L'imperialismo unitario

Arrigo Cervetto (1950-1980)

 


Edizioni Lotta Comunista, luglio 1981
Trascritto per internet da Antonio Maggio, agosto 2001


 

Capitolo quattordicesimo
SQUILIBRI NEL SISTEMA DI ALLEANZE, 1971-1975
Nota introduttiva
Cronologia
Il corso dell'imperialismo nel 1970-71
Il corso dell'imperialismo nel 1971-72
Il capitale mondiale nel rapporto USA-Europa
Gli attuali rapporti di forza tra le potenze

 

 

Il capitale mondiale nel rapporto USA-Europa

Il ciclo di sviluppo capitalistico a livello mondiale sta creando enormi contraddizioni in tutta una serie di zone economiche e, soprattutto, nelle metropoli imperialistiche. Questo accumulo di contraddizioni viene definito genericamente come crisi di instabilità. Questo termine, però, definisce un effetto appariscente e non una causa.

In special modo non individua il meccanismo mondiale che origina l'instabilità.

Occorre mettere bene in chiaro che ci troviamo di fronte ad una crisi dell'imperialismo determinata non dalla depressione o dalla stagnazione ma dallo sviluppo del capitalismo a livello mondiale, sviluppo che avviene in modo ineguale da zona a zona, da paese a paese e da metropoli a metropoli. Anzi, è proprio questa ineguaglianza di sviluppo ad aggravare le contraddizioni, ad accentuare la instabilità e, comunque, a dare a questa e a quella un carattere specifico che non avrebbero se fossero determinate da depressione, da stagnazione o, per assurdo, da linearità mondiale di sviluppo o di regresso su scala mondiale.

Ma caratterizzare la crisi di instabilità imperialistica come crisi provocata da un ciclo dello sviluppo capitalistico mondiale a ritmi ineguali non basta ancora: occorre anche caratterizzare come si manifesta nella contingenza lo stesso ineguale sviluppo.

Solo in questo modo si possono analizzare le attuali tendenze dell'imperialismo, i rapporti tra gli Stati imperialisti e lo sviluppo dei giovani capitalismi.

Solo in questo nodo si può poggiare su solide basi la verifica dell'analisi strategica leninista nell'attuale ciclo di sviluppo capitalistico e di conseguenti lotte di classi.

Una delle tesi centrali della teoria dell'imperialismo di Lenin, tesi che da anni è caposaldo della nostra strategia, è che l'esportazione di capitali: 1. dà origine "a una più elevata e intensa evoluzione del capitalismo in tutto il mondo"; 2. acutizza le differenze "nella rapidità di sviluppo dei diversi elementi dell'economia mondiale"; 3. determina "il più rapido sviluppo capitalistico" nelle zone arretrate.

Questa tesi, ha trovato, negli ultimi due decenni, piena conferma.
L'attuale crisi di instabilità del mondo imperialista è, appunto, determinata dalla concomitanza dei fenomeni indicati da Lenin e dalla loro organica correlazione: incremento fortissimo dell'esportazione imperialistica dei capitali, elevato ed intenso sviluppo del capitalismo in tutto il mondo, aumento della ineguaglianza di sviluppo, più alto ritmo di sviluppo nelle zone arretrate.
L'aumento dei prezzi delle materie prime e del petrolio, che è uno degli elementi della crisi di instabilità, non è altro che un riflesso sul commercio internazionale dello sviluppo del mercato mondiale.

La crisi di instabilità è, in definitiva, la manifestazione sovrastrutturale di un ciclo di riproduzione allargata del capitale a livello mondiale, riproduzione di grandezze, o dimensioni, di valore mai visto nella storia.

La riproduzione allargata del capitale è la produzione di nuovo valore, ossia produzione di plusvalore. Più grande sarà la dimensione di questo plusvalore più ampia ed acuta sarà la lotta dei gruppi capitalistici per appropriarsene.

Questa lotta comporta anche la lotta tra gli Stati capitalistici ed imperialisti, ma vedere questa lotta solo come lotta fra gli Stati significa, in ultima istanza, accettare l'ideologia dell'imperialismo.
Occorre, invece, analizzare la lotta internazionale del capitale nei suoi termini reali.

L'internazionalizzazione del capitale è nella natura del capitale stesso. Coloro che scoprono oggi l'internazionalizzazione del capitale o che, comunque, ritengono questa internazionalizzazione come una forma specifica dell'odierno imperialismo o non hanno capito la scienza di Marx o la vogliono travisare consapevolmente per fini politici. Nel "Capitale" di Marx non esiste un modo di produzione capitalistico "nazionale". Per Marx il modo di produzione capitalistico è internazionale o, per meglio dire, mondiale.

Per affermarsi esso ha bisogno di un determinato mercato e quindi crea il mercato nazionale. Per assicurare storicamente la sua esistenza esso ha bisogno di dominare tutta la sovrastruttura e quindi crea lo Stato nazionale. Mercato nazionale e Stato nazionale non sono i fini ultimi di tanti modi di produzione nazionali del capitalismo bensì le forme storiche di esistenza del modo di produzione mondiale corrispondente allo sviluppo delle forze produttive.

Perciò, si può dire che quando il capitale giunge storicamente a determinare la formazione di Stati nazionali borghesi compie la sua prima ed importante opera di internazionalizzazione. Giungere ad esprimersi in Stato nazionale è, appunto, per il capitale la prova della sua internazionalizzazione, cioè della sua capacità storica di superare il livello artigianale in cui lo comprime lo Stato feudale.
In nessun modo si può vedere uno Stato nazionale come sovrastruttura di un presunto capitale nazionale. La volgare e meccanicistica equazione "capitale nazionale uguale a Stato nazionale" non appartiene neppure agli economisti borghesi classici inglesi ma agli economisti protezionisti tedeschi, ai loro epigoni "socialisti della cattedra" e ai vari sostenitori del capitalismo statale contrabbandato come socialismo.

Non è proprio un caso che l'ideologia del "capitale nazionale" ritorni continuamente sulla scena, specie nei momenti di più intensi contrasti interimperialistici, poichè è oggi divenuta l'ideologia dello Stato imperialista, cioè dello Stato che nella totalità della "nazione" cerca di assoggettare il proletariato e di annullare la sua lotta. L'ideologia dello Stato imperialista, e dell'opportunismo che la pratica e la diffonde quotidianamente, capovolge la reale dinamica storica e sociale: non è lo Stato imperialista ad essere il miglior involucro e lo strumento indispensabile dei vari gruppi e frazioni del capitale internazionale nella loro lotta per la ripartizione del plusvalore mondiale, ma è il capitale che da nazionale si va via via internazionalizzando sino a porsi al di fuori dello Stato! Questa ideologia e nient'altro rappresenta la concezione della internazionalizzazione del capitale come fenomeno nuovo che trascende gli Stati imperialisti.

Per noi marxisti è un fenomeno tanto nuovo che in 60 anni ha provocato due gigantesche guerre mondiali combattute da Stati imperialisti, involucri necessari per fare massacrare i proletari su opposte sponde e per permettere agli azionisti internazionali di intascare i profitti!

Se analizziamo alcuni aspetti del processo di internazionalizzazione del capitale potremo vedere come in realtà questo processo non è l'espressione di un mutamento del capitale, da nazionale a internazionale, ma la manifestazione a livello mondiale della centralizzazione e della concentrazione del capitale operante nelle varie aziende, nei vari settori, nei vari paesi ed operante in modo ineguale e non equilibrato.

Per poter definire il rapporto tra gli attuali Stati e l'attuale processo di internazionalizzazione del capitale occorre, innanzitutto, vedere questo per quello che è in realtà, cioè un processo di centralizzazione e di concentrazione del capitale a livello mondiale e, in secondo luogo, occorre partire dai livelli in cui inizia questo processo.

È ai livelli aziendali, settoriali e nazionali che si determina quella eccedenza di capitale che è esportata, per elevarne il profitto, nei paesi meno progrediti, come sostiene Lenin.

Si è voluta, da parte di alcuni, vedere una modificazione nelle caratteristiche dell'esportazione dei capitali la quale, a differenza di quanto sostenuto da Lenin, si indirizzerebbe nelle aree avanzate.
Certamente, se si prescinde dal processo oggettivo che determina l'esportazione dei capitali si finisce, come finiscono ad esempio gli economisti del PCI, col fare una enorme confusione tra zone avanzate e zone arretrate col risultato di non riuscire neppure a descrivere i reali movimenti dei capitali a livello mondiale. Al fondo di questa incomprensione, o mistificazione, vi è sempre l'ideologia che identifica un presunto "capitale nazionale" ad uno Stato nazionale, e che inventa, di conseguenza, due tipi di capitale, uno che è nazionale, od è ancora nazionale e l'altro che non lo è, o non lo è più.

Le aree "meno progredite", come le chiama Lenin, lo sono in rapporto ad altre che sono più progredite dal punto di vista capitalistico. Per Lenin questo rapporto è dato dal grado di maturità del capitalismo, cioè dal grado di concentrazione del capitale, dalla sua composizione organica, dalla tendenza alla diminuzione del tasso di profitto.

Prima ancora che tra paesi la differenza di maturità capitalistica si determinerà tra aziende e settori di uno stesso paese o, per meglio dire, di uno stesso Stato nazionale.

L'esportazione di capitali non elimina questa ineguaglianza di maturità capitalistica tra settore e settore, questa ineguaglianza di sviluppo all'interno della struttura economica dello Stato nazionale, anzi, la esaspera poichè essa testimonia lo sviluppo non equilibrato tra le aziende e le branche dell'economia, il loro diverso grado di concentrazione, la formazione organica di zone più arretrate in confronto a quelle che hanno raggiunto la capacità e la necessità dell'esportazione imperialistica.
Certamente, se assumiamo come termine di confronto il "capitale sociale", rappresentato dai mezzi di produzione detenuti nel territorio di uno Stato nazionale, possiamo definire alcuni paesi "meno progrediti" di altri. Ma questo confronto, indispensabile per analizzare i rapporti politici tra Stati o coalizioni di Stati, non è sufficiente per analizzare le tendenze del processo di internazionalizzazione del capitale. Solo analizzando queste tendenze possiamo vedere operante la legge, definita scientificamente da Lenin, dell'eccedenza dei capitali dalle cellule mature e della conseguente esportazione verso le cellule meno mature e, quindi, capaci di alimentare ancora di plusvalore il corpo senile e imputridito del capitalismo mondiale.

Questa forsennata circolazione del capitale mentre spiega lo sviluppo estensivo del capitalismo non può essere spiegata se si concepisce il sistema mondiale come una somma di Stati nazionali. Un esempio di quanto affermiamo è dato dall'analisi dei rapporti interimperialistici tra Stati Uniti ed Europa.

Un aspetto importante di tali rapporti è costituito dai gruppi monopolistici internazionali, definiti società multinazionali perchè operano in più paesi.

Secondo i dati dell'ONU, le multinazionali erano nel 1971 ben 7.200; quelle statunitensi erano 2.400, quelle inglesi 1.700, quelle tedesche 950. Nel complesso: gli USA hanno il 34% delle multinazionali e la CEE il 52%.

Se le multinazionali fossero la forma specifica dell'imperialismo odierno si dovrebbe concludere che è l'imperialismo europeo che la esprime con più forza dato che la metà delle multinazionali sono europee. Ciò non è vero.

II contrassegno dell'imperialismo è costituito dall'esportazione dei capitali e in base ad esso va misurata la forza imperialistica.

"Rinascita" ha cercato di avallare la tesi socialimperialista di una Europa sottomessa alle multinazionali statunitensi confrontando gli investimenti diretti USA nella CEE e gli investimenti diretti della CEE negli USA.

Ne risulta, nel 1971, che gli USA hanno investito direttamente nella CEE allargata 22,5 miliardi di dollari e che la CEE ha investito direttamente negli Stati Uniti solo 8,1 miliardi di dollari. Il rapporto che ne deriva è 2,7, cioè mentre gli europei investono direttamente 1 negli USA gli statunitensi investono 2,7 nella CEE.

Naturalmente, gli articolisti del PCI non hanno fatto il confronto tra tutta l'esportazione di capitali dagli USA in Europa e dall'Europa negli USA. Infatti, se si considera l'export complessivo di capitali si capovolge il rapporto e la stessa tesi del PCI. Se aggiungiamo agli investimenti diretti le obbligazioni, le azioni, i crediti bancari abbiamo una somma di averi privati a lungo termine di 31,6 miliardi di dollari di europei negli USA contro 29,5 di statunitensi in Europa. Il rapporto da 2,7 in favore degli USA, per quanto riguarda il capitale direttamente investito, diventa 1,1 a favore dell'Europa, per quanto riguarda il capitale totale esportato. In altre parole: ha esportato più capitale l'Europa negli Stati Uniti di quanto da essi ne abbia ricevuto. Dovremmo concludere che gli imperialisti europei sono più forti di quelli statunitensi? No, di certo. Dobbiamo solo affermare che la realtà dell'imperialismo mondiale è più complessa di quanto cercano di propagandare i vari ideologi socialimperialisti. Essi cercano di fare apparire le multinazionali o come un fenomeno nuovo anazionale o come una forma del predominio USA. Nell'uno o nell'altro caso ci troveremmo sempre di fronte ad una Europa debole e dominata economicamente.

Se esaminiamo il movimento dei capitali tra USA ed Europa possiamo, invece, individuare i caratteri internazionali del capitale, caratteri che ci dimostrano che il capitalismo è un rapporto sociale e non un rapporto giuridico. Quindi non ha senso parlare di capitale americano e di capitale europeo.

Difatti, mentre le multinazionali statunitensi investono direttamente 24,4 miliardi di dollari in Europa, gli europei detengono, oltre ai 9,5 miliardi di dollari investiti da loro direttamente negli Stati Uniti, altri 22,1 miliardi di dollari in crediti azioni ed obbligazioni delle società statunitensi. Di chi è il capitale della Esso e della IBM investito in Europa? Una cosa è certa: è dei capitalisti. Di quali Stati siano, poi, cittadini questi capitalisti è una cosa che a noi interessa poco e che, comunque, nessun sociologo è ancora riuscito a decifrare nell'intreccio di Borse e di bandiere di mezzo mondo.

Quello che, invece, è possibile decifrare è il carattere prevalente nel movimento del capitale tra USA ed Europa.

L'export statunitense ha il carattere marcatissimo, quasi esclusivo di investimento industriale: su 29,5 miliardi di dollari ben 24,4 sono investimento diretto. Ciò dimostra il carattere di capitale industriale dell'export USA in Europa. L'export di capitali europeo in USA ha, invece, un prevalente carattere di capitale rentier: su un totale di 31,6 miliardi di dollari solo 9,5 sono investiti direttamente.

Per quanto riguarda il rapporto USA-Europa, le multinazionali sono chiaramente l'espressione della internazionalizzazione del capitale finanziario, cioè l'integrazione fra il capitale industriale statunitense e il capitale bancario- rentier europeo. La concentrazione a livello mondiale di questo capitale finanziario dà origine a gigantesche società che utilizzando gli Stati imperialisti sostanziano la dinamica delle metropoli imperialistiche stesse e dei paesi capitalistici in sviluppo. L'eccedenza di capitali che si determina in infinite aziende e settori, disseminate nel mondo, si riversa sul mercato mondiale alla ricerca di un tasso più alto di profitto. Il livello di centralizzazione del capitale sul mercato mondiale fa si che oggi, più rapidamente di ieri, questa infinità di singoli capitali sia concentrata in gigantesche unità operative che intervengono, sia finanziariamente che industrialmente, in tutte le zone economiche del globo. Questa concentrazione multinazionale del capitale agisce come acceleratore nello sviluppo intensivo ed estensivo del capitalismo e, quindi, come fattore di moltiplicazione dei ritmi ineguali. Essa costituisce una massa enorme di capitali che, alla ricerca dei tassi più alti del profitto, si sposta da zona a zona, da paese a paese, da settore a settore.

Gli Stati nazionali sono gli strumenti politici di cui dispone, strumenti che si debbono sempre più adattare alle esigenze del capitale internazionale, al suo attuale grado di centralizzazione e concentrazione.

Che lo Stato USA sia stato, sia oggi e sarà in avvenire uno strumento fondamentale del capitale internazionale è più che naturale.

Ma ritenere che lo Stato USA sia lo strumento prevalente del capitale internazionale, più che un errore di valutazione è una mistificazione ideologica perché assegna un ruolo limitato ad un fenomeno sociale che ha un ruolo mondiale non perché determina la condotta di uno Stato ma perché determina la condotta di tutti gli Stati.

Se il contrassegno dell'imperialismo è l'esportazione dei capitali sarà il processo sociale che la produce a determinare l'uso dello Stato. O si afferma che l'esportazione dei capitali è un fenomeno irrilevante (qualcuno ci ha provato ma i fatti lo hanno smentito) oppure la si assume come fattore determinante il rapporto tra gli Stati e il rapporto tra gli Stati imperialisti stessi. Non solo: bisogna concludere, con Lenin, che l'esportazione dei capitali determina il "più rapido sviluppo capitalistico" nei paesi arretrati sino al punto che "tra essi sorgono nuove potenze imperialistiche".
Non sono, quindi, gli Stati a determinare il loro reciproco rapporto ma è il movimento del capitale internazionale a determinarlo. La storia è una piena conferma della teoria marxista dell'imperialismo e dello Stato.

L'Inghilterra è stata il primo Stato imperialista del mondo e oggi è uno degli ultimi. Con la sua esportazione di capitali ha determinato l'ascesa dello Stato americano e la decadenza del suo.
L'imperialismo mondiale non può essere analizzato se lo si racchiude nello schema giuridico degli Stati nazionali neppure se ci si limita agli investimenti diretti, cioè ad un solo aspetto del movimento internazionale dei capitali. Tralasciamo Giappone ed URSS e vediamo solo il rapporto USA-Europa.

Gli USA hanno, nel 1971, 86 miliardi di dollari di investimenti diretti all'estero, la CEE a Nove ne ha 47,8. Totale: 133,8. Su questo totale gli USA contano per il 65% e la CEE per il 35%. Grosso modo il rapporto è da 2 a 1. Ma se seguiamo gli investimenti diretti nelle varie zone questo rapporto cambia continuamente. Intanto il 2 a 1 (o, per essere più precisi 1,9 a 1) è diverso dal 2,7 a 1 che abbiamo riscontrato tra gli investimenti diretti degli USA nella CEE e della CEE negli USA.
In altri termini: lo CEE sarebbe, nei confronti degli USA, più debole nel suo mercato che nel mercato mondiale. Sarebbe, quindi, errato misurare il rapporto USA-CEE solo sui loro rispettivi mercati nazionali che si identificano giuridicamente nello Stato USA e negli Stati CEE.
Se assumessimo, come fanno tutte le correnti socialimperialiste, gli Stati nazionali come termine definitivo di paragone dovremmo concludere che gli USA sono più forti in Europa che nel resto del mondo e che la CEE è più debole in Europa che nel resto del mondo. In fondo è quello che dovrebbero dire quelli che vedono l'imperialismo come un insieme di Stati e non come un sistema mondiale. I socialimperialisti europei non lo dicono perché vogliono dimostrare che l'Europa è debole e dominata dall'imperialismo americano per convincere il proletariato ad appoggiare la formazione di uno Stato imperialistico europeo.

Se vero che gli investimenti diretti provenienti dagli USA si sono rivolti massicciamente all'Europa è anche vero che ciò ha facilitato l'investimento diretto europeo in Asia, in Africa e in America Latina.

L'intreccio della provenienza dei capitali nell'attuale processo di internazionalizzazione è estremamente complesso ma obbedisce ad una logica chiara e semplice, tanto chiara e semplice da frantumare le ideologie che poggiano sugli Stati imperialisti. Il capitale internazionale proveniente dagli USA e che viene investito industrialmente in Europa corrisponde ad un alto grado di concentrazione e, quindi, di tecnologia e di organizzazione imprenditoriale. Esso è il risultato di una più alta centralizzazione operata sui mercati finanziari, centralizzazione che permette una più rapida e sistematica utilizzazione delle quote individuali di capitale sparse nel mondo. In teoria, il capitale internazionale proveniente dagli USA investito in Europa potrebbe essere il risultato della somma delle quote individuali di capitale detenute da cittadini europei. In buona parte lo è, in pratica. Ma ciò, ai fini del nostro discorso marxista, ha poca importanza.

È più importante vedere, invece, che il più basso grado di concentrazione in Europa mentre, da un lato, permette ed offre la possibilità di investimento USA nei settori "meno progrediti", dal punto di vista delle società statunitensi, da un altro lato facilita l'investimento diretto europeo nei settori "meno progrediti" nel resto del mondo e, in particolare, nelle aree in via di sviluppo. L'Europa importa, ad esempio, investimento elettronico dagli USA ed esporta investimento automobilistico nelle aree più arretrate; importa investimento energetico ed esporta investimento bellico.
Gli USA investono in Africa, Asia e America Latina solo il 30% dei loro investimenti diretti esteri. Il 70% va nelle zone avanzate. Il grosso di questi investimenti è costituito da 22,5 miliardi di dollari nella CEE e da 22,8 miliardi di dollari nel Canada. Questi sono i due pilastri fondamentali dell'investimento tipo USA del capitale internazionale. Potremmo, anzi, dire che questo tipo di investimento estero presenta un carattere specifico: è un investimento in mercati nazionali giunti ad un alto grado di integrazione. Ovviamente tutti i mercati nazionali ,sono integrati al mercato mondiale, ma lo sono a gradi differenziati.

Inoltre, il processo mondiale di integrazione dei mercati nazionali, proprio perchè è determinato dall'ineguale sviluppo del capitalismo, determina la formazione di mercati regionali e la formazione di mercati nazionali non integrati regionalmente.

L'investimento estero di tipo USA, cioè a più alto grado di concentrazione, opera, appunto, prevalentemente in due mercati regionali: la CEE e il Canada.

Ancora una volta possiamo verificare come l'analisi dell'imperialismo non deve essere fuorviata da considerazioni giuridiche sugli Stati nazionali. Il Canada è uno Stato indipendente, ma di fatto è una componente del mercato regionale nordamericano determinato dagli Stati Uniti. Del resto anche gli Stati della CEE sono Stati indipendenti, ma di fatto, e per alcuni aspetti anche giuridicamente, sono componenti del mercato regionale europeo determinato dalla Germania. Che, poi, gli Stati della CEE siano meno integrati di quanto lo siano Stati Uniti e Canada, che pure formalmente non costituiscono un mercato comune, è un'ulteriore conferma di quanto andiamo affermando sul carattere internazionale del capitale e sulla finzione giuridica degli Stati nazionali, finzione strumentale ad' una reale ed organica subordinazione.

Quello che conta, del resto, è il grado di integrazione del mercato regionale. Indubbiamente il mercato USA-Canada è più integrato del mercato CEE. I due mercati regionali rappresentano due gradi diversi di concentrazione e, quindi, di integrazione. Il primo ha, perciò, la tendenza e la forza ad entrare nel secondo, mentre il secondo non può avere la forza e la tendenza ad entrare nel primo. Stiamo sempre parlando di tipi di investimento diretto e non di esportazione complessiva di capitali, che è cosa diversa tanto è vero che, come abbiamo dimostrato, la CEE esporta più capitali negli USA di quanti ne riceva. Anzi, è proprio questo fenomeno a dimostrare il più basso grado di integrazione del mercato regionale europeo in confronto al mercato regionale nordamericano. In ciò risiede la reale differenza tra gli USA e la CEE, o, se si vuole, la vera debolezza della CEE nei confronti degli USA e non, come affermano superficialmente le correnti socialimperialiste, nella diversa capacità di esportazione dei capitali.

La CEE di capitali da esportare ne ha molti e li esporta sia indirettamente che direttamente. Per limitarci all'investimento diretto, e all'anno 1971, vediamo che la CEE ha esportato fuori dal suo mercato regionale capitali per 39,7 miliardi di dollari. Se consideriamo, come deve essere considerato, il Canada come componente di un mercato regionale, l'investimento diretto USA fuori da questo mercato è di 63,8 miliardi di dollari. Il rapporto USA-CEE diventa così di 1,5,circa, a 1; cioè di questa parte del capitale internazionale quello proveniente dagli USA è il 60% e quello proveniente dalla CEE è il 40%.

Se concepissimo l'imperialismo esclusivamente come concorrenza tra gli Stati imperialisti, e non come un sistema che è tanto più mondiale quanto più acuta è la concorrenza tra gli Stati imperialisti, dovremmo dire che USA e CEE competano quasi alla pari nell'investimento diretto. Ciò può essere vero per la ripartizione di quella quota di plusvalore mondiale che è prodotta da questa forma di investimento. Non è vero, invece, per quanto riguarda la dinamica dei vari gradi di concentrazione nel processo di internazionalizzazione del capitale.

È questa dinamica che ci interessa individuare perchè proprio da essa abbiamo la possibilità di comprendere la concorrenza tra gli Stati imperialisti, il rapporto tra USA e CEE. Ed è questa dinamica che, in definitiva, ci permette di comprendere come i rapporti formali di forza tragli stati imperialisti siano

strettamente contingenti e destinati a mutare continuamente proprio in corrispondenza al crescente movimento internazionale del capitale. Non si può, inoltre, comprendere lo sviluppo di certe zone economiche e la rapida ascesa di certi mercati arretrati se non si tiene conto di tale dinamica.
Ebbene, seguendo l'investimento diretto USA e CEE possiamo individuare un altro aspetto importante della dinamica del capitale internazionale. Dei 63,8 miliardi di dollari degli USA ben 22,5 entrano nella CEE e dei 39,7 della CEE solo 8,1 entrano negli USA. Lo scarto diventa forte e non fa altro che confermare che nelle aree più sviluppate (USA, Canada, CEE), predomina il tipo americano di investimento del capitale internazionale, cioè l'investimento determinato dall'eccedenza dei capitali nei settori più concentrati e dal conseguente trasferimento nei settori relativamente meno concentrati.

Se escludiamo, quindi, le aree più sviluppate possiamo vedere meglio come la stessa legge del trasferimento della eccedenza dei capitali dai settori più concentrati a quelli relativamente meno concentrati operi a livello mondiale e coinvolga sempre più le zone economiche "meno progredite".
Possiamo definire questo trasferimento un tipo europeo (o euro-giapponese) di investimento del capitale internazionale, non già per differenziarlo in nazionalità da quello che abbiamo definito americano ma per differenziarlo in grado di concentrazione.

Negli investimenti diretti nel resto del mondo ci troviamo di fronte a 41,3 miliardi di dollari provenienti dagli USA e a 31,6 provenienti dalla CEE. In questo confronto, il rapporto è quasi alla pari: USA-CEE 1,2, circa, a 1.

Se, poi, il rapporto lo restringiamo ai paesi in via di sviluppo esso diventa favorevole alla CEE con 1,2, circa, contro 1 degli USA. Ciò significa che nei paesi arretrati c'è più esportazione imperialista di capitali europei che statunitensi. Se i sostenitori, tipo PCI e codazzo di imitatori, della lotta antimperialista del cosiddetto Terzo Mondo fossero coerenti dovrebbero dirlo. Ma la loro coerenza è nel sostenere il proprio Stato imperialistico, come sempre hanno fatto i riformisti, antimperialisti a parole e socialimperialisti nei fatti.

Del resto, quello che indichiamo non deve sorprendere: è la dimostrazione di quella che definiamo legge del trasferimento della eccedenza dei capitali dai settori più concentrafi ai settori relativamente meno concentrati.

L'investimento di tipo americano in Europa facilita l'investimento di tipo europeo nei paesi arretrati.
Nel 1956, gli USA hanno il 47% di tutto il movimento di capitale privato verso i paesi sottosviluppati e la CEE il 51 %; quindici anni dopo, gli USA sono scesi al 38% e la CEE è salita al 56%. Evidentemente, il movimento di capitale obbedisce alla sua logica di capitale internazionale e non a quella che gli vorrebbero prestare coloro che obbediscono invece alla logica delle bandiere nazionali!

Il proletariato, classe internazionale, deve, attraverso la teoria ed il partito che la incarna, cogliere la logica del capitale internazionale se non vuole trovarsi dietro a quelle bandiere.
Solo a questa condizione l'attuale crisi di instabilità può costituire una occasione per far compiere alle lotte operaie nelle metropoli un passo in avanti nella lotta contro gli Stati dell'imperialismo mondiale.

("Lotta Comunista" n.49, marzo 1974)

inizio pagina

Gli attuali rapporti di forza tra le potenze

Il crollo del Sud Vietnam e della Cambogia hanno posto una serie di interrogativi sugli attuali rapporti tra le potenze imperialiste. Tre quesiti sono di estrema importanza. Si può parlare di indebolimento dell'imperialismo USA? E se si, l'indebolimento dell'imperialismo statunitense significa automaticamente rafforzamento dell'imperialismo russo? Infine, è valida la tesi che le due superpotenze, nel loro sostanziale accordo che di fatto è una forma particolare di alleanza, non riescono più a contenere e a controllare le medie e le piccole potenze proliferate nel mondo?
Si possono affrontare questi problemi partendo da un unico punto di vista di classe ma collocandosi da diverse angolazioni Quella più proficua per esaminare un sistema dinamico di rapporti di forza tra potenze è quella che inquadra la potenza maggiore: gli Stati Uniti.

La nostra prima osservazione riguarda la tendenza all'indebolimento relativo dell'imperialismo USA, tendenza operante in modo consistente almeno negli ultimi dieci anni. Vedremo, in seguito, come e perché ciò non si traduce automaticamente in un rafforzamento assoluto dell'imperialismo russo, come sostengono i dirigenti cinesi. La spettacolare politica europea dei dirigenti cinesi, che tra l'altro è una ulteriore conferma al nostro giudizio sulla natura socialimperialistica (non imperialistica, ma socialimperialistica, o asini laureati!) della teoria maoista del fronte unito, non rende pienamente giustizia alle loro concezioni. E' vero che è la loro stessa propaganda europeista a mettere in ombra la loro visione generale, ma ciò a noi interessa relativamente: Quello che, invece, è interessante mettere in luce è che per la strategia cinese un grande ruolo gioca la tendenza all'indebolimento relativo della potenza americana. I dirigenti cinesi, per niente comunisti ma ottimi statisti, sanno che l'espansione imperialistica americana è costretta a restringersi. Da ciò ne derivano, o apparentemente ne derivano, una tendenza ad una maggiore espansione dell'imperialismo russo.

Una seconda osservazione dobbiamo fare, a questo punto, sulla tendenza all'indebolimento relativo dell'imperialismo USA. L'indebolimento relativo di una superpotenza come quella americana, che è emersa, con quasi la metà della produzione industriale internazionale, vittoriosa trent'anni fa da uno scontro mondiale, non è un processo lineare ma un potente fattore di oscillazione dei rapporti di forza nel sistema delle potenze. Quindi è lo stesso grado di potenza dell'imperialismo americano ad oscillare, dentro il sistema di potenze, nei rapporti reciproci con gli altri imperialismi. A volte si presenta più forte, altre più debole. Data la massa d i potenza il ridimensionamento dell'imperialismo americano non presenta, nel breve termine, il carattere di un declino irreversibile. Fondato, come è, ridimensionamento sulla legge dell'ineguale sviluppo capitalistico basta anche un lieve rallentamento del ritmo delle metropoli concorrenti per fare recuperare momentaneamente alla metropoli americana le distanze perdute. Ciò, ovviamente, non vale per le d istanze decennali, ormai definitivamente perdute, ma vale certamente per quelle annuali.

Questa particolare oscillazione USA, nei tempi brevi, ha impresso nell'ultimo decennio una maggiore oscillazione dei rapporti di forza tra tutte le potenze ed una maggiore instabilità mondiale ma ha, nello stesso tempo, differenziato questi movimenti da quelli verificatesi in periodi precedenti della storia dell'Imperialismo. In realtà ci troviamo di fronte ad una oscillazione dei rapporti di forza tra le potenze determinata da due cause. La prima: negli ultimi dieci anni si è incrinato l'assetto imperialistico uscito dalla seconda guerra mondiale. Ciò è dovuto all'ineguale sviluppo delle varie aree del capitalismo nel mondo: in particolare la Germania e il Giappone si sono sviluppati più in fretta degli Stati Uniti e dell'URSS.

La seconda causa: l'assetto uscito dalla seconda guerra mondiale, per molti aspetti, era un assetto artificiale e non corrispondente ai reali rapporti di forza tra USA e URSS. La formazione di una sfera di influenza sovietica nell'Europa Orientale più che ad una effettiva capacità di espansione dell'URSS rispondeva all'interesse strategico degli Stati Uniti di controbilanciare l'inevitabile rafforzamento di un imperialismo europeo ad opera della Germania.

Solo una potenza europea, dall'Atlantico agli Urali come diceva De Gaulle, può essere in grado d i controbilanciare la potenza americana. Tutta la politica estera statunitense, almeno in questo secolo, ha sempre tenuto presente questo potenziale pericolo e, per evitarlo, ha sempre manovrato. Con l'attribuzione dell'Europa orientale all'URSS c'è riuscita per parecchi decenni. L'Europa oggi è irrimediabilmente divisa e non si vede come possa unirsi. C'è sempre la possibilità di un'alleanza tra la CEE e l'URSS, ma fortissime sono due contraddizioni che la impediscono: la mancata unificazione politica e militare della CEE e la scarsa integrazione economica del COMECON.
Su queste contraddizioni gioca la politica estera cinese la quale si basa sul fatto che l'anello più debole è rappresentato dal COMECON. Certamente il fine strategico della Cina è quello di impedire un'alleanza politica e militare tra Europa ed URSS, e in questo converge su quello americano, ma il fine a media scadenza è più limitato e si propone di influire sull'antagonismo tra la Germania e l 'URSS.

Comunque, per rispondere ai quesiti posti inizialmente è utile porci sul filo del tempo storico e vedere in cosa è simile e in cosa è differente la oscillazione e l'instabilità dell'ultimo decennio da quelle verificatesi in altre congiunture dei rapporti di forza tra le potenze. Due congiunture possono essere esemplari: quella che va dal 1897 al 1914 e quella tra le due guerre. Tali due periodi di oscillazione e di instabilità dei rapporti di forza sfociarono, come si sa, in due giganteschi confronti militari per una nuova ripartizione del mercato mondiale. Ma come ha acutamente osservato Trotsky, queste oscillazioni ed instabilità furono accompagnate da un rapido disgregarsi delle alleanze stabili e dal formarsi di alleanze strettamente contingenti e repentinamente mutevoli.
L'attuale congiuntura di simile presenta solo l'allentamento delle alleanze, ma si differenzia essenzialmente per la stabilizzazione dell'assetto generale, il quale anche se è incrinato non è tuttavia saltato in aria. Yalta non è ancora Versailles. Per ora, Stati Uniti ed URSS hanno un interesse comune a mantenere l'assetto di Yalta e a mantenere divisa la Germania, malgrado le proteste cinesi.

Quindi, l'assetto è più stabilizzato perché non c'è uno squilibrio d i forze. L 'oscillazione riguarda solo l'egemonia della potenza americana e non ancora uno schieramento alternativo che potrebbe, casomai, essere costituito dalla Grande Europa, ossia da quella alleanza CEE-COMECON, in realtà Germania-URSS, sulla quale gravano attualmente tante contraddizioni da renderla impossibile.
L'imperialismo russo non può, da solo, costituire uno schieramento alternativo alla potenza americana ne può, checché ne pensino i cinesi, diventarlo. Diremo di più: non può più diventarlo. Lo sviluppo capitalistico nel mondo ha creato una serie di giovani capitalismi che sono già piccole e medie potenze. Il più alto ritmo di sviluppo assicura ad alcuni di questi giovani capitalismi la possibilità di diventare grandi potenze. Anche se l'imperialismo russo, a differenza di quello americano, è in ascesa, ormai si trova ad operare con un rallentamento, da almeno un decennio, del suo ritmo e con un aumento del ritmo dei giovani capitalismi. La maturità del capitalismo russo che ne determina l'espansione è anche la causa del suo diminuito slancio. Certamente, il peso assoluto dell'imperialismo russo aumenterà ma non aumenterà il suo peso relativo. Le tesi cinesi, ideologiche e socialimperialistiche, assolutizzano una tendenza, quella dell'espansione russa senza collegarla alla tendenza generale della diffusione del capitalismo nel mondo, della formazione nel mercato mondiale di nuovi centri di accumulazione capitalistica, della costituzione di nuovi apparati di forze produttive come base materiale di nuove potenze emergenti.

Attualmente, queste nuove potenze non possono costituire uno schieramento alternativo che provochi uno squilibrio nei rapporti di forza tra tutte le potenze, grandi, medie e piccole, e ciò contribuisce alla stabilizzazione dell'assetto imperialistico. Ma anche se non si può accettare la tesi secondo la quale l'oscillazione e l'instabilità è provocata dall'impossibilità delle due superpotenze di contenere e controllare la proliferazione delle medie e piccole potenze, occorre dire che queste nell'ultimo decennio hanno giocato un ruolo maggiore che nel passato e che le due superpotenze, seppure unite nell'interesse ad esercitare il maggiore controllo, sono costrette a scontrarsi nel gioco più ampio che tiene conto delle nuove realtà

In fondo, la teoria maoista, anche se ingigantisce il futuro dell'imperialismo russo, nell'alleanza tra medie e piccole potenze prefigura un ipotetico schieramento alternativo alla santa alleanza delle due superpotenze.

Riteniamo tale ipotesi puramente astratta. Ne combattiamo il contenuto propagandistico che mira a legare il proletariato al carro degli Stati nazionali e lo allontana dalla sua missione storica di diventare l'unica potenza internazionale in grado di rovesciare, per sempre, i rapporti di forza dei predoni e degli aspiranti predoni.

("Lotta Comunista" n.58, giu. 1975)

inizio pagina


Ultima modifica 11.09.2001