Testimonianza di Lattanzio su Evemero

Le divine istituzioni I, 11-23


Escerto di Firmiano Lattanzio: Le divine istituzioni, Cantagalli, Siena, 1936, pp. 65-125. Traduzione e note di: Gino Mazzoni.

Eccerpito da: Leonardo Maria Battisti.


CAPITOLO XI. Della nascita, della vita, del regno, del nome e della morte di Giove, di Saturno e di Urano.

Chi è pertanto talmente stolto, da poter credere che davvero regni e domini nel Cielo chi non avrebbe dovuto avere onore di sovranità neppur sulla terra? Non vanamente e inopportunamente un poeta scrisse il Trionfo di Amore, nel quale scritto non solo rappresenta Cupido come il più potente fra gli Dei, ma anche il vincitore, il dominatore. Enumerate tutte le prodezze amorose delle singole divinità, per le quali esse erano venute appunto nell'assoluta potestà e signoria di Cupido, rappresentò una processione, nella quale Zeus, incatenato con tutti gli altri Dei, è tratto avanti il carro del trionfatore: rappresentazione poetica, elegante e garbata, questa, ma che pure non s'allontana molto dalla verità. Chi è privo di virtù, chi è vinto dai desideri e da sfrenatezza di passioni insane, non ad Amore, come quel poeta immaginò, ma è soggetto alla morte che non ha fine. Ma lasciamo di parlare di consuetudini, di costumi di vita; vediamo la cosa in sé stessa, per comprendere in quali errori gli uomini, infelici, s'avvolgano. Il volgo pensa che Giove eserciti la sua sovranità nel cielo, e di questo sono ugualmente convinti e dotti e ignoranti: lo stesso senso intimo religioso, le preghiere, gli inni, i tempietti sacri, le immagini lo provano; ma nello stesso tempo riconoscono che è nato da Saturno e da Rea. In qual modo mai può apparir Dio, o può esser creduto, come dice il poeta, creatore degli uomini e delle cose uno, la nascita del quale è stata preceduta dal sorgere di migliaia di esseri? certamente di tutti quelli, che vissero sotto Saturno, e che quindi, prima di Giove, attinsero la luce di questo universo. Io riconosco, dunque, che un Dio abbia regnato nei primi tempi, e un altro nelle età posteriori: può quindi verificarsi che in seguito sorga un'altra divinità; se il dominio di prima s'è mutato, perché non dovremmo pensare che un altro mutamento potrebbe avvenire in seguito? a meno che Saturno non ne abbia potuto generare, di divinità, una più forte e potente, e che Giove non lo possa. Eppure la signoria divina, o rimane sempre immutabile, unica ed intangibile, o, qualora sia mutabile, ciò che non è ammissibile, il cambio potrebbe avvenire in ogni momento. Può dunque Giove perdere il regno, come lo perse il padre suo? Certamente. Costui, che pur non aveva portato rispetto né a fanciulle né a maritate, ebbe tuttavia unicamente riguardo per la sola Tetide, perché gli era stato profetizzato che chiunque fosse nato da lei sarebbe stato più forte e più possente del padre. C'è in lui, dunque, una ignoranza del futuro, che non può essere di un Dio; egli, infatti, non l'avrebbe saputo, se Temide non glielo avesse predetto. Se perciò non ha l'attributo del divino, non può essere neppure Dio: si dice divinità da Dio, come umanità dall'uomo. Inoltre s'aggiunga il riconoscimento della propria debolezza, come chi teme uno superiore a lui; e chi agisce in tal modo sa certamente che egli non è l'essere più forte, né più grande, dal momento che può esistere qualcosa di maggiore di lui. Giura poi con ogni serietà e solennità per la palude Stigia: «Vana religion che sola si tributa ai numi superni». E che significa mai questa forma di credenza religiosa? E da chi è, poi, osservata e tributata?

V'è dunque qualche straordinario potere che giunga a punire gli Dei, quando essi spergiurano? quale grande sgomento può esser quello della palude inferna, se essi, Dei, sono immortali? perché temere quella cosa che non dovranno vedere se non coloro che sono sottoposti a morte? e allora che ragione c'è che gli uomini sollevino il loro sguardo al cielo? perché pronunziano giuramento per gli Dei superi, quando essi stessi si rivolgono alle potenze sotterranee ed ivi trovano l'oggetto della loro venerazione e adorazione? Che cosa è dunque questo? è il fato alla cui potenza deve ubbidire, con tutti gli Dei, lo stesso Giove. Ma se la forza delle Parche è tanto grande, che esse possano più di tutti i celesti e dello stesso signore e dominatore del mondo, perché non si dice che sono esse le reggitrici e le dominatrici dell'universo, dal momento che la ferrea necessità costringe tutti gli Dei ad obbedire e a piegare di fronte alle loro leggi e alla loro volontà? Ed ora, dunque, chi può dubitare che non si possa chiamare massimo, colui che piega la fronte a qualche cosa? se tale fosse, non accetterebbe i fati, ma ne sarebbe egli stesso l'arbitro e li guiderebbe a suo piacimento. Ma ora ritorno a ciò che avevo tralasciato. Giove, dunque, seppe contenersi nei riguardi di una donna sola, pure ardendo d'amore per essa; non per alcun senso di virtù, ma per il timore di chi sarebbe a lui successo. Il qual senso di timore è, peraltro, proprio di uno che ha natura mortale, debole, fiacca, infirma; esattamente come di chi avrebbe magari potuto perire, appena nato; come era successo al fratello venuto alla luce prima di lui; e che, se avesse potuto restare in vita, non avrebbe mai ceduto il dominio al fratello minore. Ma egli fu salvato di nascosto e di nascosto nutrito ed allevato, e fu chiamato Zeus, quasi vivere (ζῆν), non come credono, dal fervore del fuoco celeste, perché sia quasi dator di vita ed ispiri appunto il soffio vitale in ogni specie di esseri animati, la qual facoltà è solamente di Dio (e infatti, quale alito di vita potrebbe mai ispirare colui che avesse tratto, egli stesso, da altri, questo supremo principio?); ma perché egli per primo poté mantenersi in vita fra i figli maschi di Saturno. Gli uomini quindi avrebbero potuto avere a signore una divinità diversa, se Saturno non si fosse lasciato così facilmente ingannare dalla moglie. Ma, insomma, furono i poeti che inventarono tutta questa fioritura di favole: se uno pensasse proprio così, sbaglierebbe: i poeti intendevano parlare di uomini, ma per innalzare coloro dei quali celebravano e magnificavano la memoria, li dissero Dei.

Sono false e inventate quindi quelle cose che andavano dicendo costoro, qualora si pensino nei riguardi della divinità, ma non in quanto si possono riferire ad esseri umani. E che sia chiaro e sicuro quel che affermo lo dimostrerà l'esempio seguente. Un tale, che aspirava a godere le grazie di Danae, lasciò cadere nel seno di lei una gran copia di monete d'oro, ed era questo il prezzo dell'amore concesso; ma i poeti che parlavano della cosa, riferendola alla divinità, per non infrangere l'autorità di una pretesa maestà divina, finsero che Giove stesso fosse disceso nel seno della fanciulla sotto forma di pioggia d'oro, come precisamente si direbbe pioggia di ferro, quando, con immagine poetica, si volesse descrivere una moltitudine infinita di dardi e di saette. Si dice di Ganimede, che Giove l'abbia rapito sotto forma d'aquila, ma questa narrazione sa evidentemente di poesia: il rapimento avvenne o per mezzo di una legione che aveva come insegna l'aquila, o la nave nella quale fu posto aveva, nell'aquila, raffigurato quasi il segno della sua protezione; come del resto si figurò toro quando rapì e portò lontano Europa. E nella stessa maniera si dice che abbia trasformato in vacca la figlia di Inaco, Io, che, per sfuggire all'ira di Giunone, ormai sul punto di partorire com'era, pare che, cangiatasi in vacca, abbia traversato il mare, sia giunta in Egitto, e che quivi, riacquistata la forma primiera, divenisse Dea, e precisamente quella che ora è adorata sotto il nome di Iside. Ma con quale argomento si può provare che né Europa abbia mai inforcato il toro e che Io non abbia mai assunto natura bovina? Dal momento che nei Fasti è stabilito un giorno nel quale si celebra la navigazione di Iside, resta dimostrato che essa non sia stata affatto trasportata al di là del mare, ma abbia compiuto normalmente la traversata. Coloro che se la pretendono a dotti, dal momento che comprendono bene che un corpo, in pienezza di vita terrena, non può essere che viva in cielo, ripudiano come inventata e falsa di sana pianta la favola circa il rapimento di Ganimede, e giudicano che ciò deve essere avvenuto in terra, perché la cosa, nella sua natura passionale, è terrena. I poeti dunque non inventarono essi stessi gli avvenimenti, ché se l'avessero fatto, sarebbero stati stoltissimi e vani, ma avvolsero fatti reali in una certa aureola di poesia e di fantastico. E non dicevano ciò collo scopo di falsare e d'ingannare, ma per circondare certe circostanze umane di una tal qual vaghezza e aureola divina. Ed è proprio di qui, che gli uomini sono ingannati, massimamente perché, mentre credono da un lato che tutte queste narrazioni siano state inventate dai poeti, finiscono poi coll'attribuire valore e fare oggetto di culto riguardoso quelli che essi non conoscono esattamente nella loro reale portata. Non più sanno infatti quale sia il limite che può essere concesso alla poesia, fino a che punto si possa avanzare in questo gioco d'invenzione e di fantasia, mentre appunto il poeta deve guardare di poter rappresentare, sotto immagini e colorazioni diverse e un po' lontane dalla verità, pur mantenendo il dovuto decoro e la richiesta dignità, le gesta che sono state veramente compiute. Inventare totalmente quello che tu vieni dicendo è affatto contrario e inopportuno, ed è piuttosto opera menzognera che di poeta. Ma abbiano pure inventato certi particolari di fatti che si possono appunto reputare favolosi: ma che forse si dovranno dire false anche le notizie che si hanno degli Dei, e dei rapporti coniugali fra divinità stesse? Perché vengono essi rappresentati, sotto certi caratteri, anche plasticamente? perché si venerano in quella data particolare loro natura? a meno che non solamente i poeti, ma anche i pittori e i plasmatori d'immagine non mentiscano. Se esiste quel Giove che è chiamato da voi Dio; se non è invece quellο nato da Saturno e da Opi, non ci sarebbe stato bisogno nei templi che di una unica immagine di lui: che cosa stanno a significare certi tratti quasi femminili? che vuol dire quella sua incertezza di sesso nelle trasparenze dell'arte? Se anche questo stesso Giove fosse capitato in simile caso, la pietra doveva invero rappresentarlo senz'altro come uomo. Dicono poi che i poeti hanno mentito, ma invece dimostrano gli artisti di prestar loro fede; anzi bisogna che non credano che abbiano detto il falso, dal momento che ripetono le loro asserzioni, rafforzandole materialmente. E rappresentano le stesse immagini degli Dei in modo che, appunto da una certa colorazione di sesso diverso, balza chiaro che dovrebbe esser vero quanto i poeti affermano. Poiché quale altra ragione o giustificazione possono avere l'immagine di Catamito1 e l'effigie dell'aquila, allorché nei templi si vedono rappresentate ai piedi di Giove, e, con questo, fatte oggetto ugualmente di venerazione e di culto, se non perché rimanga in eterno il ricordo di una trista scelleratezza e di una violenza bestiale? Tutto interamente dai poeti non può essere stato inventato; qualcosa forse certamente fu alterato, presentato sotto altra forma od immagine diversa, dove la verità apparisse come avvolta da un velo sottile; e lo stesso si dica di tutta la quistione riguardante la divisione dei dominî toccata agli Dei. Dicono che a Giove fosse toccato in sorte il cielo, a Nettuno il mare, a Plutone i regni infernali: per qual motivo non toccò, come terza, in sorte, la terra, se non perché appunto la questione si risolse unicamente sulla terra? Quello infatti che può rispondere a un certo criterio di verità è che il regno del mondo così lo divisero e lo ebbero in sorte: a Giove toccò l'Oriente, a Plutone, che ebbe il cognome di Agesilao,2 toccò l'Occidente: appunto perché la zona orientale, donde la luce si diffonde agli uomini, appare come superiore, l'altra, invece, appare come situata in una zona inferiore. Così coprirono la verità come di un velame, ma in modo che la luce del vero non si allontanasse da quello che rispondesse ad un comune riconoscimento.

Per quel che ebbe in sorte Nettuno è chiaro che il suo dominio fu tale, quale l'ottenne Marco Antonio, senza limitazione alcuna; il senato aveva decretato a lui la signoria d'ogni mare perché combattesse i pirati e rendesse tranquilla ogni zona; nello stesso modo a Nettuno toccarono tutte le zone marittime colle isole. Ma ciò, come si fa a provarlo? Le antiche storie ce l'insegnano chiaramente. L'antico scrittore Evemero,3 che fu della città di Messene (?), raccolse le gesta di Giove e di tutti gli altri esseri che sono creduti Dei, e ne tracciò una descrizione organica secondo iscrizioni ed altre testimonianze, che si potevano riscontrare in antichissimi templi e specialmente nel tempietto di Giove Trifilio, dove un segno stava ad indicare che dallo stesso Giove v'era stata posta una colonna d'oro, nella quale egli espose le sue gesta, perché essa servisse a perpetuare la memoria delle sue imprese. Anche Ennio interpretò e seguì tale tradizione, e così disse : «....quando Giove dà a Nettuno la signoria del mare, affinché regni su tutte l'isole e in tutte le terre, lungo le rive del mare ». Sono dunque vere le affermazioni dei poeti, ma soltanto che le verità sono nascoste sotto immagini strane e fantastiche. Anche il monte Olimpo può aver suggerito ai poeti un'immagine, così da dire che Giove avesse sortito la signoria del cielo, perché Olimpo è appunto un nome che si può riferire tanto ad una determinata montagna, quanto al cielo, e infatti la tradizione stessa narra che Giove abbia abitato sull'Olimpo; essa dice appunto che Giove trascorreva gran parte della sua vita in quel tempo, sull'Olimpo, e colà venivano a lui per consiglio e deliberazioni quando su qualche cosa nascevano dei contrasti. E similmente se qualcuno avesse trovato qualcosa di nuovo che fosse utile alla vita umana, andava colà e lo manifestava a Giove. Molte cose i poeti trasformano in questo modo, non per compiere opera di menzogna all'indirizzo di coloro che rispettano e venerano, ma per rivestire i loro carmi di grazia e di bellezza con figurazioni garbate e diverse. Ma quelli che non capiscono in qual modo o a quale scopo si possa dare a ciascuna cosa immagine diversa, accusano i poeti e li fanno passare per menzogneri e sacrileghi. Anche i filosofi, tratti da questo errore, poiché sembrava loro che tutto quello che s'andava narrando di Giove, non convenisse affatto alla dignità di un Dio, immaginarono due Giovi, uno naturale e divino, l'altro, creato dalla fantasia dei poeti. E videro in ciò quello che in parte era vero, ossia che quello di cui parlano i poeti era stato uomo; nei riguardi però dell'altro Giove s'ingannarono, perché, indotti dalla consuetudine ormai seguìta nella pratica religiosa, attribuirono a quello pensato di natura divina, il nome di un essere terreno, mentre quell'essere, appunto perché è unico, come abbiamo affermato di sopra, non ha bisogna di denominazione alcuna.

Non si può negare così, che Giove sia proprio quello nato da Opi e da Saturno, ma male si appongono coloro che intendono attribuire il nome Giove alla somma divinità. Alcuni intenderebbero sostenere i proprî errori con questa specie di difesa: essi sono convinti dell'esistenza di una sola somma divinità; lungi dunque dal negarla, riconoscono il loro culto ad essa, ma dicono che a loro piace che questa venga chiamata Giove: che cosa vi può essere di più assurdo di ciò? Giove nel suo culto, non può considerarsi staccato dalla moglie e dalla figlia; che cosa risulti, è chiaro: che tale nome di Giove non può essere rivolto là dove non vi sia una Minerva o una Giunone. Eppoi, la natura di questo nome in sé, non è forse vero che significhi, non una potenza divina, ma umana? Cicerone interpreta i nomi Giove e Giunone come derivati da giovare. Juppiter viene così quasi a dire padre giovante (juvans pater), la qual denominazione non calza affatto per una divinità, perché l'idea di giovamento s'unisce bene all'uomo, che reca aiuto ed è pronto in piccola misura a beneficare chi è a lui estraneo: nessuno, infatti, rivolge preghiera a Dio perché gli porga un aiuto semplice e materiale, ma perché gli conceda salvezza, perché gli dia rigoglio e fierezza di vita: il che costituisce cosa di ben maggiore importanza che un semplice giovamento o vantaggio.

E poiché lo diciamo padre, di nessun babbo diciamo che giovi ai figli, quando dà loro il dono della vita, e li nutriste e li educa poi: giovare è cosa di troppo piccola entità, perché noi possiamo dunque usare di questa parola, ad indicare la grandezza del beneficio paterno. Ebbene, tale espressione è più inopportuna ancora trattandosi di un Dio che è il nostro vero padre: per lui esistiamo, a lui apparteniamo interamente; è da lui che siamo formati, che riceviamo il soffio vitale, che abbiamo il dono della luce; è lui che regge l'esistenza nostra, che ci difende e ci salva, che ci procura i mezzi di vita. Non capisce e non apprezza giustamente i benefici divini colui che crede d'essere solamente giovato da parte della divinità. Quindi non solo è privo di criterio, ma è empio, colui che diminuisce e avvilisce la virtù di un sommo potere, attribuendo a questo il nome di Giove. C'è poi anche, che, se noi ammettiamo e riconosciamo che Giove per le sue azioni, per i suoi costumi, sia stato un uomo ed abbia regnato sulla terra, è logico che noi ricerchiamo anche la morte di lui. Ennio, nella storia sacra, narrate tutte le imprese che Giove compì in sua vita, infine dice così: «Quindi Giove, dopo che ebbe percorso per cinque volte le terre, divise le signorie fra tutti gli amici e parenti suoi, e lasciò agli uomini leggi, dettò norme e modi di vita, fornì mezzi materiali di nutrimento, e molti altri beni procurò; cinto di gloria immortali, vivo nella memoria degli umani, lasciò ricordi incancellabili ed eterni ai suoi. Trascorso il suo tempo, in Creta la vita sua cambiò, e salì agli Dei, e i Cureti, figli suoi, ne ebbero culto e l'onorarono. Il sepolcro di lui è in Creta nella città di Cnosso, e si dice che questa città l'avesse fondata Vesta. Nel sepolcro si legge in antichi caratteri greci Zan Cronou (ΖΑΝ. KPONOY) che in lingua latina sonerebbe: Giove di Saturno». Tutto ciò, non sono certamente i poeti che ce lo tramandano, ma i più antichi storici, e sono notizie senza dubbio vere, tanto che queste sono confermate dai versi Sibillini, che suonano così:

Daemones inanimes, cadaverum simulacri mortuorum
Quorum Creta in iactantiam sepulcra misera habet.4

Cicerone, nell'opera sulla natura degli Dei, dicendo che dagli studiosi di cose religiose sono ricordati tre Giovi, afferma che il terzo fosse stato di Creta, figlio di Saturno e che in quell'isola se ne mostrava il sepolcro. Ma come può essere che un Dio sia vivo in un luogo, morto in un altro, che qui gli sia innalzato un tempio, e là abbia un sepolcro? Sappiano quindi i Romani che il loro Campidoglio, cioè il centro maggiore delle pubbliche credenze, niente è d'altro, se non un monumento vano!

Veniamo ora al padre di lui, che regnò precedentemente e che aveva forse potenza ed autorità maggiore, perché vien detto generato dall'accoppiamento e dalla fusione di tanto grandi elementi. Vediamo un po' che cosa ci sia in lui che meritasse l'attributo di divino. In primo luogo, il fatto d'aver regnato, come si dice, nell'età dell'oro, perché sotto di lui la giustizia esistè sulla terra; ed è già un punto importante, perché non esistè sotto il dominio del figlio suo. E infatti che cosa di tanto conveniente a un Dio, quanto un dominio giusto e un'età pia e buona? Ma comunque, quando penso che egli ha sortito una nascita, per questa stessa ragione, non lo posso credere una divinità, perché io vedo che esiste qualcosa di più antico di lui, cioè il cielo e la terra: ma io vo invece alla ricerca di un Dio, al di là del quale nulla vi sia più affatto; che sia insomma fonte ed origine prima di tutto: è questi che necessariamente deve aver creato il cielo e posto la terra; ma se Saturno ha tratto origine da questi elementi, come si crede, come è possibile considerarlo divinità essenziale e prima, se è uno che deve, appunto, la sua nascita ad altri elementi? E, dunque, allora, chi fu a capo del mondo, prima che Saturno nascesse? Ma, come dicevo prima, questa può essere una finzione poetica. Non sarebbe stato infatti possibile che elementi privi di ogni sensibilità, separati in così grande spazio, s'unissero in una sola compagine e generassero un altro essere; o, che questo, che sortisse da loro origine, non dovesse avere una natura similissima agli elementi che l'avevano procreato, ma che, invece, rivestisse una forma completamente diversa da chi gli aveva dato origine!

Cerchiamo quindi che cosa si vada nascondendo di verità sotto questa poetica figurazione. Minucio Felice,5 in quel libro dell'Ottavio, così andò argomentando: che Saturno, essendo stato cacciato dal figlio, arrivato in Italia fosse stato chiamato figlio del Cielo, perché è nostro modo di dire che siano quasi caduti dal cielo coloro dei quali noi ammiriamo i meriti e le virtù in sommo grado, e che si vedono improvvisamente comparire; e diciamo figli della Terra quelli di cui sono ignoti i genitori. Tutto ciò può avere un certo grado di verisimiglianza, ma non è certamente la verità, perché sappiamo che era creduto tale anche durante il suo regno. Si poté pensare anche che così stesse la cosa: che Saturno, essendo stato re potentissimo, per mantenere vivo il ricordo dei suoi genitori, abbia dato i nomi loro proprî, alla terra e al cielo, che prima avrebbero quindi avuto denominazioni diverse, col quale procedimento ugualmente sappiamo che siano stati imposti posti anche i nomi ai monti e ai fiumi. E quando i poeti parlano della progenie di Atlante, o del fiume Inaco, questo appunto vogliono esattamente dire; non che da cose non fornite affatto di senso, si siano potute generare umane creature, ma intendono significare coloro che hanno tratto origine da quegli uomini che, o da vivi o da morti, dettero i loro nomi a monti o a fiumi. Perché presso gli antichi, e specialmente presso i Greci, questo sistema fu certamente in grande uso. Così sappiamo che i mari trassero le loro denominazioni da quelli che caddero in essi, come è dell'Egeo, dell'Icario, dell'Ellesponto; nel Lazio, Aventino dette nome al monte nel quale fu sepolto; Tiberino o Tiberi, al fiume nel quale fu travolto. Non è dunque da meravigliarsi affatto, se il cielo e la terra abbiano appunto avuto i nomi di coloro che generarono re potentissimi. Appare quindi chiaro che Saturno non deve la nascita sua al cielo, ché non sarebbe cosa possibile, ma da un uomo che ebbe nome Urano; e che ciò sia vero, l'attesta Trismegisto, il quale, pure affermando che molto esiguo era il numero di coloro nei quali si riscontrasse perfezione di dottrina, pure fra essi ricordò Urano, Saturno, Mercurio, suoi parenti. Poiché Minucio non seppe queste cose, ci tramandò il racconto diversamente. Come egli abbia potuto argomentare ciò, l'ho già detto. Ora dirò in che modo, dove e da chi, sia stato fatto ciò che ci è stato narrato. Non fu infatti Saturno, ma Giove.

Nella storia sacra Ennio così ci tramanda: «Di poi Pane lo condusse sul monte che è chiamato colonna del cielo; dopo che salì costassù e contemplò la terra in tutta la sua ampiezza, in quel monte stesso innalza un'ara al cielo, e per primo Giove compì su quell'altura un sacrificio, e in quel luogo volse lo sguardo a quello che chiamiamo ora cielo, e, dal nome dell'avo suo, dette nome di cielo a quanto era nella zona superiore al mondo, e che si chiamava etere, e Giove pregando appunto quello che è detto etere, per primo lo chiamò Cielo e di quella vittima che ivi consacrò, fece olocausto». E non qui solamente si sa che Giove abbia sacrificato. Cesare6 pure riferisce in Arato che Aglaostene diceva che Giove, partendosene dall'isola di Nasso, contro i Titani, mentre stava celebrando sul lido un sacrificio, si sia visto volar vicino, quale auspicio, un'aquila, e che presala come segno di buon augurio, vintala, la sottomise alla sua tutela e protezione. La storia sacra di Ennio racconta anche che prima quest'aquila gli si fosse fermata sul capo; e gli indicasse, così, come a lui fosse destinato il trono. Giove, a chi avrebbe potuto sacrificare, se non al suo avo Cielo? Evemero lo dice morto in Oceania (?)7 e sepolto nella città di Aulacia.

CAPITOLO XII. Gli stoici trasportarono nel campo filosofico le figurazioni e le immagini dei poeti.

Poiché abbiamo rivelato e penetrato i misteri dei poeti ed abbiamo scoperto chi fossero i genitori di Saturno, ritorniamo a considerare i suoi meriti e le sue gesta. Nel suo regno fu giusto; da questo stesso punto si deduce che non può esser Dio dal momento che fu; e c'è da aggiungere ancora che non fu neppur giusto; ma empio, al contrario, non solo contro i figli, che uccise; ma anche contro il padre, al quale si dice che tagliasse gli organi genitali; la qual cosa potrebbe anche rispondere a un fatto vero. Gli uomini, per un certo senso di rispettosa ammirazione per quell'elemento che è appunto il Cielo, respingono la cosa, come una balorda e sciocca invenzione, ma tuttavia gli stoici, come sono soliti, tentano di avvicinare questo racconto ad una spiegazione razionale, e Cicerone riferisce tale pensiero degli stoici nell'opera intorno alla natura degli Dei. Dice infatti che essi sostennero che la primitiva energia vitale celeste, altissima, eterea, ignea, che produrrebbe di per sé stessa tutte le cose, mancasse affatto di quell'elemento corporeo che richiederebbe necessariamente di unirsi con altro elemento, per arrivare alla procreazione; il quale principio potrebbe fermarsi nella figura di Vesta, qualora si considerasse tale divinità di sesso maschile! Appunto per tale pensiero, considerano Vesta come vergine, perché il fuoco è un elemento inviolabile e niente può nascere da esso, come quello che tutte le cose che prende in sé, consuma e distrugge. Ovidio così scrive nei Fasti: «Per Vesta non si deve intendere, se non la viva fiamma; e nessun corpo tu vedi dalla pura fiamma, sorto: a ragione dunque è vergine, come quella che non dà seme, che non ne accoglie; ed a ragione preferisce chi le è compagno in verginità».8

Questo carattere avrebbe per altro potuto essere riferito anche a Vulcano, che pure è stimato fuoco; ma i poeti non lo pensarono mutilato. Anche al Sole si poteva pensare, in cui è la fonte e la causa prima di quanto vediamo nascere, poiché senza il possente calore solare nulla potrebbe sorgere, né prendere alimento e forza; così che a nessun altro elemento è in maggior misura intima e insita necessariamente la forza procreativa che al calore, dalla cui energia tutte le cose traggono la prima origine, sorgono alla vita e prendono vigore di sviluppo. Sia pur anche la cosa come dicono; in ogni modo, perché noi dovremmo immaginare il cielo, mutilato e guasto, anziché immaginarlo come nato, privo del tutto dei segni della potenza generatrice!

Poiché, se procrea da sé, non aveva certamente bisogno di quel che servisse alla funzione procreatrice, quando generava Saturno; se poi egli fu uomo e dal figlio gli fu tolto il segno della virilità, qualunque segno di vita nascente e la natura tutta, dopo, sarebbe scomparsa. Allo stesso Saturno poi gli stoici non solo tolgono il carattere divino, ma anche l'umano, quando sostengono che sia Saturno a misurare e a regolare lo scorrere del tempo nello spazio infinito, e che appunto perciò in lingua greca si chiama Crono, cioè tempo: è detto poi Saturno, perché saturo, carico d'anni. Tali parole usa Cicerone nel riferire la credenza stoica, la quale, tutti vedono come sia vuota e vana. Se Saturno è il figlio del Cielo, come poté il tempo essere generato dal cielo? o il cielo essere guastato o deturpato dal tempo, e come indi il tempo poté esser privato della signoria dal figlio Giove? E come Giove poté nascere dal tempo? o in quale periodo avrebbe mai potuto esser contenuto lo scorrere infinito del tempo, che non conosce appunto né limite né fine alcuno?

CAPITOLO XIII. Vanità delle dottrine stoiche circa la comprensione degli Dei. Della nascita di Giove, di Saturno, di Opi.

Se quindi sono vane codeste elucubrazioni di filosofi, che cosa resta, se non che noi crediamo come cosa veramente accaduta, che un uomo sia stato mutilato da un altro uomo? a meno che uno non possa arrivare a pensare che vi sia stato un Dio che abbia potuto temere che un altro fratello dividesse con lui l'eredità; ma se qualche scintilla di divinazione avesse avuto, non avrebbe dovuto amputare e deturpare vergognosamente il padre, ma sé stesso, perché non nascesse da lui un Giove, che lo privò appunto del possesso del suo regno. Egli infatti, che aveva per moglie la sua stessa sorella Rea, che latinamente diciamo Opi, si narra che da un responso fosse stato avvertito di non generare figli maschi, perché gli sarebbe accaduto di vedersi spodestato da un figliolo: temendo questo fatto, pur non divorando, come le favole raccontano, i figli che gli nascevano; ma li uccideva: sebbene sia scritto nella storia sacra di Ennio, che Saturno, Opi e tutti gli altri uomini d'allora, erano soliti mangiare carne umana, ma che per primo Giove, stabilendo leggi e fissando agli uomini norme di vita, con un edito abbia proibito l'uso di tale cibo.

Se tutto ciò è vero, di quale senso di giustizia si può parlare a riguardo di Saturno? Ma crediamo pure che sia immaginato il fatto che Saturno abbia divorato figli, ma pure c'è un fondo di ragione in ciò; in quanto, secondo che dice il popolo, quasi sembra mangiare i figli, colui che li porta via di casa per seppellirli. Ma Opi, quando partorì Giove, lo sottrasse bambinello, e lo mandò a Creta perché quivi fosse nascostamente allevato e nutrito: ci troviamo dunque di nuovo nella condizione di dover riprendere una certa impreveggenza. Perché, infatti, Saturno attese da altri il responso di quanto gli interessava? perché lui, che era nel cielo, non vedeva quelle cose che si facevano in terra? perché i coribanti, col frastuono dei loro cembali, riuscirono ad ingannarlo? infine, perché poté sussistere una qualche forza maggiore che vincesse il suo potere? Evidentemente un vecchio fu vinto da un giovane e fu spogliato della signoria; scacciato che fu, fuggì, e, navigando, venne in Italia, dopo avere errato lungamente, come Ovidio riferisce nei Fasti: «Resta a dir della nave; il Dio che stringe la falce, dopo esser andato ramingo per il mondo, venne al fiume Tosco».9 E lui errante, povero e abbandonato, accolse Giano: a testimonianza di questo fatto restano antiche monete, nelle quali, da un lato, è rappresentato Giano bifronte e dall'altro una nave, e, come lo stesso poeta suggerisce : «Piamente i posteri, per testimoniare l'arrivo dell'ospite divino, impressero su le monete di bronzo l'immagine di una poppa».10

Non solo tutti i poeti, dunque, ma ogni scrittore di cose antiche e di storia si trovano d'accordo nel riconoscere che sia stato un uomo; e ne tramandarono le imprese compiute in Italia: fra i Greci, Diodoro e Tallo; fra i Latini ricordiamo Nepote, Cassio e Varrone.11

Quando in Italia si viveva in un modo assai rozzo e primitivo... «egli [Saturno] raccolse ed ordini la stirpe ribelle ad ogni freno e sbandata, dette loro leggi e preferì esser chiamato Lazio, perché in queste spiaggie se ne era rimasto nascosto, tranquillamente e in sicurezza».12

Ci può esser forse qualcuno che pensi che fosse davvero un Dio, chi fu scacciato e stette fuggiasco e nascosto? Credo che nessuno arrivi a un tal grado di sciocchezza. Chi fugge e si nasconde deve temere offesa di violenza ed assalto di morte. Orfeo, che fu più vicino all'età sua, chiaramente ricorda che avesse regnato in terra, fra gli uomini:

Primus quidem regnator erat terrestrium Saturnus virorum,
Ex Saturno autem genitus est ipse rex magnus et late cuncta intuens Jupiter.13

E il nostro Virgilio sullo stesso motivo: «L'aureo Saturno trascorreva questa vita sulla terra»14; e in altro luogo: «Quell'età, che chiamano dell'oro, fu sotto il suo regno: tanto vivevano tranquille le genti sotto il suo governo».15 Non ha detto dunque nel primo punto che passasse la sua vita in cielo, né, nel secondo, che avesse governato e retto in pace gli Dei superi; onde risulta chiaro che quel re sia stato assolutamente terreno, ciò che anche altrove poi dichiara apertamente: «Augusto ricondurrà il secol d'oro nel Lazio, in quelle contrade, ove un giorno regnò Saturno».16

Ennio, nell'Evemero, poi, dice che Saturno abbia regnato, ma non per il primo, che fu invece Urano, padre suο: «Dapprincipio sulla terra — scrive — tenne la suprema signoria il Cielo: questi fissò e divise il suo dominio insieme coi fratelli»: non è contrasto di grande importanza, se pure esiste dubbio ed incertezza fra scrittori autorevoli, su questa quistione del padre e del figlio. Ma può benissimo essere avvenuta l'una e l'altra cosa, che per primo, cioè, Urano abbia cominciato fra gli altri ad occupare un posto preminente per potenza, ma non avesse sovranità; e che Saturno si sia poi procurato forze e mezzi maggiori ed abbia preso il nome di re.

CAPITOLO XIV. Gli Dei nella storia di Evemero e di Ennio.

Ed ora, poiché dalle testimonianze che abbiamo riferito testé, la Storia sacra di Ennio dissente alquanto, diciamo chiaramente quanto è contenuto esattamente in quelle scritture, perché, nel fare la critica a credenze religiose, non dobbiamo sembrare facili a seguire, senza altro, le sciocche invenzioni dei poeti. Ennio si esprime esattamente così: «Di poi Saturno prese in moglie Opi; Titano, che era maggiore di nascita, chiese di poter regnare; Vesta, loro madre, e le sorelle Cerere ed Opi persuadono Saturno che non rinunzi al regno per il fratello. E qui Titano, che d'aspetto era inferiore a Saturno, e per questa ragione, e perché vedeva che la madre sua e le sorelle cercavano che il regno fosse di Saturno, lasciò che questi avesse la sovranità; ma pattuì con Saturno, che, se gli fosse nato un figlio di sesso maschile, non l'avrebbe allevato, e ciò lo fece evidentemente con l'intento che il regno tornasse un giorno ai suoi figli. Il primo figlio che nacque a Saturno, dunque lo uccisero; nacquero in un secondo momento due gemelli: Giove e Giunone; fecero allora vedere al padre Giunone, perché femmina, e Giove invece lo nascondono e lo danno a nutrire a Vesta, tenendolo celato a Saturno. Opi poi, di nascosto a Saturno, partorisce Nettuno, ed anche questi lo tengono ugualmente celato al padre; e in un terzo parto Opi dà alla luce Plutone e Glauca: Plutone, latinamente parlando, è Dispater; altri lo chiamano Orco. Mostrano al padre la figlia Glauca, ma, al solito, tengono gelosamente nascosto Plutone. Glauca, poi, ancora piccolina, muore». Dalla Storia sacra di Ennio ci sono giunte esattamente queste notizie su Giove, su i fratelli di lui e su le relazioni di parentela che si vennero stabilendo. Ma a queste notizie, dopo poco, aggiunge: «Di poi Titano, avendo saputo che a Saturno erano nati figli maschi e che erano stati allevati di nascosto, trasse con sé i figli suoi, detti Titani, fa prigioniero il fratello suo Saturno ed Opi, li circonda con una muraglia, e li mette sotto buona custodia».

Quanto risponda a verità questa narrazione, lo insegna la Sibilla Eritrea, che dice, ad un di presso, la medesima cosa, differendo soltanto in pochi punti, che, per altro, non hanno diretta attinenza col fulcro della quistione. Giove dunque viene affrancato, diremo, dall'accusa di aver commesso somma scelleratezza, come quello che aveva posto il padre in catene; ciò pare invece che l'avesse fatto Titano, lo zio, perché Saturno, contro il patto giurato, aveva fatto crescere figli maschi. La restante narrazione è così intessuta: si dice che Giove, divenuto adulto, avendo sentito che il padre e la madre erano sotto severa custodia e gettati in prigione, sia venuto con una grande moltitudine di Cretesi; che in battaglia abbia vinto Titano e i figli suoi, che abbia così liberato i genitori dalla prigionia, che abbia restituito il regno al padre e sia poi ritornato in Creta. Si dice che, dopo di ciò, Saturno fosse stato avvertito di guardarsi a che il figlio non lo scacciasse dal regno, e che quello avesse teso insidie a Giove per ucciderlo e per toglier di mezzo così ogni possibilità, e che Giove però, avendo scoperte le insidie, abbia di nuovo rivendicato a sé il regno e messo in fuga Saturno; il quale, bandito per ogni terra, inseguito da gente armata e minacciosa, che Giove aveva mandato contro di lui per farlo prigioniero o per ucciderlo, trova a mala pena in Italia un luogo in cui potersi rifugiare.

CAPITOLO XV. Per quale procedimento, essendo stati uomini, furono chiamati Dei.

Essendo ormai chiaro che queste figure furono umane, non può rimanere oscuro per quale procedimento abbiano cominciato ad esser chiamati Dei. Se prima di Urano e di Saturno non esisterono re, per il carattere nomade della vita stessa, che — uomini rozzi e primitivi — conducevano senza sentire il bisogno di una stabile guida, non v'è dubbio che nei tempi successivi gli uomini abbiano cominciato ad innalzare a onori, fino allora ignoti, la figura del re e dei suoi prossimi e a tributar loro lodi eccelse, fino a chiamarli Dei, sia in seguito a manifestazioni straordinarie di coraggio (era questo che stimavano al sommo grado, uomini rudi e primitivi com'erano), oppure, come suole avvenire, per un certo principio di adulazione, di fronte alla potenza del momento, ed anche per certi benefizî che risentivano dall'essere stati condotti ad uno stato di maggior civiltà e di maggiore sviluppo. Gli stessi re, in seguito, i quali erano pur stati cari e graditi a coloro, di cui avevano regolato e guidato la vita, lasciarono un grande rimpianto di sé, dopo la morte. E fu così che gli uomini li fecero rivivere nelle immagini, per avere, dalla contemplazione di esse, un qualche conforto; e in questo senso di amore riconoscente per i loro meriti, avanzando nel tempo, cominciarono a venerare la memoria degli scomparsi, per tributare, nello stesso tempo, grazie a chi aveva d'essi ben meritato, e così pure per incoraggiare, chi fosse venuto dopo loro, a governare con saggezza. Cicerone, nel libro Intorno alla natura degli Dei, lo dice, e si esprime precisamente così: «La consuetudine invalsa nella vita fu questa, di sollevare al cielo uomini che si distinguevano, che eccellevano in gloria e in volontà; ed ecco di qui Ercole, Castore, Polluce, Esculapio, Bacco». E in altro luogo si legge: «Nella maggior parte delle città si può ben capire come sia stata consacrata la memoria e la fama di uomini illustri, per accrescere lo spirito del coraggio e del valore, e perché tutti i migliori e i più arditi, con maggiore slancio, incontrassero pericoli per lo Stato: ed è evidente che con questo procedimento i Romani consacrarono i loro imperatori, e i Mauri i loro re, così a poco a poco cominciarono a formarsi i culti religiosi, e come quelli che per primi li avevano conosciuti, fecero poi crescere in quella credenza i figli e i nepoti, e così dopo, gradatamente, fu fatto per tutti i loro discendenti. E questi sovrani insigni e famosi, per la celebrità del loro nome, erano venerati in tutte le contrade. Singolarmente ogni popolo, poi, venerò coloro che rappresentavano l'origine, il principio della propria gente, della propria città, o fossero uomini insigni per fortezza, o donne famose per il loro senso di castità ed onesti: e li fecero segno a serietà e a intimità di culto, come gli Egiziani, Iside; i Mauri, Giuba; i Macedoni, Cabiro; i Cartaginesi, Urano; i Latini, Fauno; i Sabini, Sanco; i Romani, Quirino; e nello stesso modo evidentemente Atene tiene il culto di Minerva; Samo, di Giunone; Pafo, di Venere; Lemno, di Vulcano; Nasso, di Bacco; Delfo, di Apollo. Così da popoli e da paesi diversi, furono seguite varie credenze e culti religiosi, perché appunto, da un lato, gli uomini desiderano d'esprimere la loro gratitudine ai loro reggitori e signori, e dall'altro non è possibile loro trovare, per chi è ormai uscito di vita, altre manifestazioni e segni di onore. Inoltre contribuì molto, al propagarsi dell'errore, la religiosità di quelli che vennero dopo, i quali, per apparire d'esser nati da stirpe divina, tributarono onori divini ai loro maggiori e imposero onori divini anche per sé.

C'è qualcuno forse che possa dubitare in che modo si siano venute stabilendo le religioni e i culti degli Dei, quando in Virgilio si possono leggere le parole d'Enea, che così ordinava ai suoi compagni: «Ora fate libazioni a Giove ed invocate colle preghiere il genitore Anchise»?17 Al quale non solo attribuì carattere di immortalità, ma riconobbe a lui la facoltà di far spirare favorevoli i venti: «Invochiamo i venti e gradisca egli questi omaggi e mi conceda che io, dopo avere fondata la nostra città, gli rinnuovi ogni anno questi sacrifizî in templi a lui dedicati».18 Evidentemente, lo stesso processo di Giove seguirono Libero e Pane e Mercurio e Apollo; e così si dica dei discendenti di questi, a loro volta.

Si aggiunse poi l'opera dei poeti; i quali, composti i carmi tanto liberamente e capricciosamente, li sollevarono al cielo; proprio come fanno coloro che, per quanto riguarda i sovrani, anche malvagi, coi loro bugiardi panegirici compiono opera di adulazione vile. E questo male ebbe origine dai Greci: la fantasia dei quali, unita ad una facoltà esercitata e perfetta di copiosa parola, è difficile credere quante immaginazioni e belle invenzioni abbia potuto combinare. Presi essi stessi d'ammirazione per queste figure, per primi, seguirono quelle credenze e rispettarono il loro culto, che tramandarono poi a tutte le genti. Per questa loro specie di vanità e di leggerezza, la Sibilla così li rampogna:

Graecia quid confidis in viros principes?
Ad quid dona mania mortuis dedicas?
Immolas idolis, quis tibi errorem in mente imposuit
Haec te perficere relinquentem Dei magni faciem?19

M. Tullio, il quale non solo fu oratore eccellentissimo, ma anche filosofo, lui che certamente solo seppe seguire le orme di Platone, in quel libro, nel quale cercò un conforto alla morte della figlia, non esitò di dire che gli Dei, ai quali pubblicamente si rendono onori di riti, siano stati uomini. Questa sua testimonianza è da considerarsi importantissima per il fatto che egli face parte del collegio sacerdotale degli áuguri e testimonia che egli stesso li faceva oggetto di stima e di venerazione. In pochi versetti ci ha indicato due cose: mentre dichiara che egli renderà sacra e divina l'immagine della figlia, nello stesso modo nel quale furono consacrati dagli antichi i loro Dei, ci dice chiaramente che essi erano appunto persone defunte, e ci dà l'idea quindi dell'origine di quella vana credenza. «Siccome — disse — noi vediamo ed esseri maschi e femmine, venire annoverati fra gli Dei, e veneriamo nelle città e nelle campagne i loro augustissimi templi, seguiamo la saggezza di coloro, secondo i cui principî e secondo il cui pensiero noi abbiamo regolata e stabilita tutta la vita. Se mai essere vivente fu da consacrarsi, questo certamente lo fu; se la progenie di Cadmo o di Anfitrione o di Tindaro fu da innalzare, per fama e rinomanza, agli onori divini, lo stesso onore certamente è da tributarsi a questa mia. Ed io farò la stessa cosa, infatti; e te, che sei ottima e saggissima, approvandolo gli stessi Dei, io porrò nei loro cori e te consacrerò alla memoria di tutti gli uomini». Forse taluno potrà dire che Cicerone abbia delirato per il soverchio dolore. Eppure, tutta quella trattazione, ricca di dottrina, fulgida di esempi, perfetta in ogni sua espressione, fu certamente opera, non di uno spirito stanco e malato, ma indice di un animo fermo e risoluto, e di un giudizio retto; e il pensiero da lui manifestato non contiene in sé stesso alcun carattere di dolore. Né, pertanto, posso indurmi a credere che costui avesse potuto scrivere con tanta ricchezza, eleganza e fluidità, se non avessero mitigato il suo dolore, la forza della ragione, le parole di conforto di persone amiche, l'azione alleviatrice del tempo. E non disse poi lo stesso nei libri sulla Repubblica, e nell'opera sulla Gloria? Nelle Leggi, nel quale scritto seguì le orme di Platone, volle fissare dei principi, dei quali pensava che una città giusta e saggia avrebbe fatto uso, e, per quello che riguardava la religione, stabilì: si venerino gli Dei e quegli esseri che furono sempre stimati divini, ed anche coloro che i propri meriti resero degni del cielo, Ercole, Libero, Esculapio, Polluce, Castore, Quirino. La stessa idea manifesta nelle Tusculane, quando dice che quasi tutto il cielo è pieno di esseri umani. «Se — disse — io tentassi di rivangare le antiche opere, e tra queste, quante ci tramandarono gli scrittori della Grecia, si troverebbero quegli stessi che sono considerati Dei di ordine superiore, essersi mossi proprio dalla terra per salire in cielo. Ricerca su quelli, dei quali si mostrano in Grecia le tombe; ricorda, poiché vi sei stato iniziato, ciò che viene tramandato nei misteri; allora finalmente capirai quanto tutto questo prenda una portata più vasta». Cicerone citò a testimonianza la convinzione di Attico, come cioè dagli stessi misteri si possa capire che gli Dei, fatti oggetto di culto, furono uomini; ma mentre riconosceva apertamente la cosa nei riguardi di Ercole, Libero, Esculapio, Castore e Polluce, ebbe ritegno poi di riconoscerlo apertamente per Apollo e Giove loro padri; e così si dica di Nettuno, di Vulcano, di Marte, di Mercurio, che chiamò Dei di superiore origine. Ma è per questo che Cicerone giunge poi a dare a tale principio una più vasta portata, perché noi potessimo appunto credere la stessa cosa anche di Giove e di tutti gli Dei più antichi; ma se il ricordo di essi gli antichi lo consacrarono, come precisamente Cicerone dice di voler pure innalzare la figura e il nome della figlia sua, è da osservare però come ciò possa bensì venir perdonato a chi lo fa sotto l'impulso del dolore, ma non è passibile affatto pensarlo per dei credenti. Chi infatti potrebbe essere tanto pazzo da prendersi l'arbitrio di divinizzare i morti, sia pure col consenso e il beneplacito di innumerevoli stolti? o come potrebbe taluno attribuire l'immortalità agli altri, senza possederla per lui stesso?

Presso i Romani Giulio Cesare fu Dio, e questo perché piacque a quello scellerato che fu Antonio. Quirino fu Dio perché così parve ai pastori; eppure l'uno era stato uccisore del fratello, l'altro della patria: che, se non fosse stato console Antonio, C. Cesare, anche dati i suoi meriti verso lo Stato, sarebbe rimasto privo anche degli onori che si tributano ad un defunto; e ciò anche, senza dubbio, per consiglio del suocero Pisone e di L. Cesare, parente suo, che non volevano che si facessero l'esequie, e del console Dolabella, che nel Foro distrusse la colonna che era il segno della sua tomba, e volle quasi così purificare il Foro.

Ennio ci dice chiaramente che Romolo fosse stato di grande desiderio ai suoi, e così fa dire al popolo che rimpiange il re perduto: «O Romolo, Romolo, divino; quale difensore della patria gli Dei ti generarono! Tu, padre, origine nostra, o sangue discendente dagli Dei, tu hai portato noi nelle regioni della luce».20

Per questo vivo desiderio di lui, si credé più facilmente a Giulio Proculo, che, mentendo, spinto a ciò dai senatori, disse al popolo di avere visto il re in aspetto più bello ed augusto dell'umano e che gli aveva detto di riferire al popolo che egli era un Dio, che si chiamava Quirino e che a lui fosse innalzato un tempio. Fu così che riuscì a convincere il popolo che Romolo fosse stato rapito in cielo e liberò il Senato dal sospetto d'avere ucciso il re.

CAPITOLO XVI. Perché non possono essere Dei coloro che la diversità del sesso distingue; l'ufficio di procreare non riguarda affatto la divinità.

Potrei contentarmi di quanto ho riferito fin qui; ma restano ancora molte cose, che pur mi sembrano indispensabili a compiere l'assunto intrapreso. Sebbene, infranto il principio base delle multiple religioni e culti, sia sgombrata qualunque altra quistione, tuttavia mi piace considerare gli altri punti, e perorare più a fondo, per confutare ed attaccare quella convinzione, ormai inveterata, perché un giorno gli uomini debbano vergognarsi e pentirsi dei loro errori. Nobile impresa questa e degna veramente di un uomo. «Io cerco di liberare gli animi dai legami e dagli intralci delle credenze religiose», dice Lucrezio, il quale certamente non poteva raggiungere questo, perché nulla di vero era nella sua dottrina; ma è questo appunto il compito nostro; noi, infatti, affermiamo il vero Dio e confutiamo gli Dei falsi e bugiardi.

Quelli, infatti, che credono che i poeti abbiano creato intorno agli Dei narrazioni favolose e immaginarie, e che poi pensano che possano esistere divinità femminili, e le venerano, non s'accorgono di ritornare proprio a quello che avevano negato, cioè all'unione sessuale e alla conseguente generazione. Non può ammettersi, infatti, che i due sessi siano stati stabiliti se non proprio collo scopo della procreazione. Accolta, dunque, la diversità del sesso, non capiscono che ne deriva, come conseguenza logica, il generare; ma questo non può accadere per la divinità. Sia pure, infatti, come costoro pensano, in quanto affermano che vi sono figli di Giove, come pure degli altri Dei: nascono quindi nuovi Dei tutti i giorni, e non certamente superati dagli uomini in fecondità; tutto, dunque, è pieno di innumerevoli Dei, dal momento che nessuno di essi muore. E poiché la quantità, il numero degli uomini è incalcolabile, per quanto questi, come nascono, debbono poi morire, che cosa penseremo che sia degli Dei, nati in tanto lungo volger d'età e rimasti immortali? Perché dunque ne veneriamo un numero così esiguo? a meno che non vogliamo credere che la differenza del sesso per gli Dei esista non per la procreazione, ma per mero piacere e per poter fare ciò, che, per i poveri uomini è invece fonte di biasimo e di vergogna.

Quando si ammette che da alcuni Dei ne siano nati altri, è questo un principio che vale per sempre; di conseguenza, se fece tanto ciò di accadere una volta, e se un giorno finirono di nascere, si deve pur sapere perché o quando abbiano cessato. Non senza spirito, Seneca, nei libri della morale filosofia: «Che ragione c'è — si chiede — perché, presso i poeti, Giove, così fervido amatore, abbia cessato di riconoscere i propri figliuoli? che forse era divenuto sexagenario? o la legge Papia aveva imposto a lui l'astinenza, ed ottenne il diritto dei tre figli (ius trium liberorum), oppure gli venne in mente il proverbio «aspèttati da altri quello stesso che tu abbia fatto ad altri», e quindi teme che taluno faccia a lui quello che egli fece a Saturno? Quelli poi che dicono taluni essere Dei, vedano un po' in qual modo possano in conseguenza rispondere all'argomento che portiamo: Se vi sono Dei di sesso diverso, ne consegue un'unione sessuale; se sono dunque in relazioni fra loro, debbono per forza aver delle case, perché evidentemente non saranno privi così di dignità e di pudore da poter mantenere certe relazioni all'aperto, sotto gli occhi di tutti, come vediamo fare dagli animali inferiori. Se hanno abitazioni, ne scappa fuori che debbano possedere anche città; ed ecco Ovidio che dice: «La folla delle divinità minori abita dislocata in diversi punti; ma questa lucente zona è quella che accoglie gli Dei più potenti».21 Se hanno città, avranno anche campi e terreni. Ma ormai chi è che non veda le conseguenze di tali principi? che costoro arano, coltivano; ma in tutto questo è chiara ed evidente una ragione di vita; quindi sono mortali. Questo argomento non perde valore evidentemente, in senso inverso: se non hanno terreni, non posseggono neppure città, e quindi neppure case; e se sono dunque privi di abitazioni, non hanno mezzo di coabitazione e d'intima relazione fra loro; se tutto ciò è lontano da loro, deve mancare fra essi l'elemento femminile; ma, pure, fra le divinità, noi riscontriamo esservene anche alcune di sesso femminile: quindi non possono essere veramente Dei. Se qualcuno ne sia capace, si provi a distruggere tale argomento: una cosa segue l'altra, così che in fine bisogna riconoscere e confessare quello che necessariamente ne deriva. Non vi sarà, del resto, nessuno che sia capace di sciogliere neppure quest'altro punto: dei due sessi, l'uno è più forte, l'altro più debole; più robusti infatti sono i maschi, più deboli le femmine; ma la debolezza non può essere il carattere della divinità, e quindi non può esservi sesso femminile. A questo s'unisce quell'ultima conclusione dell'argomento portato sopra, che, cioè, non sono Dei, perché fra le pretese divinità s'annoverano anche esseri di sesso femminile.

CAPITOLO XVII. Il pensiero degli stoici sullo stesso argomento. Dei difetti, delle mancanze, di certi riprovevoli caratteri delle divinità.

Per queste ragioni, gli stoici cercano di dare un'interpretazione diversa agli Dei; e, dal momento che non riescono a vedere che cosa ci sia di verità, in fondo, tentano di ricollegarli, in una certa linea di ragione, allo svolgimento dei fenomeni naturali. Cicerone, che ha seguito gli stoici, e per quel che riguarda gli Dei, e sulle loro credenze religiose, ha così manifestato il suo pensiero: «Non vedete forse come dai fenomeni naturali, abilmente considerati e studiati, ne venga poi scaturendo una costruzione e un'impalcatura per l'interpretazione di queste foggiate divinità? E fu questo che dette luogo, poi, a false opinioni, ad errori gravi e torbidi, a superstizioni, a credenze proprio da femminuccie. A noi sono infatti ormai note le figure degli Dei, ne conosciamo le età, gli attributi esteriori, ed inoltre ne sappiamo le discendenze, i matrimoni, i rapporti vari di parentela, e tutto ciò viene ridotto proprio al grado, ed inquadrato nella concezione della debolezza umana». Che cosa potrebbe esser detto di più chiaro ed aperto? Ebbene, chi può dirsi a capo di tutto il pensiero filosofico romano e rivestito pure di amplissima facoltà sacerdotale, attacca, questi Dei, come falsi e bugiardi, e riconosce i culti che si prestano ad essi e gli onori che loro si tributano, come cose da donnicciole, e fa sentire il suo vivo rammarico che gli uomini siano stretti in false credenze ed avvolti in errori grossolani, che turbano l'intelligenze: tutto il terzo libro della Natura degli Dei, rovescia e distrugge dalle fondamenta ogni credenza religiosa. Che cosa quindi si può aspettare di più da parte nostra? possiamo forse noi superare in eloquenza Cicerone? Affatto. Ma a costui, che pure ignorava la verità, mancò la fermezza e la salda fiducia in sé stesso, e lo confessa, del resto, chiaramente nella stessa opera sua: afferma, infatti, che più facilmente egli può dire ciò che non sia, di quello che invece sia; cioè che egli capiva quanto fosse falso, senza, per questo, intendere in che risiedesse il vero. Resta chiaro intanto che siano stati uomini coloro che poi furono riconosciuti come Dei, e che la memoria loro sia stata consacrata dopo la morte. È per questo che diverse sono le età degli Dei, e le loro immagini ben fisse e determinate, perché appunto queste furono fissate in quell'atteggiamento, in quell'età, in quell'apparato esteriore, nel quale la morte colpì ciascuno di essi.

Consideriamo, se ci piace, le miserie di questi disgraziati Dei. Iside perdé il figlio, Cerere la figlia; cacciata da tutte le terre, errabonda per ogni luogo, Latona trovò appena una piccola isola nella quale partorire; la madre degli Dei [Cibele] amò un giovinetto splendido di giovinezza [Attis], che ella poi mutilò orribilmente, rendendolo uomo soltanto di nome, perché una volta lo colse con un'amante, ed ora, le sacre cerimonie in memoria sua, sono celebrate dai sacerdoti Galli. Giunone perseguitò aspramente le amanti illegittime del fratello e marito, perché da lui non poté avere gioia di prole. Varrone scrive che l'isola di Samo prima era stata detta Partenia, perché ivi Giunone crebbe e si sposò a Giove. E infatti in Samo v'è un grandissimo ed antichissimo tempio di lei, ed una statua che la ricorda in abito di sposa, e i sacri anniversarî delle sue nozze si celebrano con appositi riti. Se dunque fu un giorno giovinetta, e fu vergine prima, poi donna; chi non capisce che essa fu un essere umano, si riconosce di mentalità inferiore, come una bestia. E che dovrò dire dei vergognosi abbandoni di Venere, che si dava ad ogni sorta di capricci, più liberi e scomposti, non solo fra gli Dei, ma fra gli uomini? Fu ben lei che, dalla famosa relazione avuta con Marte, generò Armonia; da Mercurio generò Ermafrodito, che nacque di due sessi; da Giove generò Cupido; da Anchise generò Enea; da Bute generò Erice; da Adone non ebbe prole, perché, fanciullo ancora, egli, ferito da un cinghiale, ebbe a morirne; e fu lei che per prima, come si legge nella sacra storia [di Evemero], istituì il mercimonio del proprio corpo e il principio della prostituzione, e in Cipro fu lei che favorì a che le donne, col proprio corpo, potessero trarre guadagno; e fu un'ingiunzione questa, che mosse da lei, allo scopo di non apparire, lei sola, svergognata oltre tutte le altre, e desiderosa e amante di esseri di sesso diverso. E costei ha forse ancora qualcosa di divino? Di lei s'annoverano più copiosi gli adulterî che i parti.

Neppure le fanciulle addette al suo culto poterono mantenere poi intatto il loro onore! Donde dobbiamo pensare che sia nato Erittonio? forse dalla terra, come i poeti vorrebbero fare apparire? La cosa stessa lo dice: Avendo Vulcano fatto le armi agli Dei, Giove gli disse che scegliesse il premio che fosse stato di suo maggior gradimento, dopo aver fatto giuramento, come era solito, per la palude Stigia, che egli non avrebbe negato nulla; allora lo zoppo fabbro domandò le nozze di Minerva. Giove Ottimo Massimo, costretto ormai da tanta forza di giuramento, non poté non concederglielo, ma avvertì tuttavia Minerva di contrastare ai desideri di Vulcano e di mantenere intatta la sua verginità. Nella lotta avvenuta fra i due Dei, dicono che Vulcano abbia fecondato la terra, onde sia nato Erittonio, e che appunto a lui fosse stato dato questo nome, che infatti risulta dall'idea di lotta e di terra (ex certamine atque humo) [ἀπὁ τῆς ἒρδος καἱ χθονός].

Perché la vergine Pallade affidò alle tre fanciulle, figlie di Cecrope, quel giovanetto, dopo averlo chiuso e sigillato con un grosso serpente in un paniere di vimini? Evidentemente, come penso, fu essa una relazione incestuosa, che non poteva in alcun modo essere difesa e scusata. Un'altra, Diana, avendo ormai quasi perduto il proprio amante, che era stato straziato dai cavalli infuriati, chiamò, per curare il giovanetto, il valentissimo medico Asclepio, e, sanato che fu:

Scevro da tutti, a cura fu mandato
D'Egeria ninfa, e ne la selva ascoso,
Là, 've solingo, e col cangiato nome
Di Virbio, sconosciuto i giorni mena
D'un'altra vita.22

Perché ella vuole una cura così premurosa e diligente? perché la ricerca di sedi così remote? perché un ritiro così lontano, presso una donna, e in così profonda solitudine? perché poi un cambiamento di nome? E infine come mai un odio così fiero contro i cavalli? Tutto questo che cosa significa, se non la consapevolezza piena della colpa e di un amore non affatto virginale? Ed era logico che ella avesse una cura e una preoccupazione così affettuosamente viva per un giovane che le si era dimostrato tanto fedele, al punto di non aver prestato orecchio alle lusinghe della matrigna, che pure ardeva d'amore per lui.

CAPITOLO XVIII. Della consacrazione divina, per i benefici dati agli uomini.

In questo luogo della trattazione, sono da confutare coloro che non solo riconoscono come divinità quelle che sono state create da esseri terreni, ma tributano ad esse lodi e vantano, e si gloriano, ad esempio, di Ercole, per la sua forza e per il suo valore, di Cerere e di Bacco, per i doni di cui sono stati prodighi, di Esculapio e di Minerva, per le invenzioni che hanno saputo escogitare. Ma io mi propongo di dimostrare quanto siano vane queste presunte qualità, e come non meriti che, per esse, gli uomini si macchino di una colpa che non si può lavare, e si facciano nemici al vero Dio, che essi trascurano e disprezzano per prestare culto ad esseri umani defunti.

Dicono che sia il valore, quello che innalza l'uomo al cielo; ma non è quella la facoltà di cui parlano i filosofi, la quale è appunto riposta invece nei beni dello spirito; si tratta, qui, di una facoltà fisica, che si dice forza, robustezza, la quale, perché in sommo grado si riscontrò in Ercole, si crede, che si sia per essa meritato l'immortalità. Ma chi può essere così stoltamente sciocco da giudicare la forza fisica un bene divino, o, diciamo, anche semplicemente umano, dal momento che vediamo che le bestie hanno sortito forze anche maggiori delle nostre; e che, d'altro lato, basta una malattia per infrangerle e fiaccarle, e che per la vecchiaia stessa si affievoliscono e si perdono? Ercole stesso, pertanto, avvertendo che i suoi muscoli erano infranti e vinti dalle piaghe, non volle esser guarito, né divenir vecchio, per non apparire un giorno inferiore a quanto egli fosse stato una volta. Crederono che costui, dal rogo, dove egli s'era gettato per bruciarsi vivo, fosse asceso al cielo e quelle stesse imprese che, nella loro stoltezza, gli uomini ammirarono, le fissarono in immagini simboliche e le consacrarono, affinché rimanessero in perpetuo a testimonianza della loro vanità e stoltezza, essi che avevano potuto giungere a credere che per l'uccisione di fiere si potesse divenire divinità.

Ma questa potrà essere forse la colpa dei Greci, che sempre ritennero cose d'importanza, quelle che invece non ne avevano alcuna.

E i nostri sono forse più saggi?

Essi non tengono in alcun conto la virtù atletica, perché questa non danneggia alcuno, mentre il principio della regalità e della potenza, che tanto male sono solite spargere intorno a sé, l'ammirano in tal grado, che pensano che possano essere considerati nel numero degli Dei, i duci coraggiosi e guerrieri, e giudicano che non vi debba essere altra via all'immortalità che quello di capitanare eserciti, di devastare i territori altrui, di distruggere città, di atterrare castella, di trucidare popoli liberi e fieri e sottoporli a schiavitù: evidentemente, quanti più uomini abbiano fiaccato, oppresso e spogliato, tanto più si credono nobili, illustri, e, presi tutti da quello che sia l'apparenza di una gloria vana, chiamano col nome di azioni valorose e grandi, quelle che non sono altro che scelleratezze e delitti. Io preferirei che si creassero delle divinità per stragi compiute su fiere, piuttosto che riconoscere una immortalità tanto cruenta!

Se taluno ha strangolato un altro uomo, è ritenuto come qualcosa di contaminato e di corrotto, né è reputato giusto e lecito che costui sia ammesso a far parte di questo terreno domicilio di divinità... Ebbene, quello invece che avrà trucidato migliaia e migliaia d'individui, che avrà inondato di sangue i campi, che avrà macchiato e infettato purità di fiumi, viene ammesso non solo nel tempio, ma sono aperte a lui anche le porte del cielo. Ennio così fa parlare l'Africano: «Se a chiunque è lecito penetrare nelle regioni dei cieli, a me solo sta aperta la più spaziosa porta del cielo».23

È chiaro; perché egli fu causa della rovina e della morte di gran parte del genere umano. Oh, in quale tenebra ti sei aggirato, o Africano; o piuttosto tu, o poeta, che hai creduto, che, attraverso il sangue e le stragi, possa esser data all'uomo l'ascesa nel regno dei cieli. Anche Cicerone assentì a questo assurdo: «O Africano, è proprio così, — disse — anche ad Ercole si aprì la stessa porta»; come se egli in persona, quando avveniva ciò, fosse stato in cielo, quale portinaio!... Certamente io non posso dire, con sicurezza, se io stimi che sia il caso di dolersene o di riderne, quando vedo uomini così dotti e autorevoli, come a loro sembra certamente d'essere, aggirarsi in così fitta tenebra d'errore e in gorghi così travolgenti di colpe.

Se questa è la virtù che ci rende immortali, io preferirei morire, piuttosto che essere di rovina a moltissimi; se l'immortalità non può essere procurata se non a prezzo di sangue, che cosa avverrebbe, se tutti vivessero nella più perfetta concordia e pacifica intesa? La qual cosa, per altro, potrebbe verificarsi il giorno in cui, buoni e giusti, gli uomini volessero vivere, rigettando ogni empio e pazzo furore. O che forse, in tal caso, non vi sarebbe più alcuno che si meritasse di salire al cielo? forse ogni valore tramonterà, perché agli uomini non sarà dato d'incrudelire contro altri uomini? Oh! Ma quelli che stimano massima gloria la distruzione di città e la rovina di intere popolazioni, non sopporteranno di starsene in pace; commetteranno rapine e saccheggi, s'abbandoneranno a crudeltà e, recata ingiuria sotto ogni forma, infrangeranno qualunque intesa di umano consorzio, così da poter avere un nemico su cui sfogare il loro furore, ed abbatterlo con scelleratezza maggiore di quella con cui l'abbiamo prima provocato ingiustamente.

Ora volgiamoci ad altro punto. La tradizione d'aver largito doni, fu ragione del nome di Dei, a Cerere e a Libero; ma io potrei dimostrare, coi libri sacri alla mano, che il vino e le messi furono in uso degli uomini prima della progenie del cielo (Urano) e di Saturno. Ammettiamo però pure che siano stati ritrovati da tali divinità; ma che forse può apparire qualcosa di più o di più importante, l'avere saputo ammassare i grani, e insegnare a fare il pane, dopo averli pestati e franti, o l'avere spremuto l'uva raccolta dalle viti e fatto il vino, della potenza di aver dato origine alle stesse messi, alle viti e averle fatte sorgere dalla terra? Iddio avrà potuto lasciare ad intelligenze terrene certamente, queste cose, da portare alla luce e allo sviluppo, ma, tuttavia, non potrà essere che non si debba il tutto riconoscere come proprie di colui, che pur dette originariamente all'uomo la saggezza atta a ritrovare le cose ed anche, quindi, le cose stesse che poterono così essere ritrovate. Anche le arti si dice che abbiano procurato immortalità ai loro inventori; come la medicina ad Esculapio, e a Vulcano l'abilità costruttiva; tanto varrebbe allora che veneriamo anche quelli che hanno insegnato il modo di fare i panni o di far le scarpe!

Perché non si attribuisce lo stesso onore all'inventore dell'arte figulina? forse perché i ricchi non tengono in conto i vasi di Samo? Vi sono poi, del resto, altre arti, gli inventori delle quali portarono utilità grande a tutto l'uman genere: perché, dunque, non vengono dedicati templi anche a costoro? Ma è Minerva quella che le ispirò tutte, queste arti, ed è per ciò che gli artefici s'inchinano a lei; e così Minerva sale al cielo, da principî così dappoco ed oscuri e per azioni così piccole. Ma che ragione v'è perché ognuno abbandoni Colui che fece nascere questa terra nostra, coi suoi esseri animati, e che fu prima ragione del cielo coi suoi infiniti punti luminosi, per poi venerare colei che insegnò ad ordire la tela? E allora quello che insegnò a guarire sui corpi le ferite? Ma che forse può essere più insigne di chi ha plasmato, formato i corpi stessi, e che stabilì la norma di quello che fosse senso e ragione di vita? e dette origine alle erbe e a tutti gli altri principî, di cui consta l'arte della medicina?

CAPITOLO XIX. Perché nessuno possa venerare il vero Dio con gli Dei falsi e bugiardi.

Ma qualcuno potrebbe forse dire che bisogna tributare la dovuta venerazione, non soltanto a questa somma potenza che tutto creò, ma anche a quelli che in parte giovarono. In primo luogo non è mai avvenuto che chi ha venerato questi esseri abbia poi anche reso il dovuto culto a Dio; e ciò non può infatti succedere, perché, se il medesimo onore e tributato ad altri, ne consegue che Iddio sia defraudato di questo onore, poiché suo principio è appunto che si creda Lui, solo ed unico Dio. Dice l'insigne poeta che tutti coloro che «colle ritrovate arti ingentilirono la vita»24 si trovano presso gli Inferi e che quello stesso scopritore della medicina era stato, dal fulmine, inabissato nelle onde Stigie; ed era pure un'arte straordinaria quella! e questo perché si comprenda quale potere abbia l'onnipotente padre, capace appunto di abbattere col fulmine anche le divinità. Ma gli uomini, nella loro sottigliezza, seguivano forse questo ragionamento: dal momento che un Dio non può esser colpito dal fulmine, è chiaro che ciò non è accaduto, ma se pure è accaduto, è chiaro che tale essere non fu Dio, ma uomo. La falsità dei poeti non risiede dunque nella cosa in sé, ma sta in una quistione di denominazione: essi evidentemente temevano di cadere in disgrazia se, contro l'opinione comune, riconoscevano quello che era la verità. Ma se anche fra gli uomini risulta chiaro che gli Dei siano stati creati da quelli che erano prima esseri mortali, perché non prestar fede ai poeti, se talvolta descrivono e narrano le fughe, le ferite, le morti, le guerre e gli adulterî? proprio da questo, del resto, che ci è dato comprendere come giammai sia possibile che poi siano stati Dei, perché non furono neppure uomini dabbene e compirono nella loro vita azioni tali da procurare la morte eterna.

CAPITOLO XX. Delle divinità proprie dei Romani e dei loro culti.

Vengo ora a trattare delle credenze proprie dei Romani, perché ho finora trattato dei culti in generale. La lupa, nutrice di Romolo, fu fatta segno ad onori divini. Potrei anche capire se si trattasse proprio dello stesso animale in carne ed ossa; ma Livio ci dice che s'ascondeva sotto di essa la figura di Larentina, non in quanto a figura esteriore, bensì ad indole e a costume. Fu, infatti, moglie di Faustolo, e, per l'abiezione della sua persona, detta lupa fra i pastori, ossia meretrice; onde poi si ebbe anche il nome di lupanare. Nell'immagine di costei i Romani senza dubbio seguirono l'esempio degli Ateniesi, presso i quali, una cortigiana di nome Lena, avendo ucciso un tiranno, poiché non era lecito che in un tempio s'innalzasse una statua ad una meretrice, ebbe a suo ricordo, l'immagine dell'animale di cui portava il nome. Come dal suo nome gli Ateniesi le eressero un ricordo, così i Romani lo fecero, avendo in mente le corrotte abitudini dell'altra. Al nome di costei fu dedicato anche un giorno festivo, e si fissarono le Larentinalia. I Romani, del resto, non venerano questa cortigiana solamente, ma anche Faula, che Verrio attesta essere stata amante di Ercole. E come magnifica davvero dobbiamo stimare l'immortalità, che anche donne di tal risma riescono a raggiungere! Flora, avendo dalla prostituzione ammassato grandi ricchezze, nominò erede il popolo e lasciò una determinata somma, dal cui annuo interesse, fosse celebrato il suo giorno natalizio colla proclamazione di giochi, che chiamano, appunto, Floralia. La qual cosa, poiché al Senato appariva vergognosa, dallo stesso nome di lei parve opportuno prendere argomento per rivestire di un certo carattere di dignità, cosa che, di per sé stessa, faceva vergogna. Figurarono quindi che fosse una Dea che presiedesse ai fiori e che fosse necessario placarla perché, cogli alberi e le viti, anche le messi ottenessero splendida fioritura. Ovidio nei Fasti25 segui questa colorazione poetica e narrò che ella era stata una non disprezzabile ninfa, e che fosse chiamata generalmente Clori e fosse andata sposa a Zefiro, e che dal marito avesse avuto, quasi in dono di nozze, la signoria su tutti i fiori della terra. Tutte queste immagini sono esposte nel modo più bello dignitoso, ma sono poi considerate in un aspetto diverso di disonestà e di scompostezza; e non ci debbono far velo finzioni di simil genere, quando si voglia scrutare la verità. Si celebrano infatti quei giochi con ogni libertà, come conviene appunto al ricordo di una cortigiana. Oltre l'assoluta licenza di parola, nella quale ogni oscenità si spiega a grida di popolo, le donne si spogliano delle loro vesti; esse fanno la parte di rime, e sotto gli occhi del popolo sono lì trattenute fino alla sazietà degli occhi, vergognosamente avidi, in movimenti lascivi e provocanti.

Tazio consacrò l'immagine di una Cloacina, che era stata trovata nella cloaca massima, e dal momento che non sapeva a chi appartenesse la statua, le pose il nome del luogo. Tullio Ostilio fissò in immagini, e venerò, il Timore e il Pallore. Che potrei dire di ciò, se non che sia stato giusto e logico che egli abbia avuto presenti, come del resto è naturale desiderare, le divinità che a lui maggiormente si confacevano? Da tal fatto differisce per la nobiltà e lo splendore dei nomi, pur rimanendo la cosa, la stessa, nella sostanza, a riguardo di Marcello per la consacrazione dell'Onore e della Virtù; e in questo medesimo vano ordine d'idee il Senato collocò fra le divinità la Mente, il quale per altro, se avesse fatto tanto di possederla, non mai avrebbe creato credenze religiose e culti di tal natura.

Cicerone dice che la Grecia compì qualche cosa di grande e di audace per il fatto d'aver consacrato nei ginnasi le immagini delle divinità dell'Amore: certamente volle adulare Attico e scherzare alle spalle di costui che gli era amico; non si può parlare di qualcosa di grande, di un pensiero alto e nobile in tutto ciò, ma di un procedimento rovinoso e deplorevole di uomini svergognati, i quali abbandonarono alle sfrenatezze della gioventù, quei loro figli che avrebbero dovuto guidare verso onesti principi; e vollero invece che da loro fossero osservati quegli Dei, ministri d'ogni colpa; proprio poi in quei luoghi dove la nudità dei corpi, favorisce la corruttela, ed appunto in quell'età che, ingenua e imprevidente, è più pronta a lasciarsi irretire nei lacci della colpa, di quanto essa non sappia invece guardarsene. Che meraviglia possiamo farci se da quella gente vennero fuori scelleratezze d'ogni genere? Gli stessi vizî presso di essa sono qualcosa di religioso; non solo non si cerca di evitarli, ma sono oggetto di culto. E Cicerone aggiunse, su questo principio, volendo così superare i Greci in saggezza, che non sono i vizî, ma le virtù che devono essere innalzate e consacrate: ma, o Marco Tullio, se tu sostieni e accogli questo principio, tu non vedi come gli elementi cattivi si confondano e si uniscano colle virtù; i mali stanno vicini ai beni e sono più potenti nell'animo dell'uomo; e se tu difendi che i mali non devono essere reputati sacri, ecco che quella stessa Grecia salterà su a dirti che essa appunto venera alcune divinità perché giovino, altre perché non nocciano.

Questa è sempre la giustificazione di coloro che considerano come divinità i propri mali, come i Romani, ad esempio, la Ruggine e la Febbre. Se quindi i vizî non sono da consacrare, e in ciò sono d'accordo, non sono, però, da consacrare neppure le virtù. Esse non hanno in sé stessa una saggezza, e non posseggono forza e vigore di sentimento; e non devono essere collocate entro pareti, o in tempietti costruiti colla terra; ma nell'animo nostro sono da porsi, nel nostro intimo devono star racchiuse, perché non vengano falsate, se appunto si mettono fuori dell'uomo. È così che io non posso non ridere di quella tua famosa legge, o Cicerone, che tu fissi in queste parole: «Quelle cose per le quali è dato all'uomo di salire in cielo, la mente, la virtù, la pietà, la fede, abbiano templi a loro gloria». Eppure tali principi non si possono separare dall'uomo. Se sono da venerarsi, è pur necessario che siano nell'uomo; se sono fuori dell'uomo, quale necessità di coltivare quei principî, dei quali tu ti senta privo nell'intimo tuo? È la virtù che bisogna venerare, non l'immagine della virtù, ed è da venerarsi, non con qualche sacrificio, con incensi o con preghiere solenni, ma colla buona volontà sola e colla costanza dei propositi. Coltivare, seguire la virtù, che cosa d'altro è, se non abbracciarla col nostro spirito, nella sua essenza, e possederla? e tosto che ciascuno abbia cominciato a voler fermamente ciò, lo conseguisce: questo è l'unico culto della virtù: nessun'altra religione è da fermare e da fissare in noi, se non quella di un Dio solo. Che bisogno c'è dunque, o uomo saggissimo, di occupare spazi con costruzioni inutili, i quali potrebbero essere usufruiti per le umane necessità? a che scopo fissare collegi sacerdotali per prestare ossequio a ciò che è vano e insensibile? a che immolare vittime? a che incontrare tante spese per foggiare immagini e per tributare ad esse onore di culto? Il tempio più saldo e incorruttibile è il cuore umano: questo, piuttosto, s'adorni e si colmi dei principî che sono contenuti in quei nomi. Ne consegue che tali consacrazioni non possano essere che false: coloro che coltivano le virtù in tal modo, cioè coloro che vanno dietro ad un vano miraggio, ad una falsa immagine della virtù, non possono possederne i principî reali e sostanziali: nessuna virtù può sussistere là, dovunque vi sia dominio di vizî; nessuna fede, quando ognuno cerchi avidamente ogni proprio egoistico vantaggio, nessuna pietà, là dove la cupidigia non risparmia né consanguinei, né familiari, e dove la sfrenatezza dei desideri porta al delitto e alla strage; nessuna pace, nessuna concordia, quando le guerre terribilmente infieriscono colle loro stragi, quando le inimicizie, privatamente, giungono nel loro furore a spargimento di sangue; nessun senso di pudore, quando ogni specie di corruzione e di capricci vergognosi contaminano i sessi e guastano ogni parte del nostro corpo; ma tuttavia non cessano poi dal coltivare e dal prestare ossequio a quello che pure fuggono ed odiano. Onorano, infatti, con incensi e profumi e s'accostano con ogni delicatezza e riguardo a quanto dovrebbero respingere con orrore, nei loro più intimi sensi, ed è questo errore che deriva, nel suo complesso, dall'ignoranza di ciò che sia il principale e sommo bene.

Quando Roma fu occupata dai Galli, i Romani, avendo fatto corde dai capelli delle donne, consacrarono un tempio a Venere calva; e non capiscono intanto come siano vane e sciocche quelle loro credenze, anche da questo, che trovano la loro ragione in circostanze cose leggere e transitorie. Forse avevano imparato dagli Spartani a raffigurarsi divinità, dagli eventi che via via andavano succedendo. Assediando gli Spartani, i Messeni, ed essendo questi riusciti ad ingannare gli assedianti, e a correre contro Sparta per distruggerla, essi furono poi dispersi e confusi dalle donne spartane. Conosciuto l'inganno dei nemici, gli Spartani si misero al loro inseguimento. Donne armate uscirono per un buon tratto, incontro a costoro. E queste vedendo i loro uomini pronti alla pugna, dal momento che pensavano che fossero Messeni, denudarono i loro corpi. Essi, allora, riconosciute le loro donne e attratti dal desiderio del piacere, armati com'erano, s'abbandonarono disordinatamente al capriccio, così che non era possibile stabilire più alcuna distinzione. Così i giovani, da questi medesimi mandati innanzi, unitisi colle fanciulle, generarono i Parteni (?) e per il ricordo di questo fatto dedicarono un tempio e posero una statua a Venere armata, che, per quanto tragga origine da un fatto vergognoso, pure appare cosa più dignitosa che sia fatta oggetto di culto Venere armata, piuttosto che calva.

In quel medesimo tempo fu innalzato anche un altare a Giove protettore del pane (Pistore), perché nel sonno aveva avvertito i Romani, affinché di tutto il frumento a loro disposizione facessero pane e lo gettassero negli accampamenti dei nemici: fatto questo, sarebbero stati liberati dall'assedio, perché i Galli avrebbero perduto ogni speranza di poter sottomettere i Romani colla fame.

Ma che cosa è, dunque, questa irrisione delle credenze religiose! Se io ne fossi un sostenitore, di che cosa mai io mi potrei rammaricare più vivamente, se non che il nome degli Dei sia venuto in tanto disprezzo, che si debba ricoprirlo con attributi volgari e comuni? Chi non riderebbe di una dea Fornice, e che anzi uomini di cultura e insigni si diano da fare, per la celebrazione delle Feste Fornicali? Chi potrebbe trattenere il riso, sentendo ricordare una Dea Muta? Dicono anzi che costei sia quella dalla quale sono nati i Lari, e la chiamano proprio Lara o Larunda. Che cosa può dare, a chi le presta culto, una divinità, che non può parlare? È venerata anche una Caca, che rivelò ad Ercole la matassa del furto dei buoi; essa ottenne la natura divina, perché tradì il fratello. C'è anche Cunina, che difende i bambini nella culla e allontana il mal d'occhio; anche Stercuto che ritrovò per primo il modo di concimare il terreno; anche Tutino, nel cui seno le nuove spose si affidano, perché l'iddio sembri per primo avere delibato le grazie della loro bellezza.

E mille altre stranissime cose, sì che noi potremmo chiamare più vani degli stessi Egiziani, coloro che hanno preso a coltivare tali credenze; i quali Egiziani pure venerano immagini mostruose e degne del nostro disprezzo; ma almeno queste hanno, se non altro, una certa figura; ma che dire di quelli che venerano una pietra rozza e informe, e a cui danno nome di Dio Termine? È quella appunto che si dice che Saturno abbia ingoiato, invece di Giove, e non è a torto quindi che le si tributa onore! Volendo Tarquinio fare il Campidoglio ed essendovi in quel luogo i tempietti di molti Dei, per mezzo degli auguri, li consulto per sentire se intendessero cedere a Giove; e mentre gli altri tutti si ritirarono, il solo Termine rimase, onde Virgilio lo chiama «la salda, immobile roccia del Campidoglio».26 Da questo fatto, si ha modo di notare come davvero grande fosse Giove, a cui non cedé neppure una semplice pietra: fidandosi forse su ciò, perché essa l'aveva liberato dalle fauci paterne! Costruito pertanto il Campidoglio, al di sopra dello stesso Termine, vi fu lasciato nel tetto del tempio di Giove Capitolino, un foro, affinché esso potesse godere di pienezza e libertà di cielo, dal momento che non aveva voluto allontanarsi di lì; e pensare che non ne godevano neanche quelli, che, pure, giudicarono che ne dovesse invece usufruire una pietra! E a questa dunque si fanno supplicazioni pubblicamente, come ad una divinità, custode dei confini; e questa non solo è semplice pietra, ma talvolta un piccolo cumulo di terra. Che dovrò dire dunque di quelli che prestano il loro culto a cose siffatte, se non che essi stessi sono appunto pietre e rozze zolle di terra accumulata?

CAPITOLO XXI. Di alcune divinità barbare e dei loro culti e di alcune romane.

Parlammo precisamente degli Dei che sono fatti oggetto di culto e di venerazione. Ora bisogna dire qualche cosa sulle pratiche religiose, sui misteri che ad essi si legano. Presso i Cipri, Teucro immolò a Giove una vittima umana e tramandò ai posteri tale sistema di sacrificio; ma or non è molto, sotto l'imperatore Adriano, esso fu soppresso. Era legge presso i Taurici, gente selvaggia e crudele, che fossero immolati a Dio gli ospiti, e tale sacrificio fu compiuto per molto tempo. I Galli placavano Heso e Teutate, con sangue umano. Neppure i Latini furono privi di questa forma di crudeltà e ferocia, se è pure vero che anche ora Giove Laziale è onorato con sacrifici cruenti. Ma che cosa possono pregare di beni, dagli Dei, coloro che compiono tali sacrifici? che cosa possono dare agli uomini, divinità che sono propiziate colla morte di uomini stessi? Per i barbari la cosa non meraviglia, e la religione combina appunto colle consuetudini da loro praticate; ma i nostri, che hanno per sé sempre rivendicata, a loro gloria, un principio e una linea di mansuetudine e di umanità, non forse si riscontrano in queste cerimonie sacrileghe, ancora, in maggior misura, crudeli e feroci? Ed infatti sono da considerarsi più malvagi e scellerati coloro che, essendo imbevuti di una certa nobiltà di discipline, s'allontanano e disertano poi da ogni senso di umanità, di quelli che, rozzi ed ignoranti, cadono in azioni cattive, per non conoscere quello che sia il bene. Sembra, in ogni modo, che tale rito d'immolare uomini sia antico, se è pur vero che Saturno, nel Lazio, fu venerato con un sacrificio di ugual natura: non importa che si sacrificasse un uomo sull'altare, o che esso venisse invece gettato nel Tevere, da Ponte Milvio.

Varrone ci racconta che ciò si andasse facendo per un responso avuto, del quale responso, l'ultimo verso suonava così:

Et capita Saturno et patri mittite lumina, (seu hominem).27

E siccome appunto l'espressione può apparire ambigua, gli si suole gettare una face e gli si sacrifica un uomo. Si dice che questa specie di sacrificio sia stato soppressa da Ercole quando tornò di Spagna; ma che il rito rimanesse, sostituendo gli esseri umani con fantocci di giunchi, che si gettavano nella corrente, come del resto ci racconta anche Ovidio nei Fasti:28 «Prima che il Tirinzio venisse a queste regioni, ogni anno si compiva un sì triste sacrificio come a Leucade. Egli avrebbe gettato nelle acque, Romani fatti di paglia. Sull'esempio di Ercole si gettano ancora corpi fittizi». Queste cerimonie, dice lo stesso Ovidio che venivano compiute dalle fanciulle vestali:29 «In questo giorno è uso che una vestale getti giù dal ponte di legno pupazzi di giunco, figuranti Romani antichi».

Sul fatto che dei fanciulli venissero offerti allo stesso Saturno, per l'odio che egli nutriva per Giove, non trovo che cosa dire, al pensiero che gli uomini siano stati tanto barbari, tanto feroci da chiamar sacrificio quel loro orribile delitto, così ripugnante ad ogni senso umano, e giungessero così ad uccidere senza alcuna compassione delle creature in tenera età ed innocenti, quando proprio sono più care e adorabili ai genitori, e superassero così in ferocia ogni specie di belve, che amano sempre e difendono i loro piccini. Oh follia inguaribile! Codeste divinità, che cosa potrebbero di più enorme fare agli uomini, se fossero nel maggior fervore dell'ira, di quello che non facciano, essendo propizie e favorevoli? dal momento che giungono a macchiare di colpe nefande coloro che le adorano, nel colpirli colla offerta dei figli e nello spogliarsi d'ogni senso migliore di umanità? Che cosa vi può essere più, ormai, di sacrosanto, per uomini simili? O che cosa faranno mai in luoghi profani, uomini che in mezzo agli altari possono commettere le più grandi scelleratezze?

Pescennio Festo30 nei libri delle storie, nelle varietà delle sue narrazioni, riferisce che i Cartaginesi erano soliti immolare a Saturno vittime umane, e che, essendo stati vinti da Agatocle re di Sicilia, crederono che la divinità si fosse adirata con loro, e che quindi, per compiere il dovuto rito espiatorio con maggiore zelo e magnificenza, giungessero a sacrificare duecento giovanetti di nobile nascita. «Tanto potere ebbe lo scrupolo religioso, per poter far compiere il male; spesso la religione persuase ad atti scellerati ed empî».31 Quegli uomini così enormemente folli, con quel sacrificio, a che credevano di rimediare? essi che uccisero tanta parte della cittadinanza, quanta, forse, non ne aveva ucciso neppure Agatocle, nell'ebbrezza della vittoria!

Da tal genere di cerimonie non si allontanano molto, in quanto a pazzia, alcune pubbliche manifestazioni sacre. Di queste, certe, sono in onore della dea Madre delle divinità, nelle quali gli uomini offrono il carattere della propria virilità, e privati, naturalmente del sesso, non sono più né uomini né donne. Altri riti riguardano la Virtù, il Valore, che chiamano anche Bellona, e in questi sono i sacerdoti stessi che fanno sacrificio col proprio sangue, non con quello di altri: si feriscono a sangue il petto e le spalle, e tenendo poi, nelle due mani, impugnata una spada, corrono, s'eccitano, infuriano. Ottimamente quindi dice Quintiliano nel Fanatico (?): «Se una divinità può costringere a questo, è in preda all'ira»; ma sono, dunque, sacre manifestazioni anche queste? O non sarebbe meglio vivere a mo' delle bestie, che venerare Dei così empî, così sacrileghi, così sanguinari? Ma donde codesti errori e così grandi scelleratezze siano scaturite, lo diremo a suo luogo.

Intanto consideriamo tutte le altre manifestazioni, che non incappano in una colpa vera e propria; perché così non potrà sembrare che andiamo cercando le cose peggiori, per una certa mania di denigrazione e di condanna. Vi sono le cerimonie egiziane, per Iside, in quanto essa prima ebbe perduto il figliuolo bambinetto, eppoi ritrovato: in un primo momento i sacerdoti di lei, rasisi il corpo, si battono il petto, e si lamentano come perfettamente aveva fatto Iside stessa, quando smarrì il figliuolo; in un secondo momento, si porta innanzi un fanciullo, quasi fosse stato ritrovato, e il lutto si muta, quindi, in gioia; Lucano dice:

e il non mai abbastanza ricercato Osiride.32

E così, sempre lo perdono e sempre lo ritrovano. Nella cerimonia si riproduce la rappresentazione del fatto che realmente accadde, e che, se pure abbiamo un po' di criterio, non sta ad indicare altro che sia stata una donna mortale ed ormai priva di prole, se pur non avesse ritrovati quel suo unico figliuolo. La qual cosa non sfugge affatto a quello stesso poeta, che fa così parlare Pompeo giovane, sentita la morte del padre suo: «getterò giù dal tumulo, la statua di Iside, che fu nume alle genti, farò a pezzi Osiride, squarciando le bende di lino che lo avvolgono».33 Questi è l'Osiride, che il volgo chiama Serapis o Serapide: ai morti divinizzati si suole cambiare nome: è evidente, penso, perché non vi sia alcuno che li reputi essere stati uomini: infatti Romolo, dopo morto, divenne Quirino; Leda, Nemesi; Circe, Marica; Ino, dopo che si gettò dallo scoglio, Leucotea e Madre Matuta; il figlio di lei Melicerte, fu Palemone e Portumno. Le cerimonie di Cerere Eleusinia non hanno un carattere diverso da queste: e da un lato Osiride fanciullo viene ricercato dalla madre in disperazione e tormento, dall'altro Proserpina, che fu rapita collo scopo di una illecita unione sua colle zio; si dice che da Cerere sia stata ricercata, tenendo faci accese sul vertice dell'Etna, e cose le cerimonie di lei si celebrano con violento agitarsi di fiaccole.

Presso Lampsaco, era un asinello, la bestia destinata a Priapo per il sacrificio, e di questo si dà nei Fasti tale spiegazione: essendo tutti gli Dei convenuti alla festa della grande madre, e trascorrendo la notte in letizia, dopo essersi saziati con ricche mense, si dice che Vesta, in terra, abbandonatasi, prendesse sonno, e che Priapo avesse insidiato, coltala nel sonno, al suo onore; ma si racconta che costei, per l'intempestivo ragliare di un asino, sul quale era portato Sileno, svegliatasi, sia riuscita a sfuggire al pericolo e abbia messo in scacco l'insidiatore, e che, per questa ragione, quei di Lampsaco abbiano preso l'abitudine di sacrificare un asinello a Priapo, quasi proprio per ricordo, e che presso i Romani, nelle feste in onore di Vesta, in memoria dell'onestà conservata, fosse circondato da una specie di corona formata da pani di varia misura. Che cosa vi può essere di più turpe, di più scellerato ed iniquo? quasi che Vesta fosse vergine, proprio per opera dell'asino!... Ma la poesia seppe intesserci su una favola.

E sarebbe poi forse più vero ciò che riportano gli autori che trattarono dei fenomeni celesti? Essi parlano di due stelle della costellazione del Cancro, che i Greci chiamano «asinelli», e dicono che siano stati, dunque, simili animali che guidarono il padre Libero, non potendo egli passare un fiume, e che ad uno di essi gli fosse stato concesso da lui di parlare con voce umana. Si dice che fra questi e Priapo fosse sorto un contrasto circa gli attributi della virilità, e che Priapo, vinto ed irritato, avrebbe ucciso il vincitore. È questa tutta un'immaginazione ancor più balorda; ma ai poeti è lecito quello che vogliono: non vado a riscavare un mistero così osceno, e non lascio libero varco alla figura di Priapo, perché non ne salti fuori qualcosa d'indegno e d'indecoroso. Queste sono le fantasie dei poeti, ma è pur logico che siano state foggiate, per velare il ricordo di qualche più clamorosa turpitudine. Cerchiamo dunque quale essa possa essere: del resto è chiaro: come infatti si sacrifica un toro alla Luna, perché le corna sue sono simili a quelle dell'animale a lei consacrato; «e il Persiano placa il raggiante Iperione con un cavallo, perché non converrebbe infatti una vittima lenta ad un Dio veloce»;34 così per Priapo, dal momento che l'attributo della virilità è in lui sviluppatissimo, non si poté pensare ad una vittima più adatta, di quell'animale, che riproduce certi caratteri posseduti dal dio a cui viene appunto sacrificato.

Presso Lindo, che è una città di Rodi, si fanno cerimonie ad Ercole, ma lo svolgimento di esse è di gran lunga diverso da tutte le altre; e infatti, come i Greci dicono, non con eufemia, cioè con parole oneste di rito, quelle sono celebrate, ma con cattivi detti e con imprecazioni, e considerano che queste feste siano, in certo modo, violate, se talvolta, in mezzo alle solenni celebrazioni, a qualcuno, anche per distrazione, capiti di pronunziare una parola di buon augurio. Della qual cosa si dà questa ragione, se tuttavia ve ne può essere qualcuna in quistioni così vane e inconsistenti: Ercole, essendo stato trasportato colà, e soffrendo la fame, vide uno che stava lavorando un campo, e prese a domandargli che gli vendesse un bue. Costui disse che non poteva accondiscendere alla richiesta, perché tutta la sua speranza per coltivare la terra, era riposta proprio in quei due animali. Ercole, usando della sua solita violenza, poiché non poté da lui ottenerne uno, glieli tolse ambedue. E quell'infelice, vedendo che i suoi bovi venivano uccisi, sfogò l'ingiuria subita, con maledizioni: ci si divertì un mondo quell'uomo davvero urbano e civile, e, mentre appresta da mangiare a due suoi compagni e sta divorando gli altrui bui, ascoltava scherzando e ridendo allegramente colui che, con ogni maggiore asprezza di linguaggio, protestava ed inveiva. Dopo che si pensò di tributare ad Ercole onori divini, in merito della sua forza e del suo valore, dai cittadini fu a lui innalzato un altare, che dal fatto si chiamò «dei bovi aggiogati»; sul quale dovessero appunto venire immolati due bovi aggiogati, proprio come quelli che Ercole aveva tolto al contadino; e volle che proprio lui stesso fosse creato sacerdote, e gli ingiunse che nel celebrare i sacrifici ripetesse quelle medesime imprecazioni, perché affermava di non aver mai banchettato tanto allegramente quanto in quella circostanza.

Ma non hanno carattere sacro; sono bensì sacrilegi quelle cerimonie nelle quali si fa passare per santo ciò che in altri casi, se si verificasse, andrebbe incontro alle più gravi sanzioni. Dello stesso Giove cretese, che cosa d'altro riferiscono i riti, se non in qual modo sia stato sottratto al padre e nutrito? È la capretta della ninfa Amaltea, la quale alimentò colle sue mammelle il fanciullo; e di essa così dice Cesare Germanico nel carme di Arato: «essa è creduta esser nutrice di Giove, se veramente Giove fanciullo s'abbeverò alle mammelle fidissime della capra di Creta, che, nello splendore della sua costellazione, fa testimonianza della gratitudine del fanciullo». Museo ci racconta che della pelle di questa capretta se ne sia servito Giove come di scudo nella lotta contro i Titani, e dai poeti quindi è chiamato egioco (habens scutum). Così, anche tutto quello che fu fatto nel nascondere il fanciullo, viene riprodotto nelle sacre cerimonie; ma anche il rito della madre di lui ha lo stesso indirizzo, come Ovidio dice nei Fasti:35 «Le vette dell'Ida risuonano ora di strepiti, perché l'infante possa liberamente vagire dalla bocca tenerella. Chi con bastoni percuote scudi, chi vuoti elmi, ufficio affidato ai Cureti e ai Coribanti: la cosa rimase nascosta al padre; ma rimane l'imitazione dell'antico evento: i seguaci della Dea picchiano cavi bronzi e pelli tese; i cimbali invece degli elmi, i timpani invece degli scudi, e la tibia, come allora, ripete modulazioni frigie».

Tutta questa credenza, come proprio inventata dai poeti, Sallustio la respinge e volle con una certa sottigliezza spiegare, perché fossero detti i Cureti, i nutritori di Giove, e sostiene che si debbano intendere come primitive figure divine; e l'antichità, come accade di ogni altra cosa, ingrandendole e magnificandole, pare le abbia poi celebrate come quegli esseri che favorirono ed alimentarono la vita di Giove. Di quanto però si sia sbagliato questo dotto lo manifesta la cosa di per sé stessa. Se Giove, infatti, è il capo degli Dei e d'ogni religione, se prima di lui non si venerava alcuna divinità, perché non avevano appunto avuto origine gli Dei, oggetto di culto, risulta chiaro che i Cureti non possono esser capiti come immagini divine primitive, dal momento - che da una premessa di tal genere deriva ogni altro errore e si distrugge quasi il ricordo della vera divinità. Dalle stesse cerimonie, dagli stessi misteri avrebbero dovuto capire che essi si rivolgevano a persone defunte. Non posso escludere che ci sia però anche qualcuno che possa credere alle invenzioni della poesia; ma chi crede che i poeti appunto dicano il falso, consideri gli scritti degli stessi pontefici e tutta quanta la letteratura riguardante materia di religione: troverà molti più argomenti di quel che noi non possiamo portare, e da questi capirà, che, quanto possa esser creduto avere un carattere di religiosità, è invece vano, sciocco parto di fantasia e d'invenzione.

Se vi sarà qualcuno che, assaporata la vera saggezza, avrà, in conseguenza, abbandonato ogni erronea credenza, riderà certamente delle vanità di uomini folli, di coloro, intendo dire, che s'abbandonano ai piaceri di danze scomposte e scorrette, o di quelli che corrono nudi, unti di unguenti, cinti di corone, col volto coperto di maschera, o sporchi di fango. Che dire poi degli scudi, che, per l'antichità cui risalgono, sono ormai rovinati e guasti? Quando li portano, pensano proprio d'avere sulle loro spalle le divinità in persona. Furio Bibaculo è ricordato come esempio insigne di pietà: essendo infatti egli pretore e precedendolo i littori, portò egli stesso l'ancile, pure essendo esonerato da quell'obbligo, in seguito alla magistratura da lui ricoperta. Non fu dunque Furio, ma assolutamente furioso, lui che pensò di nobilitare la carica di pretore, con tale religioso ufficio! È ben giustamente che Lucrezio esclama, quando certe cose vengono fatte da uomini, che non sono rozzi ed ignoranti: «O folli menti degli uomini, o anime cieche, in quali tenebre, in quali pericoli trascorriamo questo periodo di vita, qualunque essi sia».

Chi potrebbe, dunque, non ridere di simili stoltezze, se fa tanto d'avere un filo di criterio? quando appunto veda uomini che, come colpiti nel loro pensiero, fanno sul serio cose, che, se taluno facesse per gioco, apparirebbe frivolo e sciocco?

CAPITOLO XXII. Chi sia stato l'inventore di simili fantasie in Italia, presso i Romani ed altre genti.

Chi immaginò e organizzò presso i Romani quest'insieme di sciocche fantasticherie, fu quel re Sabino che chiuse in una rete di nuove, strane superstizioni gli animi di quelle genti, ancora rozze ed inesperte, e, per poter procedere a questo con qualche apparenza di autorità, figurò d'avere dei colloqui segreti, di notte, colla ninfa Egeria. Nel bosco di Ariccia v'era una grotta oscura e nascosta, donde scaturiva, da perenne fonte, un ruscello: egli si soleva recare in questo luogo, tenuto lontano ogni testimonio, per poter inventare menzogne a suo talento, e diceva che dava al popolo quelle istituzioni sacre, per consiglio della Dea e che esse erano gradite ed accette agli Dei. Evidentemente volle imitare la furberia di Minosse, che si nascondeva in un antro sacro a Giove, e, dopo essersi quivi lungamente trattenuto, portava fuori delle leggi, come se gli fossero state date da Giove, così da costringere gli uomini all'osservanza di esse, non solo in forza del comando, ma per un profondo scrupolo religioso.

E non fu cosa certamente difficile persuadere i pastori. Creò pertanto i pontefici, i flamini, i sali, gli auguri, e divise quasi in famiglie le divinità. Così mitigò gli animi fieri del nuovo popolo e li richiamò dalle arti della guerra, alle occupazioni pacifiche; ma mentre riuscì ad ingannare altri, non ingannò sé stesso: dopo moltissimi anni, essendo consoli Cornelio e Bebio, nei terreni dello scriba Petilio, sotto il Gianicolo, furono trovate, da scavatori, due arche di pietra, in una delle quali v'era il corpo di Numa, nell'altra sette libri latini intorno al diritto pontificio; e così altrettanti greci, su ogni punto dell'umana dottrina, nei quali si vennero ad infrangere non solo i principî religiosi che egli stesso aveva istituito, ma si scalzava ogni credenza. Riferita la qual cosa al Senato, si decretò di distruggere questi libri; e pertanto Q. Petilio, pretore urbano, li bruciò in piena assemblea di popolo. Ma fu sciocco provvedimento! A che giovò, infatti, che i libri fossero bruciati, dal momento che è giunta fino a noi la ragione della loro distruzione? appunto perché, cioè, essi si allontanavano dalle credenze religiose tradizionali e ne infirmavano il valore? Non v'era nessuno, evidentemente, allora in Senato che avesse un po' di giudizio! Poterono infatti i libri essere soppressi, ma il ricordo della cosa non poté perdersi del tutto nella memoria; e mentre vogliono far intendere anche ai posteri con quanto zelo abbiano difeso le credenze religiose, ne diminuirono il prestigio, poi, col lasciar una testimonianza di questo loro atto.

Presso i Romani, Pompilio fu dunque quegli che fissò certe sciocche credenze, ma nel Lazio, prima di Pompilio, ci fu Fauno, che stabilì per il suo avo Saturno cerimonie e riti nefandi; ed onorò, fra gli Dei, il padre Pico e consacrò sua sorella Fatua Fauna, e nello stesso tempo moglie, la quale Gabio Basso ci dice come fosse detta Fatua, perché era solita predire il destino alle donne, come Fauno agli uomini. Varrone ci racconta che ella fu di tanta onestà che, finché visse, nessun uomo riuscì a vederla, all'infuori di suo marito; e non sentì mai neppure fare il suo nome. Per questo le donne fanno sacrifici a lei in segreto e la chiamano Bona Dea. E Sesto Clodio, in quel libro che scrisse in greco, riferisce che questa fosse stata moglie di Fauno, e poiché contro l'usanza e il decoro regale si era di nascosto bevuta un'anfora di vino e s'era solennemente ubriacata, si dice fosse stata battuta dal suo marito con verghe di mirto, fino a morirne. Dopo, essendosi costui pentito di quanto aveva fatto, e non potendo più tollerare il vivo desiderio di lei, si dice che abbia tributato a lei onori divini. È per questo che nelle cerimonie a lei dedicate, viene posta un'anfora di vino, però debitamente coperta. Anche Fauno ingenerò nei posteri non piccolo errore, che tuttavia, chi sia accorto, riesce a scorgere; poiché Lucilio mette in ridicolo la stoltezza di coloro che pensano che le immagini rappresentino davvero delle divinità: «queste Lamie terrestri, mere invenzioni di Fauno e di Numa Pompilio, egli le paventa, ché son tutto per lui. Come i bimbi credono che tutte le statue, per esempio quelle di bronzo, vivano e siano veri uomini, così costoro si bevono tali fandonie e pensano che siffatte figure di bronzo abbiano un'anima. E non si tratta che di una galleria di statue: niente di vero: tutte menzogne».36

Il poeta ha paragonato a fanciulli, gli uomini stolti, mai io dico che sono molto più sciocchi, perché, se i fanciulli pensano che certe immagini rappresentino degli esseri umani, la follia umana le giudica Dei addirittura; negli uni è l'età che spinge, magari, a credere quello che non è; ma negli altri non è che la stoltezza. I primi, in ogni modo, in un tempo breve cessano d'ingannarsi, ma la sciocchezza dei secondi e continua ed aumenta sempre, anzi. I riti di Libero, padre, fu primo Orfeo a introdurli in Grecia, e per primo li celebrò, vicino a Tebe, su un monte della Beozia, dove Libero nacque, e che fu chiamato Citerone, dal frequente risonare della cetra. Questi sacri riti anche ora si chiamano orfici, e fu proprio in questi che egli stesso, dopo, fu sbranato, dilacerato, e ciò avvenne, circa, nella stessa epoca di Fauno. Può revocarsi in dubbio chi abbia preceduto nel tempo: circa gli stessi anni regnarono infatti Latino e Priamo, e così ugualmente i padri loro Fauno e Laomedonte, sotto il regno del quale Orfeo cogli Argonauti s'accostò alla spiaggia di Ilio.

Andiamo intanto oltre e ricerchiamo chi sia stato il primo ad inventare il culto dovuto agli Dei. Didimo37, nei libri di esegesi Pindarica, dice che Melisso, re dei Cretesi, abbia per primo sacrificato agli Dei e che abbia introdotto novità di riti e magnificenza di culto, e che egli abbia avuto due figlie, Amaltea e Melissa, che nutrirono Giove fanciullo, con latte di capra e con miele. Pare che di qui abbia preso origine quella poetica immaginazione, per la quale si diceva che fossero volate le api lì presso e avessero riempito di miele la bocca del fanciullo. Pare dunque che Melissa fosse stata, dal padre, creata prima sacerdotessa della Dea Magna Mater, onde ancora coloro che presiedono al culto di lei si dicono Melisse. La sacra Storia [di Evemero], poi, testimonia che lo stesso Giove, dopo che fu padrone di tutte le cose, giunse a tal grado di superbia, che si stabilì templi in molti luoghi. Girando per ogni regione, come giungeva in ciascun paese, si legava coi vincoli dell'ospitalità e dell'amicizia a re e a persone influenti, e come poi s'allontanava, ordinava che a lui fosse innalzato un tempio, col nome di chi aveva avuto con lui relazioni di cortesia; così furono posti i templi a Giove Atabirio, a Giove Labrandio.38 Infatti, un Atabirio e un Labrandio furono suoi ospiti e gli portarono aiuto nella guerra. Lo stesso si dica di Giove Laprio, di Giove Molione, di Giove Casio e di quanto rientra in questo stesso ordine d'idee. Egli escogitò tale procedimento con molta astuzia, invero, così da acquistar per sé onore divino, e dare a chi aveva avuto con lui rapporti di ospitalità, un nome immortale, unito ad un principio religioso. Essi ne avevano quindi soddisfazione ed obbedivano di buon grado al suo comando e, in suo nome, celebravano riti e feste ogni anno. Enea fece qualche cosa di simile in Sicilia, quando chiamò dal nome di Aceste, che l'aveva accolto ospitalmente, la città che aveva quivi fondata, perché, dopo, Aceste, di buon grado, la prendesse a cuore e ne curasse lo sviluppo e la bellezza. In questo modo Giove sparse per tutta la terra l'osservanza del suo culto e dette esempio a tutti gli altri, perché ne seguissero le orme. Sia dunque che derivi da Melisso, come Didimo ci ha tramandato, il rito di venerazione degli Dei, sia, come afferma Evemero, dallo stesso Giove, risulta che è una quistione di tempo quella dell'inizio del culto delle divinità: Melissa fu molto anteriore, senza dubbio, come quegli che guidò ed educò Giove, nipote [di Urano]. E perciò può essere che egli abbia istituito il culto degli Dei o avanti o anche durante la fanciullezza di Giove; presumibilmente il culto di Rea, della madre, cioè, di quello che egli nutriva ed educava; e di Tellure, che sarebbe stata l'ava, come quella che fu moglie di Urano, e il culto anche di Saturno, padre suo; e può darsi che egli stesso, coll'esempio di tale istituzione divina, abbia spinto Giove a tal grado di superbia ed alterigia, da osare di assumere per sé onori divini.

CAPITOLO XXIII. Delle età delle vane superstizioni, e dei loro principî.

Ora, poiché abbiamo trattato dell'origine di questi culti falsi e bugiardi, resta che noi facciamo un po' il calcolo delle età nelle quali sono comparse quelle figure di cui s'onora la memoria. Teofilo,39 nel libro intorno alle età, scritto ad Autolico, dice che nella sua storia Tallo sostiene, che Belo, venerato dai Babilonesi e dagli Assirî, risulta essere esistito in età più remota della guerra troiana, di ben trecento ventidue anni, e che Belo è stato contemporaneo di Saturno, essendo appunto cresciuti ambedue nella stessa età. E questo è vero e si può capire anche al lume di ragione, poiché Agamennone, che combatté la guerra troiana, fu nipote in terzo grado di Giove, e Achille e Aiace ne furono pronipoti; Ulisse si trovò con lui nello stesso grado di parentela; e Priamo pure, nella lunga serie. Ma alcuni raccontano, che Dardano e Iasio furono figli di Conto, non di Giove. Infatti, se così fosse stato, non avrebbe potuto avere per soddisfazione dei suoi capricci, Ganimede, suo pronipote. Pertanto, se tu attribuisci ai genitori di quelli che ho sopra ricordato, anni adatti e precisi, il numero tornerà: infatti, dalla rovina di Troia si possono stabilire millequattrocentosettanta anni; da questo calcolo è chiaro che Saturno non sia nato oltre milleottocento anni fa: questi fu il padre, la origine di tutti gli Dei. Non hanno quindi molto da gloriarsi dell'antichità dell'origine, quelli di cui si può calcolare appunto il principio e lo svolgimento nelle diverse età.

Restano alcuni argomenti ancora per convincere di falsità queste credenze religiose, e che hanno grande valore; ma ormai ho stabilito di porre fine a questo libro, per non oltrepassare la misura giusta. Queste tesi sono da dimostrarsi con pienezza ed energia maggiore, così che, confutati ogni punto che sembri contrastare alla verità, gli uomini che errano incerti nell'ignoranza di quel che sia il bene, possano abbeverarsi alle pure sorgenti della religione vera: primo grado di saggezza, è l'intelligenza del falso, il secondo, la conoscenza del vero. Quindi, colui, al quale questa nostra prima trattazione abbia, in certo modo, recate qualche vantaggio, poiché con essa abbiamo messo al nudo quanto sia falsità e menzogna, sarà spinto a scoprire la luce del vero: non può esservi gioia maggiore di questa, e sarà ormai degno della saggezza che proviene dalla disciplina divina, colui, che, di buon grado, e colla necessaria e doverosa preparazione, s'accosterà alla conoscenza dei rimanenti problemi.


Note

1. Catamito: in Festo si legge: «Catamitum pro Ganymede dixerunt, qui fuit Jovis concubinus».

2. Questo nome di Agesilao deriva da παρά το άγειν τους λαούς, quasi guidatore di folle: è chiamato così il Dio dei morti e degli inferi anche da Callimaco, che dice φοιτῶσι μεγάλω ἀγεσιλάω.

3. Evemero (Εὐήμερος) di Messane (311-298) fu autore di una Scrittura sacra (Ἱερὰ ἀναγραφή ) nella quale si sosteneva che le divinità della greca mitologia non fossero che esseri umani divinizzati per aver compiuto nobili e magnanime imprese: tale teoria si disse evemerismo. Ennio riprese l'idea di Evemero nell'opera intitolata appunto Evhemerus sive Sacra historia. Ennio fu di Rudiae, in Calabria, e visse fra il 239 e il 169 a. C. Si ricordano di lui tragedie, commedie, satire, opere didattiche e gli Annali, in diciotto libri, che ci sono rimasti frammentarî.

4. «Demoni inanimi, simulacri di defunti, dei quali Creta povera isola, può vantare di possedere i sepolcri».

5. Minucio Felice scrisse un libro apologetico, Octavius, in cui l'amico Ottavio, Cecilio Natale e l'autore, sotto il nome di Marco, discutono sulla religione pagana e cristiana; Marco fa la parte di arbitro fra Ottavio cristiano e il pagano Cecilio.

6. Si tratta di Cesare Germanico, che Lattanzio chiaramente ricorda al cap. XXΙ di questo libro e al cap. V del quinto libro.

7. Con questo nome intende o la Libia o Creta.

8. Fasti, VI, 291, 294.

9. Fasti, I, 233-234.

10. Fasti, I, 239-240.

11. Diodoro Siculo visse intorno al 40 a. C. e scrisse un'opera storica, in 40 libri, intitolata Βiblioteca (Βιβλιοθήκη), di cui abbiamo soltanto i libri dal primo al quinto e dall'undicesimo al ventesimo, cioè la storia dell'Oriente e della Grecia e il periodo che va dalle guerre Persiane a quelle dei successori di Alessandro.

Tallo: scrisse una storia siriaca.

Nepote Cornelio: nato a Ostiglia, visse tra il 660 e il 730: fu storico che scrisse molte opere, ma rimane solo parte dell'opera De viris illustribus, che s'intitola Liber de excellentibus ducibus exterarum gentium, più due biografie (Catone ed Attico) del libro De romanis historiarum scriptoribus.

Cassio Severo: scrisse orazioni e fu capo di una scuola oratoria che consisteva «in una rapida sfilata di argomenti, nello splendore dei pensieri, nell'eleganza e ricchezza di ornamenti». Visse al tempo di Augusto.

Varrone M. Terenzio: nato a Reate nel 116 a. C. e morto nel 27 a. C. a Roma. Militò con onore sotto Pompeo. Cesare lo nominò bibliotecario. Dotto scrittore latino, scrisse moltissime opere; come oratore ci appare con venticinque libri di orazioni e tre di suasoriae. Vedi capitolo VI, nota a pagina 54.

12. Virgilio, Eneide, VIII, 321-323.

13. «Primo sovrano degli esseri della terra fu Saturno e da questi poi nacque Giove, signore potente e dall'ampio sguardo su tutto».

14. Georgica II.

15. Virgilio, Eneide, VIII, 324-325.

16. Virgilio, Eneide, VI, 793-794.

17. Virgilio, Eneide, VII, 133.

18. Virgilio, Eneide, V, 59-60.

19. «O Grecia, perché confidi in eroi e in principi, e a che dedichi ai defunti vane offerte? tu sacrifichi ad idoli vani; chi ti ha nel pensiero ingenerato l'errore di compiere tali atti, allontanandoti dalla figura del grande Dio?».

20. Ennio, Annali, Ι, pag. 57, vv. 114-117. (Valmaggi).

21. Ovidio, Metamorfosi I, 173-174.

22. Virgilio, Eneide, VII, 774-777. (Caro).

23. L'espressione del testo: si fas endo plagas coelestum ascendere cuiquam est...., e spiegando endo = in (cfr. il gr. ἔνδον), non dà affatto l'idea che a Scipione dovessero essere aperte le vie del cielo per le stragi compiute: ma alcuni leggono: si fas caedendo caelestia scandere cuiquam est, allora Scipione rivendicherebbe a sé la gloria del cielo, per le sue gesta di guerra; l'altro verso infatti è: mi soli caeli maxima porta pale!.

24. Virgilio, Eneide, VI, 663.

25. Fasti, V, 195.

26. Eneide, ΙΧ, 48.

27. «E inviate umani capi nell'Ade (leggendo Αἴδη) [o a Saturno, leggendo Κρονίδῃ] e al padre, un mortale» [o luce, leggendo φωτα]. Il testo ha φωτα senza alcun accento, per mantenere l'ambiguità dell'oracolo: φώτα vale hominem; φῶτα vale lumen.

28. Fasti, V, 629.

29. Fasti, V, 621.

30. Pescennio Festo: sembra che la denominazione sia errata.

31. Lucrezio, De rerum natura, I, 102, V, 84.

32. Lattanzio è inesatto: il passo è in Ovidio, Metamorfosi, IX vv. 693.

33. Lucano, Pharsalia, IX, 158.

34. Ovidio, Fasti, I, 385-386.

35. Fasti, IV, 207.

36. Libro XV dei frammenti di Lucilio. [Trad. Bolisani].

37. Didimo: visse al tempo di Cicerone e di Augusto. Fu scrittore fecondissimo, fino all'incredibile; si parla di 3500 opere in quattromila volumi. Fu detto «Calcentero», ossia, dagli intestini di bronzo, per la sua attività letteraria, che ha davvero del prodigioso.

38. Giove Atabirio e Labrandio: così detto dal monte Atabirio e da Labranda, villaggio di Caria. La sua immagine portava una scure nella mano. Gige, dopo che uccise Candaule, si racconta che avesse portato questa scure in Caria e ne avesse armato la mano del Dio. Ma si danno molte altre spiegazioni di questi nomi; sappiamo da Eliano: «Labradeus Jupiter nominatus est quod permultum pluisset». Sulla denominazione di Casio, presso Lucano, libro VIII, si legge: «Et Casio praeferre Jovi», e in Plinio, V, 12: «A Pelusio Casius mons est, et delubrum Jovis Casii».

39. Fu il sesto vescovo della Chiesa di Antiochia e fiori sotto l'imperatore Antonino Vero. Nei tre libri della sua opera così divide la materia: primo libro docet Theophilius quid sii Deus; secundo gentium Idolatriam et superstitionem refellit; tertio agit de temporibus deorum gentilium.


Ultima modifica 2018.11.06