[ Archivio di Cervetto ]

L'involucro politico

Capitolo settimo

LA CRITICA NORMATIVISTA DI KELSEN

Necessità e libertà comunista
Sviluppo storico e libertà comunista
La scienza della libertà
Un filo conduttore nel labirinto politico
Evoluzione sociale e futura libertà
Libertà e autorità nel comunismo
La dialettica della libertà comunista
Norma democratica e dialettica comunista
Le forme di dominio dello Stato
La dialettica oggettiva della storia

Necessità e libertà comunista

Con la fase imperialista la lunga lotta per la libertà, la lunga lotta per il passaggio dal "regno della necessità" al "regno della libertà", che ha accompagnato tutta la drammatica storia della specie umana, entra nel suo ciclo storico decisivo.

La durata del ciclo è strettamente collegata alla durata della fase imperialista e alla dinamica delle sue crisi, delle sue guerre, delle sue contraddizioni insanabili, delle sue catastrofi e delle sue esplosioni rivoluzionarie.

Il comunismo è la coscienza, storicamente determinata, della necessità del capitalismo e della necessità del suo superamento. Il comunismo, proprio perché è la coscienza della necessità, diviene la coscienza della libertà, essendo questa il risultato dell'altra. La libertà non è la negazione della necessità ma ne è l'affermazione, scoprire la necessità significa trovare la libertà.

Alcuni critici di Marx sostengono che è scienziato quando analizza il "regno della necessità" e che è utopista e millenarista quando indica nel comunismo il "regno della libertà". Questi vedono Marx con la loro lente ideologica dove la libertà viene deformata in modo astratto e astorico. Per essi, la libertà è una idea e, precisamente, l'idea di ciò che pensano e vogliono sia la libertà. Inevitabilmente questa idea di libertà rifletterà la loro idea di società, di società divisa in classi.

Ciò che essi criticano in Marx è, appunto, l'idea di una società senza classi, ma per Marx la società senza classi non è un'idea. è la "necessità" dello sviluppo storico delle forze produttive. Ai critici di Marx non resta che rifiutare anche l'analisi del "regno della necessità", ed è ciò che invariabilmente fanno dopo aver tentato di separare la teoria marxista della libertà dalla scienza della società. Se il comunismo non è necessario, non è possibile la libertà; Marx ha, invece, dimostrato scientificamente che è possibile la "libertà" proprio perché il comunismo è la "necessità".

Nel capitolo XI, "Morale e diritto. Libertà e necessità", dell' "Anti-Dühring", scrive F. Engels: "Hegel fu il primo a rappresentare in modo giusto il rapporto di libertà e necessità.

Per lui la libertà è il riconoscimento della necessità. "Cieca è la necessità solo nella misura in cui non viene compresa". La libertà non consiste nel sognare l'indipendenza dalle leggi della natura, ma nella conoscenza di queste leggi e nella possibilità, legata a questa conoscenza, di farle agire secondo un piano per un fine determinato". Engels precisa: "Ciò vale in riferimento tanto alle leggi della natura esterna, quanto a quelle che regolano l'esistenza fisica e spirituale dell'uomo stesso: due classi di leggi che possiamo separare l'una dall'altra tutt'al più nell'idea, ma non nella realtà". La libertà, quindi, risiede nella conoscenza delle leggi che regolano la natura e nelle leggi che regolano la società.

La libertà è, innanzi tutto, conoscenza. In secondo luogo, è volontà. Dice Engels: "Libertà del volere non significa altro perciò che la capacità di poter decidere con cognizione di causa". Volontà e decisione, dunque, ma non arbitrarie.

La libertà è, in terzo luogo, valutazione e scelta corrispondenti alla necessità. Osserva Engels: "Quindi, quanto più libero è il giudizio dell'uomo per quel che concerne un determinato punto controverso, tanto maggiore sarà la necessità con cui sarà determinato il contenuto di questo giudizio; mentre l'incertezza poggiante sulla mancanza di conoscenza, che tra molte possibilità di decidere, diverse e contraddittorie, sceglie in modo apparentemente arbitrario, proprio perciò mostra la sua mancanza di libertà, il suo essere dominato da quell'oggetto che precisamente essa doveva dominare".

Engels conclude con questa chiara formula: "La libertà consiste dunque nel dominio di noi stessi e della natura esterna fondato sulla conoscenza delle necessità naturali: essa è perciò necessariamente un prodotto dello sviluppo storico".

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Sviluppo storico e libertà comunista

La libertà, dice Engels, è "necessariamente un prodotto dello sviluppo storico". Solo lo sviluppo storico delle forze produttive pone le condizioni oggettive che permettono la conoscenza della necessità, la conoscenza delle leggi della natura e delle leggi della società. Solo lo sviluppo storico delle forze produttive crea la possibilità di fare agire queste leggi "secondo un piano per un fine determinato".

Marx, nel terzo volume de "Il Capitale", pone al centro della teoria materialistica della libertà il lavoro storicamente determinato: "Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria".

Il "regno della libertà" non è la negazione del "regno della necessità" ma il suo riconoscimento; non è, quindi, negazione del "lavoro determinato dalla necessità" ma la sua consapevolezza. La libertà è la coscienza del "lavoro determinato dalla necessità", è la coscienza che solo lo sviluppo storico delle forze produttive ha reso possibile.

Marx precisa: "Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e per riprodurre la sua vita, così deve fare anche l'uomo civile, e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione. A mano a mano che egli si sviluppa, il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni".

Il "lavoro determinato dalla necessità" si espande con l'ampliamento dei bisogni atti a conservare e a riprodurre la specie umana, ma si espande proprio perché è in grado di soddisfare questi bisogni. è un rapporto reciproco: i bisogni si espandono proprio perché è possibile espandere il "lavoro determinato dalla necessità" e questo lavoro permette ai bisogni di divenire necessità.

è, quindi, nel lavoro il duplice carattere di necessità e di libertà. Se lo sviluppo delle forze produttive, creando la produzione associata del lavoro dei singoli, non permettesse al lavoro di essere fonte di necessità e di libertà, la storia non avrebbe altra sentenza che quella del "lavoro determinato dalla necessità". La libertà sarebbe una utopia o un mito illusorio che attenua la condanna.

Marx, scoprendo le leggi del "lavoro determinato dalla necessità", trasforma la libertà da sogno utopico in coscienza della realtà: "La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l'uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un regno della necessità".

Con ciò si compie il cammino dalla utopia alla scienza. Marx può concludere: "Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa". Lo sviluppo delle capacità umane è fine a se stesso: comunismo è libertà e libertà è comunismo. Il resto è menzogna perché dominio dell'uomo sull'uomo.

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La scienza della libertà

Hans Kelsen, uno dei massimi teorici borghesi del diritto, definisce utopistica ed anarchica la teoria dello Stato di Marx e di Engels. Nella sua opera del 1954 dedicata a "La teoria comunista del diritto" scrive che Lenin, in "Stato e rivoluzione", del 1917, sostiene il punto di vista di Marx ed Engels secondo il quale la scomparsa dello Stato sarà il risultato dell'evoluzione del socialismo in una società comunista. Secondo Kelsen, Lenin avrebbe cambiato opinione nella conferenza su "Lo Stato" del 1919 dove la scomparsa dello Stato è collegata alla scomparsa dello sfruttamento.

Non ci interessa qui confutare l'autore in termini strettamente filologici. Ci interessa, piuttosto, andare al nocciolo della sua tesi. Scrive che Lenin, respingendo le teorie borghesi dello Stato, "riconosce il postulato di una "scienza pura"" e, nello stesso tempo, contraddice tale riconoscimento perché non gli interessa "ricercare quello che lo Stato sia realmente dal punto di vista della conoscenza obiettiva, ma di formulare una definizione dello Stato che possa venire usata efficacemente nella lotta del partito comunista contro il capitalismo".

La contraddizione, in realtà, non è in Lenin ma nella teoria normativista di H. Kelsen, la quale pretende di rappresentare la "scienza pura", e di essere immune dalle ideologie. Per la concezione materialistica della politica la scienza della società è un risultato storico dello sviluppo delle forze produttive.

Nell' "Anti-Dühring" Engels parla di "poderose forze produttive che si appoggiano ad essa e solo con l'aiuto delle quali si rende possibile una situazione sociale in cui non ci sono più differenze di classi, preoccupazioni per i mezzi di sussistenza degli individui e in cui per la prima volta si può parlare di vera libertà umana, di una esistenza in armonia con le leggi naturali conosciute. Ma quanto sia ancora giovane tutta la storia dell'uomo e quanto sia ridicolo il voler attribuire alle nostre vedute odierne una qualche validità assoluta, appare dal semplice fatto che tutta la storia sinora si può caratterizzare come storia dell'intervallo di tempo che passa dalla scoperta pratica della trasformazione del movimento meccanico in calore a quella della trasformazione del calore in movimento meccanico".

Lenin non poteva ripudiare, quarant'anni dopo, una visione ideologica della libertà e dello Stato per la semplice ragione che tale visione non esiste in Marx e in Engels. Lenin tiene la lezione "Sullo Stato" l'11 luglio 1919 alla Università Sverdlov, lezione che viene pubblicata per la prima volta solo il 18 gennaio 1929.

Dice subito che "quella dello Stato è una delle questioni più complicate, più difficili, e forse la più imbrogliata dagli scienziati, scrittori e filosofi borghesi". Perché? "Questa questione è stata così confusa e complicata perché lede gli interessi delle classi dominanti più di qualsiasi altra questione (cedendo sotto questo rapporto soltanto ai fondamenti della scienza economica). La dottrina dello Stato serve da giustificazione ai privilegi sociali, da giustificazione all'esistenza dello sfruttamento. da giustificazione all'esistenza del capitalismo; ecco perché è un enorme errore attendersi l'imparzialità in questa questione e credere che persone le quali hanno la pretesa d'averla studiata scientificamente possano offrirvi in proposito il punto di vista della scienza pura".

Dopo aver respinto la pretesa imparzialità, Lenin imposta il discorso in questi termini: "Per trattare questa questione in maniera più scientifica bisogna gettare almeno un rapido sguardo sul passato, per vedere in che modo lo Stato è sorto e si è sviluppato".

è la strada tracciata da Engels, il quale, come abbiamo visto, ha la poderosa e materialistica modestia dello scienziato rivoluzionario che ha aperto il libro storico della specie umana e che sa quanto ancora vi sia da scrivere.

è suo buon allievo Lenin quando ci ammonisce: "La cosa più sicura in una questione di scienza sociale, la cosa più necessaria per acquistare effettivamente l'abitudine di trattare in modo giusto questa questione e di non smarrirsi in una quantità di dettagli o nell'enorme varietà di opinioni contrastanti, la cosa più importante per trattare questa questione in modo scientifico consiste nel non dimenticare il nesso storico fondamentale, nel considerare ogni questione tenendo conto del modo come un dato fenomeno è sorto nella storia, delle tappe principali che questo fenomeno ha attraversato nel suo sviluppo e, tenendo conto di questo suo sviluppo, esaminare che cosa esso sia diventato oggi".

La scienza della libertà risiede, appunto, in ogni momento e in ogni situazione determinata, nell'analisi del "nesso storico fondamentale", analisi che si erge nella lotta di classe e che non affoga nel mare infinito dei dettagli e delle opinioni.

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Un filo conduttore nel labirinto politico

Hans Kelsen, ne "La teoria comunista del diritto", dice che "la dottrina epistemologica che sta a base della teoria dell'ideologia di Marx" è formulata nelle seguenti due frasi di "Per la critica dell'economia politica": "Il modo di produzione nella vita materiale determina il carattere generale del processo sociale e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina la loro esistenza, ma, al contrario, la loro esistenza sociale determina la loro coscienza".

Per Kelsen le due frasi differiscono. Dice: "Nella prima frase il fattore determinante è solo il "modo di produzione", nella seconda lo è l'intera "esistenza sociale". Nella prima il fattore determinato è non solo il processo "spirituale" della vita, ma anche quello "sociale" e "politico"; nella seconda lo è solo la "coscienza", che è identica al processo spirituale della vita".

Lo scopo che si prefigge Kelsen è quello di dimostrare una ambiguità nella teoria marxista dello Stato e del diritto. Non staremo, in questa sede, a sottolineare la incomprensione dell'autore in merito a categorie concettuali marxiste quali "modo di produzione" e "processo sociale". Ci preme, piuttosto, circoscrivere la sua critica al terreno che si è prescelto, che è quello della critica alla concezione materialistica della politica.

Su questo terreno, Kelsen resta uno dei più illustri rappresentanti di una scuola antimarxista che degrada progressivamente in dignità teorica mano a mano che aumenta l'imputridimento imperialistico. Kelsen si riferisce a "fattore determinante" e a "fattore determinato" e non a "processo di determinazione". Il fatto che alcuni deformatori meccanicisti della teoria della determinazione, anche di scuola marxista, abbiano usato, e continuino ad usare, la teoria in quel modo, non lo assolve.

Nella voce dedicata a "Karl Marx" per il Dizionario Enciclopedico Granat, Lenin nel 1914 illustrava in modo magistrale la questione: "La "sociologia" e la storiografia premarxiste, nel migliore dei casi, davano un cumulo di fatti grezzi, frammentariamente raccolti, una esposizione di aspetti parziali del processo storico. Il marxismo ha aperto la via a uno studio universale, completo, del processo di origine, di sviluppo e di decadenza delle formazioni economico-sociali, considerando l'insieme di tutte le tendenze contraddittorie, riconducendole alle condizioni esattamente determinabili di vita e di produzione delle varie classi della società, eliminando il soggettivo e l'arbitrario nella scelta di singole idee "direttive" o nella loro interpretazione, scoprendo nella condizione delle forze materiali di produzione le radici di tutte le idee e di tutte le varie tendenze senza eccezione alcuna".

Lenin è chiaro nella sua esposizione metodologica: il marxismo apre la via allo studio scientifico del processo di origine, di sviluppo e di decadenza delle formazioni economico-sociali. Non si tratta di trovare una causa unica ma di analizzare un processo con metodo scientifico.

Scrive Lenin: "Gli uomini stessi creano la loro storia; ma da che cosa sono determinati i motivi degli uomini, e precisamente delle masse umane? Da che cosa sono generati i conflitti delle idee e delle correnti antagonistiche? Quale è il nesso che unisce tutti questi conflitti di tutta la massa delle società umane? Quali sono le condizioni oggettive della produzione della vita materiale, che forma la base di tutta l'attività storica degli uomini? Qual è la legge di sviluppo di queste condizioni? A tutto ciò Marx volse la sua attenzione e aprì la via a uno studio scientifico della storia come processo unitario e sottoposto a leggi, nonostante tutta la sua formidabile complessità e le sue contraddizioni".

Come si vede, Lenin si sofferma metodologicamente sull'analisi scientifica del "processo di determinazione".

Aggiunge: "Che in ogni determinata società le aspirazioni degli uni cozzino con le aspirazioni degli altri, che la vita sociale sia piena di contraddizioni, che la storia ci mostri la lotta dei popoli e delle società tra di loro e anche la lotta nel loro seno, che, oltre a ciò, la storia ci mostri un avvicendarsi di periodi di rivoluzione e di reazione, di pace e di guerra, di stagnazione e di rapido progresso o decadenza, sono fatti universalmente noti". E conclude: "Il marxismo ha dato un filo conduttore, che permette di scoprire una legge in questo labirinto e caos apparente: e precisamente la teoria della lotta di classe. Solo lo studio dell'assieme delle aspirazioni di tutti i membri di una determinata società, o di gruppi di società, permette di giungere a una determinazione scientifica del risultato di queste aspirazioni. E fonte delle aspirazioni contraddittorie sono la differente situazione e le diverse condizioni di vita delle classi nelle quali ogni società è divisa".

Ricercare esclusivamente il "fattore determinante" e il "fattore determinato" significa rimanere sul piano dell'oggettivismo. Analizzare il "processo di determinazione" con il filo conduttore della teoria della lotta di classe significa, invece, elevarsi alla concezione materialistica della politica.

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Evoluzione sociale e futura libertà

Già nella polemica con Proudhon, Marx afferma che in una società senza classi "le evoluzioni sociali cesseranno di essere rivoluzioni politiche". Hans Kelsen, commentando il passo, riconosce che: "Se un gruppo domina un altro gruppo senza sfruttarlo, né l'uno né l'altro sono una "classe" nel senso originario del termine; e se pure c'è un conflitto, questo non ha il carattere della lotta di classe che conduce alla rivoluzione".

Se vi può essere una evoluzione sociale senza dominio di classe, è possibile una società che, come dice Engels, sia "una associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti" ed è possibile, come dice Marx, perché "le forze della produzione e tutte le sorgenti della ricchezza sociale emetteranno un getto continuo".

La libertà, o libero sviluppo di ciascuno e di tutti, è appunto la coscienza della necessità delle forze produttive. A questa scoperta scientifica H. Kelsen sa contrapporre solo una opinione: l'abolizione della divisione del lavoro rende improbabile "l'aumento straordinario della produzione nella futura società comunista". Però è presuntuoso nella sua sentenza: "La predizione di una società di perfetta giustizia, senza Stato e senza diritto, è una profezia utopistica, al pari del messianico Regno di Dio, il paradiso del futuro".

Impossibilitato a dimostrare che il dominio cosciente delle forze produttive non diviene la necessità storica per la libertà dal dominio di classe, Kelsen liquida come profezia utopistica una scoperta scientifica. Evidentemente ritiene impossibile il dominio cosciente delle forze produttive e con ciò ritiene perenne il dominio di classe, ossia il dominio del capitale. Al fondo di ogni teoria politica democratica vi è il pregiudizio ideologico della perennità del dominio di classe. In "Stato e rivoluzione" Lenin pone in termini chiarissimi la questione: "finché esiste lo Stato non c'è libertà. Quando ci sarà libertà non ci sarà uno Stato". Non ci sono vie di mezzo. La libertà è comunista o non è. La democrazia è per sua natura anticomunista perché tenta di dimostrare che non c'è contraddizione tra Stato e libertà, tra dominio di classe e libero sviluppo di tutti i produttori.

Con il dominio capitalistico sulle forze produttive lo Stato diventa imperialistico. è lo sviluppo delle forze produttive a determinare questo processo. Ma è lo stesso sviluppo a determinare la lotta per la libertà comunista.

Lenin fa una interessante considerazione: "Tutta la teoria di Marx è l'applicazione al capitalismo contemporaneo della teoria della evoluzione, nella sua forma più conseguente, più completa, più meditata e più ricca di contenuto". Lenin ripercorre la logica scientifica di Marx: "è naturale che di fronte a Marx sorga il problema dell'applicazione di questa teoria all'imminente bancarotta del capitalismo e al futuro sviluppo del futuro comunismo. Su quali dati ci si può dunque basare nel porre la questione del futuro sviluppo del futuro comunismo? Sul fatto che il comunismo è generato dal capitalismo, si sviluppa storicamente dal capitalismo, è il risultato dell'azione di una forza sociale prodotta dal capitalismo".

E aggiunge: "In Marx non vi è traccia di un tentativo di inventare di sana pianta delle utopie, di fare vane congetture su quel che non si può sapere. Marx pone la questione del comunismo come un naturalista porrebbe, per esempio, la questione dell'evoluzione di una nuova specie biologica, una volta conosciuta la sua origine e la linea precisa della sua evoluzione".

Marx ha scoperto la nuova specie biologica capitalistica nella evoluzione sociale. Perciò non inventa la futura evoluzione nel comunismo. Scoprendo l'origine e lo sviluppo del capitalismo ha scoperto il futuro del comunismo. Ha posto, finalmente, su basi scientifiche la concezione materialistica della libertà nella rivoluzione politica e nel superamento della politica.

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Libertà e autorità nel comunismo

La critica di Hans Kelsen al marxismo ne "La teoria comunista del diritto", è totalmente impegnata nella presentazione di presunte contraddizioni nel pensiero di Marx, di Engels e di Lenin. Siccome il critico è uno dei massimi rappresentanti della teoria democratica nella attuale fase imperialista ed è accettato come tale da un'ampia gamma di ripetitori, più o meno confessi, vale la pena soffermarsi proprio sui punti dove ritiene di aver inferto stoccate decisive al marxismo.

Una delle contraddizioni che H. Kelsen pensa di aver trovato in Marx e in Engels consisterebbe nel concepire una società comunista dove vi è libertà sul piano politico e autorità sul piano economico. Dato che ci prefiggiamo il compito di illustrare la critica di H. Kelsen, siamo costretti inizialmente a seguirlo nella sua terminologia e nel suo uso di termini politici ed economici che richiederebbero maggiore precisione scientifica. La scuola marxista anche in questo lavoro concettuale ha arricchito l'utensileria della scienza politica molto più di quanto si illuda il rozzo artigianato della democrazia imperialista. Ma procediamo con ordine e senza fretta.

Secondo H. Kelsen: "Engels ammise perfino espressamente che non sarà possibile l'organizzazione economica del futuro senza l'autorità, per quanto egli aggiunse che una tale autorità sarà stabilita solo nella misura richiesta dai rapporti di produzione. Nel suo "Anti-Dühring", in cui predisse che lo Stato non sarà "abolito" ma semplicemente "si dissolverà", egli disse nei riguardi della società comunista del futuro: "Il governo sulle persone è sostituito dall'amministrazione delle cose e dalla direzione dei processi di produzione"".

Kelsen crede che "governo sulle persone" e "direzione dei processi di produzione" siano inseparabili. Inseparabile è, invece, nella sua teoria, il "feticismo della merce" dal "feticismo della politica" o "feticismo dello Stato". Non riesce a concepire che il "governo sulle persone" esiste proprio perché non c'è "direzione dei processi di produzione". Il capitalismo è "governo sulle persone" nei "processi di produzione" e, di conseguenza, nei loro rapporti reciproci o rapporti politici perché è dominio dei rapporti sociali. Ma il capitalismo non dirige i processi di produzione e tutta la sua storia lo dimostra.

Il capitalismo non dirige i processi di produzione nel loro andamento ciclico, nelle loro contraddizioni, nella loro ascesa, nella loro discesa, nella loro intensità, nella loro estensione, nella loro durata. Alcune correnti del capitalismo hanno tentato di farlo ma il risultato è stato disastroso. La pianificazione, l'organizzazione, la statizzazione, in vari modi tentate, non sono riuscite ad essere una direzione effettiva dei processi di produzione.

In termini marxisti, non sono riuscite ad essere "libertà" intesa come "coscienza della necessità" dei processi di produzione, ossia consapevolezza del movimento reale dell'economia; poiché c'è differenza dal presumere, come è per qualsiasi ideologia dirigista, di conoscere la dinamica del processo di produzione al conoscerlo effettivamente.

Ancora in termini marxisti, dove non c'è "libertà" non c'è "autorità" sui processi oggettivi, sulle "cose". Per la scienza marxista, "libertà" ed "autorità" sono nient'altro che manifestazioni di un "pieno ed armonico sviluppo" di qualità umane, nei confronti della natura. H. Kelsen confonde politica ed economia e, rifiutando il processo di determinazione scoperto dal marxismo, non ne vede gli effettivi nessi. Non è, quindi, in grado di affrontarle nella loro specificità che è appunto tale perché non è parto di inventate autonomie. Usa i concetti di "libertà" e "autorità" applicandoli indifferentemente alle "persone" e alle "cose" e non riesce a capire che dove non c'è "autorità" o potere sulle "cose" c'è "autorità" o potere sulle "persone".

Sarà bene richiamarci alla dialettica, tanto disdegnata dai democratici pragmatici alla H. Kelsen, anche per chiarire finalmente il significato di tanti termini impiegati in politica.

Così la presenta Engels: "La grande idea fondamentale che il mondo non deve essere concepito come un complesso di cose compiute, ma come un complesso di processi, in cui le cose in apparenza stabili, non meno dei riflessi intellettuali nella nostra testa, i concetti, attraversano un ininterrotto processo di origine e di decadenza ...". Aggiunge Engels che riconoscere la validità delle dialettica non significa ancora "applicarla concretamente nella realtà".

Molta confusione sul rapporto tra la teoria democratica e la teoria comunista dipende anche dalla mancata applicazione della dialettica alla realtà politica. Gli equivoci sulla libertà sono, in definitiva, il prodotto della resistenza dell'ideologia alla vittoria teorica della scienza.

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La dialettica della libertà comunista

Lenin, nel saggio su "Karl Marx" scritto all'inizio della guerra mondiale del 1914, quando lavorava attorno ai suoi "Quaderni filosofici", così spiega la dialettica: "Uno sviluppo che sembra ripercorrere le fasi già percorse, ma le ripercorre in modo diverso, a un livello più elevato ("negazione della negazione"); uno sviluppo, per così dire, non rettilineo ma a spirale; uno sviluppo a salti, catastrofico, rivoluzionario; "l'interruzione della gradualità", la trasformazione della quantità in qualità; gli impulsi interni allo sviluppo, generati dalle contraddizioni, dagli urti tra le diverse forze e tendenze operanti sopra un dato corpo oppure entro i limiti di un dato fenomeno o nell'interno di una data società, l'interdipendenza e il legame più stretto e indissolubile tra tutti i lati di ogni fenomeno (e la storia mette in luce lati sempre nuovi), legame che genera un processo di movimento unico, universale, sottoposto a leggi: tali sono alcune caratteristiche della dialettica, dottrina dello sviluppo che è più ricca di contenuto delle dottrine correnti".

Per dimostrare la superiorità della "dottrina dello sviluppo" elaborata da Marx e da Engels non abbiamo bisogno di addentrarci in un discorso filosofico. Possiamo rimanere sul piano delle teorie politiche.

Hans Kelsen, dopo aver criticato la tesi di Engels sulla sostituzione del "governo sulle persone" con la "amministrazione delle cose", così prosegue nel suo attacco al marxismo: "è una contraddizione non meno notevole del socialismo "scientifico" il fatto che si supponga lo stato politico della società comunista del futuro come un'anarchia individualistica, mentre lo stato economico deve consistere nella sostituzione della "anarchia della produzione capitalistica" con una produzione altamente organizzata sulla base della proprietà collettiva dei mezzi di produzione, concentrati necessariamente nelle mani di un'autorità centrale. Il carattere autoritario di una organizzazione centralizzata, qual è l'organizzazione della società comunista del futuro, non è stato negato da Marx né da Engels".

Dobbiamo nuovamente ritornare alle osservazioni fatte sullo schematismo della teoria politica del critico, schematismo che non deriva, ovviamente, dalla sua cultura giuridica o dal suo grado di conoscenza del marxismo. Lo schematismo risiede proprio nella natura classista della teoria dello Stato elaborata da H. Kelsen utilizzando i concetti di "individuo", di "libertà" e di "autorità" in una visione generale di uno sviluppo della società che procede in modo "rettilineo" e non "a salti", di uno sviluppo che avviene con "gradualità" e non per "impulsi interni" "generati dalle contraddizioni", di uno sviluppo che ripercorre le "fasi già percorse" ma non a un "livello più elevato".

è la schematica filosofia del diritto di H. Kelsen ad impedirgli di concepire lo sviluppo della società come "l'interdipendenza e il legame più stretto e indissolubile tra tutti i lati di ogni fenomeno". H. Kelsen pensa che vi sia contraddizione tra il piano economico in una società comunista e la fine del dominio politico sugli uomini, o "anarchia individualistica" come lui la chiama. La sua ammissione è, invece, la controprova del carattere dittatoriale della teoria democratica dello Stato.

La controprova è ancora più chiara nel seguente passo: "Ma poiché le cose sono amministrate da persone, l'amministrazione delle cose e la direzione dei processi di produzione non sono possibili senza un governo sulle persone; e non ci può essere alcun dubbio che la centralizzazione dell'intero processo della produzione economica richiederà un alto grado di autorità. Poiché, proprio dal punto di vista di un'interpretazione economica della società, è impossibile separare l'aspetto economico dell'organizzazione sociale da quello politico, è una palese contraddizione negare il bisogno di qualsiasi specie di autorità nel campo politico, ma ammettere le necessità dell'autorità nel campo economico".

La "interpretazione economica della società" che H. Kelsen attribuisce al marxismo è, in realtà, la interpretazione economica che sottostà alla sua teoria politica, ossia è la interpretazione economica della teoria democratica dello Stato.

Questa immagina che il rapporto tra economia e politica, così come lo vede, sia tale da rendere contraddittoria la società comunista. E siccome la sua visione la estende al marxismo, trova in questo una contraddizione che non esiste.

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Norma democratica e dialettica comunista

Per il positivista Hans Kelsen, come per i suoi epigoni, la colpa è di Hegel: "La dialettica di Hegel ha l'effetto, voluto dal suo autore, di aprire la via a speculazioni metafisiche irrazionali". è vero, aggiunge, che Marx ed Engels rifiutavano la metafisica hegeliana, ma ebbero il grave torto di usare abbondantemente la "nuova logica della dialettica" o "logica dinamica della dialettica" presa dalla "filosofia della storia di Hegel".

Sembra una disputa filosofica ed invece non lo è; è uno scontro politico che va al cuore della teoria dello Stato. H. Kelsen vuole affermare che il diritto è la norma e cerca di negare ogni fondamento scientifico alla teoria marxista per la quale il diritto è sovrastruttura.

è l'uso della logica dialettica, dice Kelsen, che permette a Marx e ad Engels di affermare che lo Stato "è per sua natura uno strumento per il mantenimento dello sfruttamento" e, nello stesso tempo, "in quanto Stato proletario, è lo strumento specifico per l'abolizione dello sfruttamento".

Ancora una volta, per Kelsen, la colpa è della filosofia hegeliana secondo la quale "che una teoria cada in contraddizioni logiche non rappresenta un'obiezione dal punto di vista della nuova logica", dato che "la funzione principale di questa logica è infatti quella di eliminare il principio secondo cui le contraddizione sono inammissibili" essendo le "contraddizioni inerenti alla realtà" e, quindi, "le contraddizioni nel pensiero […] non sono un difetto logico".

Per quanto l'autore si accanisca contro la dialettica non riesce a scalfire minimamente lo strumento di analisi marxista che permette di ricostruire il processo di determinazione della sovrastruttura, del diritto, dello Stato. Per Marx non c'è il diritto e lo Stato; c'è un diritto storicamente determinato, c'è uno Stato determinato dallo sviluppo delle forze produttive. Il carattere di "strumento specifico" è dato ad uno Stato, concretamente analizzato, da una struttura economica in sviluppo, concretamente analizzata. La contraddizione non è, quindi, tra categorie logiche. è una contraddizione dentro ad un processo di sviluppo.

è la contraddizione tra le "forze materiali della produzione" ed i rapporti sociali di produzione che apre il "periodo della rivoluzione sociale", come afferma Marx nella celebre introduzione a "Per la critica della economia politica": "Da forme di sviluppo delle forze della produzione queste relazioni si mutano nelle loro catene". Questa è la dialettica della storia e non la metafisica del pensiero, idealista o positivista che sia.

Possiamo riprendere da Engels il concetto di "grandezza minima determinata". è stata spesso criticata l'esposizione che Engels fa della trasformazione della quantità in qualità. è importante notare che non viene mai citato, da questi critici, il passo dell' "Anti-Dühring" dove la legge della trasformazione nella quantità in qualità viene ricavata dalla storia militare. Ed è proprio nella storia militare che la teoria di Engels trova piena conferma e può essere proficuamente utilizzata per la comprensione della dinamica dei corsi militari delle lotte politiche.

Nessuno può negare che, se la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, è proprio nel loro momento militare che le lotte politiche assumono le forme più pure. Molte delle teorie borghesi dello Stato lo dimenticano. Eppure una "norma" dello Stato è la guerra.

Scrive Engels: "Proprio come per Marx era necessaria una grandezza minima determinata, anche se variabile, della somma del valore di scambio per rendere possibile la sua trasformazione in capitale, così per Napoleone era necessaria una grandezza minima determinata del distaccamento di cavalleria per permettere alla forza della disciplina, insita nella formazione in ordine chiuso e nell'impiego razionale, di diventare apprezzabile e di accrescersi sino a raggiungere la superiorità". La "grandezza minima determinata" è qui il punto di trasformazione in un processo dinamico, quale è lo scontro di forze dalle differenti qualità, processo esemplificato nel combattimento militare collettivo.

Poco prima Engels aveva scritto: "Per concludere, vogliamo invocare un altro testimone in favore della conversione della quantità in qualità. Napoleone. Ecco come descrive il combattimento tra la cavalleria francese che andava male a cavallo ma era ben disciplinata, e i mammalucchi che nel combattimento individuale incondizionatamente erano i migliori cavalieri del loro tempo, ma erano indisciplinati: "Due mammalucchi erano incondizionatamente superiori a tre francesi; 100 mammalucchi erano pari a 100 francesi; 300 francesi erano di solito superiori a 300 mammalucchi, 1.000 francesi mettevano costantemente in rotta 1.500 mammalucchi"". Napoleone la dialettica non la discuteva, l'applicava.

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Le forme di dominio dello Stato

"Noi ripudieremo tutti i vecchi pregiudizi i quali affermano che lo Stato è l'eguaglianza generale. Non è che un inganno questo; fino a quando c'è sfruttamento, non può esistere eguaglianza", dice Lenin nella lezione "Sullo Stato" del luglio 1919. La teoria democratica ha, in generale, collegato nella sua concezione dello Stato i termini di "libertà" e di "eguaglianza", combinandoli in vario modo e sostanziandoli ancor più variamente. Da tali combinazioni e da tale sostanzialità la democrazia ne è uscita variamente aggettivata: "democrazia politica", "democrazia rappresentativa", "democrazia parlamentare", "democrazia economica", "democrazia sociale", "democrazia liberale", "democrazia popolare", "democrazia diretta", "democrazia industriale", ecc.

Giustamente Lenin dice: "Le forme di dominio dello Stato possono essere diverse; il capitale manifesta la sua forza in un certo modo laddove esiste una certa forma di dominio e in un altro modo dove ne esiste un'altra, ma in fondo il potere resta nelle mani del capitale, esista o no il diritto di censo od un altro diritto, esista o no la repubblica democratica; anzi quanto più la repubblica è democratica, tanto più brutale, più cinico è il dominio del capitalismo".

Celebre è la frase contenuta in una lettera di Marx ad Engels: "Venti anni contano un giorno nei grandi sviluppi storici, ma vi possono essere giorni che concentrano in sé venti anni". I rivoluzionari, per spontanea propensione, hanno sottolineato più i "giorni" che valgono venti anni che i "venti anni" che valgono un giorno.

La formula scientifica di Marx deve, però, essere colta in tutta la sua stupenda sintesi dialettica di passione e di logica per comprendere come le diverse forme di dominio dello Stato siano il risultato degli sviluppi storici dove venti anni contano un giorno e dove un giorno concentra venti anni.

Quando Lenin dice che la forma democratica di dominio dello Stato è la forma dove "più brutale, più cinico è il dominio del capitalismo" non cade in una invettiva moralistica o in una esagerazione polemica di tono agitatorio. Lenin non compie un esercizio retorico e non usa l'espediente letterario dell'iperbole per fare risaltare la sua tesi. Lenin enuncia una definizione scientifica di una delle forme di dominio dello Stato: con la forma politica democratica abbiamo il massimo di dominio del capitalismo.

Lo ha già dimostrato Marx ne "Il Capitale" spiegando il processo di produzione del capitale sulla base del funzionamento della legge del valore. Meno intralci o deviazioni subisce il funzionamento della legge del valore e meno intralci o deviazioni subisce il funzionamento del capitale, che è tale solo se è capitale costante, o mezzi di produzione, e capitale variabile, o forza lavoro salariata.

Il dominio del capitalismo risiede proprio nel rapporto interno al capitale stesso, ossia nel rapporto tra la parte costante e la parte variabile. Per quel tanto che può interagire la sovrastruttura, o forma politica, sul funzionamento della struttura economica, può anche influire sul grado di dominio del capitale, sempre che di capitale sia composta la struttura economica e non di altre concomitanti forze produttive.

Lenin, nel passo citato, si riferisce ad una repubblica democratica ad economia prettamente capitalistica. Se di tale democrazia si tratta, i critici di Lenin, e implicitamente di Marx, dovrebbero dimostrare che la forma democratica ostacola l'economia capitalistica e in quel caso potrebbero legittimamente affermare che non è vero che con la repubblica democratica vi è il pieno dominio del capitalismo.

I teorici della democrazia, invece, sostengono il contrario; sostengono che la forma democratica assicura il migliore funzionamento dell'economia sino al punto di poter giungere, se pienamente realizzata, ad essere anche una "democrazia sociale" dove i lavoratori dipendenti possano compartecipare ai risultati ottenuti con la collaborazione sociale, o collaborazione tra le classi, pur in una conflittualità che non deve essere antagonistica.

Sono i teorici della democrazia a vantarla come la forma politica migliore per il capitalismo. Perché non accettano la formula marxista? Perché la loro ideologia vieta di riconoscere che il capitalismo è dominio. La loro ideologia è il risultato di secoli di pratica sociale della borghesia così come lo è lo sviluppo delle forme statali. è il risultato dei grandi sviluppi storici dove, come dice Marx, "venti anni contano un giorno".

Di questi giorni ne sono occorsi parecchi al capitalismo per costruire la forma politica dove potesse esprimere il grado massimo del suo dominio. Ecco perché i rivoluzionari non potranno cogliere il giorno che vale vent'anni se prima non avranno capito i venti anni che valgono un giorno.

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La dialettica oggettiva della storia

La lezione di Lenin sullo Stato è una lezione sui grandi sviluppi storici dei tempi che potremmo definire "concentrati". Solo con questa visione Lenin può trarre da Marx una lezione sullo Stato che è una lezione di strategia. Lo Stato non è, come nel pensiero politico borghese in tutte le sue correnti, una istituzione statica ma è la manifestazione sovrastrutturale di un processo sociale dinamico. In questo senso è una istituzione proprio perché è un risultato della lotta della classi.

è la lotta delle classi che determina la concentrazione degli anni e dei giorni nei grandi sviluppi storici. I "venti anni che contano un giorno" e i "giorni che concentrano in sé venti anni" sono, appunto, la espressione della dinamica del rapporto tra le classi; le forme di dominio dello Stato ne sono, a loro volta, la espressione sovrastrutturale.

La lezione sulla istituzione sovrastrutturale non avrebbe senso se non fosse la lezione sulla dinamica dei rapporti tra le classi. Ecco perché la lezione sullo Stato è una lezione sulla strategia, come indica Lenin: "Marx determinò il compito fondamentale della tattica del proletariato in rigoroso accordo con tutte le premesse della sua concezione materialistica dialettica del mondo. Soltanto la valutazione oggettiva di tutto l'insieme dei rapporti reciproci di tutte le classi di una data società, senza eccezione e, per conseguenza, anche la considerazione del grado di sviluppo oggettivo di quella società e dei rapporti reciproci fra essa ed altre società, possono servire da base ad una giusta tattica della classe d'avanguardia".

Lenin usa il termine "tattica" nella accezione di "strategia"; il contenuto è, comunque, chiaro. Una giusta strategia del proletariato si basa sull'analisi dei rapporti reciproci di tutte le classi; l'insieme di questi rapporti determina il grado di sviluppo oggettivo di una determinata società. Ma per una giusta strategia occorre valutare anche i rapporti reciproci tra la società in cui si opera e le altre società, ossia occorre stabilire il grado di sviluppo ponendolo in comparazione con i processi di sviluppo di altre società. Una giusta strategia che guidi l'azione in una determinata società non può che essere il risultato di una analisi internazionale del passato, del presente e del futuro.

Lenin lo precisa: "Inoltre tutte le classi e tutti i paesi devono essere considerati non in una situazione statica, ma dinamica, ossia non in uno stato di immobilità, ma in movimento (movimento le cui leggi derivano dalle condizioni economiche d'esistenza di ogni classe). A sua volta il movimento non deve essere considerato dal punto di vista del passato, ma anche da quello dell'avvenire, e non secondo il volgare intendimento degli "evoluzionisti", che scorgono soltanto le trasformazioni lente, ma dialetticamente".

L'analisi della dinamica è, di conseguenza, l'analisi delle trasformazioni lente e l'analisi delle trasformazioni accelerate; l'analisi dell'accumulo delle contraddizioni e l'analisi delle rotture contraddittorie dei rapporti sociali. Non la inesistente evoluzione graduale, ma la vivente evoluzione dialettica.

è ancora Lenin a ricordarlo: "Ad ogni grado di sviluppo e in ogni momento, la tattica del proletariato deve tener conto di questa inevitabile dialettica oggettiva della storia del genere umano: da un lato, utilizzando ai fini dello sviluppo della coscienza, delle forze e delle capacità di lotta della classe d'avanguardia le epoche di stagnazione politica e di lento sviluppo, di sviluppo cosiddetto "pacifico"; e, dall'altro lato, orientando tutto questo lavoro nella direzione dello "scopo finale" del movimento di tale classe e suscitando in essa la volontà di risolvere praticamente i grandi problemi nelle giornate culminanti che "concentrano in sé venti anni".

Questa è la conclusione di Lenin: il movimento rivoluzionario che ha saputo utilizzare, ai fini della lotta strategica, le epoche di lento sviluppo, le epoche dei "venti anni che contano un giorno", sarà in grado di risolvere i grandi problemi dei "giorni che concentrano in sé venti anni". I grandi problemi non li propone lo Stato, il suo teorico o il suo leguleio, ma la dialettica della storia.

 

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Ultima modifica 9.1.2001