti dell'America Latina, Francia ed Inghilterra sono dietro a Stati Uniti, Germania, Italia e Giappone;
3) nell'Europa Orientale le tendenze più dinamiche sono rappresentate dalla Germania e dall'Italia;
4) l'assorbimento della Citroen da parte della Fiat.
Più importante è quindi vedere la grandezza del capitale esportato nelle zone sottosviluppate e rapportarla al PNL.
Prendendo il totale del PNL delle sette potenze e facendolo uguale a 100 avremo le seguenti percentuali, secondo una nostra valutazione basata sulle previsioni del 1968:
USA: 48,8%
URSS: 20,3%
GIAPPONE: 7,6%
GERMANIA: 7,2%
FRANCIA: 6,7%
GR. BRETAGNA: 5,2%
ITALIA: 4,2%
La valutazione riguarda il 1968 e in confronto al 1966 vede, come previsto, il Giappone superare la Germania e diventare la " terza potenza ", mentre l'Italia avanza e la Francia riesce a superare, nella comune decadenza, la Gran Bretagna.
Da queste percentuali che ci indicano, approssimativamente, i rapporti tra le sette potenze possiamo già trarre una prima considerazione e cioè che, con la sua incidenza di PNL, l'URSS dovrebbe esportare almeno 4 volte i capitali che esporta attualmente nelle zone sottosviluppate. Se ciò non avviene è perché il grado di centralizzazione e di concentrazione, malgrado la proprietà statale nell'industria e grazie all'enorme decentramento aziendale è in URSS più basso che nelle altre potenze (basti pensare all'agricoltura russa) e che, di conseguenza, più lenta è la caduta tendenziale del saggio di profitto.
Non è qui il caso di illustrare quello che in altre occasioni, abbiamo fatto e, in altre ancora, faremo. Il fatto è che l'imperialismo russo ha il più basso grado di concentrazione delle sette potenze prese in esame. Ciò indica due cose: 1) che la sua capacità concorrenziale sui mercati sottosviluppati è molto bassa (quantitativamente corrisponde grosso modo, a quella dell'imperialismo italiano, qualitativamente a circa 1/4 di quella dello stesso imperialismo italiano, tanto per prendere un termine di paragone); 2) che la sua capacità di espansione concorrenziale ha un grosso margine da sfruttare e può, come minimo, quadruplicarsi nella misura in cui il suo sviluppo interno condurrà ad una più elevata concentrazione, ad una più alta composizione organica del capitale, ad una maggiore ristrutturazione aziendale e ad un più alto livello tecnologico.
Questo sviluppo interno dovrà inevitabilmente investire una serie di settori industriali e l'agricoltura in blocco. Ci troviamo di fronte ad un gigante imperialista che oggettivamente non può dispiegare tutte le sue potenzialità. Il giorno che lo potrà, tutto l'attuale schieramento delle potenze imperialistiche e tutti i loro rapporti reciproci, già oggi in fase di movimento e di squilibrio, subiranno una violentissima alterazione.
Il problema non è però ristretto allo sviluppo interno russo ma è di natura internazionale perché lo sviluppo dell'economia russa è ormai integrato nello sviluppo dell'economia mondiale e ne deve subire tutte le contraddizioni, tutti gli squilibri, tutte le crisi.
La crisi generale dell'imperialismo investirà in pieno l'URSS.
L'incidenza dell'imperialismo USA e dell'imperialismo europeo
Lasciando da parte l'imperialismo russo, per la serie di condizioni particolari che abbiamo elencato, possiamo ricostruire uno schema a sei potenze.
Per questa valutazione assumiamo il Prodotto Nazionale Lordo perché a differenza del Reddito Nazionale, comprende capitale costante, capitale variabile e plusvalore e non solo capitale variabile e plusvalore e perché ci permette, in questo modo, di avere una dimensione quantitativa del ciclo annuale di tutto il capitale sociale, anche se marxisticamente non sufficientemente corretta, di una potenza imperialistica.
Certamente vale per il PNL la stessa critica che il marxismo rivolge alla definizione borghese del Reddito Nazionale, ma nella nostra scelta del PNL abbiamo appunto tenuto conto di questa critica e della seguente e preziosa indicazione di Lenin: " Il problema del reddito nazionale " e del " consumo nazionale ", assolutamente insolubile e fonte soltanto di dissertazioni, definizioni e classificazioni scolastiche quando viene impostato in modo autonomo, è risolto integralmente quando si analizza il processo di produzione di tutto il capitale sociale " (Opere Complete vol. III).
Con queste precisazioni metodologiche, pensiamo si possa utilizzare il PNL per il nostro schema.
Prendiamo il totale PNL di solo sei potenze del 1966 e facciamolo uguale a 100. Avremo le seguenti percentuali:
USA: 60,4%
GERMANIA: 9,5%
GR.BRETAGNA: 8,7%
FRANCIA: 8,7%
GIAPPONE: 7,9%
ITALIA: 5,0%
Sui circa 10 miliardi di dollari esportati nel 1966 nelle zone sottosviluppate dalle sei potenze, ognuna di queste ha inciso nella seguente proporzione:
USA: circa 5,7 miliardi
GERMANIA: circa 0,8 miliardi
GR.BRETAGNA: circa 0,8 miliardi
FRANCIA: circa 1,5 miliardi
GIAPPONE: circa 0,6 miliardi
ITALIA: circa 0,6 miliardi
Grosso modo, l'incidenza sull'export di capitali nelle zone sottosviluppate corrisponde alla rispettiva incidenza sul PNL totale delle sei potenze.
Confrontando i due indici 100 (uno per il PNL e l'altro per il totale export capitali delle sei potenze nei paesi sottosviluppati) avremo il seguente rapporto:
USA: con il 60,4% del PNL ha il 57% dell'export
GERMANIA O.: con il 9,5% del PNL ha l'8% dell'export
GR. BRETAGNA: con 1'8,7% del PNL ha 1'8% dell'export
FRANCIA: con 1'8,5% del PNL ha il 15% dell'export
GIAPPONE: con il 7,9% del PNL ha il 6% dell'export
ITALIA: con il 5% del PNL ha il 6% dell'export
Da questa generale corrispondenza PNL-Export capitali in zone sottosviluppate possiamo già ricavare una serie di considerazioni:
1) la Francia è la potenza che più si distacca da questa norma tendenziale che abbiamo stabilito. La sua incidenza sull'indice export è quasi doppia di quella sull'indice PNL. Non dobbiamo dimenticare però che questo tipo di export di capitali è solo una parte dell'export totale. Se la percentuale francese ci conferma la tesi di Lenin, da noi ripresa nella caratterizzazione della crisi di maggio e della generale decadenza dell'imperialismo francese, sull'accentuato parassitismo della Francia, ci dimostra nello stesso tempo l'indirizzo prevalente nell'export totale francese di capitali.
Nella lotta imperialistica per la ripartizione del mercato africano la Francia tenta proprio su questo mercato di mantenere le sue posizioni, ma è costretta a trascurare gli altri. Ma le tendenze di sviluppo che esamineremo in seguito, dimostrano che anche queste posizioni francesi sono incalzate da altre potenze.
2) Germania e Giappone già nel 1966 hanno a disposizione un margine che può ridurre l'incidenza francese.
Specie la Germania sta dispiegando la tendenza destinata a ridurre l'incidenza francese. Nello stesso anno 1966 che vede la Francia esportare nelle zone sottosviluppate capitali per 1,6 miliardi di dollari e la Germania per 0,8, la Francia ha esportato merci per 10,9 miliardi di dollari e la Germania per 20,1, quasi il doppio. Già alcuni dati parziali che abbiamo per il 1967 e per il 1968 (ad esempio l'export di capitali tedeschi in America Latina) ci indicano che il potente attivo commerciale della Germania si sta trasformando in un massiccio export di capitali e che, soprattutto, è destinato a trasformarsi nei prossimi anni. La crisi del franco, l'alleanza franco-dollaro-sterlina contro marco, ha messo a nudo tendenze che stanno precipitosamente decantandosi nel corso del 1968: la Francia vede, da maggio, dimezzata la sua riserva valutaria da 6 a 3 miliardi di dollari, la Germania vede la sua straripare sopra i 9. Quando avremo i dati per poter stabilire sull'anno 1968 i nostri indici PNL ed Export capitali, i rapporti per ogni singola potenza confermeranno queste tendenze in movimento.
3) Le tre potenze del MEC rappresentano il 23% del PNL delle sei potenze (1966) ed incidono per il 29% nell'export totale di capitali. Questo è già un primo dato importante che dimostra non solo la potenzialità dell'imperialismo europeo ma la sua effettiva e concreta incidenza. Dimostra inoltre tutta la sua capacità di sviluppo e, quindi, di concorrenza. Si può obiettare, riprendendo le nostre osservazioni precedenti, che la forte proporzione " europea " è data dalla forte incidenza francese e che, se la Francia è un imperialismo in decadenza, la proporzione " europea " è destinata a ridursi.
Il fatto è che la riduzione francese non può essere assorbita dagli USA e neppure dalla Gran Bretagna. Solo il Giappone, la Germania e l'Italia possono riassorbire il ridimensionamento francese. Ed è quello che sta avvenendo.
Intanto su 10 dollari esportati nel cosidetto " Terzo Mondo " poco più della metà sono statunitensi, circa 1/5 sono inglesi, giapponesi e russi e circa 1/3 sono MEC.
I socialimperialisti europei, dai socialdemocratici, ai P.C., ai gruppi vari d'intonazione maoista e castrista, tacciono accuratamente su questo fatto per ingannare la classe operaia europea e per predisporla al fronte unito contro l'imperialismo americano e il blocco americano-russo.
Tacciono sul fatto che l'imperialismo europeo partecipa per un terzo allo sfruttamento perpetuato dal capitalismo finanziario mondiale nelle zone sottosviluppate. Vedremo in seguito, in quali forme specifiche partecipa a questo sfruttamento.
4) L'imperialismo italiano è ormai ben collocato nell'export di capitali nelle zone sottosviluppate. Un dollaro su venti esportati è made in Italy. Anche questo si dimenticano di dire i socialimperialisti italiani. Dato che per loro esiste al mondo solo " l'imperialismo dimezzato " (quello USA), quello italiano, più modesto, diventa proprio "l'imperialismo inesistente".
Quando potremo confrontare PNL ed export capitali 1968, le variazioni che risulteranno nel quadro generale della corrispondenza PNL-Export capitali in zone sottosviluppate assumeranno i contorni ben definiti di tendenza a più lungo termine.
La crescente capitalizzazione dell'esportazione imperialistica
Sempre sulla fonte OCDE per il 1966 vediamo adesso i sovrapprofitti imperialistici. Nel 1966 i membri CAD (cioè le sei potenze dell'OCDE) hanno esportato attraverso enti pubblici e in forma bilaterale circa 6 miliardi di dollari (5.919 milioni). Questa cifra è al netto degli ammortamenti (rimborsi delle quote di capitali precedentemente esportati), ma non degli interessi. Questi interessi sono stati, nel 1966, ben 494,4 milioni di dollari, cioè circa il 9% del capitale esportato, secondo la fonte OCDE. Il rapporto fra il "valore netto" (export meno interessi) e i "versamenti lordi" viene indicato come "flusso di ritorno" (cioè rimborso delle quote di capitali più i pagamenti degli interessi).
Nel 1963 il "flusso di ritorno" è stato il 12,8% dei versamenti lordi, nel 1966 ben il 19,6%. Al 31 dicembre 1962 il debito pubblico esterno non ammortizzato (per 95 paesi delle zone sottosviluppate presi in esame dalla BIRD) ammontava a 25,2 miliardi di dollari.
Al 30 giugno 1966 era salito a 41,1. Si calcola che nei prossimi 1020 anni questo debito non ammortizzato raddoppierà e raggiungerà gli 80 miliardi circa. La situazione odierna riflette le scadenze dei prestiti degli anni '50 e quindi l'accumulo di quote di rimborso e di quote di interessi. Se teniamo presente che dal 1960 l'export di capitali si è ulteriormente alzato (CAD più COMECON = 1960: 8,7 miliardi di dollari; 1966: 10,4), è da calcolare che l'accumulo del debito diventerà ancor più pesante. La situazione odierna è soprattutto pesante per l'accumulazione del debito in interessi. Se, infatti, le quote di rimborso di capitali rimangono invariate, il mancato rimborso comporta un crescente debito in quote d'interesse. I sovrapprofitti imperialistici trovano così una continua fonte di alimentazione. Ciò vale per i tassi medi occidentali del 6%, come per quelli sovietici del 2,5%. Nel 1962 il cosiddetto " servizio debito " (rimborso capitale più pagamento interessi) dei 95 paesi su indicati fu di 2,71 miliardi di dollari, nel 1966 di 3,96; in quattro anni era aumentato del 50%. Questo crescente indebitamento è, certamente, un fattore che limita l'export di capitali nelle zone sottosviluppate e costituisce un elemento della incipiente crisi del sistema imperialistico dentro il quale si accentua la concorrenza per la conquista dei mercati.
Ma non è un fattore che possa eliminare questo tipo di export. Vediamo il perché. In primo luogo perché l'export assume nuove forme. Tra il 1965 e il 1966 vi è stata una riduzione di circa mezzo miliardo di dollari negli investimenti diretti e nei prestiti a lunga scadenza, ma il totale di export di capitali non si è ridotto perché il mezzo miliardo è stato trasferito nel rafforzamento dei crediti all'esportazione di merci verso le zone sottosviluppate.
In secondo luogo perché il crescente indebitamento non può essere visto come quello di una azienda che sta per fallire bensì come quello di una azienda che si sta allargando.
E qui arriviamo al cuore del cosiddetto "sottosviluppo".
L'ineguale sviluppo come legge del mercato mondiale
I teorici "sottosviluppisti" di varie correnti, di destra e di sinistra, presentano lo sviluppo capitalistico di certe zone come un processo di sottosviluppo.
In realtà il termine "sottosviluppo" esprime già una ideologia che ha una rappresentazione ideale dello sviluppo dei rapporti di produzione capitalistici, come un processo lineare ed equilibrato. Ciò è una completa mistificazione del reale processo di sviluppo capitalistico che, in sé, non è né sovra né sotto sviluppo, ma sviluppo ineguale, cioè sviluppo non equilibrato, e non proporzionato. Il capitalismo diventa appunto imperialismo perché il processo di sviluppo determina, per le leggi che lo regolano, ritmi ineguali tra le varie sezioni della sua struttura economica (sezione della produzione dei mezzi di produzione e sezione della produzione dei mezzi di consumo), tra industria ed agricoltura.
Nella stessa industria poi, si determinano ineguali sviluppi tra i vari rami e tra le varie aziende. Avremo allora aziende e rami più concentrati ed altri meno, avremo quindi eccedenza di capitali provocata dall'ineguale sviluppo tra i vari settori del mercato capitalistico. L'imperialismo è il prodotto storico delle caratteristiche tipiche dello sviluppo capitalistico e, perciò, è il prodotto dell'ineguale sviluppo trai settori in cui si articola l'economia capitalistica e, in definitiva, è il prodotto dell'ineguale grado di concentrazione tra questi settori.
Questo spiega, tra l'altro, perché i socialimperialisti di ogni paese possano presentare l'esportazione di capitali non come un fenomeno necessario al capitalismo ma come uno "spreco" di "risorse nazionali" che potrebbero essere impiegate utilmente nel proprio mercato. Infatti in ogni paese imperialista vi sono zone e settori che i "sottosviluppisti", definiscono di "sottosviluppo" mistificando completamente il processo che le ha determinate necessariamente e che ha permesso ad altre zone e settori di svilupparsi più rapidamente. Non comprendere la oggettività di questo processo porta inevitabilmente a diventare socialimperialisti come Kautsky e cioè a ritenere che l'imperialismo sia una politica che può essere impedita. Comprendere invece la diffusione di questo processo permette di vedere tutta la sua dimensione mondiale. Sul mercato mondiale, così come su quello nazionale, nel processo di diffusione dei rapporti di produzione capitalistici viene a determinarsi una fitta rete di correlazioni tra aziende e settori che si trovano a vari gradi di sviluppo e quindi a vari gradi di concentrazione. Il processo di ineguale sviluppo tra aziende e settori capitalistici assume una forma universale ed una dimensione mondiale.
Più si sviluppa mondialmente il capitalismo più l'ineguaglianza dei suoi ritmi si generalizza, penetra in ogni mercato nazionale, domina ogni settore.
Ogni settore, ogni mercato, ogni paese capitalista, grande e piccolo, viene a configurarsi in un rapporto di ineguale sviluppo. Questo vale tra i paesi capitalistici non ancora maturi imperialisticamente come tra quelli imperialisti. Se non fosse così, se i rapporti fossero statici, non vi sarebbero neppure i paesi imperialisti perché il modo di produzione capitalistico avrebbe trovato uno sviluppo equilibrato e proporzionale, avrebbe trovato quell'eternità che invano i suoi teorici da Ricardo a Keynes, hanno sempre cercato.
L'esportazione dl capitali concentrata nelle zone in sviluppo
Non di "sottosviluppo" ma di ineguale sviluppo occorre perciò parlare.
Potremo allora spiegare perché le potenze imperialiste continuano a prestare capitali a paesi che presentano già un enorme debito. Questi paesi sono infatti quelli in cui i rapporti di produzione capitalistici sono tra i più sviluppati tra i 95 paesi considerati dai dati della BIRD. Se analizziamo in quali paesi va prevalentemente l'export di capitali delle sei potenze del CAD (la stessa considerazione la faremo per l'URSS) e quali paesi totalizzano la maggior parte del debito dei 95 paesi "sottosviluppati" potremo facilmente rilevare che, in fondo, sono un gruppo ristretto di paesi e che sono il gruppo meno "sottosviluppato" e ad un grado capitalistico che potremmo definire medio. (Per alcuni di questi, per intenderci, la incidenza dell'industria sul PNL e l'incidenza della classe operaia sulla popolazione attiva è tre volte quella esistente nella Russia del 1917, paese capitalista, per Lenin, a livello medio).
Gran parte del credito CAD è totalizzato dall'Argentina, dal Brasile, dal Messico (i cosiddetti "tre giganti" dell'America Latina, i tre paesi capitalisti più sviluppati di quel continente di cui rappresentano circa i 2/3 della popolazione), dall'India e, in misura minore, dall'Indonesia.
Nel 1966 la percentuale del " servizio di debito " (rimborso quote di capitali più interessi) sugli incassi in divise derivate dall'esportazione è stata del 29,4% per il Brasile, del 22,3% per l'Argentina, del 21,4% per il Messico e del 22% per l'India. Ciò spiega perché l'Argentina abbia avuto due benefici per la sua insolubilità (1962 e 1965) e due ne abbia avuto il Brasile (1961 e1964). I paesi capitalisti maggiori (imperialisti) hanno potuto dilazionare il loro credito ai paesi capitalisti minori, così come la grossa azienda si comporta con la piccola quando sa che continuando a produrre, e quindi ad estorcere plusvalore, questa può continuare a pagare gli interessi che detrae dai suoi profitti. Gli imperialisti non vogliono il rimborso dei capitali che già sono stati costretti ad esportare e perciò li possono lasciare in conto credito. Vogliono semplicemente riscuotere, sotto forma di interesse, una buona parte del profitto che l'investimento di quei capitali produce. Più forte è lo sviluppo capitalistico, più vasto è l'impiego di forza-lavoro salariata, più veloce è la rotazione del capitale e più rapida e sicura è la realizzazione del profitto a cui attingono capitalisti grandi e piccoli.
L'ex presidente della Banca Mondiale, George Woods, lo ammette quando dice che: "Il termine "aiuti all'estero" è improprio. Bisognerebbe invece parlare di finanziamento allo sviluppo". Da un colloquio dello stesso Woods, pubblicato sull'inglese " Guardian " dell'11 gennaio 1967, possiamo vedere il meccanismo di questo finanziamento regolato dalla Banca Mondiale che è più di 1 miliardo di dollari all'anno e che, negli ultimi 20 anni, è stato di circa 11 miliardi, all'interesse del 6% annuo Per reperire questi capitali da esportare la Banca Mondiale emette delle serie di obbligazioni sul mercato finanziario, generalmente collocate negli Stati Uniti. Ma nel 1967, date le difficoltà americane, Woods dichiarava di volersi rivolgere al mercato tedesco. E così è stato. In un altro studio della Banca Mondiale del 1967 troviamo altri dati interessanti e l'affermazione che: "Nel corso degli ultimi quindici anni, il ricorso a questi crediti ha avuto una rapida espansione sia per la concorrenza tra i paesi industrializza sui mercati di esportazione, sia per il desiderio dei paesi meno sviluppati di rapido sviluppo economico".
Perciò alla fine del 1965, il debito totale dei paesi "meno sviluppati" si aggirava sui 41 miliardi di dollari e il totale di pagamenti a titolo di debiti a circa 4,3 miliardi annui. Dato che, come abbiamo ricavato da un altro studio della BIRD, il rimborso di capitali e interessi è giunto ai 4 miliardi annui circa e il capitale imperialistico, in ragione di un'affluenza di circa 10 miliardi annui, non solo non diminuisce ma aumenta, ne deriva che la quota di 4 miliardi annui (sui 40 investiti in forma di prestiti nelle zone di sviluppo e da queste considerati come debito) come rimborso più interessi è diventata un flusso permanente di sovrapprofitto imperialistico su di un capitale permanentemente investito. La previsione che nei prossimi 1020 anni il debito non ammortizzato ascenderà a 80 miliardi di dollari, mantenendosi l'attuale rapporto di un 10% di rimborso, deve portarci alla previsione di un flusso annuo di 8 miliardi, da considerarsi in massima parte come sovrapprofitto imperialistico.
I sovrapprofitti realizzati da sei potenze imperialistiche
Non abbiamo a diretta disposizione dati sufficientemente chiari sul totale dell'export imperialistico di capitali nelle zone in sviluppo, per gli ultimi 20 anni, né il totale del capitale reimportato, né il totale degli interessi riscossi. Tanto meno abbiamo i totali dell'export di capitali delle singole potenze imperialistiche in quelle zone.
Una valutazione interessante è quella fatta dall'economista rumeno B. Zaharescu al Congresso dell'istituto Gramsci sulle tendenze del capitalismo europeo.
Al 1964, B. Zaharescu calcolava che dal dopoguerra, gli USA avessero esportato 88 miliardi di dollari e gli altri paesi capitalisti (naturalmente, Zaharescu non includeva l'export Russo) circa 44. Il rapporto che da questa valutazione esce tra l'esportazione imperialistica degli Stati Uniti e quella degli altri paesi è interessante. Anche togliendo un 10% ai 44 miliardi non statunitensi (un 10% corrisponde al PNL degli altri paesi OCDE), rimangono per 1e 5 potenze circa 40 miliardi.
Aggiungiamo 6 miliardi dell'export russo ed avremo 134 miliardi di dollari esportati in tutto il mondo dalle prime sette potenze imperialistiche, nelle seguenti proporzioni: USA 65,5% circa; Gran Bretagna, Francia, Germania, Giappone, Italia 30% circa; URSS 4,5% circa. I sovrapprofitti realizzati possono quindi essere ripartiti, grosso modo, in quelle proporzioni. Ed anche prendendo a base il 9-10% indicato dalla BIRD come " interesse " avremmo un minimo di 1213 miliardi di dollari di cui 7,58 sono andati agli USA, 44,5 alle cinque potenze dell'OCDE e circa mezzo miliardo all'URSS.
Questo sull'export imperialistico mondiale e per circa 20 anni. Ma come abbiamo visto nel 1966 i soli " interessi " provenienti dalle zone in sviluppo ascendono a mezzo miliardo di dollari. Segno che i sovrapprofitti stanno crescendo rapidamente, e si va modificando l'incidenza che ogni singola potenza imperialista ha sulla torta del sovrapprofitto. Se nell'insieme dei 20 anni, quando almeno per 10 anni gli USA avevano una posizione egemonica e le altre potenze imperialistiche contemporaneamente ricostruivano il loro potenziale industriale, le 5 potenze potevano esportare capitali per 40 miliardi di fronte agli 88 esportati dagli USA e quindi prendersi 1 dollaro di sovrapprofitto mentre gli USA se ne prendevano 2, nell'insieme dei 30 anni i rapporti stanno cambiando e cambiano a svantaggio degli Stati Uniti.
B. Zaharescu calcola che nel 1948 l'incidenza degli Stati Uniti sulla produzione industriale mondiale era del 53,9%. Nel 1964 avevamo la seguente incidenza:
USA: 44,7%
RFT 9,9%
GR. BRETAGNA: 9 %
GIAPPONE: 6,2%
FRANCIA: 4,7%
ITALIA: 4 %
Accettando le valutazioni di Zaharescu avremmo, quindi, un 44,7% per gli USA e un 33,8% per le altre cinque potenze. Siamo quasi a "un dollaro a te" (USA) "un dollaro a me" (imperialismo europeo e giapponese).
E questo è, in fondo, la tendenza di sviluppo nella ripartizione del sovrapprofitto.
I sovrapprofitti realizzati dall'imperialismo italiano
Una specie di prova del nove ce la fornisce l'imperialismo italiano che non ha certo bisogno di "una efficace ideologia di massa" per fare i suoi conti e tanto meno per farseli "contestare". Nel 1966 l'Italia ha esportato nelle zone in sviluppo 627,5 milioni di dollari, cioè un buon 6% del totale esportato dalle 6 potenze CAD. Ma, quello che è più importante, ha avuto un "flusso di ritorno" (rimborso quote capitali più interessi) praticamente equivalente. Tanto è uscito, tanto è entrato. Sono 350-380 miliardi di lire di cui i socialimperialisti italiani (dell'Osservatorio Economico di rinascita e dell'Unità ad esempio) non si sono accorti.
Vedono solo lo "spreco" delle risorse nazionali che vanno all'estero e non vedono i sovrapprofitti che rientrano. Ci si può obiettare che il "flusso di ritorno" comprende capitali rimborsati e non solo interessi.
Questo è vero particolarmente per l'Italia il cui export di capitali ha un accentuato carattere di "crediti a breve termine", almeno in confronto all'export di capitali delle altre potenze imperialistiche. Questa considerazione vale, però solo nei riguardi dell'export di capitali italiani nelle zone in sviluppo. Non vale, ad esempio, nell'export di capitali italiani nelle zone in sviluppo. Non vale, ad esempio, nell'export di capitali italiani nell'Europa Orientale e Balcanica: l'operazione FIAT in Russia della consistenza di circa 1 miliardo di dollari è un tipico credito a lungo termine. Non ci interessa qui determinare l'ammontare esatto dell'export di capitali italiani e dei relativi sovrapprofitti negli ultimi venti anni, sia come totale che come parte riguardante le zone in sviluppo. L'analisi comporterebbe molto spazio, molto tempo e il superamento di molte difficoltà derivate dalla mancanza di fonti.
Ciò non vuol dire che non sia possibile e che non la faremo in altre occasioni. Per ora ci interessa rilevare la presenza del fenomeno e configurarlo almeno a grosse linee. Se teniamo presente che l'imperialismo italiano rappresenta circa il 5% del totale dell'export capitalistico delle 6 potenze occidentali possiamo supporre che sui 128 miliardi di dollari esportati abbia inciso per il 5%, cioè con 67 miliardi e sui 1213 miliardi di " interessi " realizzati abbia inciso per 600-700 milioni di dollari.
Per quanto riguarda le zone in sviluppo può valere lo stesso criterio.
Quindi sui 40 miliardi di dollari costituenti il debito (rimborso quote capitali e interessi) di quelle zone, all'Italia ne andrebbero circa 2.
Almeno 200 milioni di dollari di sovrapprofitti, sotto forma di interessi, sarebbero incassati dall'imperialismo italiano all'anno. Sono circa 125 miliardi di lire all'anno, destinati ad aumentare, e a cui vanno aggiunti altri sovrapprofitti provenienti da altre zone. I partiti parlamentari italiani costano 70-80 miliardi di lire l'anno. Avanza ancora una buona fetta.
Ci siamo attenuti ad una valutazione molto bassa (assumendo ad esempio, l'interesse del 9-10%, indicato dall'OCDE e dalla BIRD). Potremmo agevolmente alzare tutte le cifre riguardanti l'imperialismo italiano. Tenendo presente l'investimento imperialistico italiano in America Latina Africa e Medio Oriente negli ultimi anni, si può arrivare a considerare quasi tutto il "flusso di ritorno" come sovrapprofitto e a valutare questo sul mezzo miliardo di dollari.
Ma oltre al sovrapprofitto dell'imperialismo italiano ci interessava dimostrare la inevitabilità di un suo prodotto tipico, il socialimperialismo.
Questo in Italia prende varie forme che vanno dalla negazione che l'Italia sia un paese imperialista alla affermazione che l'Italia è una " colonia americana " o che è un paese capitalista dove l'influenza e il controllo dell'imperialismo americano è crescente.
Queste tesi socialimperialiste, che troviamo ricorrenti in vari gruppi dichiaratamente borghesi, nel PSI, nel PCI, nel PSIUP, nelle varie correnti di intonazione maoista e spontaneo-maoista hanno il preciso scopo di ingannare la classe operaia italiana, di nasconderle il ruolo dell'imperialismo italiano, di tacere il fatto che non può essere "colonizzato" o "controllato" un paese capitalistico come l'Italia che compartecipa allo sfruttamento internazionale dell'imperialismo.

("Lotta Comunista"n.31-32, novembre-dicembre 1968)

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Ultima modifica 11.09.2001