L'inatteso

Sergej Ejzenstejn


Scritto nel 1928.

Pubblicato in "La forma cinematografica"


Odi! La voce di un fagianoha inghiottito
il campo spazioso in un sol fiato.
YAMEI (1)

Il famoso attore del Malyj Teatr Zivokini, fu costretto una volta a sostituire all'ultimo momento
il popolare basso moscovita Lavrov nell'opera La bajadera innamorata. Ma Zivokini era senza voce.
I suoi amici scossero il capo con comprensiva com­passione. «Come potrai interpretare quella parte,
Vasilij Ignat'evii? » Zivokini non si lasciò scorag­giare. Disse serenamente:
«Le note che non pos­so fare con la voce, le farò vedere con le mani »(2)
.

 

Abbiamo avuto la visita del teatro kabuki: mirabile manifestazione di cultura teatrale (3).
Tutti i critici ne hanno lodato la straordinaria abilità. Ma nessuno ha saputo apprezzare ciò che ne costituisce la vera meraviglia. I suoi elementi «di museo», di cui si deve pur tener conto per intenderne il valore, non possono spiegar da soli in modo soddisfacente questo fenomeno, questa meraviglia. Una «meraviglia» deve promuovere il progresso culturale, alimentando e stimolando i problemi intellettuali del nostro tempo. Del kabuki ci si limita a parlare usando le più banali frasi fatte: «Una vera musica!» «Che arte nel maneggiare gli oggetti!» «Che straordinaria plasticità!» Si arriva cosi alla conclusione che non c'è nulla da imparare, che (come ha dichiarato uno dei nostri critici più stimati) non c'è in esso niente di nuovo: Mejerchol'd ha già preso dal teatro giapponese tutto quello che può servire!

Dietro queste generiche banalità si rivelano alcuni atteggiamenti reali. Il kabuki è fondato sulla convenzione! Come può tale convenzione toccare gli europei? È il trionfo d'una fredda perfezione formale! E le opere rappresentate son tutte d'argomento feudale! Un vero incubo!

E' proprio questo convenzionalismo che c'impedisce, più di ogni altra cosa, di servirci in modo completo di quanto possiamo prendere dal kabuki.

Ma il convenzionalismo che abbiamo imparato « sui libri» si dimostra in realtà un convenzionalismo di rapporti estremamente interessanti. Il convenzionalismo del kabuki non è affatto il manierismo stilizzato e premeditato che abbiamo nel nostro teatro, innestato artificiosamente fuori dalle esigenze tecniche dell'impostazione. Nel kabuki — come in qualsiasi teatro orientale, per esempio nel teatro cinese - il convenzionalismo è profondamente logico.

Tra i personaggi del teatro cinese c'è « lo spirito dell'ostrica»! Guardate com'è truccato l'interprete di questa parte, con una serie di cerchi concentrici che si susseguono partendo a destra e a sinistra del naso, e riproducendo graficamente le due metà d'un guscio d'ostrica, e capirete subito che il trucco è perfettamente «giustificato». Si tratta d'una convenzione esattamente simile a quella delle spalline d'un generale. Dalla loro origine strettamente utilitaria — servivano un tempo per difendere le spalle dai colpi di sciabola - alla funzione di supporto per le stellette gerarchiche, le spalline s'identificano teoricamente con la ranocchia azzurra sulla fronte dell'attore che fa la parte dello «spirito del ranocchio».

Un'altra convenzione è presa direttamente dalla vita. Nella prima scena di Chushingura (I quarantasette ronin fedeli (4)), Shocho appare nella parte d'una donna sposata senza sopracciglia e coi denti anneriti. Questo convenzionalismo non è più irreale del costume delle donne ebree che si rasano la testa in modo da mostrare le orecchie né di quello delle ragazze del komsomol che portano fazzoletti rossi come una specie di «uniforme». A differenza del costume europeo che ha fatto del matrimonio una salvaguardia contro i pericoli di più liberi rapporti, nell'antico Giappone (all'epoca di quest'opera) la donna sposata, non avendone più bisogno, distruggeva la pro­pria bellezza! Si toglieva le sopracciglia e anneriva (a volte addirittura estirpava) i propri denti.

Passiamo ora alla cosa più importante, al convenzionalismo che si spiega con la specifica visione del mondo dei giapponesi. Questo appare in modo particolarmente chiaro durante la percezione diretta dello spettacolo, a un grado particolare che nessuna descrizione ha saputo comunicarci.

Troviamo qui qualcosa di assolutamente inatteso: un punto d'incontro del teatro kabuki con quelle estreme sperimentazioni teatrali, dove il teatro si trasforma in cinema (5) e dove il cinema compie l'ultimo passo nel suo sviluppo, diventando cinema sonoro.

La più netta distinzione tra il teatro kabuki e il nostro si trova - se mi si permette un'espressione simile - in un monismo d'insieme.

Conosciamo bene l'insieme emotivo del Teatro d'arte di Mosca, che è l'insieme d'una «riesperienza» collettiva unificata, e il parallelismo d'insieme usato nell'opera lirica (orchestra, coro e solisti). Quando le scenografie contribuiscono anch'esse a questo parallelismo si usa definire il teatro con quella parola ormai corrotta che è « sintetico»; l'insieme «animale» - quella forma superata per cui tutto il palcoscenico chioccia e abbaia e muggisce in un'imitazione naturalistica della vita guidata dagli esseri umani che dànno la loro «assistenza» — fa finalmente le sue vendette.

I giapponesi ci hanno mostrato un'altra forma d'insieme estremamente interessante: l'insieme monistico. Suono, movimento, spazio, voce, non s'accompagnano qui (neanche in modo parallelo), ma funzionano come elementi ugualmente significativi.

La prima cosa a cui pensiamo per associazione assistendo a uno spettacolo di kabuki è il calcio, lo sport più collettivo e d'insieme. La voce, il batter di mani, il movimento mimico, le grida del narratore, i paraventi che si spiegano, sono come altrettanti terzini, mediani, portieri e attaccanti che si passano il pallone drammatico spingendosi verso il goal dello spettatore stordito.

Non si può parlare di «accompagnamenti» nel kabuki: esattamente come non si direbbe mai che, nel camminare o nel correre, la gamba destra «accompagna» la gamba sinistra, o che entrambe accompagnano il diaframma! Abbiamo qui un'unica sensazione monistica di «provocazione» teatrale. Il giapponese considera ogni elemento teatrale non come un'unità incommensurabile tra le varie categorie di stimoli (sui vari organi sensori), ma come una singola unità teatrale.

... Il mormorio di Ostuzev non più delle cosce rosee della prima donna, un rullar di tamburi quanto il soliloquio di Romeo, il grillo del focolare non meno del cannone sparato al di sopra del pubblico (6).

Così scrivevo nel 1923, mettendo su uno stesso piano gli elementi di ogni categoria, affermando teoricamente la fondamentale unità teatrale che chiamai allora «attrazioni».

Nella sua pratica istintiva, il giapponese compie col suo teatro un appello totale al cento per cento, proprio come quello a cui allora pensavo. Rivolgendosi ai vari organi sensori, fa del suo aggregato una grandiosa provocazione totale per il cervello umano, senza preoccuparsi di sapere quale di queste diverse vie sta seguendo (7).

Al posto dell'accompagnamento vediamo balenare nel teatro kabuki l'essenziale metodo del transfer: spostando il fine affettivo fondamentale da un materiale all'altro, da una categoria di «provocazioni» all'altra.

Assistendo a uno spettacolo di kabuki si pensa involontariamente a un romanzo americano che narra la storia d'un uomo a cui son stati scambiati gli organi nervosi dell'udito e della vista, in modo che percepisce le vibrazioni della luce come suoni e i fremiti dell'aria come colori: ode la luce e vede il suono. Lo stesso avviene nel kabuki! «Udiamo il movimento» e «vediamo il suono». Ecco un esempio: Yuranosuke lascia il castello dopo la resa, e dal fondo della scena muove verso la ribalta. A un tratto il fondale su cui la porta -è dipinta nelle sue dimensioni naturali (primo piano) vien ripiegato e sosti­tuito da un secondo fondale con una minuscola porta (campo lungo). Questo significa che si è ancora allontanato. Yuranosuke continua ad avanzare. Sullo sfondo viene tirata una tenda bruno-verde-nera per indicare che il ca­stello è ora scomparso alla vista. Alcuni passi ancora. Yuranosuke si avvia ora verso la «via fiorita». Quest'ultimo passaggio è sottolineato dal... samisen (8), e cioè dal suono!

Primo spostamento: passi, cioè spostamento spaziale compiuto dall'attore.

Secondo spostamento: fondale dipinto: cambiamento di sfondi.

Terzo spostamento: indicazione espressa in modo intellettuale: la tenda «cancella» qualcosa di visibile.

Quarto spostamento: il suono!

Ecco un esempio di puro metodo cinematografico tolto dall'ultimo brano di Chushingura:

Dopo una breve lotta («per alcuni metri») abbiamo una «interruzione»: una scena vuota, un paesaggio. Poi di nuovo lotta. Esattamente come se, in un film, avessimo inserito un pezzo di paesaggio per creare uno stato d'animo. S'inserisce qui un paesaggio notturno nevoso e deserto (su una scena vuota). E, dopo alcuni metri, due dei «quarantasette fedeli» notano una capanna in cui s'è nascosto il malvagio (e questo lo spettatore lo sa). Esattamente come nel cinema, in un momento cosi acutamente drammatico occorre applicare un freno. Nel Potèmkin, dopo i preparativi per il comando «fuoco!» sui marinai coperti dal telone incerato, ci sono diverse inquadrature di parti «indifferenti» della nave prima che venga dato il comando: la prua, le bocche dei cannoni, un salvagente, ecc. Il freno cosi imposto all'azione rende più viva la tensione.

Si tratta di accentuare la scoperta del nascondiglio. Per ottenere la soluzione giusta, adatta a questo momento, l'accento deve nascere dallo stesso materiale ritmico: il ritorno al medesimo paesaggio notturno, nevoso e deserto.
Ora però ci sono delle persone in scena! Ciononostante, i giapponesi trovano la soluzione giusta: un flauto che interviene trionfalmente! Vediamo allora gli stessi campi nevosi, la stessa notte deserta ed echeggiante che abbiamo udito poco prima, guardando la scena vuota...

Di quando in quando (in genere proprio nel momento in cui sembra che i nervi cedano alla tensione) i giapponesi raddoppiano i loro effetti. Con la loro maestria nell'usare gli equivalenti d'immagini visive e uditive, le danno di colpo entrambe, «equilibrandole» e calcolando con finezza il colpo dello stimolo sensorio, calibrato come una palla da biliardo, sul bersaglio cerebrale dello spettatore. Non conosco modo migliore per descrivere questa combinazione del movimento della mano di Ichikawa Ennosuke mentre commette il karakiri col suono a singhiozzo dietro le quinte, che corrisponde graficamente al movimento del coltello.
Ecco: «Le note che non posso fare con la voce, le mostrerò con le mani! » Ma qui eran fatte con la voce e mostrate con le mani! E si rimane senza fiato di fronte a una simile perfezione di... montaggio.

Conosciamo tutti queste tre domande trappola: che forma ha una scala a chiocciola? come definire il termine «compatto»? che cos'è un mare agitato? È impossibile rispondere a simili domande con un'analisi intellettuale. Potrebbe farlo forse Raudouin de Courtehay. Noi siamo costretti a rispondere coi gesti. Esprimiamo il difficile concetto di « compatto » stringendo il pugno, e così via.
E, ciò che più conta, simile descrizione è del tutto soddisfacente. Siamo anche noi un po' attori di kabuki! Ma non abbastanza!
Nella nostra « Dichiarazione » sul cinema sonoro parlammo d'un metodo di contrappunto per combinare le immagini visive e uditive. Per impadronirsi di questo metodo bisogna sviluppare in se stessi un senso nuovo: la capacità di ridurre a un «denominatore comune» le percezioni visive e uditive.

Gli attori del kabuki posseggono questa capacità alla perfezione. E anche noi dobbiamo acquisirla, varcando uno dopo l'altro i successivi Rubiconi tra teatro e cinema, tra cinema e cinema sonoro. Dobbiamo imparare dai giapponesi il dominio di questo nuovo indispensabile senso. Come l'impressionismo è debitore alle stampe giapponesi e il postimpressionismo alla scultura negra, così il cinema sonoro avrà un debito coi giapponesi.

E non col teatro giapponese soltanto perché, secondo me, queste caratteristiche fondamentali compenetrano profondamente tutti gli aspetti della concezione giapponese del mondo. Gli incompleti frammenti di cultura giapponese a me accessibili almeno, ne sembrano permeati sino alle radici.

Ma non occorre uscire dal kabuki per trovare esempi d'identiche percezioni di tridimensionalità naturalistica e pittura piana. «Non c'entra? » Ma bisogna lasciare che la pentola bolla a modo suo prima di ottenere la soluzione veramente soddisfacente d'una cascata fatta di linee verticali contro cui si agita disperatamente nuotando un drago serpentino di carta d'argento, fissato a una funicella. Oppure, ripiegando i paraventi che formano le pareti di una casa da tè rigidamente cubista « nella valle dei ventagli», si riveli un tetto spiovente, un terrazzo che, visto in prospettiva, ne attraversa in linea obliqua il centro. La nostra scenografia teatrale non ha mai conosciuto tale cubismo decorativo, né tale primitivismo di prospettiva dipinta e neanche tale contemporaneità, che qui sembra pervadere ogni cosa.

Il costume. Nella «danza del serpente», Odato Goro entra, legato da una corda il cui motivo si ripete con un transfer nel disegno della sua tunica; anche la sua cintura è attorcigliata come una corda a tre dimensioni: una terza forma.

La scrittura. Il giapponese possiede una quantità di geroglifici apparentemente illimitata. I geroglifici sono nati da rappresentazioni convenzionali di oggetti e messi insieme esprimono concetti e cioè l'immagine d'un concetto: l'ideogramma. Esiste accanto a questi geroglifici una serie di alfabeti fonetici europeizzati: il Manyò kana, l'hira-gana, e altri. Ma il giapponese scrive tutte le lettere, servendosi contemporaneamente di entrambe le forme. Non è una qualità eccezionale per lui saper comporre frasi di immagini geroglifiche insieme a lettere di diversi alfabeti completamente opposti.

La poesia. Il tanka è una forma quasi intraducibile di epigramma lirico, rigidamente costruito: 5, 7, 5 sillabe nella prima strofa (kami-no-ku) 7,7 sillabe nella seconda (shimo-no-ku) (9). Dev'essere questa la più insolita delle poesie, sia come forma, sia come contenuto. Scritta, la si può giudicare tanto dal punto di vista pittorico quanto poetico. È apprezzata non meno come calligrafia che come poesia.
E il contenuto? Un critico dice giustamente parlando della lirica giapponese: «Una poesia giapponese è più facilmente vista [cioè rappresentata visivamente (S. E.)] che udita».

L'AVVICINARSI DELL'INVERNO
Partono per l'Oriente;
un ponte volante di gazze
una corrente che attraversa il cielo...
Le notti piene di tedio
saranno ornate di candida brina.

Si direbbe che Yakamochi (morto nel 785) si libri nell'etere attraverso un ponte di gazze in volo.

CORVO NELLA NEBBIA DI PRIMAVERA
Il corvo là appollaiato
è seminascosto
da un kimono di nebbia...
come l'uccello intessuto nella seta
dalle pieghe dell'ampia cintura.

L'anonimo autore (circa 1800) vuol dire così che il corvo è appena visibile attraverso la nebbia mattutina come l'uccello intessuto nella stoffa di seta quando la cintura avvolge la tunica.

Rigorosamente limitata nel numero delle sillabe, calligraficamente affascinante nella descrizione e nel confronto, accentuando un'incongruità ch'è anche mirabilmente vicina (il corvo seminascosto dalla nebbia e l'uccello disegnato nella stoffa, seminascosto dalla cintura), la lirica giapponese rivela un'interessante fusione d'immagini, che fa appello ai sensi più diversi. Questo originale «panteismo» arcaico si fonda indubbiamente su una percezione indifferenziata: una ben nota assenza della sensazione di «prospettiva». Non poteva essere altrimenti. La storia giapponese è troppo ricca di esperienza storica, e il peso del feudalesimo, benché politicamente superato, corre ancora come un filo rosso attraverso le tradizioni culturali del Giappone. La differenziazione, entrata nella società col suo passaggio al capitalismo, portando nella sua scia, come conseguenza della differenziazione economica, percezioni differenziate del mondo, non compare ancora in molte zone culturali del Giappone. E i giapponesi continuano a pensare in modo «feudale», cioè indifferenziato. Lo stesso possiamo notare nell'arte infantile. Accade anche ai ciechi che hanno riacquistato la vista, per cui, tutti gli oggetti del mondo, lontani e vicini, non esistono nello spazio, ma li incalzano da vicino.

Oltre al teatro kabuki, i giapponesi ci fecero anche vedere un film, Karakuri-musume. Ma in questo la non-differenziazione, che nel kabuki raggiunge cosi mirabili effetti inaspettati, è realizzata in modo negativo.

Karakuri-musume è una farsa melodrammatica. Iniziata nello stile di Monty Banks, finisce in un'incredibile tristezza e per lunghi tratti è lacerata nei due sensi in modo addirittura criminoso.

Legare questi elementi opposti è in genere la cosa più difficile. Persino un maestro come Chaplin, che ha saputo fonderli nel Monello (The Kid) in modo insuperabile, non è poi riuscito a equilibrarli nella Febbre dell'oro (The Gold Rush). Il materiale scivola da un piano all'altro. Ma in Karakuri-musume abbiamo una confusione totale.
Come accade per la eco, l'unione inaspettata si trova soltanto ai due poli opposti: l'arcaismo delle «provocazioni » sensorie non differenziate del kabuki da un lato, e dall'altro il culmine del pensare in termini di montaggio.
Il pensare in termini di montaggio — la massima altezza a cui si può giungere nel sentire in modo differenziato e risolvere il mondo «organico» — si realizza ex novo in una macchina strumentale che funziona con esattezza mattematica.

Ricordiamo le parole di Kleist [nel suo Uber das Marionettentheater], così vicino al teatro kabuki, nato dalle marionette:

... [la grazia] che rivela meglio in quella struttura del cor­po umano che non ha coscienza affatto oppure ha una co­scienza infinita; e cioè nella marionetta meccanica o nella divinità.
Gli estremi s'incontrano...

A nulla serve lamentare la mancanza d'anima del teatro kabuki o, peggio ancora, trovare nella recitazione di Sadanji una «conferma della storia di Stanislavskij»! O 'crearvi ciò che «Mejerchol'd non ha ancora rubato»!

Salutiamo piuttosto l'incontro del kabuki col cinema sonoro!

 

 

NOTE

 

1Citato in Haiku Poems, Ancient and Modern, tradotto e annotato da Miyamori Asataro, Tokyo 1940.

2Da una collezione di aneddoti su Vasilij Ignat'evic Zivokini (1805-1874), attore russo d'origine italiana.

3Nel corso d'un giro compiuto in Europa nel 1928, una compagnia di attori kabuki, diretta da Ichikawa Sadanji, recitò a Mosca e a Leningrado; in quest'ultima città la rivista «Zizn' iskusstva» («Vita dell'arte») dedicò alla visita un numero (19 agosto 1928), a cui Ejzenstejn collaborò con que­sto saggio [Nola di J. L.].

4Ronin sono i samurai rimasti senza signore, verso la fine del xviii secolo, quando inizia la crisi del feudalesimo giapponese

5 Sono convinto che il cinema è il livello attuale del teatro; che il teatro nella sua forma antica è morto e continua a esistere per pura forza d'inerzia (troveremo le osservazioni fatte, undici anni dopo, dall'autore su questo punto di vista, in Traguardi [Nota di J. L.])

6 Montaz attrakcionov, in «lef», 1923, n. 3, pp. 70-72.

7 In questo tipo di teatro neanche ciò che si mangia è casuale! Non ebbi la possibilità di scoprire se si mangi cibo rituale. Mangiano quel che capita o c'è una lista di cibi definita? In quest'ultimo caso dobbiamo includere anche nell'insieme il senso del gusto!

8 « ... la musica del samisen si fonda, per interpretare i sentimenti, quasi completamente sul ritmo più che sulla melodia. Il suono è inesauribile e, raggruppando i suoni in ritmi mutevoli, i suonatori di samisen ottengono l'effetto desiderato. Fremito-strepito-colpo; dolcezza, asprezza, malvagità, calma; neve che cade, uccelli che volano, vento che muove le cime degli alberi; scaramucce e liti, sereno chiar di luna, dolore del separarsi, incanto della primavera; debolezza di vecchi, gioia d'innamorati: tutte queste cose e molte altre ancora dice il samisen a chi sia capace di superare la cortina che preclude questo mondo musicale all'orecchio degli occidentali, dominati più da convenzioni ingannevoli che dalla melodia» (Zoe Kincaid, Kabuki. The Popular Stage ofJapan, London 1925, pp. 199-200).

9 « La forma della stanza classica è nota col nome di shichìgoto o movimento sette-e-cinque che, secondo la credenza giapponese, echeggia il divino pulsare del mondo» (J. Ingram Bryan, The Literature of Japan, London 1929, pp. 33-34).


Ultima modifica 21.05.2009