Sulle cinque tesi di Pannekoek

Damen

 


Da Prometeo 10 — I serie — Giugno-luglio 1948
Fonte: Primo Maggio


 

 

Se l’elaborazione d’un pensiero critico e l’atteggiamento fermo e a volte scanzonato avevano attirato la nostra attenzione e simpatia sul gruppo dei “Tribunisti” olandesi, oggi “comunisti dei consigli”, la lettura delle recenti “cinque tesi” del compagno A. Pannekoek ci fa sentire più forte ed amara la distanza che li separa dalle posizioni originarie di questo gruppo che, se non altro, avevano la suggestione d’una arditezza polemica, pur adombrata da quel leggero afflato d’idealismo proprio, del resto, d’ogni formulazione d’estremismo politico.

Ci pare di scorgere in queste “cinque tesi” la fase conclusiva di tutto un processo involutivo del raggruppamento operaistico olandese, dovuto alla scarsa aderenza alla linea classica del marxismo rivoluzionario e all’insufficiente legame alle lotte e alle esperienze del proletariato.

Si aggiunga la constatazione che i movimenti, come quello dei Tribunisti o Comunisti dei Consigli, diminuiscono di potenza d’urto e di prestigio quanto più gli avvenimenti li costringono a fare assegnamento sulla sola loro luce interiore. Si vuol dire con ciò che le possibilità che avevano dimostrato di possedere allorché erano inquadrati nel poderoso complesso dei partiti dell’Internazionale Comunista, si sono ridotte ad entità di scarso rilievo quando, cessato il giostrare tra le idee, le teorie e i programmi, questi movimenti sono stati piegati alla dura bisogna di confrontare col corso degli avvenimenti il loro bagaglio ideologico e critico, e certe loro impostazioni tattiche della lotta del proletariato.

C’è insomma nelle posizioni teoriche, negli stati d’animo e negli atteggiamenti di scuole e di gruppi e di isolati rivoluzionari, in tutti questi frammenti sopravvissuti all’enorme sconquasso abbattutosi sul movimento politico del proletariato internazionale con la vittoria della controrivoluzione in Russia e la seconda guerra imperialista, c’è, dicevamo, una tendenza non più coincidente con la linea tradizionale del marxismo, dacché si tenta di sottrarsi con ripieghi e accorgimenti, di valore puramente subiettivo, alla durezza della sconfitta patita, piuttosto che sottomettere questa stessa sconfitta ad un esame critico al lume delle possibilità obiettive della lotta del proletariato; si preferisce, in una parola, al duro e inesorabile metodo di trarre i motivi e i limiti della lotta proletaria dal di dentro, dalla sua stessa esperienza di classe, un più facile operare all’esterno di questa esperienza per schemi ideali a cui innalzare volta a volta i bisogni e l’azione delle masse, attribuendo loro possibilità e virtù che le masse non hanno mai storicamente dimostrato di possedere in proprio.

Deragliano così dal marxismo tanto i teorici e i politici della spontaneità meccanicistica e del pessimismo attesista, quanto i credenti nella mistica d’un operaismo autosufficiente sul piano della volontà e della concretezza rivoluzionaria.

In questa ventata d’iconoclastia contro ogni posizione raggiunta dal moto proletario, contro certi punti fermi acquisiti, e contro le idee divenute cardini della rivoluzione, che pure una recente e spietata verificazione con gli avvenimenti ha reso validi in sede dottrinaria come in sede politica, il gruppo olandese dei Comunisti dei Consigli è forse il solo che appaia tuttora legato agli ormeggi d’una continuità di pensiero, ed è questa considerazione che ci ha spinti ad esaminare da vicino le tesi di Pannekoek. Esse hanno questo di caratteristico; che riuniscono in strana sintesi le due maggiori deviazioni dal marxismo: quella propria dei teorici e politici della spontaneità e l’altra dell’empirico volontarismo di coloro che attribuiscono al fatto organizzativo la virtù taumaturgica di vincere l’opportunismo.

Da un trentennio a questa parte la teoria del boicottaggio del parlamento e dei sindacati reazionari è un po’ il motivo conduttore della polemica che già mise di fronte Lenin ad alcuni gruppi di sinistra dell’Internazionale, non tenendo qui conto di un identico atteggiamento che prima di Lenin e contemporaneamente a lui ha dato e dà tuttora un tratto caratteristico ai seguaci del sindacalismo soreliano e agli anarco-sindacalisti.

Si può forse affermare che i termini della polemica accesasi allora tra i bolscevichi da una parte e i tribunisti olandesi e gli operaisti tedeschi dall’altra, e più precisamente tra Lenin e Gorter-Pannekoek, siano gli stessi che ricorrono oggi nella polemica tra noi e i comunisti dei consigli? Non sembra.

Se i compagni olandesi sono rimasti generalmente sulle loro posizioni teoriche e tattiche senza chiedersi se un solo episodio nella grande e dura esperienza fatta in questi anni dal proletariato internazionale abbia dato o no alla loro posizione validità storica, nel senso cioè di sapere se la strada da essi tracciata e perseguita sia veramente la buona, la sola rimasta ai rivoluzionari per andare oltre il capitalismo; noi, ai motivi polemici di Lenin, che è assurdo riprendere oggi quali sono stati formulati nel suo “Estremismo” preferiamo porre innanzi i risultati d’una esperienza che tiene conto criticamente di tutte quelle assommate in questi ultimi decenni dal moto proletario.

E questa esperienza, mentre ammonisce contro i facili estremismi individuali e di scuole che operano ribaltamenti di novanta gradi quando sono posti dagli avvenimenti di fronte alla responsabilità della direzione del partito rivoluzionario, e contro il dilettantismo delle parole d’ordine del boicottaggio quando le masse sono obiettivamente lontanissime dal “sentire” la necessità storica d’una simile azione e viene a mancare con ciò l’organo specifico del boicottaggio, nega altresì consistenza di classe, possibilità di sviluppo tattico e di fermento alla teoria cara a Lenin del parlamentarismo rivoluzionario. Oggi si sottopone ad esame con un senso più realistico ed avvertito anche l’altra affermazione di Lenin di considerare l’attività dei comunisti nei parlamenti. borghesi alla stregua di una sezione di lavoro, e si è portati piuttosto a mettere decisamente l’accento sulla politica della partecipazione a determinate battaglie elettorali. La sezione di lavoro nel parlamento o è sinonimo di disfattismo rivoluzionario o non ha senso, dato che non è concepibile oggi per il partito proletario una normale prassi parlamentare; d’altro canto non sarebbe nell’interesse della lotta rivoluzionaria precludere al partito la possibilità tattica di operare in concreto come forza di disfattismo rivoluzionario alla Liebknecht nei momenti di alta tensione storica e di svolta verso la guerra.

La tattica del duplice schieramento, nel paese e nel parlamento, quale è stata realizzata in Germania all’epoca dei governi di Turingia e di Sassonia, non può condurre in definitiva che ad Hitler, in nessun caso alla conquista rivoluzionaria del potere; essa si è dimostrata così l’arma più valida dell’opportunismo, per cui non si può né si deve consentire di manovrare entro un fortilizio borghese, che tale è il parlamento, nel momento stesso che le masse proletarie premono da ogni parte e lo attaccano frontalmente.

La tattica del duplice schieramento si è dimostrata fin qui la premessa al compromesso e mai è servita d’abbrivo all’azione rivoluzionaria.

E perché l’accento va posto sulla partecipazione del partito rivoluzionario a questa o a quella battaglia, in ogni caso tutt’altro che rivoluzionaria, delle elezioni?

L’importanza tattica di questa partecipazione va sentita leninisticamente: perché vi partecipano attivamente le masse e vi partecipano sotto la guida dei partiti del tradimento che le controllano e le imprigionano con la suggestione della conquista democratica del potere. E fino a tanto che il capitalismo non sarà sul punto di tirare le cuoia, tale suggestione manterrà un suo intimo motivo di originalità e di forza.

Le masse, da sole, non sono atte a formarsi una coscienza anti-parlamentare, anti-elezionista e anti-maggioritaria, in una parola antidemocratica. E anche quando andranno a battere la testa contro una realtà che sarà la smentita più aperta e sfacciata a tutte le promesse del parlamentarismo e sentiranno il bruciore della beffa elettorale, si potranno avere per reazione stati d’animo di diffidenza e di disgusto e casi individuali di avversione attiva, ma se non vi sarà un azione critica di classe, accorta, costante e persuasiva, del partito proletario, il passato insegna che tutto si ridurrà ancora ad un momento di smarrimento e di inerte disinteresse, più o meno generalizzato, che sarà inevitabilmente risucchiato da un nuova ondata d’euforia parlamentare ed elettoralistica, e così via.

Ai fini della lotta rivoluzionaria si pone il problema di creare la coscienza della frattura di classe nelle masse corrotte dall’ideologia del parlamentarismo democratico per evitare che nella fase dell’attacco rivoluzionario esse siano ancora una volta attratte, attraverso la suggestione d’un ipotetico parlamentarismo rivoluzionario, verso le secche del compromesso.

Ma non si crea la coscienza della frattura se non si è prima operato perché questa sia viva e operante tra le forze fisiche del proletariato, nel quotidiano conflitto dei suoi interessi. E questo non per effetto di una improvvisa illuminazione che gli verrà dall’esterno, dalla potenza esplosiva dell’idea, ma solo in virtù dell’azione che l’avanguardia rivoluzionaria sarà capace di realizzare sul piano dell’aggruppamento delle energie più sensibili e fattive del proletariato e della lotta politica ispirata alle finalità rivoluzionarie della classe.

Si arriverà al boicottaggio del parlamento e dello stesso elezionismo soltanto quando il corso degli avvenimenti avrà storicamente creato il presupposto ad una coscienza traducibile in volontà d’azione boicottatrice. Il boicottaggio, ad esempio, dell’apparato industriale del capitalismo non sarebbe passato alla storia come metodo di lotta se non avesse avuto la pratica possibilità di tradursi in modo più o meno efficace in un azione effettiva contro la macchina. Altrettanto si dica per il boicottaggio contro la guerra come contro le elezioni e il parlamento. È ridursi al dilettantismo e alla tattica dell’impotenza agitare a vuoto parole d’ordine che nessuno o quasi è disposto ad eseguire quando la situazione obiettiva spinge il proletariato nelle braccia dei partiti del compromesso parlamentare.

Non sarebbe stato difficile nel 1919 o 1920 realizzare la politica del boicottaggio quando le masse erano lanciate oltre le istituzioni borghesi per realizzazioni rivoluzionarie, mentre assai difficile è la tattica che consente al partito di risalire lentamente l’ondata di deflusso del moto di classe e arrivare con le masse alla situazione dell’attacco rivoluzionario, a meno che non si voglia far propria la teoria di chi rimane su posizioni di principio in un’attesa inerte, senza cioè operare sulla base delle possibilità obiettive e tornare a operare al fine di preparare i quadri del partito di classe al fuoco della lotta quotidiana.

Chi operasse diversamente dietro gli schemi d’un astensionismo di principio lasciando che le masse, anche le più vive e sensibili, maturino per legge spontanea una loro coscienza astensionista e boicottatrice all’infuori della lotta e della partecipazione attiva anche a certe carnevalate elettorali più dense di dinamismo politico, che sono il prodotto storico della prassi borghese e la cui efficacia è sempre da misurare sul metro della sua rinnovantesi capacità di attrarre a se il proletariato e di piegarlo ai propri fini; chi respingesse questa forma di lotta non per una valutazione politica dell’interesse di classe, ma per un senso di schifo morale e di malinteso estetismo rivoluzionario, si mostrerebbe estraneo al realismo rivoluzionario che deve caratterizzare oggi l’attività d’un partito proletario, costretto a battersi con un avversario che non esita ad alzare la bandiera del socialismo e del comunismo per meglio nascondere dietro di essa l’estrema necessità di difendere il proprio privilegio di classe. E porterebbe inevitabilmente acqua all’ “Estremismo” di Lenin.

Soltanto così il partito di classe diverrà l’effettivo organo di guida delle masse nel passaggio dalla fase del parlamentarismo borghese alla dittatura del proletariato, manovrando con le forze della rivoluzione e non col “bavardage” d’un astensionismo degno d’affiancarsi all’altro passato ormai alla storia col nome di cretinismo parlamentare.

D’altronde l’astensionismo di principio non si giustifica né si sostanzia col prendere a base della sua analisi critica la constatazione che nella fase del capitalismo monopolistico tutto, dall’economia alle sovrastrutture sociali e politiche, tende alla concentrazione, alla ferrea autorità dall’alto e alla violenza per concluderne che è da considerarsi definitivamente chiusa l’epoca del parlamentarismo e delle lotte elettorali. Viviamo, è vero, l’epoca classica della dittatura, della dittatura borghese nella fase della estrema decadenza del capitalismo e della dittatura del proletariato che è già nelle cose, e va traducendosi lentamente nella coscienza del proletariato come momento essenziale e indispensabile per la costruzione del socialismo. Ma ciò non toglie che il parlamentarismo continui a giocare il suo ruolo nefasto e corruttore intrecciandosi alla dittatura, oppure operando in funzione di questa; e si potrebbe trovare in certi dati obiettivi dello sviluppo ineguale dei vari settori dell’economia capitalistici la ragione della coesistenza dei due metodi di reggimento politico e del loro vicendevole integrarsi.

Se è segno di maturità rivoluzionaria saper sottoporre al vaglio della critica le idee e la condotta pratica di tutto un periodo storico, è dovere della sinistra italiana riesaminare al lume dei più recenti avvenimenti la più appariscente, anche e non la più consistente, delle sue posizioni teoriche e tattiche, quella dell’astensionismo che l’azione poderosa, totalitaria e fortemente concentrata della III Internazionale non ha consentito che si traducesse in una concreta esperienza politica.

C’è infatti un lato forte, ma anche uno debole, nelle tesi sull’astensionismo che la sinistra italiana presentò al II Congresso della Internazionale Comunista. Il lato forte consiste nella posizione assunta di boicottaggio del parlamento e delle elezioni dato che questa tattica era la sola marxisticamente possibile nell’epoca storica della dittatura del proletariato e più particolarmente quando esso è lanciato dagli avvenimenti in una azione che ha come fine immediato la conquista del potere; il lato debole consiste invece nel non aver considerata la tattica del partito della rivoluzione legata alle prospettive di un arretramento delle masse proletarie, di una loro diminuita coscienza unitaria di classe e di una minorata capacità di lotta.

Quando si considera inattuale la tattica dell’attacco frontale, il partito del proletariato deve saper adottare quella della difesa attiva che gli consente di riannodare e sviluppare giorno per giorno, faticosamente, i motivi concreti della sua ripresa.

Obiettività vuole però che si debba riconoscere ai comunisti dei consigli, in confronto agli astensionisti in genere, un più spiccato senso di concretezza rivoluzionaria allorché pongono l’organizzazione dei Consigli, o meglio la loro esistenza operante, alla base della politica di boicottaggio del parlamentarismo borghese. Hanno capito, questi compagni, che non si può spostare nel vuoto l’asse dell’azione politica basata sul boicottaggio del parlamento.

Solo che l’organizzazione dei Consigli può concepirsi e realizzarsi non secondo gli schemi ideali e le esigenze tattiche e politiche dei comunisti olandesi, ma sulla linea di sviluppo d’un moto ascendente in vista del potere, imposto alla lotta proletaria dalla svolta rivoluzionaria della presente crisi del capitalismo.

Pensare ai Consigli come all’organismo permanente di massa da contrapporre a sindacato reazionario, verso cui confluiscano oggi tutte le agitazioni spontanee degli operai, è pensare idealisticamente, è operare fuori tempo.

Eppure è recente l’esperienza dei Consigli, e ben caratterizzati sono i motivi che ne hanno reso possibile l’affermazione è lo sviluppo.

La rivoluzione di Febbraio e quella di Ottobre dell’anno 1917 portano i Consigli a svilupparsi compiutamente in misura nazionale, quindi alla loro vittoria nel rivolgimento proletario, socialista. E in men di due anni si palesò il carattere internazionale dei Consigli, l’estensione di questa forma di lotta e di organizzazione al movimento operaio di tutto il mondo, la funzione storica dei Consigli, che è quella di essere i becchini, gli eredi, i successori del parlamentarismo borghese, della democrazia borghese in generale.
―Lenin

Se in Germania l’organizzazione dei Consigli non pervenne allora al compimento della sua funzione storica, ha provato però luminosamente che essa è stata possibile perché germogliata sul terreno incandescente della svolta rivoluzionaria e del moto offensivo delle grandi masse operaie. Al contrario, ed ha valore di riprova storica ottenuta per via indiretta, il secondo dopoguerra non ha visto l’apparizione dei Consigli ad onta dell’azione reazionaria condotta apertamente dai sindacati divenuti strumento della politica imperialista.

Il nostro partito, è vero, pose all’ordine del giorno il problema dei Consigli nel momento di maggiore fermento tra gli operai di fabbrica, allorché questi, con le armi in pugno, s’illudevano di risolvere i loro interessi di classe e di prendere in mano il loro destino obbedendo alla suggestione nazional-comunista della guerra democratica di liberazione e della distruzione del fascismo da compiersi nel quadrò dello Stato capitalista e senza intaccare il regime della proprietà privata. La montata offensiva delle masse trovò i suoi limiti più che nelle esigenze strategiche della guerra non ancora conclusa, nella condotta apertamente controrivoluzionaria del P.C.I.; e le condizioni obiettive che avevano favorito il ritorno offensivo degli operai, se diedero motivo ad affermazioni di principio come quella dei Consigli, in nessun caso si mostrarono determinanti nel senso della creazione di nuovi organismi della lotta operaia.

Precisata così la fase storica nella quale i consigli possono sorgere e affermarsi, è ovvio che solo quando essi sono una realtà consistente e operante, e generalizzata appare la coscienza del potere proletario, il partito rivoluzionario sentirà di aver l’arma per l’azione concreta di boicottaggio del parlamento borghese.

Ma il nostro dissenso con i comunisti dei Consigli si approfondisce allorché l’esame investe il modo del come e del quando dar vita agli organismi di massa, i loro rapporti con i sindacati tradizionali, e la loro costituzionale incapacità ad assumere il ruolo di guida rivoluzionaria che storicamente è proprio del partito di classe.

Sembra strano che proprio nella parte costruttiva delle sue tesi Pannekoek svaghi in una visione avveniristica in cui la lirica sostituisce la dialettica e l’amore della tesi fa dimenticare che la storia delle rivoluzioni è innanzitutto la storia della conoscenza delle possibilità obiettive e dei materiale umano tra loro interdipendenti sul piano dell’azione rivoluzionaria.

Il panorama di questo secondo dopoguerra non dà adito davvero a svolazzi lirici quando si tratta di considerare le condizioni del proletariato internazionale e le stesse possibilità di ripresa della sua lotta.

Il capitalismo appare oggi strapotente nel suo tentativo di organizzazione unitaria e mondiale della sua economia, non per aver trovato in sé la capacità di risolvere la sua crisi, ma per aver saputo piegare ancora una volta alla sua politica imperialistica e alla sua guerra le forze del lavoro, manovrando lo stato maggiore dei partiti operai a vasto raggio d’influenza tra le masse. Si è determinata così la paradossale situazione nella quale troviamo le forze attive della politica operaia alla base della guerra e della ricostruzione; i partiti a tradizione operaia sono ormai saldati allo Stato imperialista e i sindacati più ancora degli stessi partiti. E la nota saliente di questo dopoguerra è il dato di fatto da cui bisogna partire per capire e attuare una politica di classe.

Gli operai nella loro stragrande maggioranza credono ancora nel sindacato come tradizionale organismo di difesa dei loro interessi; e una scaltra politica corporativa e una ben mascherata utilizzazione sul piano parlamentare e governativo delle agitazioni sindacali per un salario migliore o contro la disoccupazione, hanno rafforzato in essi questa illusione. E anche quando condizioni particolari li spingono ad agitazioni spontanee ponendoli apertamente contro la direzione dei sindacati, contro la tregua salariale e contro la politica della pace sociale, sono in ultima analisi ancora i Sindacati a entrare nel vivo dell’agitazione e prenderne la guida, col risultato certo e immediato di rimorchiare gli indisciplinati e ricondurli docili e scornati sulla strada del dovere quale è imposto dalla superiore e patriottica necessità della ricostruzione della economia nazionale.

Fino a tanto che gli operai credono in questo sindacato e nei partiti di massa che ne sono i monopolizzatori, dato obiettivo questo che è espresso dalla situazione generale di deflusso del moto operaio, pensare alla creazione del sindacato rivoluzionario è lo stesso che acchiappar nuvole; e in questa condizione la stessa parola d’ordine di distruzione del sindacato è semplice presa di posizione polemica che non va oltre i consueti motivi di propaganda.

Spetta innanzitutto alla crisi insanabile che va spezzando le reni al capitalismo decadente il compito di maturare i motivi che sono alla base della lenta trasformazione della coscienza collettiva delle masse in senso antimperialista; ed è questa la condizione fondamentale, dialettica da cui scaturirà la spinta verso la costruzione di nuovi organismi di massa atti ad assolvere il compito storico di portare sul piano d’azione del partito di classe e dell’attacco rivoluzionario tutte le forze del lavoro.

Non sappiamo quando ciò potrà avvenire, ma sappiamo che avverrà e che questa è la direzione del nostro lavoro quotidiano. Intanto non dobbiamo volgere le spalle alla realtà per quanto dura ed amara essa sia, ma lavorarci dentro, far leva sulla parte migliore per creare fin d’ora, accanto alle premesse ideologiche e politiche, quelle fisiche e là ove è possibile anche organizzative in vista della ripresa del conflitto di classe. Camminare con le forze, seppure scarse, che attualmente esprimono la frattura di classe; ampliare il raggio della loro influenza; balzare con esse alla testa delle agitazioni spontanee; orientarle sul piano della lotta generale e politica del proletariato, significa lavorare col materiale amano e con le modeste possibilità che sono offerte dall’attuale corso storico del capitalismo, significa lavorare sulla linea del marxismo rivoluzionario.

I comunisti dei Consigli sono su questa linea e si sono lasciati trasportare dalla facile euforia costruttiva, architettando una specie di “èlan vital” rivoluzionario che si originerebbe dai moti spontanei delle masse, passerebbe attraverso l’esperienza dei Comitati di sciopero e il loro generalizzarsi in moto unitario, per concludersi nell’epoca dei Consigli.

Riteniamo virtù del rivoluzionario saper ciò che in situazioni date è necessario fare; ma guai al rivoluzionario che ignora o finge ignorare ciò che nella stessa situazione non si deve fare. E ciò che non si deve fare oggi è architettare in teoria, a vuoto, per l’evidente impossibilità di poter costruire in concreto.

Certo le agitazioni spontanee delle masse che sono avvenute e avverranno all’infuori e contro la loro stessa direzione sindacale costituiscono un’esperienza nuova e interessante seppure ancora in una fase iniziale e di carattere estremamente episodico. Ma solo se alla loro direzione si porrà un organismo saldamente e fermamente ancorato all’azienda e al sindacato, con forze operaie che siano o no sindacalmente tesserate, e sotto l’azione stimolatrice dei gruppi internazionalisti di fabbrica diretti dal partito di classe, le agitazioni spontanee potranno essere convogliate e potenziate sul piano della lotta rivoluzionaria.

Tuttavia, se i comitati di sciopero si presentano come la risultante di un’intesa temporanea tra i rappresentanti delle varie, e quasi sempre troppo varie e generiche opposizioni sindacali e di raggruppamenti politici inefficienti e inoperanti, quando non legati addirittura alla politica imperialista, come nel caso dei trotzkisti, essi non sono, in definitiva, che espedienti organizzativi a base opportunistica; vivono senza una forte idea direttiva e senza metodo, quasi per forza d’inerzia, la fase ascensionale dell’agitazione e vengono spazzati via dal ritorno brusco della direzione del sindacato reazionario. E ogni esperienza fatta su questa direttiva si chiude generalmente in passivo. Bisogna quindi convenire che i Consigli non saranno in nessun caso la risultante di una somma di esperienze negative.

Noi pensiamo che sarebbe snaturare il compito che la storia delle lotte rivoluzionarie ha affidato ai Consigli il considerarli alla stregua del Sindacato, idonei cioè a riprenderne la normale funzione magari sotto il segno d’una postulazione rivoluzionaria.

Nell’ipotesi che l’organizzazione dei Consigli possa nella fase attuale del moto operaio prendere il posto dei sindacati tradizionali, essa non realizzerebbe molto di più e di meglio per la ragione che non è la particolare organizzazione che crea la condizione della lotta rivoluzionaria, ma sarà il modificarsi della situazione obiettiva in senso rivoluzionario che darà all’organizzazione la possibilità di operare e di realizzare sul piano della conquista di classe. Si muoverebbe praticamente tra un astrattismo teorico e una realtà di vita sindacale a breve orizzonte, contingente, rivendicativa, sostanzialmente riformista col solo risultato di screditare nella coscienza del proletariato le possibilità avvenire di un organismo sorto dal crogiuolo delle lotte operaie e pregiudicherebbe seriamente il ruolo affidatogli dalla storia recente delle conquiste rivoluzionarie del proletariato.

Il sindacato, così com’è rappresenta un’esigenza storica e vitale dello Stato imperialista; perciò vivrà per intero l’esistenza di questo Stato, e sarà distrutto con la sua distruzione. Solo allora gli operai saranno in grado di prendere in pugno il loro destino, ma stia sicuro il compagno Pannekoek, che non saranno più così ingenui da trastullarsi con la democrazia aziendale e di fabbrica ma opereranno sul piano della violenza rivoluzionaria perché dallo Stato al Sindacato, dalla chiesa alla fabbrica, tutto, in quanto incrostazione secolare del capitalismo, dovrà passare sotto il rullo compressore della dittatura comunista.

 


Ultima modifica 08.10.2008