L'imperialismo unitario

Arrigo Cervetto (1950-1980)

 


Edizioni Lotta Comunista, luglio 1981
Trascritto per internet da Antonio Maggio, agosto 2001


 

Capitolo quindicesimo
NUOVE ZONE DI INFLUENZA,
1973-1976

Nota introduttiva
Cronologia
La lezione del Cile
L'unificazione dell'Indocina, questione storica

La Spagna nei rapporti tra le potenze

L'Angola nell'incandescente Africa australe

I nuovi rapporti delle potenze in Asia

La lezione del Cile

Lo sviluppo sociale dell'America Latina
Lo sviluppo cileno negli anni '60
La tendenza al capitalismo statale
La debolezza della coalizione Allende
Il ruolo del proletariato cileno
Il capitalismo statale rafforza la borghesia controrivoluzionaria

Il tragico corso degli avvenimenti cileni impone una analisi che contemporaneamente sia un bilancio di esperienze concrete ed una decisa posizione di classe. Gli opportunisti, dopo avere per anni indicato la "via cilena al socialismo" come esemplare anche per paesi come la Francia e l'Italia, si affrettano ora a sostenere che il Cile è un caso particolare. Anzi, fanno di più: giorno dopo giorno vanno alla caccia dei presunti "errori" di Unità Popolare. Adoperano, come sempre, un classico metodo opportunistico: diluire nel gran mare dei particolari una esperienza storica e non per arricchirne di colori il quadro nitido bensì per tingerlo di grigio, per sfumarne i contorni, per renderla infine irriconoscibile. Con questo metodo il fatto particolare diventa un "errore " fondamentale e, così, tutta l'analisi si restringe ad una interminabile ricerca di "errori" e ad un dibattito senza fine su questi particolari aspetti assurti ad "errori" fondamentali. Il corso della storia finisce, in questo modo, col diventare un insieme caotico di particolari da cui è impossibile trarre un insegnamento che valga nella successione delle generazioni. Contro questo procedimento eclettico dell'opportunismo, che ha lo scopo preciso di nascondere la sua pratica controrivoluzionaria, si erge netta e ferrea la concezione del marxismo come scienza della lotta delle classi, come scienza della rivoluzione proletaria. Ed il marxismo è scienza, appunto perchè nella storia delle lotte delle classi ha saputo trarre dalla infinità dei particolari le leggi generali di movimento della società, perchè ha saputo ricavare dal 1848, dalla Comune di Parigi, dalla Rivoluzione d'Ottobre un insegnamento da trasmettere storicamente al proletariato. Per questa ragione, ciò che è accaduto e ciò che accade nel Cile deve costituire una lezione per la lotta di classe, una lezione scritta col sangue dei nostri compagni di classe, una lezione che si aggiunge al lungo e rosso libro del martirio del proletariato internazionale e della sua immancabile emancipazione. Gli operai massacrati e torturati in Cile non possono e non debbono costituire materia di esercitazione accademica per gli intellettuali piccolo-borghesi o pretesti artificiosi per gli opportunisti nei loro sofismi sulle "vie democratiche " e sulle "vie pacifiche".
Il loro sacrificio ha un senso storico solo se può servire ai loro compagni di classe a portare avanti l'unica via al socialismo, la via della rivoluzione e della dittatura proletaria.
In questo senso, il loro sacrificio è già oggi prezioso e non è vano perchè in tutto il mondo gli operai più coscienti apprendono dai fatti ciò che la teoria marxista ha sempre affermato. Per il proletariato internazionale di "errori", di "mancanze" da meditare e da correggere ce n'è soltanto una: la mancanza di un partito leninista mondiale.
Gli "errori" in discussione riguardano, invece, l'opportunismo che tanto li discute e, come sempre, ingenerosamente non potendo ammettere che la sua sconfitta non sta negli uomini ma in processi più profondi che determinano gli uomini e la loro azione politica.
Noi, che non abbiamo mai riconosciuto in Unità Popolare un movimento socialista, cerchiamo di comprendere le ragioni di un fallimento.
Loro, gli esaltatori dell'altro ieri, a furia di compilarne gli errori, finiscono col fare dei dirigenti di Unità Popolare una massa di incapaci. Ciò non è vero perché non è vero che il corso degli avvenimenti sia stato determinato dalla capacità e perché è vero che questa ha influito relativamente. Per noi c'è una lezione da apprendere e non uomini da bocciare.
Marxisti, materialisti, rivoluzionari nell'analizzare il ruolo oggettivo di Unità Popolare, noi vediamo nella realtà sociale, e non negli uomini, la dinamica della sua sconfitta.
Lo sviluppo sociale dell'America Latina
Lo sviluppo delle lotte delle classi in Cile deve essere collocato nel contesto più generale dello sviluppo del capitalismo in quel paese e nell'America Latina. Anzi, si può dire che, da questo punto di vista, non si può comprendere il caso cileno se non si comprende lo sviluppo dell'America Latina. Gli opportunisti hanno ragione: il piccolo Cile non può fare testo, è un caso particolare.
Sì, ma è un caso specifico non per giustificare le teorie del PCI in Italia o del PCF in Francia. E' un caso specifico, invece, proprio perché è un aspetto dello sviluppo economico e sociale dell'America Latina, cioè una realtà di giovane capitalismo che non ha, ovviamente, la maturità imperialistica di paesi come la Francia o l'Italia dove il "blocco sociale " auspicato dal PCI, ad esempio, potrebbe avere ben altra forza e ben altre alleanze interimperialistiche di quelle tentate in Cile.
In qualsiasi modo lo si voglia girare, il caso cileno presenta sempre un lato fondamentale che lo collega al problema generale dello sviluppo capitalistico dell'America Latina e del suo rapporto con l'imperialismo.
Nell'ultimo decennio l'America Latina ha attraversato una fase di sviluppo ineguale e contraddittorio del capitalismo. In alcune zone lo sviluppo è stato lento, in altre stagnante, in altre intenso; nel complesso lo sviluppo è stato forte.
Questo è un dato da cui bisogna partire nell'analisi della natura delle crisi sociali e politiche attuali.
Negli anni '60 si manifesta una corrente di economisti accademici che possiamo definire "sottosviluppisti".
Questa corrente, che si autodefinisce marxista ma che con il marxismo non ha niente a che fare, può essere considerata una reazione polemica alle teorie "sviluppiste" propagandate dai teorici, specie statunitensi, dell'imperialismo.
Questi teorici sostenevano, e sostengono, che le zone arretrate possono svilupparsi grazie agli "aiuti" dei paesi imperialisti in modo che si può avere uno sviluppo economico mondiale equilibrato. Ciò, per questi apologeti dell'imperialismo, sarebbe nell'interesse di tutti i paesi, sia quelli avanzati che quelli arretrati, perchè stabilendo un equilibrio mondiale si abolirebbero i focolai di tensione, di crisi, in definitiva di guerra.
Sotto questa teoria si nasconde in realtà la esportazione imperialistica di capitali nelle zone di diffusione dei rapporti capitalistici di produzione. La teoria dei "sviluppisti" altro non è che l'ideologia delle correnti imperialistiche più interessate a questo tipo di esportazione di capitali; un'ideologia che deve entrare in polemica con l'ideologia delle forme più arretrate dell'imperialismo, cioè con l'ideologia di quelle correnti che partecipano alla suddivisione del plusvalore mondiale, più come rendita, profitto commerciale, interesse bancario che come profitto industriale.
La teoria dello "sviluppo" ha dovuto necessariamente elaborare, per giustificarsi, un concetto di "sottosviluppo" da cui partire per dimostrare che il suo superamento avrebbe portato uno sviluppo ordinato ed armonico.
E' proprio da questo concetto, e da tutte le sue varianti, che parte la teoria "sottosviluppista" per negare l'apologia dei "sviluppisti".
Ora, se è vero che gli "aiuti" non sono aiuti ma esportazione di capitale che fruttano un sovrapprofitto agli imperialisti e che queste esportazioni non riducono ma aggravano gli squilibri mondiali, resta il fatto che l'imperialismo investe nelle zone arretrate e che in queste zone è in corso uno sviluppo capitalistico.
Ovviamente questo sviluppo non cancella il divario fra zone avanzate e zone arretrate. Ma quello che interessa ai fini dell'analisi delle lotte delle classi nelle zone arretrate è la natura sociale del loro sviluppo economico perchè è proprio la natura di questo processo a definire la natura delle classi che si scontrano.
Il problema del rapporto che queste economie, e le loro classi, hanno con l'imperialismo è certamente di estrema importanza perchè la definizione di questo rapporto permette di analizzare il peso dei fattori esterni nel corso della lotta interna delle classi, ma di per sè non esaurisce la questione di fondo che rimane sempre quella di verificare il grado di sviluppo capitalistico in una determinata zona, in un determinato paese.
La questione di fondo è sempre quella che ha guidato Lenin nello studio dello sviluppo del capitalismo in Russia contro i populisti che lo negavano anche con la tesi della dipendenza esterna.
Partendo proprio dalla teoria di Lenin sullo sviluppo ineguale del capitalismo, noi rifiutammo la tesi dei "sottosviluppisti" e, soprattutto, le loro conclusioni politiche per l'America Latina, che giungevano ad assegnare ai contadini il ruolo strategico della rivoluzione socialista, relegando il proletariato in una funzione subordinata se non addirittura controrivoluzionaria.
Con Lenin affermammo che riconoscere lo sviluppo del capitalismo nella fase imperialista non significava fare un regalo agli imperialisti, ma, caso mai, ai suoi critici piccolo-borghesi che non potranno mai preparare il proletariato nella prospettiva delle crisi, degli squilibri, della radicalizzazione delle lotte delle classi che lo sviluppo capitalistico porta con sè.
Lo sviluppo capitalistico in America Latina nell'ultimo decennio è la più lampante conferma della teoria di Lenin perchè, da un lato, ha dimostrato a quali tremende crisi sociali e politiche abbia condotto e, dall'altro, a quali effetti disarmanti per il proletariato si sia accompagnato l'imperversare delle ideologie piccolo-borghesi "sottosviluppiste".
Lo sviluppo cileno negli anni '60
Lo sviluppo del capitalismo cileno negli anni '60, con la esperienza Frei, prepara tutte le condizioni e le contraddizioni della esperienza Allende. Da un lato opera una tendenza al rafforzamento di un capitalismo nazionale e di un mercato nazionale e dall'altro lascia irrisolto il problema di fondo del rapporto con l'imperialismo americano. Il problema rimane sempre quello delle fonti di accumulazione necessarie ad un più intenso sviluppo.
In un mercato ristretto (10 milioni di abitanti) come il Cile la principale fonte di accumulazione è l'industria mineraria. L'agricoltura, per tutta una serie di ragioni, può esserlo relativamente.
Appropriarsi del plusvalore prodotto nell'industria mineraria, appropriarsi quindi della rendita e del profitto di questo settore che va alle multinazionali americane diventa una delle condizioni dello sviluppo del capitalismo cileno e lo diventa proprio quando è in moto il processo di crescita economica e sociale, quando cioè la società cilena non è più quella dei decenni precedenti.
La soluzione intermedia del governo Frei, la seminazionalizzazione del rame, il compromesso che lascia sostanzialmente inalterate le posizioni dell'imperialismo americano non sono un fallimento perché non raggiungono l'obiettivo dell'indipendenza economica nazionale (obiettivo, del resto, irrealizzabile nell'attuale situazione mondiale di forte espansione dei vari imperialismi) ma perchè non riescono a risolvere, nè possono risolvere, i problemi sociali determinati dallo sviluppo capitalistico stesso.
Questo sviluppo ha provocato la crescita di strati borghesi tesi a rafforzare le loro posizioni e la crescita di un proletariato sempre più combattivo.
Attorno alle due classi fondamentali si gonfiano a dismisura da un lato tutta una serie di strati piccolo-borghesi intermedi e, dall'altro, una massa di sottoproletari, in gran parte derivati dalla disgregazione contadina, che si va ammassando nelle città e che, con una corona di bidonvilles, farà di Santiago una delle più vaste metropoli del Sud America.
La DC, punto di raccordo delle frazioni borghesi (di quelle che puntano allo sviluppo industriale e di quelle che, invece, vogliono conservare le posizioni di rendita e di parassitismo) e degli strati piccolo-borghesi, è incapace, per le divisioni interne, di portare avanti lo sviluppo del capitalismo nazionale.
La DC entra in crisi. Il ritmo di sviluppo industriale è sceso dall'8,5% del 1961 al 3,8% del 1969, il debito estero è salito a 4 miliardi di dollari. Nell'empasse della DC si riassumono tutti i guai dello sviluppo capitalistico moderno (intensificazione della lotta di classe, urbanesimo massiccio ecc.) e tutti i guai del rallentamento (decrescenza dei tassi interni di accumulazione, indebitamento estero sproporzionato, debolezza del mercato interno, ecc.). A livello sociale tutto questo significa che ogni frazione di grande o media o piccola borghesia riflette le contraddizioni di uno sviluppo che la rafforza e la indebolisce nello stesso tempo, ma significa, soprattutto, che gli strati proletari, semiproletari, sottoproletari determinati, nei loro bisogni e nelle loro condizioni di vita, dal movimento dell'economia, non possono essere bloccati. E' un processo inarrestabile, è il processo della lotta di classe.
Premuta dalla lotta delle frazioni borghesi, premuta dalla lotta di classe, la DC entra in crisi perchè non riesce a rappresentare a livello di Stato il "capitale sociale ", cioè l'interesse generale del capitalismo di fronte agli interessi particolari dei capitalisti.
La tendenza al capitalismo statale
In certe condizioni, l'interesse generale del capitalismo, il "capitale sociale", non può essere altro che il capitalismo di Stato perchè solo questo può permettere lo sviluppo dei rapporti di produzione capitalistici, la continuità della produzione del plusvalore, la continuità del sistema.
Ciò vale ancora di più per il Cile, dove era proprio la mancata estensione del capitalismo statale nell'industria mineraria a provocare la crisi dello sviluppo e la conseguente crisi sociale con l'acuirsi della lotta di classe proletaria.
La coalizione di Unità Popolare si presenta come la nuova forma di governo che permette lo sviluppo del capitalismo statale.
La nazionalizzazione del rame operata dal governo Allende troverà il Parlamento unanime, cioè tutte le frazioni borghesi concordi, perchè in fondo questa realizzazione del '"capitale sociale", in quel momento, rappresenta l'interesse collettivo di tutti i borghesi e non contrasta con gli interessi particolari degli stessi.
Il disaccordo sarà, invece, su di una forma specifica del rapporto con l'imperialismo americano, cioè l'indennizzo o il risarcimento perchè ciò comporta un problema più generale di politica estera, il problema della collocazione del capitalismo cileno nei confronti degli altri capitalismi latino-americani, argentino e brasiliano in particolare, e, soprattutto, nei confronti degli imperialismi europei, dell'imperialismo sovietico e dell'imperialismo giapponese.
Su questa collocazione non solo non vi è una visione omogenea nella DC ma non vi è neppure nei partiti di Unità Popolare. Si può dire, anzi, che una visione vera e propria non vi è neppure tracciata. La collocazione internazionale del Cile viene lasciata, dopo alcuni timidi tentativi in direzione dell'imperialismo tedesco, al determinarsi oggettivo della situazione internazionale e al dispiegarsi dell'azione dei vari imperialismi.
Ciò non avviene a caso. La stessa mancanza di una specifica politica internazionale da parte di Unità Popolare è uno specchio fedele della situazione mondiale in cui viene a trovarsi il Cile più che il frutto di un errore.
Negli ultimi 3 anni, i rapporti tra i vari imperialismi, i rapporti in particolare tra USA e URSS, sono tali che lasciano sostanzialmente inalterata la sfera di influenza americana nella costa pacifica dell'America Latina. Una lotta di concorrenza tra europei, giapponesi e americani si sta svolgendo in Argentina ed anche in Brasile: è una lotta che si dispiegherà maggiormente negli anni futuri e solo allora farà sentire i suoi effetti politici, ma che comunque non coinvolge il Cile, almeno a breve scadenza.
Ad ogni modo, la lotta si svolge per mercati molto più importanti di quello cileno. La invocazione di Antonio Gambino ad un intervento della CEE lascia, quindi, il tempo che trova perché gli europei se si scontrano, se possono e se vogliono scontrarsi con gli americani lo fanno dove già hanno miliardi di dollari investiti come in Brasile e in Argentina e non dove hanno poco, come in Cile. Battaglie inutili o battaglie per dispetto gli imperialisti non ne fanno!
Tanto meno ne fanno gli imperialisti sovietici che, a differenza di quelli europei, non hanno, sia per debolezza finanziaria sia perché impegnati altrove, direttrici di espansione nell'America Latina.
Forzatamente, perciò, il capitalismo cileno si è trovato ingabbiato nella sfera di influenza americana da cui, per la verità, neppure Unità Popolare ha mai cercato di uscire.
Se il Cile non poteva uscire dalla sfera di influenza americana, perchè gli imperialisti USA hanno determinato, con il blocco economico, l'acuirsi della crisi ed hanno spinto il colpo contro Allende?
Perchè lo sviluppo del capitalismo statale cileno poneva le condizioni non tanto della uscita a breve scadenza dalla sfera di influenza quanto di una maggiore indipendenza, a media scadenza, di un blocco Argentina-Cile sostenuto, questo si, dagli imperialisti europei. Ciò avrebbe segnato l'inizio della fine della egemonia USA nell'America Latina.
Ciò non spiegherebbe, però, la celerità dell'intervento USA dati i tempi lunghi dell'eventuale blocco argentino-cileno. Difatti non la spiega. Mentre la spiega il fatto che la crisi interna cilena è precipitata in pochi mesi e l'imperialismo americano ha colto la possibilità di inserirsi subito nella frattura verificatasi tra il capitalismo privato e il capitalismo statale cileno per riconquistare le sue posizioni.
In questo precipitare degli avvenimenti per quanto riguarda il rapporto con l'imperialismo americano per la verita`, la politica estera di Unità Popolare c'entra poco. Sostanzialmente essa tiene conto del dato oggettivo per cui, a breve scadenza, il Cile non può uscire dalla sfera di influenza americana e si basa sul calcolo non avventato che alla lunga, alla media scadenza, la presa americana è destinata a rallentarsi.
L'irrigidimento, relativo però, di Unità Popolare verso gli USA, il problema dell'indennizzo ad esempio, è più determinato dalle necessità interne di sviluppo capitalistico statale per assicurare l'accumulazione che da una scelta di politica estera. Che il Cile sia stato costretto dallo sviluppo interno ad irrigidire il suo rapporto con gli USA è spiegabilissimo, che lo abbia invece fatto per una scelta di politica internazionale non lo è se non come atto velleitario. Ancora una volta non possiamo bocciare i dirigenti di Unità Popolare perché non sono stati velleitari.
La debolezza della coalizione Allende
Nel 1970 la coalizione di Unità Popolare prende la direzione del governo ed è subito di fronte a quei problemi dello sviluppo del "capitale sociale" che avevano determinato il cambio della guardia, la sua stessa costituzione e la sua ascesa politica.
La coalizione è però debole, perchè è divisa sulle questioni di fondo: ritmi di sviluppo del capitalismo statale, rapporti con le frazioni borghesi ostili all'allargamento delle nazionahzzazioni, rapporti con i vari strati di piccola borghesia, rapporti con il proletariato e con le masse sottoproletarie, La coalizione è divisa perchè non esprime una tendenza sociale omogenea ma è un'alleanza composita di varie tendenze e di vari interessi. La sua debolezza di fondo è, in definitiva, quella di non esprimere in modo omogeneo la tendenza al capitalismo di Stato.
Comunque è nel PS cileno che più forte si manifesta la spinta a capeggiare lo sviluppo del capitalismo statale, cioè a diventare il partito dirigente ed egemone del capitalismo nazionale nella sua forma più avanzata e che la storia ha reso necessaria di fronte alla incapacità di una serie di frazioni borghesi e dei loro partiti, in particolare la DC.
Il massimalismo di una serie di correnti del PS, di fronte al moderatismo del PC cileno, non sta tanto nel sostenere l'espansione del capitalismo statale quanto nel ruolo che queste correnti pensano di far giocare al proletariato in questo processo.
La situazione oggettiva del Cile è tale che non può essere iniziata l' edificazione del capitalismo statale avendo contro le frazioni borghesi ostili, la piccola borghesia e il proletariato. In una tale eventualità neppure i primi passi potrebbero essere fatti, ammesso che possano rimanere ancora in piedi le fondamenta del capitalismo statale costituite dalla nazionalizzazione dell'industria mineraria sulla quale tutti erano stati d'accordo perchè era un capitalismo di stato fatto a spese di un capitale privato straniero.
Dato, quindi, che nell' edificazione del capitalismo statale non si potrebbe trovare l'appoggio della borghesia e della piccola borghesia contro il proletariato, la scelta diventa obbligata: cercare di avere l'appoggio del proletariato. Qui sta tutta la forza e tutta la debolezza della corrente capitalistico-statale,
La forza perchè puntando sulle masse proletarie e sottoproletarie può effettivamente alterare i rapporti di forza con le frazioni borghesi ostili e con la loro massa di manovra piccolo-borghese; la debolezza perchè questa strategia comporta un effettivo miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita delle masse proletarie e sottoproletarie, una loro reale possibilità di rivendicazione economica e politica, un loro reale potere contrattuale a tutti i livelli. In ultima istanza: la libertà di armamento. Solo un proletariato armato potrebbe, nella strategia della corrente capitalistico-statale, fare da contrappeso alla organizzazione militare delle frazioni borghesi ostili e della loro base piccolo-borghese.
L'esperienza storica e la teoria ci permettono di affermare che non si può escludere che una corrente capitalistico-statale armi forze proletarie nel suo braccio di forza con il capitalismo privato. Lo ha già fatto e lo può rifare; ma lo ha fatto solo in condizioni di stretto controllo delle forze proletarie e in una situazione che non lasciava alcun margine di autonomia e di manovra di queste, non solo a breve ma neppure a media scadenza.
L'aspetto più importante, l'aspetto che occorre sottolineare, è che nella situazione cilena nessuna corrente capitalistico statale era in grado di stabilire uno stretto controllo di un eventuale armamento del proletariato e, soprattutto, era in grado di impedirne una dinamica autonoma, anche se non nella breve ma nella media scadenza.
Il ruolo del proletariato cileno
Inevitabilmente il proletariato sarebbe divenuto il punto di riferimento delle vaste masse sottoproletarie e le avrebbe legate a sé con un programma generale di rivendicazioni insopportabili non solo per il capitalismo privato ma pure per lo stesso capitalismo statale.
Una tale radicalizzazione dello scontro di interessi tra proletariato e capitalismo statale avrebbe condotto rapidamente all'autonomia politica della classe operaia e, quindi, allo scontro politico rivoluzionario contro tutte le frazioni borghesi, private e statali.
In questa inconciliabile contraddizione di classe sta il limite delle correnti capitalistico-statali cilene.
Possono appoggiarsi al proletariato per estendere l'area del capitalismo di Stato ma non possono trasformare questo appoggio in una reale forza senza annullare se stesse nello scontro militare che l'estensione capitalistico-statale prepara. Le frazioni del capitalismo privato vengono a trovarsi, perciò, in vantaggio.
E' quello che cercano di evitare le correnti moderate di Unità Popolare, quelle che cercano di arrivare ad un compromesso con le frazioni borghesi e con le masse piccolo-borghesi. Ma anche queste correnti non fanno altro che rivelare la contraddizione di fondo, in definitiva la loro debolezza. Lo sviluppo del capitalismo statale è necessario per aumentare la produzione.
Senza di esso vi sarebbe la crisi economica. Ma l'aumento della produzione significa l'allargamento del mercato interno, condizione indispensabile, in mancanza di un forte investimento esterno, per la riproduzione allargata del capitale, per il processo di accumulazione.
L'equilibrio tra il capitalismo statale e le frazioni borghesi può reggersi, almeno inizialmente, su di un forte aumento della produzione e questo richiede un forte investimento, una forte accumulazione di capitali. Questa, a sua volta, è permessa da una compressione o, almeno, da una limitazione dei consumi. Se le condizioni generali avessero consentito una limitazione o una compressione dei consumi proletari, Unità Popolare non si sarebbe trovata nella contraddizione che ha dilaniato le sue correnti.
Ma l'alternativa rimaneva una sola: limitare i consumi delle frazioni borghesi e della piccola borghesia per alimentare la fonte di accumulazione per l'investimento industriale. In altri termini: distribuire meno plusvalore operaio alle frazioni borghesi e piccolo borghesi.
Se lo avesse fatto, Unità Popolare sarebbe crollata prima o avrebbe vinto la prima partita. Non sarebbe stata però quella coalizione che era ma una omogenea corrente capitalistico-statale. E non poteva essere una omogenea corrente capitalistico-statale per la presenza in campo di un terzo protagonista, il proletariato, del cui rafforzamento tutte le correnti paventavano la possibilità sino al punto di lasciare inalterate le posizioni borghesi e piccolo borghesi in funzione di un comune contenimento.
Sta il fatto che il non aver ridotto i consumi della borghesia e dei ceti medi ha costretto Unità Popolare ad una spesa deficitaria alimentata dalla emissione di nuova moneta.
L'inflazione, il mercato nero, la speculazione e l'accaparramento divengono fenomeni indotti dall'aumento della produzione e favoriscono non il capitalismo statale ma le frazioni borghesi e piccolo-borghesi che controllano il commercio ed i trasporti.
In definitiva, lo sviluppo della produzione industriale ad opera del capitalismo statale finisce col rafforzare il capitalismo privato arroccato nella sfera della distribuzione.
Alcuni dati sintetici possono dare l'idea del fenomeno.
Il capitalismo statale rafforza la borghesia controrivoluzionaria
Nel 1971 l'aumento della produzione industriale cilena raggiunge una cifra da record: il 12%. Il 1 semestre vedrà ancora un 10% e solo nel 2 semestre si verificherà un rallentamento sino a raggiungere nel complesso dell'anno ancora un 5 %.
Non possiamo, quindi, parlare di crisi industriale. Il calo è solo nella produzione agricola, anche se questo calo è solo dell'1,6% nell'annata 1971/72.
Lo sviluppo è dovuto essenzialmente all'estendersi del capitalismo statale che include 158 industrie nazionalizzate, completamente o parzialmente. Le nazionalizzazioni sono variamente distribuite: si va dal l00% di beni prodotti da industrie a proprietà statale nei derivati del petrolio al 67% nella gomma al 64% dei minerali non metallici al 53% dei metalli di base. Anche il settore tessile è per metà in mano allo Stato, mentre l'industria alimentare, oltre a quella dell'abbigliamento, rimane tra le fondamentali in mano ai privati.
Ma quello che è caratteristico in questo sviluppo del capitalismo statale è che la distribuzione del reddito rimane sostanzialmente invariata: il 5% circa della popolazione rappresentato dalla borghesia urbana e rurale, ne ha ben il 4O% e il 20% circa della popolazione,costituito da media e piccola borghesia, ne prende un altro 40%.
Come abbiamo visto, lo sviluppo del capitalismo statale non intacca le posizioni della piccola borghesia dato che non cambia la collocazione della piccola produzione e del consumo degli strati intermedi .
Ciò rappresenta una forte contraddizione non perchè la piccola borghesia possa avere la capacità economica e politica di restare o di invertire la marcia del capitalismo statale, anche se indubbiamente può costituire un notevole ostacolo, e non solo perchè può costituire, come ha costituito, la base di massa delle frazioni borghesi ostili a tale marcia, La contraddizione risiede altrove e cioè nella collocazione della piccola borghesia nel quadro generale dei rapporti determinatisi in Cile, tra capitalismo statale, capitalismo privato e imperialismo.
Di per sè la presenza di una piccola borghesia, di una piccola produzione e di una quota di plusvalore operaio assorbita da strati parassitari, non è un fattore di impedimento nello sviluppo del capitalismo statale. Lo sfruttamento del proletariato, assicurato dalla maggiore concentrazione economica e politica, permette al capitalismo statale di concedere quote di plusvalore alla piccola borghesia e di trovare in questa un valido appoggio. Indubbiamente questa ipotesi, suffragata dalla esperienza di altri paesi, ispirava le posizioni di alcune correnti di Unità Popolare, quelle che gli estremisti definiscono moderate incapaci, come sono, di vedere quale è la loro reale posizione.
La debolezza di queste correnti sta invece, come abbiamo detto, nel ruolo che pensano di assegnare alla piccola borghesia nel quadro generale dei rapporti fra capitalismo statale, capitalismo privato e imperialismo per ciò che riguarda la sfera della produzione e quella della distribuzione.
Le correnti moderate lo sono, quindi, solo nei confronti degli strati piccolo- borghesi verso i quali pensano di conservare l'incidenza nella distribuzione che abbiamo visto; non lo sono, di certo, nei confronti della classe operaia verso la quale pensano di fare una politica produttivistica e di contenimento dei salari come condizione indispensabile per poter continuare il compromesso con i ceti medi.
Le loro critiche al massimalismo sono critiche, nello stesso tempo, ai ritmi troppo veloci dell'espansione capitalistico-statale e alla bassa produttività del lavoro operaio. Sono polemiche che rimangono, però, dentro un modello di rapporti fra classi e frazioni da cui non escono le correnti di Unità Popolare.
La questione fondamentale rimane quella di una contraddizione tra la produzione e la distribuzione. Il capitalismo statale non lavora per sè ma per le frazioni grandi medie e piccolo borghesi più legate al parassitismo. Mentre lavora in questa direzione, il capitalismo statale non riesce e non può contenere il proletariato. Si mette in moto un meccanismo oggettivo che avrà conclusioni tragiche.
Le frazioni borghesi, sempre più forti, sono poste nella condizione di bloccare il proletariato e di fare marciare il processo produttivo a loro totale beneficio e nella maggiore sicurezza.
La controrivoluzione rapida, spietata, crudele ha nei militari i suoi boia e nei borghesi i suoi beneficiati.
Il suo scopo è chiaro e semplice: piegare col terrorismo più scatenato la classe operaia cilena per costringerla a portare avanti lo sviluppo del capitalismo cileno nelle condizioni di una accumulazione pagata interamente dalla forza-lavoro. Come in Brasile e in altri paesi latino-americani, il capitalismo esercita la sua dittatura feroce sul proletariato per assicurarsi il massimo sviluppo. Il suo avvenire si alimenta del sangue operaio!

("Lotta Comunista" n.48, ott.-nov.. 1973)

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L'unificazione dell'Indocina, questione storica

La lunga guerra d'Indocina è giunta ad un momento decisivo con il crollo del Sud Vietnam.
Per chi, come noi, da sempre ha sostenuto la lotta di unificazione statale come processo della rivoluzione democratico-borghese vietnamita la portata storica della vittoria politica e militare di Hanoi trascende il fatto contingente.
"Per capire gli avvenimenti occorre sapere quali questioni siano risolte da un mutamento di potenza", ammonisce Lenin nella sua opera sull'imperialismo. Appunto, in questa prospettiva ci poniamo per capire gli avvenimenti vietnamiti.
Le questioni poste sono di vario ordine ed importanza. La prima ha una dimensione storica a lungo termine. Viene impostata da Marx nella sua analisi sulla "questione asiatica" e sviluppata da Lenin nella fase imperialistica. Sostanzialmente Marx ritiene che l'Oriente sia destinato allo sviluppo capitalistico, con tutto il suo carico di lacrime e di sangue, se prima non sopravviene in Europa la rivoluzione socialista e la dittatura proletaria. Solo un proletariato europeo che detenga le forze produttive, accumulate dalla borghesia, può essere in grado di far risparmiare alle popolazioni dell'Asia il lungo calvario della fase capitalistica. Engels pone, inoltre, la ipotesi di una rivoluzione socialista occidentale aggredita da un Oriente reazionario e precapitalista.
Lenin attualizza strategicamente la "questione asiatica" e concepisce un attacco dell'Asia, agitata dalle rivoluzioni democratico-borghesi, alle metropoli imperialistiche occidentali. L'attacco dei giovani capitalismi, e nel caso del Giappone già maturo imperialisticamente, avrebbe, per Lenin, l'effetto dirompente di spezzare tutti gli equilibri tra le metropoli e di indebolire, all'interno delle metropoli stesse, le posizioni dei partiti opportunisti che controllano il proletariato ed appoggiano la borghesia.
Su questa questione storica si è sempre basata la nostra linea politica sull'Asia e, in particolare, sull'Indocina. La nostra posizione marxista e leninista non è stata, quindi, di semplice appoggio ad una rivoluzione democratica, come quella cinese o quella vietnamita, o di semplice lotta all'intervento imperialistico. La nostra posizione si è, invece, sempre collocata nel solco della continuità di una questione storica per il movimento rivoluzionario marxista. Noi abbiamo sempre criticato tutte quelle ideologie che contrabbandavano come edificazione socialista il processo sociale, economico e politico dei giovani capitalismi. Ma siamo stati anche gli unici a sostenere, contro lo stalinismo, la necessità storica di un attacco del movimento asiatico alle metropoli imperialistiche, attacco che poteva e può agire da acceleratore della crisi mondiale dell'imperialismo stesso.
Abbiamo sempre sostenuto e sosteniamo che solo un impetuoso sviluppo capitalistico in Cina e in India può definitivamente scardinare l'attuale assetto imperialistico del mondo ed aprire una crisi generale sociale e politica di gigantesche proporzioni tali da mettere immediatamente all'ordine del giorno la guerra mondiale e la rivoluzione proletaria internazionale.
Elemento fondamentale dello sviluppo è la formazione di Stati politicamente indipendenti che garantiscano l'ampliamento del mercato interno e che proteggano lo sviluppo dell'industrializzazione; in questo senso, la formazione di tali Stati comporta un processo di rivoluzione democratica sia per l'indipendenza nazionale che per la riforma agraria. Per una serie di fattori, che non staremo qui ad analizzare, è proprio sull'indipendenza nazionale e sulla riforma agraria che le rivoluzioni democratiche-borghesi, in assenza di un appoggio decisivo del proletariato internazionale, dimostrano tutta la loro debolezza. Ciò permette alle varie potenze imperialistiche di conservare una forte presenza e di utilizzare ampi margini di manovra anche in zone, come l'Asia, investite da vaste rivoluzioni democratiche.
Anche per questa debolezza intrinseca dei movimenti nazionali, la strategia leninista della rivoluzione asiatica doveva e deve marciare su direttrici continentali e non doveva né deve avere limiti ristretti di singole zone.
Gli ultimi decenni hanno, invece, posto in risalto questi limiti e la stessa esplosione di antagonismi tra Cina, India e Pakistan, antagonismi che hanno portato a guerre, ne è la più lampante dimostrazione.
Quindi, per ritornare al quesito posto da Lenin, gli avvenimenti degli ultimi decenni non hanno ancora risolto, con un mutamento di potenza, la questione storica di un attacco asiatico alle metropoli imperialistiche, anzi non hanno ancora risolto neppure la questione preliminare di un fronte unito asiatico dei giovani capitalismi.
In questo quadro abbiamo visto le guerre d'Indocina. Il fatto che l'intervento imperialistico americano fosse possibile in termini militari in Indocina segnava non solo un'aggressione di una grande potenza ma indicava, soprattutto, un grave ritardo storico nella maturazione della questione asiatica. Inoltre, il prolungamento e la intensità dell'intervento militare statunitense rafforzava inevitabilmente l'inserimento dell'imperialismo russo e, quindi, indeboliva di riflesso la Cina.
In realtà l'intervento militare dell'imperialismo americano non ha potuto né poteva impedire che il movimento di unificazione vietnamita andasse avanti. Ha potuto e forse potrà impedire che giunga a certe conclusioni, come vedremo.
Gli Stati Uniti, con la guerra d'Indocina, hanno cercato, invece, per più di 10 anni di ritardare il ridimensionamento della loro egemonia imperialistica in Asia, conquistata con la sconfitta dell'imperialismo rivale giapponese il quale aveva tentato invano di stabilire il suo dominio.
L'intervento militare statunitense in Indocina avviene quando inizia il declino della supremazia USA in Asia, cioè quando di fronte al ritiro sostanziale delle potenze inglese, francese ed olandese riemerge un Giappone lanciato alla conquista del terzo posto mondiale e quando la presenza dell'imperialismo russo in quell'area, seppur massiccia, non è in grado di competere con la più capillare e intensiva presenza americana.
L'intervento statunitense in sostanza non comporta un mutamento di potenza e, quindi, non risolve le questioni dei rapporti interimperialistici in Asia e della unificazione di uno Stato indocinese.
La storia ha affidato questo compito al Nord Vietnam, cioè a quello Stato che per primo ha posto l'obbiettivo e che per decenni ha lottato con estrema determinazione per realizzarlo. Il Nord Vietnam come Stato a sé è un organismo sociale e politico troppo ristretto per avere possibilità di sviluppo e per non essere soffocato e condizionato, oltre che dalle potenze imperialistiche, dallo sviluppo di grandi Stati come la Cina e l'India. Il Nord Vietnam ha, però, dimostrato di cogliere le tendenze d i fondo che spingono alla formazione di grandi Stati in Asia negli ultimi decenni ed oggi si pone in condizione di essere, con la forza politica e militare e con la capacità di utilizzarle al massimo rendimento, il nucleo formativo di un futuro Stato indocinese di un centinaio di milioni di abitanti, quindi di uno Stato della forza dell'Indonesia e, come peso, il quinto grande Stato asiatico.
Da anni noi abbiamo ritenuto questa ipotesi di estrema importanza storica.
Oggi che gli avvenimenti fanno di questa ipotesi una questione concreta se ne può valutare la rilevanza e se ne deve analizzare la possibilità.
Ecco come, secondo l'insegnamento di Lenin, l'analisi del mutamento di potenza ci permette di vedere la soluzione di questa questione quando il corso degli avvenimenti l'ha resa estremamente concreta.
L'unificazione del Vietnam è ormai un fatto militare. Può diventare un fatto economico, politico, statale?
La risposta ci può venire solo dall'analisi dei mutamenti di potenza intercorsi o che potranno intercorrere. Ebbene, i mutamenti di potenza non possono essere circoscritti al solo Vietnam ma riguardano oltre gli USA, l'URSS, il Giappone, la Cina e l 'India, solo per calcolare le potenze maggiori.
Non si tratta di vedere quali sono le potenze favorevoli e quelle sfavorevoli ad una unificazione vietnamita, cioè alla formazione di uno Stato di media grandezza, poiché per ogni potenza si potrebbero indicare vantaggi e svantaggi derivanti dalla esistenza di un simile Stato. Si tratta solo di porre la questione nella sua concretezza poiché proprio su questo terreno si dovranno interpretare gli avvenimenti del prossimo futuro asiatico, avvenimenti che non mancheranno di riservare inedite sorprese.
Un passo avanti nella storia dell'Asia si è compiuto. Si chiude una pagina ed un'altra si apre.

("Lotta Comunista" n.57, mag. 1975)

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La Spagna nei rapporti tra le potenze

La penisola iberica negli ultimi anni è entrata in una fase di forti tensioni sociali e di forti crisi politiche Era inevitabile, date le premesse che esamineremo, che ciò avvenisse.
In primo luogo, era inevitabile che un periodo di sviluppo economico e sociale capitalistico avesse determinato conseguenze politiche a livello interno.
In secondo luogo, era inevitabile che il maturare di rapporti di forza in una nuova dinamica in Europa e in Africa si ripercuotesse con estremo vigore dall'esterno.
Quindi, per il sommarsi di fattori interni e di fattori esterni la penisola iberica viene a trovarsi al centro di una tempesta sociale e politica che non può essere né breve né definitiva. Sono, poi le caratteristiche storiche della formazione del moderno mercato capitalistico nelle varie zone della penisola ad esasperare tutte le contraddizioni che dall'interno e dall'esterno, si sono andate accumulando. Sono, però, queste stesse caratteristiche ad impedire che l 'accumulo di contraddizioni diventi l'inizio d i una reazione a catena per i paesi dell'Europa, in generale, e dell'Europa meridionale, in particolare. Come sempre, le contraddizioni sociali e politiche sono destinate a consumarsi nella penisola iberica.
Se questo è chiaro per il Portogallo la cui crisi è stata in definitiva determinata dall'anomalo rapporto tra il peso economico della metropoli e quello delle colonie, meno lo è per la Spagna.
Il Portogallo rappresenta l'esempio di un piccolo capitalismo, estremamente debole e poco sviluppato, che per tutta una serie di circostanze storiche si è trovato a svolgere un ruolo imperialistico su di una serie di possedimenti coloniali senza averne più la forza economica e, quindi, politica e militare. La sua estrema debolezza lo ha portato a continuare un ruolo colonialista quando, ormai, tutte le principali potenze si adattavano al processo di decolonizzazione con la formazione di mercati e di stati nazionali. Il minimo che poteva accadere alla metropoli portoghese era il disastro ed, infatti, puntualmente, nella tragicommedia è accaduto. E' bastato un decennio di sviluppo del capitalismo africano con un forte investimento delle multinazionali concorrenti per fare crollare presunzioni fasciste dei governanti e dei militari portoghesi e per trasformarle in nuove demagogie tanto altisonanti quanto vuote ed imbelli. In altri termini, e per riassumere, il Portogallo si è trovato ad avere una forza economica, paragonabile a quella della Repubblica Irlandese dell'Eire, di fronte ad un Sud Africa che ne aveva due volte e mezza di più e di fronte ad un Mozambico ed una Angola che, unite, ne avevano quasi tre quarti.
Che il Portogallo, con un sesto di forza economica in confronto alla Spagna, con un quattordicesimo in confronto all'Italia e con un centesimo in confronto alla CEE, non possa influenzare l'Europa è chiaro a tutti.
Per la Spagna il discorso è diverso. La Spagna è diventata una media potenza capitalistica ed il suo peso economico influisce sulla bilancia europea. Essa sempre più diventa un elemento dei rapporti tra le potenze. Può spostare questi rapporti, ma non in modo determinante. Ecco perché le sue contraddizioni interne mentre sempre più sono determinate dallo .sviluppo economico europeo sempre meno può rigettarle sull'Europa.
La formazione del Mercato Comune Europeo ha infatti accelerato lo sviluppo dei capitalismo spagnolo. La Spagna come l'Italia ha potuto utilizzare un vasto serbatoio di forza-lavoro a basso prezzo, serbatoio derivato da un intenso processo di disgregazione contadina che ha accompagnato lo sviluppo del capitalismo nelle campagne.
In altra occasione avremo la possibilità di analizzare dettagliatamente quello che è avvenuto negli ultimi 15 anni nella struttura economica spagnola. Per ora bastino alcuni dati principali. La popolazione attiva nell'agricoltura è ormai ridotta a meno di un terzo di quella totale, grosso modo ad un livello paragonabile a quello dell'Italia nei primi anni '60.
Sotto molti aspetti si può dire che la Spagna ha un ritardo di dieci anni sull'Italia, mentre l'Italia si trova ad un livello intermedio tra Francia e Spagna. Ci riferiamo, ovviamente, alla potenza economica assoluta, cioè a quel criterio fondamentale indicato da Lenin nell'analisi dei rapporti reciproci tra le potenze politiche. In questo senso, non viene considerato la potenza economica procapite.
Ancora due dati prima di ricollegarci allo schema generale dei rapporti reciproci tra le potenze. Si calcola che dal 1957 almeno 4 milioni di abitanti abbiano abbandonato le campagne. Almeno 1 milione è emigrato all'estero, proprio in conseguenza dello sviluppo dell'imperialismo europeo. Gli altri milioni si sono riversati nelle attività industriali e sulle attività terziarie.
I salariati industriali sono, quindi, passati da 2.600.000 a 4.800.000, di cui almeno 4 milioni di operai.
Come si vede, si è verificato un profondo spostamento nella struttura sociale delle classi e delle frazioni di classe. Il capitalismo industriale ha ridimensionato la borghesia agraria la classe operaia ha preso il posto dei contadini poveri. Conseguentemente lo sviluppo del capitalismo spagnolo ha determinato una forte intensificazione delle lotte economiche di un proletariato industriale,cresciuto quantitativamente.
Ciò ha messo in evidenza l'incapacità della forma fascista dello Stato ad affrontare le lotte sociali espresse dallo sviluppo economico stesso. Il fascismo con la sua teoria corporativa e con la sua pratica di conciliazione di classe, si dimostra completamente impotente non solo ad impedire gli scioperi rivendicativi ma anche a reprimerli.
Anzi, più tenta di reprimerli e più costringe la lotta economica del proletariato, fenomeno oggettivo determinato dallo sviluppo del mercato, ad andare contro lo Stato, cioè contro la macchina oppressiva con la quale il capitalismo esercita la sua dittatura.
La forma fascista diventa, a questo punto, una forma di Stato negativa per il capitalismo industriale.
La crisi della forma fascista di Stato pone al capitalismo spagnolo il problema della istituzione della forma democratica che è più adatta a stabilire una pratica di conciliazione di classe nell'ambito di una lotta economica del proletariato ormai inarrestabile dato il grado ed il ritmo di sviluppo della struttura. Solo lo Stato democratico può, in questa situazione, permettere una reale dittatura della borghesia, perché riesce a mantenere a livello economico la lotta del proletariato e a deviare a livello parlamentare quella spinta politica che altrimenti si indirizzerebbe contro lo Stato borghese proprio perché nella sua forma fascista lo Stato si identifica con la repressione della lotta economica.
E', invece, interesse generale della borghesia spagnola che il proletariato non identifichi il fascismo con lo Stato, così come è interesse generale che esso diventi solo antifascista e non anche antistatale poiché, così, potrà rimanere democratico ed accettare la dittatura capitalistica nella sua forma democratica.
In questo modo la borghesia spagnola può assicurarsi la continuità dello Stato in una fase di sviluppo economico che provoca un corso di lotte di classe di non breve durata.
La questione fondamentale, perciò, diventa per la borghesia spagnola quella della transizione da una forma di Stato ad un'altra. La transizione dipende da molti fattori interni ed esterni. Malgrado le apparenze, quelli esterni sono predominanti. Se la Spagna potesse rapidamente integrarsi nella CEE, il problema della transizione sarebbe molto facilitato per la borghesia spagnola. Non potendolo, la transizione diventa un processo travagliato, pieno di incognite e di aspre contraddizioni non solo per la Spagna ma anche per l'Europa. Non a caso la Spagna è divenuta di colpo un problema rilevante per le metropoli imperialistiche europee e ancora più è destinato ad esserlo nel futuro quando manifesterà tutte le sue difficoltà di soluzione. La Spagna è divenuta uno dei principali problemi per l'imperialismo europeo. Perché ?
Perché vi sono una serie di fattori, interni ed esterni che impediscono una sua rapida integrazione nella CEE.
In primo luogo non tutti gli Stati della CEE hanno lo stesso interesse all'integrazione della Spagna. La spinta maggiore viene dalla Germania che progressivamente va allargando, anche nella penisola iberica, la sua sfera d'influenza. Le spinte minori, se non frenanti, vengono dalla Gran Bretagna e dalla Francia. L'Italia, poi, è quella che ha meno interesse.
In secondo luogo, Stati Uniti ed URSS, per motivi differenziati, non hanno alcun interesse a che la Spagna si aggiunga alla già crescente sfera d'influenza tedesca. Ovviamente, operano ed opereranno in modo che ciò non avvenga.
In terzo luogo, se la forma democratica di dittatura borghese atta a contenere la lotta economica del proletariato è necessaria al capitalismo spagnolo a maggior ragione è necessaria ai più maturi capitalismi europei. Inserire nella CEE una forma fascista d i rapporto statale con le lotte economiche proletarie diventerebbe una contraddizione esplosiva. Anche se una rapida integrazione nella CEE, ammesso che le resistenze americana e russa ed i contrasti europei lo permettano, potrebbe significare una rapida transizione alla forma democratica dello Stato spagnolo, resta sempre il fatto che questo processo, con tutto ciò che comporta di incontrollabilità, avverrebbe nel contesto della CEE. Se gli Stati della CEE hanno un interesse differenziato alla integrazione della Spagna, essi hanno un interesse comune a non inserirla nella sua forma fascista di Stato. Ciò rende ancor più difficile la transizione alla forma democratica.
Infine la difficoltà della transizione inasprisce la lotta interna tra le frazioni borghesi. Non vi sono ragioni per ritenere che anche la borghesia agraria, che più esprime la forma fascista, non abbia interesse alla integrazione nella CEE. Ma non è la borghesia agraria il solo ostacolo allo Stato democratico.
L 'ostacolo maggiore è proprio all'interno del capitalismo industriale, cioè nelle sue componenti che lo sviluppo economico ha differenziato.
Mentre una parte del capitalismo industriale ha stretto ancor più i suoi legami economici con la CEE, nuovi centri industriali creati dal capitalismo statale si sono formati al di fuori da quelli tradizionali del Nord e della Catalogna. Si sono intensificate, cosi le tendenze all'espansione dell'interscambio con gli Stati Uniti e con il Nord Africa che, non a caso, hanno un atteggiamento diplomatico diverso da quello della Germania e della CEE.

La contraddizione interna allo stesso capitalismo industriale è un elemento ulteriore alla mancata soluzione del centralismo statale che alimenta il separatismo.

Alla luce di queste considerazioni è importante vedere che cosa ha rappresentato nello sviluppo generale del capitalismo, lo sviluppo del capitalismo spagnolo e come si è collocato nello spostamento intercorso, nel quindicennio, tra le prime venti potenze economiche del mondo, le quali rappresentano il 90% della potenza economica mondiale. Da una nostra valutazione, la Spagna passa dal 16° posto al 12°, ponendosi a ridosso della Germania Orientale e superando l'Australia che passa dal 15° posto al 17° posto, il Brasile che rimane al 14° posto, l'Olanda che rimane al 13° posto e la Svezia che cade dal 12° posto al 15° mentre il posto precedentemente della Spagna viene ora occupato dal Messico che supera, così, l'Australia.

Questo spostamento ha posto in termini diversi la collocazione della Spagna nel corso degli anni.

In definitiva i rapporti internazionali del capitalismo spagnolo dovevano entrare in crisi per tre ragioni: perché lo stesso sviluppo interno è stato in definitiva determinato dallo sviluppo delle grandi potenze europee della CEE, perché è avvenuto in un contesto che ha visto, date le ineguali velocità, modificarsi profondamente il rapporto reciproco tra Germania, Francia e Gran Bretagna e perché la Spagna nella dinamica generale di sviluppo e nella modificazione generale dei rapporti reciproci tra le potenze economiche europee ha mutato oggettivamente la sua collocazione.

Volente o nolente, a capitalismo spagnolo viene ad essere oggi un elemento importante nel sistema dei rapporti reciproci tra le potenze economiche europee e lo è tanto più in quanto invece di regredire come peso specifico, e quindi diventare marginale ha progredito al contrario del Portogallo che, come peso specifico, è rimasto stagnante.

Anche per questa ragione la lotta del proletariato spagnolo è parte attiva della lotta del proletariato europeo. La repressione violenta ed i tribunali speciali non la possono fermare più di quanto possa fermare il mancato sostegno di una solidarietà internazionalista militante basata sulla pratica dell'autonomia di classe.

("Lotta Comunista" n.62, ott. 1975)

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L'Angola nella incandescente Africa australe

Nei mesi scorsi abbiamo messo in rilievo che la crisi del Portogallo era determinata dall'anomalo rapporto tra il peso economico delle metropoli e quello delle colonie. In pratica la crisi portoghese non era altro che la manifestazione esteriore di una più importante crisi che si andava accumulando a migliaia di chilometri d i distanza, nel cuore dell'Africa australe. Puntualmente ciò che doveva esplodere è esploso. Oggi sul palcoscenico il dramma dell'Angola ha soppiantato la commedia di Lisbona e i vari protagonisti sono entrati apertamente sulla scena dopo il prologo dei generali-comparse.
Si è aperta una grande lotta nell'area economica più importante dell'Africa, una lotta che può diventare decisiva per lo sviluppo capitalistico del prossimo decennio in quella zona e che, oggi, è già il risultato del rapido sviluppo avvenuto negli ultimi quindici anni L'Angola, oggi al centro di questa lotta, è solo un settore di un più vasto mercato in tumultuosa formazione. Alla creazione di questo mercato capitalistico corrisponde la formazione di Stati che, per la assenza storica di nazioni e di nazionalità, non hanno ancora una chiara fisionomia. La lotta di indipendenza da potenze colonialistiche ha posto le basi per la evoluzione dall'etnia alla nazionalità, ma gli Stati indipendenti sorti non hanno fatto altro che ricalcare la configurazione amministrativa derivata nel secolo scorso dalla spartizione coloniale. Nella grande maggioranza dei casi, le sovrastrutture statali non corrispondono ad una effettiva e consolidata struttura economica che le sostanzi, le sorregga, le demarchi e le definisca. Per questa loro natura, i nuovi Stati sono il risultato più degli equilibri delle potenze imperialistiche che del punto di arrivo della dinamica di nuove potenze. Ciò ha determinato una balcanizzazione dell'Africa con la presenza diffusa di piccoli Stati con pochi milioni di abitanti ciascuno. La contraddizione è che questi piccoli Stati hanno vaste estensioni territoriali ed enormi risorse di materie prime, cioè hanno potenzialità di mercato a cui non corrispondono adeguate sovrastrutture. L'Angola è un esempio significativo.
Una situazione di questo genere può sussistere finché stagnante o lento rimane lo sviluppo economico. Ma quando forte si manifesta il processo di diffusione della produzione capitalistica, la situazione diventa instabile, fluida ed incandescente. Così come, nei secoli scorsi, il continente americano, ad un certo stadio di sviluppo, ha visto tutta una serie di tensioni e di guerre che hanno partorito una grande potenza imperialistica come gli Stati Uniti, così oggi un processo di questo tipo è iniziato nel continente africano. Tensioni e guerre accompagnano questo processo e ancor più lo accompagneranno nel futuro. Sotto molti aspetti, quindi, l'attuale configurazione di Stati può essere considerata provvisoria. Quali saranno i grandi Stati del futuro è difficile prevedere, dato che molto dipende dall'azione delle attuali grandi potenze imperialistiche le quali, nel complesso, hanno interesse ad impedire, come è accaduto nel Medio Oriente, la prevalenza di uno Stato sugli altri e, quindi, la formazione di una nuova grande potenza in una nuova area economico-politica
E il caso dell'Africa australe con l'espansionismo del capitalismo sudafricano il quale è molto più forte, in assoluto e in relativo, di quello israeliano. In assoluto la potenza economica sudafricana e più del doppio di quella israeliana. In relativo, Israele ha di fronte un Egitto che, oltre alla potenza demografica preponderante, rappresenta una potenza economica equivalente, il Sud Africa, invece, si inserisce in una area dove le potenze economiche sono minori.
L'Africa australe rappresenta un enorme polo di sviluppo capitalistico minerario-industriale. Quest'area ha circa un quinto della popolazione del continente, una popolazione di circa 80 milioni (come i due Stati tedeschi).
La situazione in Angola è stata paragonata ad un nuovo Vietnam, il paragone è inesatto. La guerra del Vietnam si è svolta nella penisola indocinese che, se per popolazione può essere paragonata all'Africa australe, per potenza economica non può essere minimamente confrontata, dato il diverso grado di sviluppo. Se il processo di unificazione politica nella penisola indocinese può, in prospettiva, prefigurare un nuovo grande Stato asiatico di 100 milioni di abitanti una unificazione politica dell'Africa australe, oggi non possibile e che comunque non potrebbe essere opera che dell'espansionismo sudafricano, darebbe già oggi una media potenza tipo Messico.
Indubbiamente, se nell'Angola si dovesse scatenare un conflitto come fu per il Vietnam, la posta in gioco sarebbe più alta e le forze messe in atto ancora più consistenti Le possibilità di un massacro di questo genere, però, sono minori dato il diverso rapporto di forze e il diverso schieramento internazionale.
Possiamo individuare in Africa tre grandi aree di sviluppo capitalistico. La prima, il Nordafrica, ha circa un quinto della popolazione attiva del continente e ne produce circa il 20% del reddito. La seconda, la Nigeria, ha anch'essa una consistente popolazione, circa 70 milioni di abitanti, ha il 23% della popolazione attiva africana e meno del 10% del reddito. La terza, l'Africa australe, ha circa il 20% degli abitanti e d 25% della popolazione attiva ma produce più del 40% del reddito del continente.

In quest'area che, in sintesi rappresenta un quinto della popolazione si produce quasi la metà della ricchezza africana, perché vi è ammassato circa la metà del proletariato. Difatti rappresenta d 70% di tutta la produzione elettrica, il 90% di tutta la produzione di acciaio ed il 42% di tutto il commercio estero dell'Africa. Basta analizzare la composizione del Prodotto Interno Lordo di alcuni paesi: nello Zaire l'agricoltura concorre per il 22% alla formazione del P. I .L., l'industria manifatturiera per il 24%, l'industria estrattiva per il 10% nello Zambia, rispettivamente, per il 9,5%, il 13%, il 25%, inoltre per 1'8,5% l'industria delle costruzioni; nella Rhodesia, per il 10%, il 25%, il 10%, infine, nel Sud Africa per il 9% l'agricoltura, per il 21% l'industria manifatturiera, per il 9% quella estrattiva e per il 5% quella delle costruzioni.
Come si vede chiaramente, lo sviluppo capitalistico in quest'area vede e ormai l 'agricoltura a livelli che sono paragonabili a quelli dei paesi avanzati e, ciò che è più importante, pur essendo massiccia l'attività estrattivo-mineraria questa è ampiamente superata dall'attività manifatturiera. E' proprio lo sviluppo dell'industria manifatturiera ad indicare l'intenso processo di industrializzazione. Paesi come lo Zaire, lo Zambia, la Rhodesia ed il Sud Africa, che in media hanno un ritmo annuo del 7% di incremento del PNL, vedono lo sviluppo dell'industria manifatturiera marciare con una velocità doppia di quello dell'industria estrattiva.
Il peso fondamentale è quello del Sud Africa che da solo, con meno del 6% della popolazione del continente, ha il 60% della produzione elettrica, 1'85% della produzione di acciaio, il 23% dell'interscambio commerciale ed il 27% del reddito di tutta l'Africa.
Il Sud Africa ha attirato ingenti investimenti delle società multinazionali. Si valuta che solo l'Inghilterra in forma diretta e in forma indiretta vi abbia investito 8 miliardi di dollari. Comunque, se si calcolano solo gli investimenti esteri diretti in Africa si può valutare che più della metà siano destinati al Sud Africa, in particolare, e all'Africa australe, in generale. Deve essere sottolineato che, molto di più di quanto si ritenga, l'Africa è una zona tipica dell'investimento diretto degli imperialisti europei. L'imperialismo statunitense, mentre pesa nel Medio Oriente per il 57%, in Asia per d 35% e in America Latina per il 64%, in Africa ha una quota del solo 21% negli investimenti esteri diretti. La parte del leone la fanno il Regno Unito col 30%, la Francia con il 26%, Belgio con il 7% ed i Paesi Bassi con il 5%. La presenza massiccia dell'investimento imperialistico caratterizza il rapido sviluppo capitalistico del Sud Africa e dell'Africa australe. Non potendo più negare una realtà alcuni teorici "sottosviluppisti" sono ricorsi a nuove categorie concettuali. Il Sud Africa sarebbe un subimperialismo, cioè un capitalismo che si espande per conto degli imperialismi occidentali e dell'imperialismo statunitense, in particolare modo.
Altri teorici insoddisfatti della tesi del subimperialismo dipendente, affermano che il Sud Africa non è né dipendente né concorrente dell'imperialismo ma una parte della metropoli imperialistica che si è trasferita in Africa per gestirvi dinamicamente il sistema mondiale di sfruttamento.
Anche questa interpretazione è insufficiente. Gli Stati Uniti nell'Ottocento, furono una parte della metropoli imperialistica inglese solo perché ricevettero un ingente flusso di investimenti diretti e indiretti da Londra? Furono, forse, un subimperialismo, per conto dell'Inghilterra, quando si espansero verso il Pacifico a danno del Messico?
Con simili ideologie non si può vedere il reale processo di sviluppo dei giovani capitalismi. La diffusione del modo di produzione capitalistico attira, ad un certo stadio, l'investimento estero. In nessun modo il solo investimento estero può costituire l'insieme della produzione capitalistica; può avviarla, rompendo il precedente modo di produzione, può accelerarla, può influenzarla, ma mai sostituirla. Quindi l'investimento estero di per sé non può essere il fattore che caratterizza una economia anche se alla sua dinamica concorre.
Con il Sud Africa ci troviamo di fronte al caso di un intenso processo di accumulazione di capitale, con alti tassi di investimento o di riproduzione allargata, processo determinato dal basso costo della forza-lavoro, da un lato, e dalla formazione di un vasto mercato nell'area africana, dall'altro. Attirati dagli alti saggi di profitto i capitali internazionali si dirigono in quella zona e concorrono non solo a rafforzare una borghesia afrikaner, che tende a dilatarsi con l'inclusione di una borghesia nera, ma pure a farla maturare in senso imperialistico. Né di subimperialismo né di parte trasferita delle vecchie metropoli si tratta, ma della incipiente nascita di una nuova metropoli
Sta' proprio a dimostrarlo il caso delle colonie portoghesi le quali di fatto, da alcuni anni dipendevano dal Portogallo solo formalmente. In pratica il Portogallo le aveva già perse da almeno dieci anni cioè da quando aveva dovuto abbandonare quelle barriere protezionistiche che costituivano il vantaggio della metropoli colonialistica. Sia in Angola che nel Mozambico, nel tentativo di contenere ,il Sud Africa il' colonialismo portoghese era già stato sconfitto.
Dal 1966, iniziava in Angola il controllo del settore diamantifico con la DIAMANC, una società a capitale sudafricano, inglese, americano e belga; il controllo del petrolio era della Petrofina belga, della Gulf statunitense e della CFP francese; il controllo del minerale di ferro era della Krupp tedesca e della Bethlehem Steel americani. Nel 1969, il Sudafrica iniziava il complesso idroelettrico di Kumene per fornire energia al bacino minerario di Tsumeb, uno dei più grandi del mondo.
Nel Mozambico, nel 1971, l'apporto del Sudafrica al P.I.L. veniva valutato al 42%. Le società straniere presenti, escluse quelle portoghesi, erano 120, di 14 paesi, di cui 32 sudafricane, 24 statunitensi 20 francesi 16 inglesi e persino 3 italiane.
Il governo sudafricano dichiara che l'economia del Mozambico dipende all'80% dal Sud Africa. Ciò è evidente nei trasporti, nell'intercambio, nell'energia, nel turismo e nella forza-lavoro.
A differenza dei suoi confinanti, il Mozambico ha il P.I.L. che deriva per il 40% dall'agricoltura e solo per il 14% dall'industriali. Fornisce, perciò, forza-lavoro per le miniere sudafricane.
In questa situazione oggettiva si determina un processo che apparentemente è paradossale.
La debolezza dell'ultimo imperialismo coloniale, combinato con la forza relativa della sua borghesia "piedi neri' ha trascinato sino alla patologia l'ultima consistente parte di una questione coloniale che, nel complesso, per noi marxisti si era già chiusa negli anni '60.
Nel rapporto tra il Portogallo e il Mozambico-Angola due potevano essere le soluzioni: una via afrikaner di sviluppo capitalistico ed una via autonoma. Nel primo caso: la borghesia "piedi neri' con base di massa piccolo-borghese, avvia un processo di accumulazione con investimento nell'agricoltura, nelle materie prime, nel petrolio, sfruttando la forza-lavoro indigena. Ciò attira gli investimenti multinazionali, si forma uno Stato autonomo di tipo sudafricano e rhodesiano, non si crea una eccedenza di "piedi neri"e i riflessi su Lisbona sono minori.
Nel secondo caso: la borghesia nera in formazione, con base di massa contadina, ha la forza di creare uno Stato autonomo e di avviare una accumulazione sfruttando la forza-lavoro indigena. Si crea una eccedenza di "piedi neri" e i riflessi nella metropoli sono forti La metropoli forte li assorbe, come ha fatto la Francia con l'Algeria; la metropoli debole, come il Portogallo, entra in crisi
In Angola non si è determinata nessuna di queste due vie, per debolezza della borghesia "piedi neri" che non è riuscita a diventare afrikaner e per debolezza della borghesia nazionale. La metropoli portoghese debole e, quindi incapace di assorbire l'effetto di una eccedenza di "piedi neri" (che, del resto, non si determinava per la debolezza della borghesia nazionale angolana) ha trascinato una guerra coloniale per tentare di formare uno Stato afrikaner senza capitali. Data l'impossibilità di insediare, su di un fondo costituito dalle materie prime, i "piedi neri" con i loro investimenti autonomi e data l'impossibilità di insediarli con un investimento metropolitano, Lisbona ha tentato con la decolonizzazione di creare uno Stato afrikaner con capitali multinazionali e con il solo diritto alla rendita sulle materie prime.
Dal fallimento di questo tentativo nasce la tragica contesa tra vecchi e nuovi imperialisti che insanguina le strade dell'Angola.

("Lotta Comunista" n.62, ott. 1975)

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I nuovi rapporti delle potenze in Asia

La nuova politica asiatica degli Stati Uniti
Lotta tra le frazioni giapponesi
Scontro tra i colossi mondiali
La nostra analisi degli anni '60
L 'emergere dell'imperialismo giapponese e il ruolo della Cina
La Cina prende l'iniziativa
Le carte di Tokio

Con la crisi di ristrutturazione si sono modificati i pesi specifici delle principali metropoli imperialistiche. Ovviamente ciò non si è verificato all'improvviso, ma è maturato negli anni precedenti. Improvvisa e repentina è stata, invece, la decantazione di tutta una serie di elementi che si erano andati accumulando nel grande recipiente della politica mondiale e dentro il quale da tempo si andavano agitando confusamente. Come avviene, poi, in ogni combinazione chimica sarà un elemento a determinare una decantazione non graduale ma rapida come è nel processo dialettico naturale.
Il mondo imperialistico attraversa questo momento di verifica. Le sue componenti più forti stanno emergendo con chiarezza mettendo ancor più in rilievo la debolezza di quelle che non reggono alla prova.
Se è vero che le reali forze imperialistiche si vanno delineando con maggiore precisione diventa inevitabile che si vadano pure precisando i campi dove si confrontano e si definiscono i rispettivi rapporti di forza, dove infine si disegna un sistema di rapporti di potenze.
In Europa, l'ideologia da decenni presenta il mondo suddiviso tra le due superpotenze americana e russa. Niente di più falso. E' vero che la egemonia USA e URSS è determinante per l'assetto europeo ma non e` vero che lo sia per il mondo e ancor meno vero è che lo sia per quella parte del mondo che e` l'Asia.
Questo continente ha più della metà della popolazione mondiale. In esso si sono confrontati ieri, si confrontano oggi, si confronteranno domani i reali rapporti di forza tra le potenze imperialistiche. In esso vengono proiettate, e ancor più lo saranno domani, le maggiori energie dell'imperialismo. E l'Asia non è mai stata suddivisa tra le due superpotenze, non lo è oggi, non lo sarà domani. Non è un caso che la terza potenza mondiale, il Giappone, sia una potenza asiatica. Non è un caso che, negli ultimi anni, questa realtà sia emersa prepotentemente.
Il dibattito sulla distensione in corso in Europa e in America mostra tutto il suo risvolto propagandistico proprio quando ignora che il campo principale dei nuovi rapporti tra le potenze è in Asia più che altrove. Inevitabilmente, gli spostamenti e le oscillazioni del campo di forze asiatico si riflettono sul campo europeo. Se la nostra valutazione e` esatta questi riflessi sono destinati ad intensificarsi nel futuro con conseguenze marcate, specie sulla Germania che avrà ancor più possibilità di manifestare il suo ruolo di quarta potenza mondiale. E' significativo, ad esempio, che in Europa si presenti l'immagine di una potenza sovietica in forte espansione. In realtà, negli ultimi due anni l'espansione russa in Asia è bloccata dalla convergenza tra USA, Giappone e Cina. E' aperto in Asia un gioco quadripolare di incalcolabile portata.
La nuova politica asiatica degli Stati Uniti
Nel dicembre 1975, dopo il viaggio in Cina, Ford, ad Honolulu, con la "Nuova dottrina del Pacifico'' ha definito, anche in termini diplomatici, la nuova posizione del governo degli Stati Uniti nell'area del Pacifico. Essa si incentra su: -Mantenimento di una posizione di forza degli USA nel Pacifico;
-Rapporti privilegiati con il Giappone, elevato a partner regionale;
-Più forti legami con la Cina e concorde opposizione ad ogni egemonia in Asia;
-Continuazione da parte degli Stati Uniti di un ruolo nel Sud Est;
- Difesa della Corea del Sud;
-Cooperazione economica con le potenze del Pacifico.
Essa è nuova rispetto alla dottrina di Guam di Nixon che, dopo il Viet-Nam, era incentrata invece sul disimpegno progressivo degli Stati Uniti dal Sud-Est asiatico.
Ora il ritiro è arrestato, ma la nuova dottrina comporta il riconoscimento che gli USA non hanno la possibilità di dirigere da soli il gioco asiatico. Hanno bisogno di Cina e Giappone.
Questa impostazione della politica imperialista degli Stati Uniti si configura in pratica come una strategia di contenimento di ogni tentativo di espansione URSS in Asia. Nello stesso tempo, ponendo l'obiettivo comune al Giappone di contenere l'URSS, gli USA si pongono nella condizione oggettiva di potere contenere il Giappone stesso, e in ciò recepiscono l'istanza della Cina e la riutilizzano ai propri fini.
Lotta tra le frazioni giapponesi
Contemporaneamente, a Tokio, si sta svolgendo tra le frazioni giapponesi una lotta per la definizione della strategia asiatica, così acuta e con contrasti che, secondo Robert Guillain, "ricordano quelli degli anni 1939-40".
Frazioni più aperte ad un atteggiamento "morbido" nei confronti dell'URSS, interessate all'estensione dei rapporti politici e commerciali con questa potenza, almeno per metà asiatica, si scontrano con frazioni più propense alla collaborazione con la Cina, e interessate al contenimento della penetrazione sovietica.
L'URSS, da parte sua, interviene pesantemente nel Pacifico, e minaccia ritorsioni sul Giappone, se esso sceglierà la posizione filo-cinese.
Scontro tra i colossi mondiali
Lo scontro, quindi, è grande, e coinvolge, nell'area del Pacifico, gli interessi delle prime tre potenze imperialiste mondiali - Stati Uniti, URSS, Giappone- e la più grande delle giovani potenze capitalistiche, la Cina, inferiore certamente agli altri colossi, ma che concentra tutto il suo peso nello scacchiere asiatico.
La scena è dunque data dallo scontro colossale di interessi delle massime potenze mondiali, ulteriormente movimentato dall'aperta entrata in lizza, anche sul terreno politico e diplomatico, del Giappone, che riprende così un ruolo attivo e indipendente e non più dal solo punto di vista economico. Si impone perciò un'analisi in termini marxisti della questione, per le conseguenze che questi nuovi movimenti hanno ed avranno sul corso delle lotte di classe nell'arena mondiale.
Questa analisi la facciamo sulla scorta della elaborazione, svolta in questi anni dalla nostra organizzazione e confermata dai fatti nei suoi cardini.
La nostra analisi degli anni '60
Negli anni '60 noi sostenemmo due tesi:
1) Gli USA in Viet-Nam combattevano una guerra di ritirata dall'Asia, contro l'espansione dell'URSS, ma soprattutto contro la ripresa del Giappone. Essi cercavano di mantenere una posizione egemonica conquistata con la sconfitta giapponese nella seconda guerra mondiale, di fronte alle potenze europee in declino e alla potenza russa troppo debole per poter essere una concorrente pericolosa. Un ritiro americano dall'Indocina avrebbe, inevitabilmente, avvantaggiato il Giappone, più che l'URSS (la cui tendenza - India, Indonesia, etc.... - era rivolta soprattutto ad accerchiare la Cina).
2) La Cina avrebbe socialimperialisticamente non capeggiato il terzo mondo ma - utilizzato i contrasto tra URSS e USA - appoggiato l'Europa ed il Giappone.
Basavamo queste nostre tesi su di una analisi dei rapporti effettivi di forza, e questo contro tutte le ideologie che, allora come oggi, mistificavano i reali rapporti.
Denunciando, tra il silenzio di tutti gli opportunisti di Occidente e di Oriente, il massacro compiuto da Suharto di centinaia di migliaia di lavoratori in Indonesia, individuavamo nella lotta tra le principali potenze imperialistiche, e in particolare tra gli Stati Uniti ed il Giappone, una delle ragioni dei repentini cambiamenti di indirizzo della feroce borghesia indonesiana.
Affermavamo, allora, contro la tesi dell'assoluto predominio statunitense, che il Giappone stava ricostituendo, a ritmi più veloci di tutti gli altri paesi imperialisti, la propria forza economica e la propria potenza, e che questo era l'elemento più dinamico di modificazione dei rapporti nel Pacifico.
Così come analizzando, sulla scorta della profonda visione strategica di Lenin, lo sviluppo del capitalismo in Cina, affermavamo che: "il conflitto Cino-Sovietico è un conflitto tra una potenza imperialistica ed un giovane capitalismo emergente", individuando nello sviluppo del capitalismo cinese un oggettivo fattore di contrasto con l'espansionismo sovietico, che avrebbe aperto il gioco all'imperialismo giapponese.
L'analisi che facemmo della guerra del Viet-Nam, il particolare rilievo posto ai due fattori principali di modificazione del quadro del Sud-Est, e cioè l'aumento del peso giapponese, ed il ruolo dirompente dello sviluppo di giovani potenze capitalistiche, seguivano questa fondamentale linea di analisi.
I recenti avvenimenti e le recenti prese di posizione confermano in pieno il nodo centrale di queste tesi, in particolare la prima, e cioè il necessario crescente ruolo dell'imperialismo giapponese.
L 'emergere dell'imperialismo giapponese e il ruolo della Cina
La seconda nostra tesi che definiva nello specifico il ruolo della Cina, conteneva un giusto giudizio e cioè la debole potenza economica della Cina, ma non poteva trarre ancora tutte le conseguenze della giustezza della prima tesi.
Infatti, partiva dal peso oggettivo della Cina stessa inserito nel quadro asiatico.
Con lo sviluppo del Giappone, la Cina, oggettivamente, non poteva rimanere nel ruolo marginale di semplice supporto ideologico socialimperialistico.
Nella misura in cui il Giappone svolgeva un forte ruolo attivo anche la Cina era destinata a diventare un punto di un gioco diventato ormai quadripolare.
Infatti, il rapporto di forza tra le potenze è dato non solo dalla singola potenza economica, ma dal sistema dei rapporti che si viene a determinare, cioè a combinare.
In Asia questo sistema veniva a combinarsi addirittura con la prima, la seconda e la terza potenza mondiale.
Non pensammo quindi che gli USA accettassero il gioco cinese solo per giocare sul contrasto URSS - Cina (come sostenevano tutti i teorici superficiali del tripolarismo).
Basandosi esclusivamente sulla forza economica non si poteva vedere, subito, quale peso indotto nel quadripolarismo veniva ad assumere la Cina, peso che, senz'altro, è il minore del quadrilatero ma che, essendo concentrato esclusivamente nel campo specifico del gioco in Asia diventa notevole.
La Cina prende l'iniziativa
In questo modo la Cina poteva porsi come iniziatrice e artefice della politica di contenimento dell'URSS, tentando un'alleanza "antiegemonica", cioè anti-URSS, che avesse come pilastri gli USA, in primo luogo, ed il Giappone.
La dottrina Ford del Pacifico, è stata valutata dai cinesi come sanzione della prima parte di questa strategia.
Le carte di Tokio
Più difficile per essi è ottenerne il completamento con una netta presa di posizione "antiegemonica" da parte del Giappone.
L'accettazione di questa strategia ingabbierebbe infatti il Giappone in un gioco obbligato, impedendogli le iniziative molteplici che invece sta prendendo nei confronti di tutto il continente asiatico.
La non definizione netta della politica estera giapponese sta proprio a significare la non volontà di scelta tra le molte direttrici di sviluppo dell'espansionismo nipponico.
Dai prestiti al Viet-Nam del Nord, all'incremento rapidissimo del commercio con la Cina, che ha raggiunto, lo scorso anno, i tre miliardi di dollari, alle crescenti importazioni di petrolio cinese, ai permanenti legami con Formosa, alle aperture pendolari alle due Coree, alle vendite di centrali nucleari per miliardi di dollari all'URSS, l'imperialismo giapponese sviluppa, e tiene a mantenere aperte, tutte le direttrici possibili della propria espansione.
Non si lascia chiudere per ora, - ed in questo senso la nuova dottrina di Ford è una dottrina di contenimento per il Giappone - in alleanze troppo strette. Può così contrattare e farsi riconoscere un peso politico corrispondente all'enorme forza economica.
Le conseguenze in Europa e nel resto del mondo di una qualsiasi delle mosse fatte nella partita del Pacifico, sono di portata enorme, e di questo sono consci i grandi gruppi imperialisti occidentali . Di questo deve però esserne cosciente il proletariato per sviluppare, sulle contraddizioni crescenti dei predoni imperialisti, l'internazionalismo proletario e la strategia rivoluzionaria.
Il gioco delle potenze in Asia, come si è visto, diventa complesso e molteplice. I presupposti che lo hanno permesso e che ne assicurano la continuità rappresentano anche la possibilità di molteplici e svariate soluzioni temporanee.
Di fronte a questa nuova situazione le vecchie e stereotipate spiegazioni ideologiche oltre a spiegare un bel niente aggiungono confusione a confusione. Ciò che sta avvenendo in Asia non può essere spiegato solo con il contrasto cino-sovietico o, in sottordine, con la manovra americana di utilizzo di tale contrasto.
Esso richiede, più che mai, l'analisi concreta della scienza marxista della politica internazionale.
Di fronte ad un mondo sempre più agitato ed immenso solo il marxismo, che lo può comprendere, reclama il suo ruolo.
Al partito leninista, quindi, il compito di educare il proletariato al marxismo, scienza del passato, del presente e dell'avvenire.
("Lotta Comunista" n.67, mar. 1976)

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Ultima modifica 11.09.2001