[ Archivio di Cervetto ]

L'involucro politico

Capitolo quarto

IL CONTENUTO ECONOMICO DELL'INVOLUCRO DEMOCRATICO

La democrazia imperialista
Il tratto caratteristico dello Stato
Contenuto economico e forma democratica
Strategia e tattica sulla forma democratica
Tre aspetti del "problema democratico"
La lotta fondamentale per il partito

La democrazia imperialista

Nella sua opera sull'imperialismo, Lenin prende in esame il "sistema della partecipazione". Occorre spiegare di cosa si tratta. In Germania la legge non permetteva, allora, azioni al di sotto di mille marchi e in Inghilterra, invece, erano legalmente ammesse azioni da una sterlina. Le società per azioni da una sterlina permisero, di conseguenza, il "sistema di partecipazione", ossia "la democratizzazione del possesso di azioni" dalla quale "i sofisti borghesi e gli opportunisti" si ripromettono "la democratizzazione del capitale".

Lenin cita Siemens, uno dei maggiori industriali e finanzieri tedeschi, per il quale l'azione da una sterlina era "la base dell'imperialismo britannico" e dice che "questo mercante sembra possedere sulla natura dell'imperialismo una concezione più profondamente marxista" dell'opportunista Plechanov "il quale tuttavia crede che l'imperialismo sia soltanto la cattiva particolarità d'un certo popolo".

Non a caso Siemens invidiava la inglese azione da una sterlina perché, come dimostra Lenin, il "sistema della partecipazione" "serve ad accrescere enormemente la potenza dei monopolisti" e la loro possibilità di manipolazione negli affari più loschi.

Già Marx aveva analizzato la tendenza alla società per azioni nello sviluppo del capitalismo ed individuato nel decentramento del possesso la forma, apparentemente contraddittoria, del reale processo di concentrazione del capitale. Solo la parcellizzazione del diritto di proprietà dei mezzi di produzione, sotto la forma dell'azione corrispondente alla più ridotta frazione monetaria, poteva facilitare la centralizzazione dei mezzi di produzione nella impresa. Senza questo nuovo rapporto tra proprietà ed impresa lo sviluppo delle ferrovie, ad esempio, sarebbe stato molto più lento.

Con la maturità imperialistica del capitalismo il "sistema della partecipazione" e della "democratizzazione del possesso di azioni" raggiunge l'apice perché la parcellizzazione del diritto di proprietà diviene la condizione del massimo accentramento del potere economico. Solo a questa condizione la grande impresa può sorgere ed avere un forte potere economico e, di conseguenza, politico. La banca, che raccoglie infinite quote di capitale sotto forma di denaro, ne è la più chiara dimostrazione. Milioni di banconote danno ai milioni di singoli possessori il solo potere economico di limitata e circoscritta capacità di acquisto; centralizzate in una banca danno ai detentori di questa un potere economico enorme che non è diminuito, anzi è accresciuto, dal persistente diritto di proprietà sul singolo denaro dei singoli depositanti.

Il potere politico segue la stessa evoluzione del potere economico perché ne è l'espressione. Anche le forme seguono l'evoluzione del contenuto e all'azione da mille marchi segue una forma politica corrispondente così come all'azione da una sterlina segue una forma politica altrettanto corrispondente.

Non vi può essere un potere economico da una sterlina senza un potere politico da una sterlina: alla "democratizzazione del possesso" corrisponde la "democratizzazione del potere politico", al "sistema della partecipazione" azionaria corrisponde il "sistema della partecipazione" politica. Al voto per ogni azione da mille marchi subentra il voto per ogni azione da una sterlina e la partecipazione al voto azionario da ristretta diventa allargata, da oligarchica diventa democratica, ossia formalmente egualitaria. Ad ogni azione un voto azionario.

La formula democratica diventa in politica: ad ogni testa un voto. Non può essere altrimenti: se ogni testa può diventare un voto azionario da una sterlina a maggior ragione deve essere già un voto politico che oggettivamente vale, però, meno di una sterlina. Il diritto politico deve forzatamente adeguarsi all'evoluzione del diritto borghese di proprietà, e meglio si adegua e più diventa democratico. Diventa il migliore involucro del contenuto. Tanto più che il "sistema della partecipazione" politica serve ad accrescere la "potenza dei monopolisti" della politica.

Avviene ciò che precedentemente si è verificato per il potere economico: solo la parcellizzazione del diritto di potere politico, sotto la forma del voto individuale ed universale, può facilitare la centralizzazione del potere politico poiché la stessa parcellizzazione del diritto del potere politico esclude di per sé la detenzione del potere politico stesso così come la parcellizzazione del diritto di proprietà azionario esclude di per sé la detenzione effettiva dei mezzi di produzione. La parcellizzazione del diritto di proprietà e del diritto di potere politico, in definitiva, non sono altro che l'espressione giuridica del processo storico che ha visto l'alienazione dei mezzi di produzione e del corrispondente potere politico ad opera della concentrazione economica e del corrispondente centralismo politico.

Alla democrazia diretta dei piccoli produttori, che detengono non solo il diritto di possesso ma il possesso stesso dei mezzi di produzione e detengono perciò il potere politico corrispondente alla loro potenza economica, subentra la democrazia imperialista, espressione della centralizzazione del capitale, della concentrazione dei mezzi di produzione e del centralismo del potere politico.

La concorrenza si scatena ancora più aspra tra le grandi imprese, frutto della centralizzazione del capitale e della concentrazione dei mezzi di produzione: ecco la ragione fondamentale per la quale il centralismo politico non è la sede di una sovrastruttura totalitaria ma il campo d'azione della più acuta competizione politica.

Bucharin immaginava che la concentrazione economica ed il corrispondente centralismo politico si fondessero in un unico trust capitalistico-statale, ossia in uno Stato imperialistico che assommava il massimo di potenza economica e di potere politico da scaricare contro analoghi Stati imperialistici concorrenti. In realtà non è così. La centralizzazione del capitale e la concentrazione dei mezzi di produzione dà luogo ad una pluralità di grandi imprese in concorrenza e tale concorrenza dà luogo, a livello sovrastrutturale, a un pluralismo politico. Ma questo pluralismo politico non è la democrazia diretta dei piccoli produttori bensì la democrazia imperialistica dei grandi produttori, di alcune centinaia di grandi imprese altamente concentrate.

La democrazia imperialista è, da un lato, il centralismo di pochi grandi gruppi economici e, dall'altro, il pluralismo delle loro volontà politiche condizionate dalla dinamica dei loro interessi. La democrazia imperialista è, in definitiva, il centralismo politico pluralistico del grande capitale. Essa è il migliore involucro politico della lunga e molteplice lotta di concentrazione. Così come ogni grande gruppo tende, in questa lotta, ad estendere le azioni da una sterlina, sul terreno politico altrettanto tende ad estendere i voti che può, tramite le correnti politiche, influenzare ed utilizzare. Azioni, debitamente concentrate, e voti, debitamente centralizzati, contano, infine nella bilancia dei rapporti reciproci tra i grandi gruppi capitalistici.

Ciò spiega perché la consultazione elettorale, che apparentemente dovrebbe essere il momento del primato della politica sul quale si esprimono contemporaneamente milioni di "volontà individuali", finisce con l'essere sempre proprio il suo contrario: il risultato della determinazione da parte della economia.

La concezione materialistica della politica permette di avere la consapevolezza di questo fenomeno sociale, la scienza marxista permette di avere gli strumenti teorici per analizzarlo, l'astensionismo strategico assicura l'orientamento politico per combatterlo.

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Il tratto caratteristico dello Stato

La concezione soggettivistica della politica, per sua natura, è incapace di conoscere il movimento reale di una società divisa in classi. La concezione democratica ne è un chiaro esempio. Essa ha un'idea della società che vuole imporre alla società stessa e, se l'idea potesse costituire la dittatura, quella dell'idea democratica sarebbe la totalitaria per eccellenza, dato che dominerebbe il cervello, ossia il centro motore nervoso di ogni energia umana e, quindi, della forza-lavoro.

è quello che hanno creduto i critici della presunta "democrazia totalitaria" che affonderebbe le radici nella "sovranità popolare" di Rousseau. Da buoni soggettivisti di scuola democratica e liberal-democratica, questi critici hanno creduto anch'essi alla possibilità della dittatura dell'idea.

In realtà, la dittatura affonda le sue radici nel dominio effettivo dell'economia e non in quello impossibile dell'idea.

è da questi rapporti sociali che bisogna partire per arrivare a comprendere i rapporti politici. Il potere politico risiede nel potere economico.

La teoria politica del marxismo si basa su questo concetto fondamentale, il quale può sembrare semplicistico solo a chi non sa che ogni scoperta scientifica, proprio perché ha analizzato il complesso, è sintetizzabile nella più semplice e chiara formula. Nell'attacco al marxismo, ossia alla concezione materialistica della politica, un ritornello si ripete da quasi un secolo: il marxismo manca di una teoria politica, il marxismo manca di una teoria dello Stato o delle istituzioni statali, il marxismo è solo teoria economica.

Già nella critica del 1894 ai populisti russi, Lenin definisce metafisico questo modo di affrontare la questione della politica, dello Stato, della sovrastruttura: "Dove prendereste voi il concetto di società e di progresso in generale, se non avete ancora studiato neppure una formazione sociale in particolare, se non avete neppure saputo stabilire questo concetto, se non avete neppure saputo intraprendere un serio studio dei fatti, un'analisi obiettiva di uno qualunque dei rapporti sociali?" Per Lenin, quando non si riesce a intraprendere lo studio dei fatti, si inventano a priori teorie generali. Sono metafisica quei "ragionamenti aprioristici intorno alla natura della società": "invece di studiare e spiegare, tali metodi gabellano soltanto, come concezione della società, le idee borghesi di un mercante inglese o gli ideali del socialismo piccolo-borghese di un democratico russo, e niente di più". "In questo campo il gigantesco passo avanti compiuto da Marx è consistito appunto nell'aver rigettato tutti questi ragionamenti intorno alla società e al progresso in generale e nell'aver dato invece l'analisi scientifica di una società e di un progresso: della società e del progresso capitalistici".

La concezione democratica è, in fondo e in questo senso, un ragionamento aprioristico e metafisico. Non studia i fatti, non analizza la formazione economico-sociale della attuale fase storica imperialistica, non indaga su uno qualunque dei rapporti sociali concreti che possa permettere di giungere, attraverso il metodo scientifico, alla definizione della politica, delle istituzioni, dello Stato e al loro ruolo effettivo nella realtà presente.

Essa è un'idea della politica alla quale si devono adattare i fatti. Se questi, come sempre, non si adattano, peggio per loro, perché la loro sorte sarà quella di essere cancellati o riverniciati con i colori graditi all'idea.

La teoria marxista di Lenin sulla politica e lo Stato è un fatto, eppure non è sfuggita alla sorte. Alcuni hanno detto che non esiste, altri che viene alla luce soltanto nel 1917 con "Stato e rivoluzione". Tra la fine del 1894 e l'inizio del 1895, Lenin scrive una critica a Struve che sarà pubblicata nell'aprile dello stesso anno.

Struve, allora marxista legale e in seguito fondatore e capo del partito liberale russo, critica Marx e i suoi seguaci perché "hanno esagerato" "andando troppo oltre nella critica dello Stato moderno". Perché, secondo Struve, Marx ha esagerato nella critica dello Stato moderno? Perché "lo Stato è prima di tutto organizzazione dell'ordine; esso è dunque organizzazione del dominio (di classe) in una società in cui la subordinazione di alcuni gruppi agli altri dipende dalla sua struttura economica".

Per Struve, quindi, il tratto caratteristico dello Stato è il potere coercitivo. Egli accetta la teoria marxista sullo Stato come strumento del dominio di una classe su di un'altra ma, nel contempo, la deforma concependo questo strumento come una organizzazione dell'ordine e facendo del potere coercitivo il tratto caratteristico dello Stato. Spunta, a ben guardare, la concezione soggettivistica della politica, la concezione del liberale e del democratico.

Se il carattere fondamentale dello Stato fosse il potere coercitivo per organizzare l'ordine della classe dominante sulla classe economicamente subordinata, un ordine nell'economia, una democratizzazione nei rapporti sociali e economici, una minore tensione nello scontro tra borghesia e proletariato, una "democrazia industriale" alla fabiana, finirebbe col ridurre il ruolo dello Stato e, in definitiva, col ridurre il suo potere coercitivo. Questo non lo dice ancora Struve ma a questo giungerà nel suo itinerario.

Indubbiamente il pensiero liberale e democratico, nella transizione marxista legale in Russia con Struve e in quella revisionista in Germania con Bernstein, ha una logica formale che l'imputridimento imperialistico ha negato agli epigoni del nostro tempo, bugiardi, ignoranti e rozzi. Con essi il marxismo si è confrontato, affinando le sue armi, chiudendo per sempre il grande dibattito teorico sullo Stato moderno e la democrazia.

Il tratto caratteristico dello Stato, risponde Lenin, non è il potere coercitivo: "il potere coercitivo esiste in qualsiasi convivenza umana, nel sistema gentilizio come nella famiglia, ma là lo Stato non c'era". Uno dei caratteri distintivi essenziali dello Stato, dice Lenin citando Engels, "Consiste in un potere pubblico distinto dalla massa del popolo". E conclude con una formula di una chiarezza cristallina che dimostra come nel giovanissimo teorico rivoluzionario vi sia già il Lenin della maturità: "Dunque la caratteristica dello Stato è l'esistenza di una particolare classe di persone nelle cui mani si concentra il potere".

Più il potere si concentra nelle mani di una classe e più esso è distinto, tramite lo strato particolare burocratico, dalla massa del popolo. Non è la burocrazia a concentrare il potere nelle mani della borghesia: essa è solo lo strumento particolare di un processo di concentrazione del potere politico che deriva dal processo di concentrazione economica. La coercizione è nei rapporti sociali: è una coercizione oggettiva determinata dall'azione delle leggi economiche che regolano il mercato capitalistico.

La coercizione del potere politico non è il carattere fondamentale dello Stato perché, in quanto sovrastruttura, esso rispecchia nel processo di concentrazione del potere il processo della concentrazione economica. Non vi può essere concentrazione economica che non porti ad una centralizzazione del potere politico. La pluralità di centri di concentrazione economica che dà luogo ad un pluralismo di poteri politici non attenua la distinzione tra il potere pubblico e la massa del popolo; anzi, la esaspera.

La democrazia della fase imperialistica è, in definitiva, la massima espressione politica della concentrazione economica. Essa mette in risalto il carattere fondamentale dello Stato moderno: la centralizzazione del potere politico.

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Il contenuto economico e forma democratica

Nella storia del movimento rivoluzionario del proletariato si è sempre posta la questione delle forme politiche del dominio borghese e dell'atteggiamento di classe di fronte ad esse. Il primo ostacolo che si è dovuto superare è stato quello dell'indifferenza politica.

Soltanto quando lo si è superato si è potuti uscire dal primitivismo corporativo e dal settarismo. Ma anche questo superamento non è stato sufficiente ad evitare altri atteggiamenti erronei quali il blanquismo e il lassallismo che, a loro modo, affrontavano la questione delle forme politiche e dello Stato: il primo con la cospirazione e l'insurrezione militare, minoritaria, staccata dal movimento reale del proletariato, il secondo con l'utilizzo dello scontro tra Stato prussiano e la democrazia liberale.

Se il lassallismo è un atteggiamento che inizia a porsi strategicamente i termini della questione delle forme politiche in quanto forme derivate dalle lotte di frazione della classe dominante in Germania, esso finisce con il porseli in senso capovolto al corso storico. In cambio delle concessioni bismarckiane al proletariato, porta il movimento operaio ad appoggiare l'interventismo statale contro la borghesia industriale. L'esperienza storica dimostra che non basta al proletariato superare l'indifferenza politica se non collega l'evoluzione delle forme politiche alla reale dinamica delle forze produttive e dei rapporti sociali di produzione.

Il marxismo riesce a far compiere al movimento rivoluzionario un salto di qualità perché imposta scientificamente l'analisi che permette un atteggiamento corretto del proletariato di fronte alle forme politiche dello Stato. L'atteggiamento del proletariato è così liberato da ogni falsa questione di principio in un senso o nell'altro in quanto, per il marxismo, ogni forma politica deve essere definita scientificamente non per quello che rappresenta in assoluto ma per quello che rappresenta in un determinato momento storico e in una determinata situazione complessiva.

La forma politica non può essere una questione di principio per il proletariato, unica classe conseguentemente rivoluzionaria destinata a fondare la società senza classi della amministrazione del prodotto sociale e del superamento della politica; questione di principio è solo quella di giudicare scientificamente la forma politica e di assumere un atteggiamento pratico conseguente al giudizio scientificamente espresso.

Ne deriva che l'appoggio o l'utilizzo della forma democratica non costituiscono, e non possono costituire, una questione di principio per il marxismo: così vale anche per l'autodeterminazione nazionale, la quale spesso si presenta come rivendicazione democratica. Elevare queste forme a questioni di principio, per il proletariato significa annullare i fondamenti stessi del marxismo e regredire dalla conquista storica e scientifica della concezione materialistica della politica al pregiudizio ideologico e al soggettivismo.

Marx, Engels, Lenin lo dicono apertamente attaccando il cosiddetto "socialismo volgare". Nella critica del 1897 al "romanticismo economico", Lenin cita, anche se indirettamente per ragioni di censura zarista, il seguente passo di Marx della "Critica al programma di Gotha": "Il socialismo volgare ha preso dagli economisti borghesi (e, a sua volta, una parte della democrazia l'ha ripresa dal socialismo volgare) l'abitudine di considerare e trattare la distribuzione come indipendente dal modo di produzione... Dopo che il rapporto reale è stato da molto tempo messo in chiaro, perché ritornare nuovamente indietro?".

Commenta Lenin: "Ma se consideriamo coerentemente la "produzione" come l'insieme dei rapporti sociali di produzione, la "distribuzione" e il "consumo" perdono ogni significato autonomo. Una volta chiariti i rapporti di produzione si chiarisce automaticamente anche tutto ciò che riguarda la parte di prodotto che spetta alle diverse classi e quindi la "distribuzione" e il "consumo"".

è da tenere presente la affermazione di Lenin, per la quale chiarire i rapporti di produzione significa chiarire automaticamente la distribuzione e il consumo tra le diverse classi, perché ad essa si collega la questione delle forme politiche corrispondenti ai rapporti di produzione e, automaticamente, ai rapporti di distribuzione del prodotto tra le classi. A meno che non si voglia proprio ritornare indietro al "socialismo volgare" e alla corrente democratica che un tale automatismo continua negare. Eppure ricorrente è la riproposizione della distribuzione come indipendente dal modo di produrre e non solo nelle correnti piccole borghesi ma, addirittura, in correnti di pensiero come quella di Trotsky.

L'esempio classico è la teoria di Trotsky sulla natura sociale dell'URSS vista come "Stato operaio degenerato" nel quale i rapporti di produzione sarebbero socialisti e quelli di distribuzione borghesi. Ricorrente diventa, quindi, la riproposizione della forma politica democratica come forma completamente avulsa dal modo di produzione e dalla conseguente distribuzione del prodotto tra le classi. Molto spesso la riproposizione della forma democratica viene indicata come possibilità di lottare per un tipo di distribuzione diverso da quello che deriva automaticamente dal modo di produzione.

In polemica con Kautsky, Lenin afferma che non esiste una democrazia in astratto. Esiste una democrazia che è corrispondente al modo di produzione e di distribuzione in un determinato momento storico dello sviluppo e, siccome lo sviluppo o non è lineare ma diseguale e contraddittorio, la sovrastruttura sarà espressa in una combinazione multiforme di "capitale democratico" e di "capitale ottobrista", per usare ancora una volta la terminologia di Lenin.

Soffermarsi sulle componenti singole della combinazione multiforme diventa secondario di fronte al compito di analizzare e definire i tratti caratteristici del modo di produzione e di distribuzione in una determinata fase di sviluppo. Non è indifferentismo politico ma esigenza primaria di superare proprio quelle indifferenziate apparenze con le quali la forma politica, ad esempio democratica, si presenta indipendentemente dalle fasi dello sviluppo economico e sociale.

L'atto caratteristico dello Stato moderno è la separazione del potere pubblico dalla massa del popolo e la sua concentrazione. Ciò avviene in qualsiasi combinazione multiforme di potere politico e in qualsiasi fase di sviluppo della società capitalista.

Se ci si ferma a questa constatazione si ricade nell'indifferentismo politico poiché, per quanto riguarda separazione e concentrazione del potere politico, democrazia e fascismo non differiscono. Bordiga, che assolutizza la tendenza al centralismo politico, poteva ben dire che la democrazia era la continuazione del fascismo. Ma, in questo modo, ci si ferma alla soglia di un ulteriore esame delle combinazioni multiformi di potere politico che caratterizzano il fascismo e la democrazia in quanto risultati dei rapporti politici tra le classi e le frazioni di classi.

In questo modo ci si ferma ad un indifferentismo politico della fase imperialista. Invece sono proprio il fascismo e la democrazia della fase imperialista che richiedono di essere definiti nella loro specificità: compito, questo, che può essere affrontato solo applicando coerentemente la concezione materialistica della politica.

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Strategia e tattica sulla forma democratica

Scrive Lenin ne "L'imperialismo": "Negli Stati Uniti lo sviluppo economico negli ultimi decenni è stato ancor più rapido che in Germania, ed appunto per tale circostanza i tratti parassitari del moderno capitalismo americano si sono manifestati con forza particolare. Ma, da un altro lato, il confronto, poniamo, della borghesia repubblicana d'America con quella monarchica del Giappone o della Germania, dimostra che nell'epoca dell'imperialismo restano molto sbiadite le più forti differenze politiche, non già perché, in sé, esse siano senza importanza, ma perché in tutti questi casi si tratta di una borghesia con caratteri parassitari espressamente determinati".

La tesi di Lenin è conseguente e nel 1916, studiando l'imperialismo, sviluppa ciò che aveva affermato nel 1897, quando si confrontava con il sismondismo o romanticismo economico. Chiariti i rapporti di produzione si chiarisce automaticamente la distribuzione e il consumo del prodotto tra le diverse classi. La fase imperialistica del capitalismo è determinata dalla concentrazione dei mezzi di produzione e a questo modo di produzione corrisponde anche un tipo di distribuzione del prodotto che ha i tratti parassitari.

Bucharin definisce questa fase del modo di produzione e di distribuzione "economia del rentier", Lenin vede anche il processo di diffusione del capitalismo ma sottolinea il carattere "rentier" del "tagliatore di cedole".

Bucharin definisce la forma politica come "Stato imperialista", Lenin non accetta l'assolutizzazione della forma, vede le differenze delle forme, le differenze politiche, nello Stato imperialista, ma individua una tipicità nei caratteri parassitari espressamente determinati nelle borghesie dei vari Stati, dal Giappone alla Germania agli Stati Uniti.

Le forme repubblicane risultano, per Lenin, sbiadite di fronte alla tipicità parassitaria. Anzi più rapido è lo sviluppo imperialistico, più forte è il parassitismo. Il processo economico e sociale nella fase imperialistica diventa, per Lenin, il metro fondamentale di misura rispetto alle forme politiche che diventano secondarie.

è il metro che noi usiamo per definire la "democrazia imperialistica" dato che, nell'attuale fase storica, ciò che caratterizza la formazione economico-sociale è il contenuto imperialistico e non la forma che lo riveste. Forma politica democratica dell'economia imperialistica: "democrazia imperialista", appunto. Caratteri parassitari nell'involucro democratico.

è questa tesi di Lenin che Trotsky dimostra di non accettare quando nel 1931 polemizza con il bordighismo sulla questione della democrazia. Non avendo accettato, o assimilato, la teoria di Marx, ripresa vigorosamente da Lenin, per la quale la chiarificazione dei rapporti di produzione comporta automaticamente la chiarificazione dei rapporti di distribuzione tra le classi, Trotsky è portato ad impostare prevalentemente in termini di tattica la questione delle forze politiche.

Anzi, tale prevalenza lo conduce ad una inclinazione "tatticistica" quando dice: "Questi settari rifiutano di prendere atto che noi conduciamo la metà, i tre quarti o, in certi periodi, addirittura il 99% della preparazione della dittatura del proletariato sulla base della democrazia, e così facendo difendiamo ogni centimetro quadrato delle posizioni democratiche conquistate. Ma se si possono difendere le posizioni democratiche della classe operaia, perché allora non si potrebbe lottare per esse quando ancora non esistono?" Trattando solo la forma e non il contenuto di essa, Trotsky non collega la lotta per la democrazia alla lotta per il contenuto della democrazia in tutta la fase preimperialistica del capitalismo.

In questa fase lottare per la democrazia significa lottare per lo sviluppo delle forze produttive, per lo sviluppo del proletariato. Che in una tale situazione il proletariato difenda le posizioni democratiche conquistate è più che naturale anche perché il proletariato deve difendere le sue posizioni in ogni situazione. Non si può confondere la difesa delle posizioni del proletariato con le forme politiche nelle quali tale difesa avviene perché, allora, si giunge a ritenere che le posizioni del proletariato siano più determinate da quelle forme politiche che dai rapporti di forza tra le classi.

Sono passati cinquant'anni dalla polemica di Trotsky e il proletariato rivoluzionario nelle metropoli principali si è trovato ad operare, per la maggior parte del tempo, sulla base della democrazia, come dice Trotsky. Ciò ha favorito la preparazione della dittatura del proletariato in queste metropoli?

è evidente che non si può porre la questione della strategia rivoluzionaria in questi termini e che la questione tattica della difesa delle posizioni del proletariato deve essere impostata entro un quadro strategico di un lungo periodo per farla uscire da pure e semplici convenienze contingenti.

Ma che la inclinazione "tatticistica", in sé errore correggibile, sia alimentata da errori tattici più seri lo dimostra proprio Trotsky quando, nella polemica del 1931, passa da considerazioni tattiche a considerazioni generali: "La democrazia è un'arma del capitalismo, dicono i nostri critici; sì, ma un'arma contraddittoria, così come lo è il capitalismo nel suo insieme. La democrazia serve alla borghesia ma entro certi limiti può servire anche al proletariato contro la borghesia. Il guaio è che i bordighisti non concepiscono la democrazia e la dittatura del proletariato come istituzioni storiche che possono sostituirsi l'un l'altra dialetticamente, ma come due principi morali, di cui uno incarna il bene, l'altro il male".

è vero che democrazia e dittatura del proletariato non sono due principi morali, ma non sono neppure solo due istituzioni. Anzi, più che istituzioni sono manifestazioni politiche di processi storici. Per Marx la dittatura del proletariato è lo sbocco storico della lotta tra le classi, per Lenin, infine, è un determinato rapporto di forza tra le classi. Farne due istituzioni che si possono sostituire l'un l'altra significa sottolineare solo l'aspetto sovrastrutturale della lotta tra le classi, significa cadere nell'illusione di poter utilizzare la democrazia come arma rivolta contro la borghesia.

Questa illusione fu comune a Rosa Luxemburg e ad altri rivoluzionari e non contribuì allo sviluppo dei partito della classe operaia nelle cittadelle dell'imperialismo. Contribuì invece a ritardarlo. Il "tatticismo" di Trotsky basato sull'errore teorico, non supplisce alla insufficienza strategica di Bordiga. Anche alla luce di questa esperienza risulta chiara l'esigenza per il movimento rivoluzionario di approfondire l'assimilazione della concezione materialistica della politica, di restaurarla in tutto il suo patrimonio, di difenderla con tutta l'azione teorica, politica e organizzativa.

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Tre aspetti del "problema democratico"

Il "problema democratico" si è posto al proletariato rivoluzionario sin dall'inizio della sua lotta ed ha animato a lungo il dibattito. Nella polemica del 1931 con i bordighisti, Trotsky dice che "essi non si sono presi la briga di spiegare cosa intendano oggi per democrazia. Apparentemente, solo parlamentarismo". Trotsky accusa i bordighisti del gruppo Prometeo di manifestare un "cretinismo parlamentare in forma inversa col fatto di ridurre, in apparenza, il problema della democrazia alla questione della Assemblea Nazionale e del Parlamento in generale".

Giustamente sostiene che non si può ridurre il "problema democratico" alla questione parlamentare ed indica altri tre aspetti che caratterizzano il problema stesso: 1) "la liberazione di una nazione dall'altra": l'indipendenza dell'India dall'Inghilterra è, ad esempio, "una parola d'ordine puramente democratica"; 2) "la questione agraria-democratica": un programma democratico nelle campagne indiane deve essere appoggiato dal proletariato perché "rappresenta storicamente un passo avanti per lo sviluppo democratico"; 3) la lotta per difendere "la libertà di stampa, di sciopero e di assemblea" dalla repressione e dalla provocazione poliziesca. "E questa che cosa è se non una lotta per la democrazia?" commenta Trotsky.

Indipendentemente dal fatto che il gruppo Prometeo avesse o non avesse ridotto il "problema democratico" alla "questione parlamentare", cosa che non si può dire di Bordiga, il quale affrontò gli aspetti democratici della questione nazionale e della questione agraria, rimane pur sempre da precisare cosa si debba intendere oggi per democrazia.

Trotsky ha posto l'esigenza ma l'ha risolta in modo parziale e contraddittorio. Egli pone il "problema democratico" a volte come problema tattico di difesa del proletariato e a volte come un problema strategico di fase dello sviluppo sociale. In realtà l'ineguale sviluppo del capitalismo nel mondo pone al proletariato rivoluzionario compiti differenziati, sia per il loro contenuto che per le loro forme, ma non si possono, pena la confusione, collegare organicamente tali compiti con l'indifferenziata formula di "lotta per la democrazia".

Quello che la dinamica economica, sociale e politica differenzia e che l'analisi scientifica del marxismo permette di differenziare in una strategia generale finisce con il ripresentarsi nella formula di Trotsky, con un tutto indistinto, come un movimento indifferenziato. La lotta del proletariato rivoluzionario diventa in questa formula, comunque e dovunque, una "lotta per la democrazia" finché non sboccia, tramite un processo dialettico ovviamente, nella dittatura del proletariato stesso.

Invece, nella lotta generale per la dittatura del proletariato e per il comunismo, che abbraccia decenni e secoli, si pongono compiti specifici, di fronte alla questione nazionale ed alla questione agraria, di "lotta per la democrazia" e si pongono altri compiti specifici, di fronte alla questione politica dell'imperialismo, che nel loro contenuto non riguardano la "lotta per la democrazia".

Se in un paese coloniale l'appoggio del proletariato rivoluzionario ad un programma agrario-democratico che "rappresenta storicamente un passo in avanti per lo sviluppo sociale" è giustificato dallo stesso sviluppo sociale, tale giustificazione non si presenta nel caso di un paese imperialistico dove lo sviluppo delle forze produttive non provoca più sviluppo sociale ma esportazione di capitali, aggressività sulla scena mondiale, parassitismo, strati rentiers, burocratizzazione, imputridimento.

Democratizzare l'imperialismo è stata prima, teoricamente, l'illusione revisionistica di Bernstein e di Kautsky e dopo, praticamente, l'azione di quel fenomeno che Lenin definì "socialimperialismo". Lottare per la democrazia nelle metropoli significa lottare per la "democrazia imperialista", dato che non vi può essere una forma politica democratica avulsa da un contenuto economico-sociale. Se la forma democratica del Movimento nazionale e del movimento agrario di un paese dominato dall'imperialismo rispecchia la tendenza storica dello sviluppo sociale, quella del paese imperialista non può che rispecchiare la tendenza storica di un capitalismo, giunto al suo ultimo stadio, che sopravvive solo lottando per dominare ed assoggettare le forze produttive del mondo.

Per le stesse ragioni per le quali il marxismo "lotta per la democrazia" nel paese coloniale, esso lotta contro la democrazia imperialista nel paese colonialista. è la concezione materialistica della politica, che fa derivare la forma politica dal movimento dell'economia, ad imporre questo atteggiamento, dato che la scienza marxista della politica è universalmente valida e non permette eccezioni sulla "autonomia della politica", specie per il paese imperialisticamente maturo.

Nella lotta per la libertà di stampa, di sciopero e di assemblea, giustamente Trotsky non include la libertà di organizzazione. Infatti il proletariato rivoluzionario non può far dipendere la sua necessità e la sua capacità di organizzazione dalla libertà di potersi organizzare.

Questa libertà il proletariato l'ha in se stesso. Raggiunge la coscienza, o consapevolezza, di organizzarsi in partito d'avanguardia, in partito bolscevico secondo la formula di Lenin, oppure rimane al livello del tradeunionismo e dell'influenza delle correnti borghesi. In questo caso lotterà certo per la libertà di stampa, di sciopero e di assemblea, e la sua sarà "lotta per la democrazia" perché rifletterà lo scontro tra le frazioni della borghesia e il tentativo di utilizzare il movimento spontaneo del proletariato in questo scontro. L'avanguardia cosciente, in senso leninista, del proletariato usa la possibilità di stampa, di sciopero e di assemblea disponibile dalla "lotta per la democrazia", nella quale lo scontro fra le frazioni borghesi coinvolge il proletariato.

Escluse alcune congiunture di rapido e catastrofico sommovimento sociale e politico, il proletariato, e la sua avanguardia, non scelgono il terreno di lotta ma lo trovano oggettivamente determinato. La scelta, caso mai, non sta nel terreno di lotta ma nell'atteggiamento con il quale lo si affronta, e qui stanno le grandi demarcazioni che storicamente si formano in seno al movimento operaio. Non si sceglie la "lotta per la democrazia" ma l'atteggiamento da tenere in questa lotta, così come non si sceglie "lo sviluppo del capitalismo" ma l'atteggiamento da tenere in questo sviluppo.

Da questo atteggiamento, e dalla conseguente linea d'azione e di organizzazione, dipende se il proletariato esprime, nel corso della lotta politica caratterizzata come "lotta per la democrazia", un rafforzamento della sua avanguardia rivoluzionaria, unificata in partito, o un rafforzamento del legame con la frazione borghese che utilizza la "lotta per la democrazia".

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La lotta fondamentale per il partito

La "lotta per la democrazia", nell'epoca moderna, nasce storicamente come lotta della borghesia, o di alcune frazioni borghesi, per l'affermazione della forma politica più corrispondente al modo di produzione che per svilupparsi compiutamente ha bisogno della libertà di movimento delle merci e, quindi, anche della merce forza-lavoro. In questa "lotta per la democrazia", la borghesia utilizza il nascente proletariato e lo utilizza proprio facendo leva sul comune interesse all'esercizio delle libertà politiche, delle libertà di stampa, di sciopero e di assemblea.

Quando la borghesia francese ed inglese, ad esempio, tenta di impedire la libertà di sciopero al proletariato, si rompe la comunanza di interessi nella "lotta per la democrazia" nel periodo ascendente del capitalismo. Si apre una crisi politica nel fronte borghese, ed alcune frazioni accelerano i tempi proprio riproponendo al movimento operaio la lotta generale per le libertà politiche in cambio della libertà di sciopero. In questo modo, la borghesia lega il proletariato ad un ritmo di sviluppo politico corrispondente al ritmo di sviluppo economico.

Il marxismo nasce proprio come rottura teorica, politica ed organizzativa di tale legame, si afferma come movimento comunista scientificamente autonomo dalla democrazia ed è sopravvissuto proprio perché ha saputo conservare questa sua autonomia nel corso dei periodici attacchi del revisioniamo democratico.

La lotta per la possibilità di stampa, di sciopero e di assemblea è una costante irrinunciabile del marxismo proprio perché è un risultato della sua autonomia. Lotta significa conquista e non concessione. La storia ha dimostrato che la concessione di libertà di stampa, di sciopero e di assemblea il proletariato ha potuto ottenerla sia dalla frazione conservatrice che dalla frazione riformista della borghesia, ma per ragioni che riguardano gli interessi di queste frazioni e non gli interessi del proletariato. Ma la storia ha anche dimostrato che la conquista, quale risultato di una lotta di indipendenza e di emancipazione di classe, è sempre stata combattuta dalle frazioni borghesi unite in questo rifiuto. Per la stessa ragione ogni conquista ha dovuto essere sempre aspramente difesa: purtroppo, spesse volte, senza successo. Quante conquiste di classe sono scivolate nell'opportunismo? Quanta stampa ha perso la originaria indipendenza di classe?

Secondo il leninismo, senza teoria rivoluzionaria e senza organizzazione non vi è possibilità di difendere l'indipendenza di ogni conquista storica della classe, sia essa la stampa o il sindacato. è un rapporto di forza, non di libertà. Senza organizzazione rivoluzionaria non vi è possibilità di stampa, di sciopero, di assemblea veramente indipendenti dalla borghesia. Nuovamente questa possibilità è garantita da un rapporto di forza e non da una astratta libertà o da una generica lotta per la libertà.

La lotta è per l'organizzazione e per lo sviluppo del partito marxista in ogni situazione e in ogni contingenza politica. Solo da questa lotta fondamentale, dal suo corso e dal suo esito dipende la possibilità non solo di conquistare alla indipendenza di classe stampa, sciopero, assemblea ma, soprattutto, di mantenerli tali di fronte all'inevitabile contrattacco nemico.

Trotsky sottovaluta la lotta fondamentale per il partito e sopravvaluta la lotta derivata per il movimento. Ritiene che da una lotta derivata possa scaturire un nuovo impulso alla lotta per il partito. Invece, l'esperienza dimostra che solo lo sforzo per l'organizzazione partitica ha garantito, in quanto fattore autonomo, la forza per esercitare la possibilità di stampa, di sciopero e di assemblea.

La borghesia può, nel quadro della sua "lotta per la democrazia", persino incoraggiare ad avere libertà di stampa, di sciopero e di assemblea, al fine di stabilire la sua direzione al livello più alto della strategia politica e dei rapporti internazionali con le borghesie concorrenti. La borghesia non può, però, incoraggiare la formazione e lo sviluppo del partito indipendente del proletariato, ossia dell'unica forza che può contrastarla nell'esercizio e nell'uso della stampa, dello sciopero, della assemblea. Non lo ha mai fatto, non lo fa, non lo farà mai.

Sul tema della democrazia si sono consumati mari dì inchiostro. I migliori cervelli della borghesia ci hanno saputo dire ciò che la democrazia non è e mai ciò che è. In fondo, è logico che sia così dato che solo in questo modo si è avvicendato il movimento storico per la democrazia: in negativo per le forme politiche e in positivo per il contenuto economico. Disquisire sulla forma democratica è, perciò, secondario. La forma sarà, infatti, come dice Lenin, il migliore involucro del contenuto capitalistico.

Quando Trotsky pone l'esigenza di definire nel presente la democrazia, non fa altro che inoltrarsi in un vicolo chiuso nel quale altri, prima di lui, si erano inoltrati senza ritorno. A differenza di Bernstein e di Kautsky, egli ne esce subito non perché riesce a definire la democrazia ma perché definisce alcuni compiti del proletariato rivoluzionario. In realtà, l'errore di Trotsky non risiede nella giusta indicazione di quei compiti ma nella concezione che ha, come abbiamo visto, della democrazia ritenuta "un'arma contraddittoria" che "serve alla borghesia, ma, entro certi limiti, può servire anche al proletariato contro la borghesia",.

La concezione della democrazia come arma contraddittoria confina con la concezione della democrazia come arma neutra nella lotta di classe. Potrebbe servire all'una o all'altra classe. Ci troviamo di fronte ad una concezione della forma politica che può cambiare il suo contenuto sociale. Ma che cosa è la forma politica se non una forma di Stato?

La confusione teorica su questa questione fondamentale può condurre alla concezione per la quale la lotta di classe può cambiare il contenuto sociale della forma politica dello Stato, alla concezione per la quale la lotta di classe può cambiare il contenuto borghese dello Stato mantenendo la sua forma democratica. Sotto questo aspetto, ha poca importanza che ciò sia concepito come il risultato rivoluzionario o come il risultato riformista, come una transizione per salto qualitativo o come una transizione per graduale evoluzione della lotta di classe; è la teoria marxista dello Stato, che vede la rivoluzione come rottura della forma politica statale della borghesia e come sostituzione con una nuova forma politica che è lo Stato-non Stato del proletariato, ad essere messa in discussione.

La "lotta per la democrazia" si sa, non è solo lotta parlamentaristica e gradualistica. Per lo stesso pensiero democratico borghese la democrazia non si esaurisce nel parlamentarismo e nel gradualismo. Esso concepisce, perciò, la "lotta per la democrazia" in certi momenti, specie catastrofici, come lotta per salti e per rotture violente che esso definisce, a volte a ragione e spesso a torto, "rivoluzione democratica". Nella nostra epoca è giunto a definire "rivoluzione democratica" sia la prima che la seconda guerra mondiale imperialistica.

Se la concezione di Trotsky della democrazia come arma contraddittoria non giunge ad essere una conclusione democratica è solo perché ha una sua contraddizione interna che la vanifica e la rende inoperante. Che, poi, altri abbiano tentato, o tentino, di utilizzare le argomentazioni di Trotsky per approdare alla democrazia dal comunismo è un discorso che non lo riguarda. A noi interessa Trotsky, combattente per il comunismo che ritiene la democrazia un' arma contraddittoria da usare contro la borghesia, e non gli epigoni, che si illudono di usare l'arma del comunismo per diventare combattenti per la democrazia.

 

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Ultima modifica 4.1.2001