Metodo e partito scienza

Arrigo Cervetto (1991-1996)

 


Edizioni Lotta Comunista
Trascritto per internet da Antonio Maggio (Primo Maggio), agosto 2001


 

1] Necessità della teoria
metodo ed esperienza
metodo e materiale di pensiero
i primi passi del metodo
stato ideologico e metodo
metodo e mutamenti della forma politica
metodo e cosmopolitismo
metodo ed imposta
il metodo e la virtù

METODO ED ESPERIENZA[1]
Occorre imparare ad operare con i concetti. Lo ricorda Engels nell'"Anti-Dühring":
"I risultati, nei quali vengono sintetizzati i dati dell'esperienza, sono concetti: e l'arte di operare con i concetti non è innata e neppure acquisita col buon senso quotidiano, ma richiede un pensiero effettivo, il quale a sua volta ha dietro di sè una storia perlomeno altrettanto lunga di quella delle scienze naturali sperimentali".

La tesi può essere sintetizzata nella formula della necessità della teoria.

I risultati dell'esperienza sono riassunti nei concetti, ma senza "l'arte di operare con i concetti", di collegarli, di selezionarli, di confrontarli, non si ha teoria.

L'esperienza politica, ad esempio, non approda alla teoria politica, alla teoria dello Stato senza l'acquisizione dell'"arte di operare con i concetti", il metodo e la tecnica della filosofia.

In un passo della "Dialettica della natura" Engels osserva:

"Qualunque sia la poca considerazione che si voglia mostrare nei confronti di qualsiasi pensiero teoretico, resta pur sempre il fatto che senza quest'ultimo non è possibile collegare assieme neppure due singoli fenomeni naturali, e intendere la relazione che passa tra di loro.

Il problema consiste nel vedere se noi, facendo ciò, pensiamo giusto, oppure no".

Come si vede, anche il semplice collegamento di due singoli fenomeni naturali necessita di un pensiero teoretico.

E' una esigenza che riguarda anche i fenomeni politici.

Filosofia e politica sono due facce della teoria.

Nella famosa lettera del 27 ottobre 1890, Engels presenta a Conrad Schmidt la teoria filosofico-politica dei massimi pensatori.

Partecipando alla divisione sociale del lavoro, le persone che si occupano di filosofia esercitano con le "loro produzioni" una "influenza su tutta l'evoluzione sociale, e persino sull'evoluzione economica". A loro volta sono "sottoposti all'influenza dominante della evoluzione economica". Ciò "si può facilmente provare per il periodo borghese".

Il primo esempio è costituito da Thomas Hobbes:

"fu il primo materialista moderno (nel senso del secolo XVIII), ma fu un assolutista, essendo vissuto nel momento in cui la monarchia assoluta attraversava in tutta Europa il periodo della sua fioritura e in Inghilterra impegnava la lotta contro il popolo".

A Hobbes fa seguito John Locke, il quale pubblica "Due trattati di governo" nel 1691, quaranta anni dopo "Il Leviatano". La differenza tra una concezione assolutistica ed una concezione empiristica dello Stato è contenuta nel mezzo secolo di rivoluzione sociale e politica inglese.

Engels lo ricorda:

"Locke fu in religione come in politica il figlio del compromesso di classe del 1688.

I deisti inglesi e i loro successori più conseguenti, i materialisti francesi, furono gli autentici filosofi della borghesia: i francesi furono, anzi, i filosofi della rivoluzione borghese".

Infine la Germania dove "... da Kant a Hegel si vede passare il filisteo tedesco, ora in modo positivo, ora in modo negativo".

L'esperienza di tre borghesie si ritrova nelle diverse teorie filosofiche e politiche.

 

METODO E MATERIALE DI PENSIERO [2]
Engels stabilisce un rapporto specifico tra la teoria filosofica e la teoria politica:

"Come campo determinato della divisione del lavoro la filosofia d'ogni epoca presuppone un determinato materiale di pensiero, che le è stato trasmesso dai suoi predecessori e da cui essa parte.

Ed è perciò che paesi economicamente arretrati possono nella filosofia avere la parte dei primi violini: nel secolo XVIII la Francia rispetto all'Inghilterra, sulla cui filosofia si appoggiavano i francesi; più tardi in Germania rispetto ad entrambe".

La tesi del vantaggio di chi è arretrato ci permette di formulare una ipotesi sull'evoluzione delle teorie dello Stato.

Dice Engels:

"Ma tanto in Francia che in Germania la filosofia, come la generale fioritura letteraria di quel periodo, fu pure il risultato di uno sviluppo economico.

La supremazia finale dell'evoluzione economica anche in questi campi è per me cosa sicura, ma si produce nell'ambito delle condizioni prescritte dallo stesso campo interessato; nella filosofia, per esempio, per l'effetto di influenze economiche (che a loro volta agiscono per lo più soltanto nel loro travestimento politico, ecc.) sul materiale filosofico esistente, trasmesso dai predecessori".

Le "influenze economiche" agiscono nel loro "travestimento politico": è una indicazione per una analisi in grado di individuare l'involucro e il contenuto della politica.

Engels fa una osservazione importante:

"L'economia non crea qui nulla a novo, ma determina il modo della trasformazione e dell'evoluzione del materiale di pensiero preesistente, e per lo più lo determina in modo indiretto, perché sono i riflessi politici, giuridici e morali quelli che esercitano la più grande azione diretta sulla filosofia".

Il rapporto tra la struttura economica e la sovrastruttura è, come si vede, un rapporto dialettico: la struttura determina, in modo indiretto, il "modo della trasformazione e dell'evoluzione" del materiale di pensiero della teoria filosofica. E' la politica ad agire in modo diretto sulla filosofia.

La teoria (filosofica e politica, visione e metodo) è il risultato del complessivo rapporto dialettico.

Conviene richiamare un passo di Engels, il passo di una lettera nota e spesso citata:

"Quanto più il terreno che stiamo indagando si allontana dal terreno economico e si avvicina al terreno puramente astratto, tanto più troveremo che esso rappresenta nella sua evoluzione degli elementi fortuiti, tanto più la sua curva si svolge a zig zag. Ma se vi provate a tracciare l'asse medio della curva troverete che, quanto più lungo è il periodo preso in esame e quanto più esteso è il terreno studiato, tanto più questo asse si avvicina all'asse dell'evoluzione economica e corre parallelamente a quest'ultimo".

La teoria viene ad essere, in modo indiretto, all'asse della evoluzione economica.

 

I PRIMI PASSI DEL METODO [3]
Filosofia e politica compiono assieme i primi passi della nuova era.

Con il Rinascimento inizia la storia moderna e la ricerca scientifica moderna, ossia lo sviluppo scientifico sistematico e completo.

Scrive Engels nella "Dialettica della natura":

"E' l'epoca che ha inizio con la seconda metà del secolo XV. La monarchia, appoggiandosi sulla borghesia urbana, spezzò il potere della nobiltà feudale e fondò i grandi regni, basati essenzialmente sulla nazionalità, nei quali si svilupparono le moderne nazioni europee e la moderna società borghese".

Mentre nobiltà e borghesia si scontrano, la guerra dei contadini in Germania indica le future lotte di classe perché porta sulla scena non soltanto i contadini in rivolta. Dietro ad essi si affacciano "i gruppi iniziali dell'attuale proletariato".

L'Italia "si elevò a una fioritura artistica senza precedenti, e mai più eguagliata, che sembrò un riflesso dell'antichità classica".

In Italia, in Francia, in Germania sorse la prima letteratura moderna. Anche l'Inghilterra e la Spagna ebbero, poco dopo, il loro periodo di letteratura classica.

Con la scoperta dell'America furono gettate le basi del commercio mondiale e del passaggio dall'artigianato alla manifattura.

"La dittatura spirituale della Chiesa fu rotta...". I popoli germanici accolsero il protestantesimo. "Fu il più grande rivolgimento progressivo che l'umanità avesse fino allora vissuto: un periodo che aveva bisogno di giganti e che procreava giganti: giganti per la forza del pensiero, le passioni, il carattere, per la versatilità e l'erudizione. Gli uomini che fondarono il moderno dominio della borghesia erano tutto, fuorché limitati in senso borghese. Al contrario, il carattere avventuroso della loro epoca ha lasciato un'impronta, più o meno forte, in tutti. Non vi era allora quasi nessun uomo di rilievo che non avesse fatto grandi viaggi, che non parlasse quattro o cinque lingue, che non brillasse in parecchie discipline".

Leonardo da Vinci era un grande pittore, matematico, meccanico, ingegnere, fisico.

"Albrecht Dürer era pittore, incisore, scultore, architetto, ideatore di

sistemi di fortificazione...".

Anche la teoria politica aveva bisogno di un gigante e lo trovò a Firenze:

"Machiavelli era uomo

politico,storiografo,poeta, e insieme il primo scrittore di cose militari degno di nota nell'epoca moderna".

La statura delle personalità, Engels non la misura con il metro psicologico ma con il carattere sociale dell'epoca:

"Gli eroi di quell'epoca non erano ancora sotto la schiavitù della divisione del lavoro, che ha reso così limitati ed unilaterali tanti dei loro successori. Ma la loro caratteristica vera e propria sta nel fatto che

vivevano e operavano, quasi tutti, in mezzo agli avvenimenti del tempo, alle lotte pratiche: prendevano posizioni e combattevano anche essi, chi con la parola e con gli scritti, chi con la spada, parecchi con ambedue. Veniva da ciò quella pienezza e quella forza di carattere, che li faceva uomini completi".

Operare con il braccio e la mente: una visione del marxismo gettata in faccia agli avversari.

 

STATO IDEOLOGICO E METODO[4]
Machiavelli vede la tendenza, nella storia moderna, all'affermazione dello Stato come "forza organizzata", sul territorio nazionale. La sua visione è, però, ristretta perché fa dipendere il successo o l'insuccesso dello Stato, dall'astuzia o dall'inettitudine degli statisti.

Possiamo dire che, nella riflessione di Machiavelli, la politica è ridotta, in parte, a "tecnica" della politica e che, tale riduzione, impedisce di individuare la base sociale che determina lo Stato e, in definitiva, la sua specificità. Staccata da questo contesto, la "teoria politica" non permette di utilizzare la massa di osservazioni empiriche dell'Italia del primo Cinquecento che costituisce l'apporto scientifico dell'opera di Machiavelli. Anzi, secondo George H. Sabine, il Segretario fiorentino giunge a conclusioni opposte e cioè a pensare che:

1) i fattori economici, religiosi, morali sono forze della società che il politico abile (il tecnico della politica) può usare a vantaggio dello Stato;

2) il politico abile può persino produrre questi fattori a favore dello Stato.

Si comprende la valorizzazione fatta da Gramsci nel quadro della teoria del "blocco storico" del "moderno Principe". A parte l'impostazione idealistica che inverte la determinazione e che Gramsci non può ovviamente accettare, vi è un aspetto della teoria dello Stato di Machiavelli che viene integrato nell'elaborazione gramsciana: il ruolo dello Stato nella produzione delle ideologie.

E' un lato poco considerato del rapporto Machiavelli-Gramsci. Certamente, dopo quattro secoli, Gramsci non poteva pensare che le ideologie sorgano al di fuori della "società civile". La sua concezione premarxista sta, piuttosto, nel nesso interno alla "società civile" e nella sopravvalutazione del ruolo "ideologico" dello Stato così come risulta nella formula "coercizione più consenso eguale ad egemonia".

Se si pensa che la produzione delle idee avvenga prevalentemente ad opera del cosiddetto "apparato ideologico" dello Stato se ne deduce che le istituzioni statali svolgano un ruolo totale nella sovrastruttura e nella struttura. La teoria dello Stato assolutista di Machiavelli è assunta, in questo modo, dalla teoria dello Stato totalitario.

Ma se concepiamo come più complesso il processo di produzione delle ideologie, più di quanto non lo sia quello del presunto totalitario "Stato ideologo", dobbiamo collocare questo processo nelle classi e nelle frazioni delle classi collegate al processo complessivo del capitale, al processo di produzione e di suddivisione del plusvalore.

Lo Stato non può abbracciare tutto il processo, anche perché ne riflette tutte le contraddizioni.

Vi saranno, quindi, ideologie "particolari" di frazioni di classe, prodotte da queste frazioni, che investiranno lo Stato in quanto ideologie della lotta politica per conquistare le istituzioni statali, per aumentare la propria influenza, per dare luogo ad una favorevole combinazione di forze in seno allo Stato.

Lo scontro tra le frazioni della classe dominante può diventare lotta per l'utilizzo dello Stato come divulgatore di ideologie, che è del resto il fondamentale ruolo ideologico che assolve. Divulgatore, quindi, più che produttore. E lo è anche quando divulga l'ideologia unitaria, l'ideologia che mantiene unite le frazioni della classe dominante, sia all'interno nella conservazione dei rapporti sociali che all'esterno nella ripartizione del mercato mondiale.

Lo Stato divulgatore delle idee che ne giustificano l'esistenza nei confronti delle classi sociali e delle loro frazioni e che ne motiva la collocazione e l'azione nel sistema internazionale degli Stati, sistema di equilibrio e di conflitto.

Le idee sono prodotte dalla società che produce lo Stato.

 

METODO E MUTAMENTI DELLA FORMA POLITICA[5]

Lo sviluppo del mercato alla fine del Quattrocento, quando Machiavelli fonda la serie delle moderne teorie dello Stato, pone il problema del cambiamento delle vecchie forme statali medioevali.

La società medioevale è, economicamente e politicamente, una società prevalentemente locale dove il traffico commerciale si svolge con flussi di merci controllate e in mercati monopolizzati.

Questo tipo di commercio può essere regolato dalle corporazioni dei produttori e avviene nel quadro delle istituzioni municipali, dato che l'organismo commerciale è costituito dalle città e ha limitata libertà di movimento.

Lo Stato assume la forma federativa e non riesce a controllare un vasto territorio, data anche la scarsità dei mezzi di comunicazione.

Quando i mezzi di comunicazione si estendono entra in crisi il sistema commerciale monopolizzato perché non offre più vantaggi. Si avvantaggiano, invece, i mercanti che possono sfruttare tutti i mercati, controllare tutta la produzione e superare i poteri delle corporazioni e delle istituzioni cittadine. Lo Stato acquisisce la possibilità di regolare, proteggere, incoraggiare il commercio, sia all'interno che all'esterno; possibilità che viene a mancare alle singole città.

Nel Cinquecento gli Stati attuano una politica commerciale che aumenta la loro potenza nazionale, tramite imposte e tasse che possono avere di più e con più facilità dalla borghesia commerciale di quanto non potessero ottenere dalla città, con la quale sono in perenne contrasto fiscale, e dalla campagna, nella quale nobiltà e clero sono spesso esentati da tributi. D'altra parte la borghesia commerciale ha interesse ad uno Stato forte, e diviene naturale alleata della monarchia contro la città e la nobiltà.

Ha interesse al superamento della vecchia forma feudale dello Stato monarchico e, non potendo ancora controllare il Parlamento influenzato dalla nobiltà, lascia che lo Stato lo subordini.

L'accentramento statale, sia legislativo e giudiziario che militare, torna a vantaggio della borghesia commerciale, dato il suo interesse ad impedire che la nobiltà possa promuovere e sovvenzionare bande mercenarie.

Agli inizi del Cinquecento la monarchia assoluta sta divenendo la forma statale prevalente. Essa si impone con la forza.

In campo teorico ciò significa la fine della teoria "costituzionale" feudale dello Stato e l'esaurimento della teoria statale delle Città libere. La nuova teoria statale è il "legittimismo" dinastico e diventa la teoria più diffusa sino a quando sarà rovesciata dalla teoria borghese del nazionalismo.

In campo sociale lo sviluppo dello Stato assolutistico comporta la trasformazione di una parte della rendita agraria in imposta.

La Chiesa vede espropriati i "monasteri" ricchi e lo Stato tende a spostare a suo favore i vecchi rapporti di forza instaurati con l'alleata. Il clero, di conseguenza, è sottoposto al controllo statale e vede limitato il suo potere legale. La Chiesa da alleata degrada a collaboratrice dello Stato. Da Chiesa universale tende a ridursi a Chiesa nazionale.

Con l'unione dei regni di Castiglia e di Aragona la Spagna diviene la maggiore potenza del Cinquecento.

L'Inghilterra, con la conclusione della guerra delle Due Rose e il regno di Enrico VII, esprime la monarchia assoluta dei Tudor che durerà sino al regno di Elisabetta. Lo Stato incoraggia la politica marittima; la borghesia mercantile si trova rafforzata proprio mentre declina il Parlamento, influenzato dalla nobiltà.

Il riflesso sulla teoria filosofica e sulla teoria politica dell'avvento di nuove classi, di nuovi Stati e di nuove potenze è poderoso e destinato a durare.

 

METODO E COSMOPOLITISMO[6]
La società di Machiavelli prepara la storia moderna.

In Germania la debolezza dell'impero favorisce il localismo della nobiltà. Lo Stato assolutistico si delinea solo in Prussia e in Austria, mentre la Francia diviene il terreno propizio alla nuova forma di Stato.

La guerra dei Cento Anni ha indebolito soprattutto le istituzioni locali. Ma, nella seconda metà del Quattrocento, la Francia diventa la nazione più unita d'Europa poiché vede tutte le forze militari riunite in mano allo Stato che impone una tassa nazionale per l'Esercito. La creazione di un'Armata Cittadina conduce all'assoggettamento della Bretagna e della Borgogna. Avendo perduto il controllo delle tasse, le istituzioni locali hanno ceduto la possibilità di influenzare e ricattare lo Stato.

E' importante notare questo aspetto ai fini di collegare la teoria economica (in particolare, la scienza delle finanze) con la teoria militare e la teoria politica. Con il potere fiscale, lo Stato acquisisce il potere militare.

In Italia lo sviluppo dei Comuni e della borghesia commerciale ed industriale non era riuscito, nel periodo precedente, a costituire uno Stato centrale capace di esprimere una forza militare cittadina, esercito o milizia che fosse, e nel contempo in grado di elaborare una politica estera contro le potenze emergenti in Europa.

Neppure il settentrione della penisola riesce a maturare uno Stato che possa svolgere un ruolo non secondario in una fase storica di formazione di grandi Stati nel continente.

La ricerca delle cause di tale incapacità rappresenta da lungo tempo, un'assillante problema di storia del capitalismo, problema sostanzialmente non risolto in modo definitivo.

Chi ha insistito sulla mancanza di un mercato interno, data la separazione della campagna dalla città, e sulla prevalenza del mercato estero non ha considerato il fatto che il mercato francese non è molto diverso.

Ma, soprattutto, dimentica che in discussione è la incapacità a costituire uno Stato assolutistico e non uno Stato borghese. Sono due tipi di Stato che non vanno confusi.

Gramsci aggiunge, tra le altre cause, il cosmopolitismo dei mercanti, cosmopolitismo che crea un'ambiente adatto ad un comportamento degli intellettuali privo di quella ideologia nazionale capace di concepire uno Stato unitario.

A questo punto si può, invece, dire che quella che andrebbe chiamata ideologia "assolutistica" è ben diversa da quella che abbiamo definita ideologia "nazionale", anche se alcune idee della seconda trovano ispirazione nella prima. E poi, anche i mercanti francesi sono in buona parte cosmopoliti e non è questo il carattere che li distingue nettamente dai mercanti italiani.

La teoria del "consenso", del ruolo della cultura e degli intellettuali, del ruolo della sovrastruttura "ideologico-politica" nella costruzione dello Stato porta Gramsci a ricercare le cause della incapacità italiana sia in termini "economicistici" (mancanza di un mercato interno) che in termini "culturalistici" (cosmopolitismo degli intellettuali). Sopravvaluta il commercio e la cultura e sottovaluta la politica trascurando il ruolo della "forza", forza "determinata" e non forza "astratta".

Privilegiando la categoria del "consenso", ritenendola adatta a cogliere il corso storico del processo politico, Gramsci trascura la categoria della "forza" nell'analisi della formazione dello Stato assolutistico di tipo rinascimentale. Eppure, Marx ed Engels la avevano richiamata a più riprese e proprio in riferimento a quel periodo storico europeo. Basti ricordare la teoria di Engels sulla "violenza", teoria che Gramsci esplicitamente non contesta. Il problema della cause va, quindi, ricondotto alle cause della mancata "determinazione" della forza necessaria a costruire lo Stato assolutistico in Italia, cioè alla mancata "determinazione" del potere militare dello Stato.

In definitiva, il problema è quello della mancata unificazione del potere fiscale in grado di creare un potere militare come apparato tecnico e come organizzazione e non solo come cultura.

Ecco i problemi politici e i problemi economici intrecciarsi dialetticamente in una ricerca storica ancora da condurre e da concludere.

 

METODO ED IMPOSTA[7]
La ricerca storica, in questo caso, non è più quella generica sul mercato o quella culturale sull'ideologia degli intellettuali cosmopoliti ma quella concreta sul fisco e sull'imposta.

Ovviamente, la riduzione del problema storico a problema dell'imposta è anch'essa un'operazione basata su di una astrazione, ma su di una astrazione necessaria in quanto l'unica che possa permettere di analizzare concretamente gli aspetti economici e politici della questione.

Solo seguendo quest'impostazione si potrebbe ricostruire quella "azione combinata" che determinò in Italia la mancata formazione dello Stato assolutista e si potrebbe decifrare il meccanismo profondo di uno dei casi storici della scienza politica e della filosofia.

La lotta sull'imposta assunse il valore di uno scontro economico-politico tra le classi e le frazioni delle classi nella realtà di un'epoca di transizione.

E' unilaterale la tesi che assegna un ruolo determinante alla politica del Papato nella formazione delle potenze europee e, di conseguenza, nella mancata crescita di una potenza italiana.

In sostanza anche Gramsci riprende parzialmente la tesi presente, in modo incompiuto, nel pensiero di Machiavelli e ciò gli impedisce di collocare l'azione del Papato in una più corretta visione di "azione combinata" di fattori.

Dato questo limite, la tesi Machiavelli Gramsci non risolve la questione che pone, ossia la questione della valutazione delle forze in campo.

Il Papato ha una forza tale da poter contrattare la rendita e, di conseguenza, da poter influire sulla quantità e la qualità dell'imposta necessaria al potere militare e alla sua centralizzazione. La forza di condizionamento non costituisce, però, una forza determinante nel processo di formazione dello Stato assolutista, per quanto i movimenti culturali possano svolgervi un ruolo importante.

Resta, pur sempre, il compito di un'analisi del quadro complessivo di tutti i fattori che, storicamente, hanno determinato la "azione combinata" che vede agire il Papato come forza contrastante la formazione dello Stato assolutista italiano in concomitanza con la formazione dello Stato centralistico in Francia e in Spagna.

Rimane, infine, l'ipotesi, sollevata negli ultimi decenni, del cosiddetto "surplus coloniale".

Se questa ipotesi è inconsistente quando tratta lo sviluppo capitalistico e lo Stato borghese, a maggior ragione lo è quando affronta lo Stato assolutista. Nella stessa penisola iberica la formazione degli Stati assolutisti precede il "surplus coloniale" ed è preceduta, casomai, dal profitto commerciale.

Non si può tentare di risolvere un problema di ricerca storica sulla formazione economico-sociale facendo ricorso ad una categoria generica quale è il "surplus".

Dei cinque Stati (Napoli, Firenze, Venezia, Milano, Stato Pontificio), nessuno ha una "forza unificatrice". Il Papato tende a svolgere la funzione di arbitro o, almeno parzialmente, ad attuare una sua politica di "bilancia".

Machiavelli lo ritiene responsabile della mancata unificazione italiana, dato che è troppo debole per farla e troppo forte per impedirla e soprattutto perché favorisce l'intervento delle potenze straniere.

Il pensatore fiorentino dovrebbe spiegare perché il Papato è debole. Il suo tempo non permetteva di andare oltre la convinzione che la società decade perché manca di virtù.

 

IL METODO E LA VIRTU'[8]
La filosofia e la teoria politica di Machiavelli assegnano un posto importante alla virtù.

La società manca di virtù perché la natura umana è egoistica e profondamente aggressiva in quanto tende ad acquisire beni e potenza. Non vi è limite a questo desiderio umano, mentre sono beni e potenza ad essere limitati dalla naturale scarsità. Da questa contraddizione deriva il fatto che gli uomini siano sempre in lotta e in competizione.

La riflessione filosofica sulla natura umana diventa, nel pensiero di Machiavelli, riflessione politica, ossia riflessione sulla permanente lotta tra gli uomini.

La competizione tra gli uomini provoca una minaccia di caos che solo la forza che ha in mano la legge, ossia lo Stato, riesce ad impedire.

Lo Stato deve essere "saggio", cioè deve agire partendo dalla conoscenza della natura umana: deve assicurare la "proprietà" e la "vita" per ottenere il consenso dei governati. Può uccidere, ma non depredare.

Si può collegare questa regola di condotta politica alla generale considerazione sulla naturale scarsità. Uno Stato predatore aggraverebbe la situazione invece di risolverla.

Non a caso Machiavelli pensa che sia la debolezza e l'insufficienza dell'individuo a creare il bisogno di uno Stato che lo protegga.

La legge dello Stato forma il "carattere" o "virtù" del suo popolo, poiché morale e virtù derivano dalla legge.

Il pensatore fiorentino apre, con la anticipazione del genio, la strada alla scienza politica: è la politica a creare la morale e non può essere la morale a creare la politica. In altre parole: la politica non deve essere succube della religione, lo Stato non deve essere subordinato alla Chiesa, la politica non è strumento della morale.

Il primato della politica rovescia il primato della religione e capovolge la gerarchia delle istituzioni. Lo Stato sopra, la Chiesa sotto.

Il primato della politica apre la strada alla scienza politica perché sgombra il campo al futuro poderoso scontro sul rapporto politica-economia, scontro che impegnerà generazioni di combattenti del fronte teorico e del fronte politico delle tre classi.

Lo scopo dello Stato è, nel pensiero di Machiavelli, quello di costruire la morale della società.

Il legislatore è creatore non solo dello Stato ma di tutta la società. Il criterio di giudizio dello Stato, però, non risiede nella morale ma nell'efficienza, nel successo. Per realizzare il successo lo Stato può, anzi deve impiegare ogni mezzo poiché questo è giustificato dal suo fine.

La formula del fine che giustifica il mezzo è diventata celebre grazie alla critica di tutte le correnti che hanno avversato il pensatore fiorentino, ma tolta dalla teoria organica che l'ingloba è poco più di una battuta. Non c'era bisogno di Niccolò Machiavelli per sintetizzare un'idea che ha sempre animato la pratica politica e che la stessa Chiesa assume ergendosi a fine.

Il nocciolo della teoria di Machiavelli non è il rapporto fine-mezzo bensì il rapporto politica-morale, ed è proprio su questo rapporto che, dopo aver vinto contro la Chiesa, soccombe di fronte all'economia.

Il metodo dovrà ancora percorrere secoli di strada prima di rimettere la questione sulle proprie gambe e per scoprire quel primato dell'economia che avrebbe permesso, finalmente, di porre le basi della scienza politica.

Gran parte dell'opera di Machiavelli è dedicata, invece, a spiegare l'uso della "saggezza" da parte dello Stato.

L'autore fissa alcune regole che, in realtà, altro non sono che generalizzazioni empiriche tratte dalla pratica diplomatica (astuzia, raggiro, inganno, ecc.) elevata, arbitrariamente, a politica pura.

Sempre più le regole di azione politica sono ispirate a una visione filosofica che vede gli uomini egoisti per natura ed uno Stato che, con la sua legge, è l'unico potere che unifica la società ed obbliga l'individuo ad avere un comportamento morale.

Ciò spiega il doppio comportamento della società (morale) e dello Stato (amorale). E in quanto costretto ad usare la amoralità, lo Stato deve usarla con saggezza.

Il primo atto di saggezza può essere considerato quello di regolare l'amoralità, ossia di fissare le regole dell'azione politica.

Ci troviamo, nuovamente, di fronte a una idea di Stato Ideologo.

Per rendere la società morale, lo Stato deve essere amorale.

Lo Stato politico amorale è, nello stesso tempo, lo Stato Ideologo morale. La nota formula assume contorni poco noti.

NOTE
1 lotta comunista Febbraio 1990
2 lotta comunista Marzo 1990
3 lotta comunista Aprile 1990
4 lotta comunista Maggio1990
5 lotta comunista Giugno 1990
6 lotta comunista Luglio 1990
7 lotta comunista Ago.-Settem. 1990
8 lotta comunista Ottobre 1990

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Ultima modifica 11.09.2001