L'evemerismo da Ennio a Lattanzio

Antonio Portolano (Federico & Ardia, Napoli 1975, pp. 1-102)


Escerto riprodotto per ragioni di studio (learning purposes)

Citazione greca di Diodoro riprodotta da: qui.

Citazione greca di Licurgo riprodotta da: qui.

Citazioni greche di Callimaco riprodotte da: qui e qui.

Citazione greca di Plutarco riprodotta dall'edizione Bompiani.


INDICE
    Cap. I. Il personaggio di Evemero
    Cap. II. La dottrina evemeristica
    Cap. III. La fortuna dell'evemerismo
    Cap. IV. L'evemerismo nella cultura latina
    Cap. V. Il problema della forma dell'opera enniana
    Cap. VI. Scipione il Maggiore e l'evemerismo enniano
    Cap. VII. Lattanzio e l'evemerísmo

Cap. I. IL PERSONAGGIO DI EVEMERO

La dottrina evemeristica deve la sua diffusione e la sua denominazione allo scrittore greco Evemero di Messene.

Incerti sono nel loro complesso i dati biografici a lui relativi. La stessa città natale, identificata in Messene, lascia, però, il dubbio sulla sua collocazione geografica, poiché potrebbe trattarsi sia della Messene che si trovava in Sicilia, sia di quella che sorgeva nel Peloponneso1.

L'epoca della vita di Evemero poi può essere determinata solo in maniera approssimativa, indiretta e oltre tutto, incerta.

Possiamo, infatti, collocare la fioritura dello scrittore nel periodo compreso fra la seconda metà del IV sec. e la prima metà del III. Ma a questa collocazione possiamo giungere solo se accogliamo come biograficamente esatta la notizia data da Evemero stesso nella sua opera, di essere contemporaneo di Cassandro2.

In realtà, però, nulla ci consente di escludere in linea assoluta che anche questo dato sia influenzato dal generale carattere romanzesco che appare tipico dell'opera, sia nel nucleo centrale (la narrazione del viaggio di circumnavigazione dell'Arabia), sia nei numerosi particolari.

Non possiamo però non ricordare la testimonianza di Diodoro3, che non solo ribadisce il rapporto di amicizia fra Evemero e Cassandro, ma addirittura attribuisce ad iniziativa di Cassandro stesso i viaggi di Evemero. E parlare di iniziativa è già un'interpretazione benevola del senso costrittivo espresso dal greco ἠναγκασμένος.

Dire quale sia il valore storico di questa testimonianza non è facile, poiché, come si è già detto, il sospetto che il dato fornito da Evemero sia romanzesco, si estende sino a gettare un'ombra sulla citata testimonianza di Diodoro, nel senso che essa potrebbe avere come fonte lo stesso testo di Evemero.

Il Jacoby4 e lo Herter5, concordemente negano qualsiasi valore a questa testimonianza, in quanto partono dal presupposto che la notizia fornita dal testo di Evemero rientri nei limiti delle romanzesche invenzioni e trasposizioni alle quali lo scrittore amava indulgere.

La fama di Evernero è, comunque, legata ad un unico scritto, una Ἱερὰ ἀναγραϕή, letteralmente «sacra scrittura», intesa, però, nel senso di «descrizione di cose sacre».

L'idea della sacralità è, in altri termini, da identificare nell'oggetto della descrizione, non nel soggetto che scrive.

La tradizione latina conosce l'opera col titolo di Sacra scriptio, evidente calco del greco, o di Sacra historia, dove però il termine historia può essere giustificato solo intendendolo in stretta connessione col vocabolo greco ἱστορία, nel senso di «ricerca», «indagine».

Poiché, come vedremo, nell'opera Evemero dichiara, quasi a cercare sostegno per le sue affermazioni, che il contenuto della sua dottrina egli in realtà l'ha trovato registrato su un'antichissima stele nel tempio di Zeus Trifilio, è stata anche fatta l'ipotesi che il vocabolo ἀναγραϕή si riferisca proprio, in senso materiale, all'iscrizione in questione, così come l'aggettivo ἱερὰ dovrebbe essere inteso in riferimento al contenuto oggettivamente sacro dell'iscrizione stessa.

Ma l'ipotesi non viene generalmente accolta, in quanto si ritiene che il vocabolo greco ἀναγραϕή non possa avere tale significato.

In realtà una tale interpretazione del vocabolo ἀναγραϕή non è affatto improponibile, poiché, se pure il sostantivo non appare attestato in tal senso, si possono citare alcuni esempi dell'uso del verbo corrispondente ἀναγρἀϕω proprio nel significato di «registrare su una stele». Ed anche se gli esempi ai quali stiamo accennando sono riferiti al verbo, è chiaro che l'esistenza di una certa accezione concettuale per un determinato verbo, consente con sicura facilità l'ammissione della stessa accezione anche per il sostantivo corrispondente.

Il primo esempio che si può ricordare si legge in Tucidide, V, 47, dove, a proposito della tregua stipulata fra Ateniesi, Argivi, Mantineesi ed Elei, si legge che le clausole del trattato di alleanza dovevano essere incise su una stele di marmo, da collocarsi sull'Acropoli di Atene, e l'espressione greca reca proprio il verbo ἀναγρἀϕω6.

Un altro esempio si legge in LICURGO, CONTRO LEOCRATE, 117, dove a proposito di Ipparco, figlio di Carmo, del demo di Collito, parente di Pisistrato e avversario incrollabile degli Alcmeonidi, che fu arconte in Atene nel 496/95 e fu bandito per ostracismo nel 488/87, si legge che, anche quando, in seguito all'incalzare del pericolo persiano, si superarono tanti antagonismi e lotte intestine, mentre tutti gli altri fuoriusciti ritornarono, egli solo, per motivi che non è possibile storicamente precisare, fu bandito definitivamente da Atene e, per quel che più da vicino ci interessa, il suo nome fu inciso sulla stele che registrava l'elenco dei traditori. Anche in questo esempio l'espressione greca contiene appunto il verbo ἀναγρἀϕω: ποιήσαντες στήλην, ἐψηφίσαντο εἰς ταύτην ἀναγράφειν τοὺς ἀλιτηρίους καὶ τοὺς προδότας.

Anche senza ampliare il numero delle citazioni, si può considerare sufficientemente dimostrata l'esistenza del senso specifico di «iscrivere su una stele» nel verbo ἀναγρἀϕω, dal quale non è assolutamente difficile risalire al sostantivo ἀναγραϕή, cui si può, quindi, tranquillamente riconoscere, tra gli altri valori semantici, anche quello che siamo venuti fin qui illustrando.

Da Callimaco ricaviamo con una certa approssimazione la data della pubblicazione di quest'opera, avvenuta intorno al 270.

In realtà gli accenni ad Evemero e alla sua dottrina contenuti negli scritti di Callimaco, a prescindere dalla loro maggiore o minore determinatezza, non portano un contributo decisivo alla risoluzione della problematica cronologica relativa alla biografia di Evemero, per l'impronta di diffusa incertezza che proprio sul piano cronologico investe un po' tutta la produzione callimachea.

Un primo riferimento, di natura indiretta, alla dottrina evemeristica si può cogliere nell'INNO A GIOVE, di Callimaco 7, in una prospettiva, in verità, piuttosto contestativa.

Ai Cretesi, infatti, viene riferito l'epiteto di «mentitori», in quanto essi osano esibire ai visitatori la tomba di Giove, di quel Giove al quale devotamente si rivolge Callimaco, per riconoscere che mai morì e sempre vive.

Ora, a rintracciare un più specifico rapporto fra il luogo citato di Callimaco e la persona e il pensiero di Evemero fu il Némethy8, che sostenne che nelle parole di Callimaco c'era un diretto riferimento ad Evemero, in quanto proprio in seguito alla sua interpretazione razionalistica le credenze dei Cretesi, in sé piuttosto ingenue e comunque accettabili, avevano assunto un carattere empio.

Più violenta ed esplicita appare la presa di posizione contro Evemero espressa nei Giambi9, dove incontriamo qualche indizio locale e temporale.

In primo luogo risalta l'elemento espresso dall'idea di contemporaneità contenuta nel presente ψήχει, per cui si giunge agevolmente a postulare che Evemero si sia stabilito ad Alessandria ed attenda alla composizione della sua opera nel periodo in cui Callimaco compone i suoi Giambi.

Quello che, purtroppo, rende non eccessivamente utile il postulato rapporto cronologico Evemero-Giambi, è il fatto che dei Giambi non possiamo indicare con precisione la data di composizione.

Si legga in proposito quanto scrive il Lesky:

«Per la datazione dei Giambi non si hanno punti di riferimento sicuri. Si dovrà soprattutto tener conto della possibilità che in questo libro fossero raccolte o scritte da Callimaco in periodi diversi della sua visita»10.

L'elemento locale è rappresentato dal riferimento al tempio situato «fuori delle mura» o «davanti alle mura», secondo senso che diamo all'espressione greca.

Anticamente si riteneva che il tempio al quale Callimaco alludeva fosse il Serapeo di Parmenione, ma il Pfeiffer11 ha fatto notare che non si può trattare di nessuno dei templi in onore di Serapide che noi conosciamo, poiché essi si trovavano tutti all'interno della città e quindi non corrispondevano alla condizione posta a dal riferimento di Callimaco.

In ogni caso, poiché l'intenzione di dedicarsi alla composizione dei Giambi appare, probabilmente, in Callimaco già nella conclusione degli Αἴτια, che sono comunemente ritenuti fra le prime opere di Callimaco, non sarà troppo avventato collocare anche i Giambi fra queste prime manifestazioni letterarie dello scrittore di Cirene, localizzandole intorno al 270 a. Ch., il che offrirebbe un certo sostegno alla notizia della contemporaneità fra Evemero e Cassandro12.

È stato giustamente osservato dalla Vallauri13 che

«il contenuto stesso dell'opera di Evemero, per quel tanto che ci è dato di conoscerla, ben s'inquadra nel momento politico rappresentato dal regno di Cassandro».

In altri termini, il clima generale di crisi, di improvvisi e rapidi entusiasmi, di profondi e non sempre giustificati scoraggiamenti, e comunque di incertezza psicologica che contrassegna il periodo successivo alla morte di Alessandro, rappresentava l'humus più fertile per la diffusione di dottrine che in qualche modo mirassero a creare dei punti fermi, delle isole di una certa stabilità concettuale, alle quali l'uomo potesse approdare, magari anche soltanto momentaneamente, per interrompere un attimo la tormentata vicenda della sua crisi.

La Vallauri14 ritiene, però, che non si possa attribuire con sicurezza ad Evemero l'intenzione di farsi promotore di nuove dottrine religiose e politico-sociali, e questo

«non tanto per gli scarsi frammenti della sua opera, quanto per gli scarsi frammenti della sua opera, quanto per l'impersonalità in cui questa si mantiene».

Ora, a me pare che questa «impersonalità» vada valutata e compresa inserendola nella prospettiva della intenzione di Evemero di evitare prese di posizione che, per essere troppo nette e recise, avrebbero potuto turbare prematuramente i lettori e quindi alienargliene la inconsapevole buona predisposizione di spirito.

In altri termini, Evemero non volle fare un discorso di rottura, che naturalmente sarebbe risultato assai più personalizzato di quanto non lo sia stato il suo scritto, così come noi lo conosciamo, per non perdere in partenza la possibilità di condurre fino in fondo, come che fosse, il suo discorso.

Non direi, dunque, che si tratti di una «impersonalità», ma di un atteggiamento prudenzialmente cattivante.

Comunque, dell'originale stesura greca dell'opera di Evemero, sono a noi giunti, in realtà, pochi frammenti, e tutti per tradizione indiretta, tali ovunque da non consentire una ricostruzione integrale, almeno a livello contenutistico, dell'opera.

La fortuna ha, però, voluto, che lo scritto di Evemero rientrasse negli interessi culturali e spirituali di Ennio, che ne curò una versione latina.

Non precisabili sono, allo stato attuale di conservazione, peraltro frammentaria, e, come vedremo, indiretta, dello scritto enniano, i limiti fra la traduzione e la rielaborazione dell'opera, che in qualche punto Ennio ha pur fatto.

Ed è senz'altro opportuno ritenere che l'atteggiamento letterario di Ennio di fronte allo scritto di Evemero non sia stato quello inerte e spiritualmente alquanto parassitario del traduttore pedissequo, proprio alla luce di quella considerazione che abbiamo già fatto, cioè che a quello scritto egli s'accostava in una chiave di consonanza non tanto culturale quanto ideale.

Comunque lo scritto latino, intitolato, forse, dal nome dell'autore greco, Euhemerus15, ci è noto soprattutto per le citazioni vaste, ordinate, molteplici, che ne fa, come vedremo, Lattanzio.

Ma per comprendere e giustificare l'interesse dimostrato verso Evemero e la sua dottrina, prima dal pagano Ennio, agli albori della civiltà letteraria di Roma, e poi dal cristiano Lattanzio, nel fulgore ormai consacrato della nuova civiltà, che per essere cristiana non dimenticava, e non voleva dimenticare, di essere romana, è opportuno precisare senso e limiti della dottrina evemeristica.

È infatti, nel nucleo intimo di questa dottrina che possiamo rintracciare la molla dell'interesse che, non solo nel mondo antico, e non solo da parte degli scrittori latini, Ennio e Lattanzio, che abbiamo già nominato, fu suscitato dallo scritto di Evemero.

L'illustrazione della dottrina nel suo sviluppo e nella sua impostazione, ci consentirà anche di rintracciarne gli antefatti culturali, se tali possono essere considerati i riferimenti che nella dottrina evemeristica si possono cogliere a precedenti affermazioni di Ecateo16.

In ogni caso va detto subito che l'eco più pronta, viva e molteplice le teorie di Evemero l'ebbero non negli scrittori pagani, ma negli scrittori della tradizione giudaica e cristiana, che dalle dottrine evemeristiche trassero materiale per svolgere una doppia azione, quella volta a confutare, con argomenti forniti da uno scrittore pagano, le entità religiose sulle quali si fondava il pantheon classico, e contemporaneamente quella volta a dare a se stessi e ai propri lettori una giustificazione dell'origine e della fortuna di quelle tradizionali divinità.

Cap. II. LA DOTTRINA EVEMERISTICA

Nella dottrina evemeristica si riconoscono due nuclei essenziali, il primo filosofico-politico, di carattere utopistico, il secondo teologico, di carattere razionalistico.

Fu proprio a questo secondo nucleo, che nello schema dell'opera di Evemero appariva addirittura in una prospettiva di inserimento indiretto che richiama la tecnica ecfrastica, che si legò maggiormente il nome e la fama di Evemero, anche perché esso conteneva elementi di maggiore originalità, almeno nel senso che originale deve essere considerata l'applicazione di un criterio razionalistico all'interpretazione di fatti religiosi.

Il nucleo filosofico-politico appariva, invece, non solo non eccessivamente diversificato rispetto a scritti precedenti di analoga impostazione, come appresso vedremo, ma anche piuttosto condizionato da una preoccupazione di evitare qualsiasi affermazione che per il suo carattere di eccezionalità potesse far perdere all'opera quell'impronta possibilistica che lo scrittore intendeva darle.

Accadeva, quindi, in pratica, che lo scritto, almeno per la parte filosofico-politica, avesse una patina di moderazione, di equilibrio, che spesso, come vedremo, finiva con lo sfociare nel compromesso concettuale.

L'impostazione della prima parte dell'opera, quella in cui trovava il suo sviluppo il nucleo filosofico-politico, come s'è detto, è tipicamente utopistica, per cui è abbastanza facile il richiamo agli scrittori precedenti, che già avevano coltivato quello che potrebbe addirittura essere considerato un genere, ed in particolare ad Ecateo, che s'è già nominato, e a Teopompo17. Evemero descriveva un viaggio immaginario nell'Oceano Indiano, che culminava, dopo la circumnavigazione dell'Arabia, con l'arrivo ad un gruppo di isole, nella più grande delle quali, Panchaia, il popolo viveva secondo un sistema politico che Evemero descriveva minuziosamente, in quanto, in pratica, esso rappresentava la sua concezione ideale dello stato.

È appena il caso di sottolineare la trasparenza e tradizionalità della trovata letteraria, che mirava a dare un carattere più accessibile e meno astratto all'esposizione di un sistema politico astrattamente concepito. importante, piuttosto, sottolineare la costante premura che Evemero in questa prima parte dimostrava nell'evitare ogni trovata, elemento, fatto, tecnica descrittiva, che, sconfinando nel meraviglioso, potesse mandare in frantumi quel clima di concretezza e di credibilità che lo scrittore mirava a realizzare intorno alle sue affermazioni.

È chiaro che la narrazione non rinunzia, non può rinunziare, a quella tonalità di esotismo paesistico che, del resto, costituiva una dominante di certe forme letterarie del tempo; ma il tutto era contenuto in limiti prudenziali, sì che potesse giovare esteticamente alla opera senza nuocerle concettualmente.

Il governo di Panchaia era fondato su una forma di collettivismo moderato, ripulito di ogni frangia estremistica, che potesse renderne più improbabile l'accettazione, almeno a livello concettuale, da parte del lettore al quale la descrizione evemeristica è indirizzata.

La popolazione era divisa in tre classi, quella dei sacerdoti e artigiani, quella dei coltivatori, e quella dei soldati.

I limiti e i condizionamenti posti al sistema collettivistico erano molteplici. Il diritto di proprietà privata era riconosciuto, almeno limitatamente alle case e ai giardini.

L'istituto della famiglia conservava la sua unità e individualità, per cui, in pratica, non solo non era ammessa nessuna forma di comunanza della donna, ma la stessa condizione generale di vita della donna non mostrava di conoscere alcuna forma di emancipazione.

Sul piano più astrattamente economico, condizionamento e differenziazioni di tipo individualistico e classistico erano rappresentate dal fatto che agli appartenenti alla classe dei sacerdoti era riconosciuto il diritto di ottenere guadagni maggiori, addirittura doppi, rispetto alle altre classi, così come agli artigiani si riconosceva il diritto a premi particolari.

Per questi ultimi, pero va detto che almeno svolgevano anche una funzione promozionale di capacità, e quindi trovavano una giustificazione nel fatto che venivano attribuiti ai migliori fra gli artigiani; non, dunque, in relazione all'appartenenza alla classe, ma in ordine a specifici meriti individuali, che si traducevano in benefici sociali, tenuto conto della funzione particolare della classe degli artigiani. Ma, come abbiamo già notato, il nucleo filosfico politico del pensiero di Evemero, passa in secondo piano quando si giunge al nucleo religioso.

A proposito di esso, abbiamo parlato di un ricordo della tecnica ecfrastica in quanto l'esposizione del nucleo religioso della sua dottrina era fatta da Evemero ancora in funzione di un fatto descrittivo.

Egli affermava che nel tempio di Zeus Trifilio, in Panchaia, esisteva una stele antichissima, sulla quale lo stesso Zeus aveva fatto incidere una sorta di narrazione delle gesta divine, a memoria eterna delle sue imprese.

L'affermazione che Zeus aveva, in pratica, seguito il costume dei re asiatici, non doveva scandalizzare, poiché — riferiva Evemero — dall'iscrizione si desumeva proprio che Zeus era stato appunto un potente, antichissimo sovrano, che per i suoi meriti di giustizia e bontà era riuscito ad ottenere sulla terra onori divini.

Naturalmente questa collocazione storica di Zeus, tradizionalmente «pater hominum deumque», trascinava in questo processo di umanizzazione anche tutte le altre figure divine della religiosità tradizionale, che a lui erano strettamente legate da vincoli che la tradizione aveva illustrato, moltiplicato, intrecciato fino a collocare quelle figurazioni religiose su un piano di dipendenza anche se non sempre di riconosciuta sudditanza.

Su questa base concettuale Evemero costruì un edificio di critica teologica, destinato a diventare un parametro di interpretazione religiosa, che si affiancava, con la sua struttura storico-politica, all'altro parametro, pur esso comunque razionalistico, ma caratterizzato dalla struttura naturalistico-etica.

In altri termini, all'allegorismo stoico si affianca con Evemero un razionalismo storico-politico-religioso, quell'atteggiamento, cioè, che nel passato e ancor oggi è definito appunto evemerismo.

Va detto subito che, in pratica, si trattava soltanto di proporre l'applicazione all'interpretazione religiosa di quel modulo critico-esegetico che alla mitologia eroica avevano già ampiamente e fecondamente applicato gli storici greci, cominciando da Ecateo.

Se nell'ambito storico si trattava di recuperare alla realtà della storia o della preistoria fatti e personaggi che altrimenti sarebbero rimasti sterilmente isolati nel vuoto della leggenda mitologica, nell'ambito religioso si trattava di recuperare alla disponibilità per un nuovo discorso spirituale animi e intelletti che altrimenti sarebbero rimasti ancorati ad una serie di condizionanti convinzioni e credenze pseudo-religiose.

Lo storico mirava, dunque, ad accrescere il patrimonio conoscitivo del suo popolo, dando dimensione di verità a fatti e personaggi, e così facendo giovava, se così si può dire, soprattutto a quei fatti e a quei personaggi che la pazienza della sua indagine e la profondità e validità delle sue intuizioni riportavano alla realtà.

Il critico teologico mirava, invece, soprattutto ad un dimensionamento dei protagonisti della mitologia religiosa, che sub specie di realizzarli nel tempo e nello spazio li ponesse più a portata di mano dinanzi alla riflessione, aprendo il cammino ad un ripensamento che, dunque, giovava più all'uomo che al dio: se il dio giungeva alla realtà, l'uomo giungeva alla libertà.

Che ci fosse in questo atteggiamento di Evemero una consapevolezza atea, non si può dire con certezza.

Se si pensa che gli è stato rimproverato che

«raccontava tranquillamente che Cadmo era il cuoco del re di Sidone e che, invaghitosi di Armonia, una flautista di proprietà del re, era scappato con lei»18,

quasi per sottolineare l'ingenuità con la quale egli si è accostato al patrimonio mitico tradizionale, si comprenderà come sia lecito almeno il dubbio se non sulla sincerità della sua prospettiva razionalistica, almeno quello sulla coscienza della negazione del divino tradizionale che con l'opera sua si iniziava.

Ma un siffatto dubbio non nutrirono gli antichi che disinvoltamente annoverarono Evemero, in forma ufficiale, nel numero degli atei.

Anzi si giunse a dirlo discepolo di Teodoro Ateo e conseguentemente in rapporto con la scuola cirenaica, sulla sola base del presunto ed intrinseco ateismo.

Cap. III. LA FORTUNA DELL'EVEMERISMO

Abbiamo già osservato che la dottrina evemeristica aveva radici sostanzialmente nella cultura pagana, classica, in quanto raccoglieva, al di là di un metodo di indagine e di interpretazione che abbiamo già visto appartenere all'ambito storico, osservazioni e notazioni specifiche dell'ambito religioso, che potevano essere considerate anticipazioni metodologiche.

Si ricordi che Ecateo, parlando di Cerbero, il tricipite custode infernale, aveva avanzato la spiegazione che si trattasse di un grosso serpente, denominato «cane dell'inferno»; in Pausania19 è addirittura localizzata la sede abituale di questo mostro, sulle pendici del Monte Tenaro.

Si può ricordare ancora Erodoto, che, sulla strada di una razionalizzazione di fatti religiosi e spinto dal bisogno di illuminare a se stesso e ai suoi lettori certe affermazioni che gli capitava di dover raccogliere nel quadro della sua indagine storico-etnografica, affermava che la colomba di Dodona20 non era altro che l'indicazione metaforica di una sacerdotessa del dio21.

Ed altrove avanzava almeno un ragionevole dubbio in relazione alla notizia che il sernidio Ercole avesse ucciso da solo in Egitto migliaia di nemici22).

Pur con questi antecedenti classici, pur con queste radici così sanamente, se così si può dire, pagane, la dottrina evemeristica si diffuse, però, solo, o almeno molto prevalentemente, nell'ambito della cultura giudaica e cristiana.

Fra gli oppositori che l'evemerismo trovò nello stesso tempo in cui sorse e si diffuse ricorderemo almeno Plutarco23.

L'atteggiamento che lo scrittore di Cheronea assunse nei riguardi dell'evemerismo è di chiara e netta opposizione, perché egli non esitava a scagliare l'accusa di falsità e malafede contro Evemero, che, comunque, egli non conosceva direttamente. La prova di questa conoscenza per lo meno indiretta, se non anche parziale, dello scritto di Evemero da parte di Plutarco è costituita dalle numerose inesattezze nel riferire i nomi propri di luoghi e di persone che apparivano nello scritto di Evemero.

D'altra parte anche l'accostamento della iscrizione sacra di cui Evemero parla alle iscrizioni dedicatorie che servivano a consacrare il culto dei re orientali appare troppo sbrigativo ed estremistico nelle sue conseguenze, per cui non è improbabile che anche questo errore di prospettiva interpretativa debba ricondursi alla conoscenza solo indiretta dell'opera, di quella opera di Evemero della quale lo stesso Plutarco, però, riconosceva, si badi bene, l'ampia diffusione nel mondo culturale del suo tempo.

Il messaggio evemeristico, almeno a livello metodologico, fu comunque raccolto da Leone di Pella, autore di una lettera apocrifa di Alessandro Magno ad Olimpia, sua madre24, Dionisio Skytobrachion, di cui è menzione in Deodoro Siculo25 ed Erennio Filone26.

Questi scrittori, occupandosi dei problemi religiosi di varie popolazioni, giunsero ad affermare una origine storica e la conseguente divinizzazione, per meriti di civiltà, delle divinità di quei popoli.

Proprio nell'ambito della cultura ebraica, l'evemerismo incontrò estremo favore. La dottrina si presentava, infatti, come uno strumento ideale ed, oltre tutto, insospettabile per condurre innanzi il discorso della falsità delle divinità pagane.

In verità, il fine al quale gli scrittori giudaici piegarono la dottrina evemeristica non era soltanto di natura polemica e propagandistica. Non dobbiamo dimenticare che il pantheon religioso tradizionale si presentava, anche agli intellettuali, ammantato di una sua forza unitaria, materiata soprattutto di osservanza tradizionalistica, ma rinsaldata anche dalla spontaneità delle manifestazioni culturali che agli dei di quel pantheon s'erano venute nei secoli rivolgendo da parte degli umili, uniti e sublimati dalla loro salvifica sincerità.

All'intellettuale, pur convinto della falsità idolatra di quei numi, non dispiaceva comunque chiarire in primo luogo a se stesso l'origine di quelle prospettive religiose, collocando quelle divinità in una sfera così completamente terrena che risultasse poi più facile denunziarne a tutti la falsità.

Su questa strada polemica essi si mossero seguendo due prospettive, costruttiva l'una, distruttiva l'altra. Da una parte, infatti, vediamo cercare, identificare e raccogliere tutte le testimonianze che la letteratura classica, nelle sue pagine più ricche di contrastata meditazione, offriva di una qualsiasi forma di fede in un dio unico. Il campo più fertile per questi ritrovamenti risultava, naturalmente, costituito dalle tragedie greche, in cui non infrequenti appaiono prospettive religiose che, per il fatto stesso di nascere in relazione ai momenti più sconcertanti delle più contrastate anime umane, si collocano su un piano di notevole distacco rispetto alla religiosità tradizionale. E dal distacco all'opposizione, almeno in chiave poetica, il cammino non è lungo, sicché un'idea genericamente monoteistica, spersonalizzata e forse per ciò più efficace affiora spesso nei versi dei tragici.

Dall'altra parte vediamo raccogliere dagli scrittori, con comprensibile entusiasmo, tutto quanto, sempre nell'ambito della letteratura classica, potesse attestare che gli dei pagani non erano altro che esseri umani, che avevano a lungo goduto una venerazione divina, alla quale non avevano certo diritto, in quanto i loro meriti, quali che fossero stati, erano stati, comunque, meriti umani, e come tali andavano celebrati, senza alcun illegittimo trasferimento delle loro attribuzioni nella sfera del divino.

Interessanti risultano alcuni tentativi di spiegazione ed esemplificazione in chiave psicologica del processo di divinizzazione che riscontriamo nell'ambito giudaico.

Fra questi particolare rilevanza assumono le pagine del Libro della Sapienza in cui vediamo tracciare una vera e propria storia dell'idolatria, partendo dalla sua origine per giungere all'esame delle conseguenze gravemente negative che essa comporta per l'umanità.

Pur nella vasta messe di scritti di condanna contro l'idolatria che ricorrono nell'Antico Testamento ed in particolare nella seconda parte del Libro di Isaia, questo brano emerge e si impone per il fatto che si propone una interpretazione esplicativa dell'idolatria, che pur se parte da una ovvia, pregiudiziale severa condanna dell'idolatria stessa, sfocia poi in affermazioni di assai probabile impronta evemeristica per spiegare le origini del fenomeno idolatra.

Proprio per questi motivi si ritiene interessante riportare per intero il brano in questione:

Sì, proprio stolti sono tutti gli uomini che vivono nell'ignoranza di Dio,
    i quali dai beni visibili non seppero conoscere Colui che è,
    i quali, pur considerandone le opere, non riconobbero l'Artefice.
Ma o il fuoco o il vento o l'aria sottile
  o la volta stellata o l'acqua impetuosa o i luminari del cielo
  essi presero per divinità, che reggono il mondo.
Se, stupiti per la loro bellezza, li hanno creduti dèi,
  pensino quanto deve essere superiore il loro Signore,
  perché li ha creati lo stesso autore della bellezza
Se sono colpiti dalla loro potenza e attività,
  pensino quanto deve essere più potente di loro
  colui che li ha formati.
Difatti dalla grandezza e bellezza delle creature
  per analogia si conosce il loro Autore.
Tuttavia costoro meritano un rimprovero leggero,
  perché essi forse cadono in errore
  nella loro ricerca di Dio e nel desiderio di trovarlo.
Occupandosi delle sue opere, compiono indagini,
  ma si lasciano sedurre dalla loro apparenza,
  perché le cose vedute sono tanto belle.
Ma neppure costoro sono scusabili,
  perché, se riuscirono a sapere tanto da scrutare l'universo
  come mai non ne hanno trovato subito il padrone?
Ma infelici — e le loro speranze sono riposte su cose morte —
  coloro che chiamarono dèi le opere delle mani degli uomini
  oro e argento, lavorati con arte,
  immagini di animali
  oppure una pietra inutile, opera di una mano antica.
Ecco, un abile legnaiuolo, segato un albero maneggevole,
  gli toglie con diligenza tutta la scorza;
lavorando con abilità competente,
  ne forma un utensile per le necessità della vita;
raccolti gli avanzi del suo lavoro,
  se ne serve per prepararsi il cibo e si satolla;
quanto avanza ancora, buono proprio a nulla,
  legno distorto e pieno di nodi,
lo prende e lo scolpisce per occupare il tempo libero;
  senza impegno, per sollievo, gli dà una forma,
  lo rende simile a un'immagine umana
oppure a quella di un animale vile.
  Lo vernicia con minio, ne colora di rosso la superficie
  ricopre con la vernice ogni sua macchia;
quindi, preparatagli una degna dimora,
  lo pone nel muro, fissandolo con chiodi.
Perché non cada vigila su di lui,
  ben conoscendone l'incapacità di aiutarsi da sé;
  esso è solo un'immagine, ha bisogno di aiuto.
Eppure quando prega per gli averi, per le sue nozze per i figli,
  l'artefice non si vergogna di apostrofare tale oggetto inanimato;
per la sua salute invoca un essere debole;
  per la sua vita prega un morto;
  supplica l'aiuto di una cosa assolutamente inservibile.
Per il suo viaggio invoca uno incapace di camminare;
  per i suoi acquisti, per il suo lavoro e per il successo negli affari,
  chiede abilità da uno, le cui mani sono la stessa inabilità.
Parimenti chi si decide a navigare e a solcare onde selvagge
  implora un legno più fragile di quello della barca che lo porta.
Questo, infatti, fu inventato dal desiderio di guadagni
  e fu costruito da maestranze capaci.
Ora è la tua provvidenza, o Padre, a guidarlo,
  perché tu hai predisposto una strada anche nel mare,
  un sentiero sicuro anche fra le onde,
mostrando che puoi salvare da tutto.
  sì che si imbarchi anche uno senza esperienza.
Tu non vuoi inoperose le opere della tua sapienza;
  per questo gli uomini si affidano anche a un piccolissimo legno
  e attraversando i flutti con una zattera, la scampano.
Anche al principio, infatti, mentre perivano superbi giganti,
  la speranza del mondo rifugiatasi in una zattera,
  grazie alla tua mano che la guidava,
  lasciò al mondo il germe di nuove generazioni.
Perché è benedetto il legno col quale si compie una giustizia,
  mentre è maledetto quello lavorato con mani, esso e chi lo fece;
  questi perché lo lavorò, quello perché, corruttibile, è detto dio.
Sì, l'empio e la sua empietà sono ugualmente in odio a Dio;
  l'opera e l'artefice sono ugualmente puniti.
Per questo ci sarà un castigo anche per gli idoli delle genti,
  perché divennero, fra le creature di Dio, una profanazione,
  una fonte di scandalo per le anime degli uomini,
  un laccio per i piedi degli stolti.
L'invenzione degli idoli segnò l'inizio della fornicazione;
  la loro scoperta causò una degenerazione nella vita.
L'idolo non esisteva al principio né esisterà in eterno.
Entrò nel mondo per la vanità dell'uomo;
  per questo gli è decretata una fine rapida.
Un padre, consumato da un dolore inatteso,
  ordinò un'immagine di un suo figlio rapito all'improvviso,
onorò pertanto come dio colui che poco prima era solo un uomo morto
  e istituì fra i suoi dipendenti riti misterici e di iniziazione.

Quindi l'empia usanza, rafforzatasi col tempo,
  fu osservata come una legge.
Le statue si adoravano anche per comando dei sovrani.
I sudditi, non potendo onorare costoro di persona per la distanza,
  riprodotte artisticamente le sembianze lontane,
ne fecero un'immagine accessibile del re da onorarsi,
  per adulare zelantemente l'assente come fosse presente.
A diffondere tale culto, anche presso quanti non lo conoscevano,
  contribuì l'ambizione dell'artista.
Questi, ovviamente desideroso di piacere al potente,
  si sforzò con la sua arte di rendere più bella l'immagine.
Il popolo, attratto dalla leggiadria dell'opera,
  considerò idolo colui che poco prima era solo un uomo onorato.
Ciò divenne un'insidia per il mondo,
  perché gli uomini, vittime della disgrazia o della tirannide,
  attribuirono a pietre e a legni un nome incomunicabile. 27

Ci troviamo di fronte a pagine veramente pregevoli per la sottile indagine psicologica, con cui ci si propone di spiegare il processo affettivo per il quale un padre, al quale sia morto un figlio, si sforzi di procurarsene un'immagine che si collocherà nella sua psiche in una sfera ed in un rapporto perlomeno extranaturale28.

Analogo significato ha l'esempio, che pure si legge nel brano su riportato, del desiderio che ogni gente istintivamente nutre di avere un'immagine benefica almeno, se non addirittura soterica, del proprio sovrano. Quando poi questo desiderio nel suo empito di autosoddisfacimento, si è oggettivato, il trapasso alla venerazione di quell'immagine idealizzata è oramai compiuto. E dalla venerazione discendono, come conseguenza logica, semplice espressione formale ed esterna di un convincimento intimo, gli atti di culto vero e proprio.

Sulla stessa strada della spiegazione in chiave psicologica, anche se in direzione sostanzialmente diversa, troviamo anche la testimonianza di alcuni scrittori di ambiente culturale pagano, e precisamente greco.

Essi, infatti, cercano di dimostrare la presenza nell'uomo di una esigenza quasi materiale del divino. L'uomo, essi dicono, ha bisogno di sentire la presenza del divino accanto a lui, ed a questo bisogno può rispondere in un solo modo, procurandosi quelle immagini della divinità che possano dargli una certezza, ovviamente di natura solo psicologica della concreta realtà della presenza divina.

Ricorderemo, fra gli altri Dione Crisostomo29 e Massimo di Tiro30 .

Dalle radici remote che la dottrina evemeristica lascia scorgere come saldamente radicate nell'humus della cultura pagana, alle sue ultime estreme affermazioni in vari ambiti culturali e spirituali, non escluso e non secondario quello della religiosità ebraica, la storia del cammino e della diffusione di questa dottrina è così varia e complessa da giustificare ancora una volta l'interesse che muove la presente indagine.

Cap. IV. L'EVEMERISMO NELLA CULTURA LATINA

Nell'ambito della cultura latina l'incontro con la dottrina evemeristica avviene, in verità, assai presto, se si tien conto che Ennio rappresenta, forse, la prima voce di un certo concreto, direi tangibile, rilievo della poesia latina. Ed è proprio Ennio che accoglie e trasferisce in un suo scritto, l'Euhemerus, la dottrina dello scrittore di Messene.

Cominciamo col notare, per quanto riguarda il titolo, che se pure esso è abbastanza comunemente indicato nella forma da noi citata, come, cioè, Euhemerus, esistono, in realtà, varie ipotesi.

Se vogliamo rifarci a Lattanzio, che, come sappiamo, è la fonte prevalente della nostra conoscenza dello scritto enniano, dobbiamo osservare che sempre che lo scrittore cristiano inizia una citazione di Ennio la completa nella forma «Ennius in sacra historia», o, quando il nome dell'autore non è espressamente indicato, fa direttamente riferimento alla «sacra historia»31.

Lo Jacoby sostenne in un primo tempo una forma cui di titolo in cui apparivano il nome dell'autore, Euhemerus, seguito dalla espressione Sacra scriptio, evidente calco calco del greco Ἱερὰ ἀναγραϕή, ma successivamente32 accettò il titolo Sacra historia.

L'intitolazione Sacra scriptio non appare sostenibile, anche perché l'unico luogo in cui essa indirettamente appare, rimane ai limiti tra la fonte enniana e il commento di Lattanzio.

Quando, infatti, in Lattanzio33 leggiamo, al termine della esposizione della genealogia di Zeus, quale è data di leggerla nella famosa stele di Panchaia, «in hunc modum nobis ex sacra scriptio traditum est», noi non possiamo affermare in maniera sicura a chi debba essere attribuita l'espressione, se cioè essa debba essere considerata parte integrante della citazione, e quindi debba esser fatta risalire alla fonte enniana, o se, invece, sia una sorta di commento conclusivo di Lattanzio.

È chiaro infatti, che dall'attribuzione a Ennio o a Lattanzio la frase viene ad essere collocata in ben diverse prospettive concettuali.

Se è frase di Ennio, la scriptio deve essere intesa come riferita alla stele che Ennio, sulla scia di Evemero, si preoccupa di indicare come insospettabile fonte della sua esposizione.

Se, invece, riferiamo la frase a Lattanzio, potremmo senz'altro ammettere che come fonte egli indichi in quel momento Ennio, per cui la «sacra scriptio» sarebbe lo scritto di Ennio stesso.

A favore di questo significato, sempre però che la frase sia attribuita a Lattanzio, sta il fatto che Lattanzio stesso riferimenti alla stele non ne fa, se non uno fuggevole, all'inizio delle citazioni, per cui se ad un certo punto egli parla di «sacra scriptio», dovrebbe riferirsi allo scritto enniano.

Contro questa ipotesi c'è, però, una considerazione non secondaria. Lattanzio il riferimento alla fonte, vuoi nella forma completa col nome dell'autore, vuoi nella forma ridotta ma più frequente, senza il nome dell'autore, lo fa sempre all'inizio della citazione.

Sarebbe questo non solo l'unico caso in cui compare il nome dell'opera in una forma diversa (sacra scriptio al posto dell'ampiamente attestato sacra historia) ma anche l'unico caso in cui la citazione compare alla fine. Il che induce, senz'altro, a ritenere che l'espressione sacra scriptio appartenga al testo enniano, nel significato di «iscrizione leggibile sulla stele sacra», come abbiamo già chiarito.

È senz'altro degna di rilievo la prospettiva mentale di notevole apertura culturale nella quale Ennio, non fosse altro che per questo suo scritto, va collocato.

L'innovatore del verso latino, colui che seppe e volle sostituire alla arcaica ma non per questo spregevole rozzezza del saturnio dei Fauni e dei vati la limpida sonorità dell'esametro, colui che con i suoi Annales creò il primo monumento dell'epica latina, aprendo il cammino a Virgilio, che «tanta ala vi stese», colui che attraverso i suoi «tria corda» seppe far vivere un palpito unitario, quello della nascente cultura latina, non rimase indifferente al profondo significato che le affermazioni di Evemero potevano contenere, almeno in ordine alle loro implicanze umane; non si lasciò sfuggire la dimensione razionalistica di quelle dottrine, il cui tono di illuminismo religioso sembrava fatto apposta per piacere, più o meno consapevolmente, al Romano nella sua concretezza di vita, sembrava il più adatto a suscitare risposte di istintivo interesse nella coscienza individuale dei Romani.

Solo alla luce di queste considerazioni possiamo capire il rapporto che si venne a creare fra il poeta epico degli albori della latinità e lo storico prudente, disincantato, razionalista della tarda grecità.

Ma per capire l'importanza di questo accostamento enniano alla dottrina evemeristica basterà che completiamo l'esame della diffusione di questa dottrina nell'ambito del pensiero latino.

Scopriremo, infatti, che dopo una serie, peraltro non nutrita, di riecheggiamenti e accenni in Cicerone, che sembrano, come vedremo, tutti indicare un atteggiamento di serena indifferenza degli ambienti culturali latini nei riguardi di quella dottrina, dobbiamo giungere agli scrittori cristiani per riscoprire tracce della dottrina evemeristica.

Ed il merito di Ennio risulta, a questo punto, ancora più notevole, se osserviamo che, a prescindere da qualche moderato spunto fornito da scrittori ebraici di lingua greca, l'apologetica cristiana l'evemerismo lo conobbe proprio attraverso l'Euhemerus di Ennio.

Prova luminosa ne è il fatto che Lattanzio rappresenta per noi la più cospicua, per non dire l'unica, fonte indiretta per la conoscenza del testo enniano.

Abbiamo accennato alle testimonianze ciceroniane, che si riducono, sostanzialmente, a tre citazioni.

La più importante di esse è quella che si legge nel DE NATURA DEORUM, I, 42,118:

Qui aut fortes aut claros aut potentes viros tradunt post mortem ad Deos pervenisse, eosque esse ipsos, quos nos colere, precari, venerarique soleamus, nonne expertes sunt religionum omnium? Quae ratio maxime tractata ab Euhemero est, quem noster et interpretatus et secutus est praeter ceteros Ennius. Ab Euhemero autem et mortes et sepulturae demonstrantur Deorum. Utrum igitur hic con firmasse videtur religionem an penitus totani sustulisse?34 .

Si badi che nel contesto ciceroniano or ora citato il nome ed il pensiero di Evemero sono citati solo a titolo di conclusione di una rassegna di personaggi che non si può certo ritenere, afferma Cicerone, che abbiano bandito la superstizione, dal momento che quello che essi più o meno consapevolmente hanno bandito è stato la religione stessa. Cicerone, infatti, nomina gli atei Diagora e Teodoro, dei quali certamente non si sarà potuto dire che erano superstiziosi, ed ancora Protagora e Prodico, per giungere alla conclusione che filosofi siffatti, come del resto Evemero che subito dopo si nomina, non solo hanno eliminato la superstizione, che ispira all'uomo una vana e ridicola paura degli dei, (il che sarebbe, al limite, abbastanza meritorio), ma per raggiungere questo scopo hanno in realtà eliminato il sentimento religioso, che all'uomo ispira o dovrebbe ispirare pie manifestazioni di rispetto verso la divinità.

Si tratta, quindi, di una citazione che, a parte il suo supponibile carattere erudito, rappresentato dal desiderio ciceroniano di completare la rassegna dei nomi di pensatori nocivi alla religione, rimane ai margini della concezione evemeristica, non discutendola nella sua essenza. E se una vaga impronta di simpatia si può, forse leggere nelle parole di Cicerone, questa mi appare dovuta più che altro al fatto che di quella dottrina si è fatto interprete in latino Ennio.

Sempre nel DE NATURA DEORUM, III, 21, si legge altro riferimento, questa volta indiretto, alla dottrina evemeristica, fatto all'inizio di una lunga ed ironica rassegna di tutte le divinità originarie della Grecia e dei vari esemplari, se così si può dire, che di ciascuna divinità qua e là, nel territorio greco, si possono rintracciare.

Dicamus igitur, Balbe, oportet contra illos qui hos Deos ex hominum genere in caelum translatos, non re sed opinione esse dicunt, quos auguste omnes sancteque veneramur35 .

Qui il nome di Evemero non compare e Cicerone si limita ad un generico accenno al contenuto fondamentale della dottrina evemeristica, identificato nell'idea della origine umana degli dei.

In una prospettiva diversa appare invece il riferimento che si legge in TUSCULANAE DISPUTATIONES, I, 13,29:

Si vero scrutari vetera et ex iis ea, quae scriptores Graeciae prodiderunt, eruere cover, ipsi illi maiorum gentium di qui habentur, hinc a nobis profecti in caelum reperientur. Quaere quorum demonstrentur sepulcra in Graecia: reminiscere, quoniam es initiatus, quae tradantur mysteriis: tum denique, quam hoc late pateat, intelleges36 .

Qui Cicerone è impegnato a dimostrare l'immortalità dell'anima, ed in particolare l'argomento che specificamente intende utilizzare ai fini della sua dimostrazione è l'unanimità della convinzione che l'anima non muore col corpo. Ecco perché della dottrina evemeristica egli non mette in risalto, come abbiamo visto che faceva nelle due precedenti citazioni, il carattere, a suo avviso, ateistico. Si potrebbe dire che egli presenta quella dottrina invertendone il significato logico. Infatti non gli interessa, naturalmente, far notare che gli dei, (quelle divinità che i Romani veneravano nella loro sovrannaturale grandezza), con quella dottrina venivano ricondotti a dimensioni terrene, venivano, per così dire, fatti scendere dall'alto dell'Olimpo su questa terra. Gli interessa il contrario, l'osservazione, cioè, che uomini di questa terra sono assurti a rango ed onori divini, il che implica, ed è questo che gli importa ai fini della sua dimostrazione, che la loro anima è immortale.

In altri termini, la dottrina evemeristica viene in questo contesto ed in questa particolarissima prospettiva strumentalizzata, per sostenere l'affermazione che sia le credenze popolari, sia le tradizioni antiche tramandate dagli scrittori greci, (fra i quali si veda, sembra dire Cicerone, in particolare Evemero), confermano che l'anima è immortale.

Si chiude così il discorso sulle citazioni ciceroniane di Evemero e della sua dottrina, ma si chiude con la spontanea e non sottintendibile osservazione che lo scrittore latino, pur con la sua naturale predisposizione alla logica interpretazione dei fatti e alla loro razionale spiegazione, non sembra aver colto in pieno la portata della dottrina evemeristica, non dirò sul piano politico, dove comprendiamo che l'uomo politico ancorato saldamente e talvolta drammaticamente alla vicenda quotidiana del senato e del foro non poteva lasciarsi incantare dalla utopia evemeristica, ma neanche sul piano religioso.

La testimonianza enniana appare invece pienamente raccolta, almeno a livello di ampia e nutrita citazione testuale, da Lattanzio, nel Lb. I delle Divinae Institutiones.

Sull'ampiezza del rapporto che in tal modo si viene a statuire fra lo scrittore latino cristiano e colui che nella latinità pagana ha raccolto la fiaccola della dottrina evemeristica, ci soffermeremo in seguito, per completare ora, almeno nelle sue linee generali, la rassegna della fortuna del pensiero evemeristico nella cultura latina, ed in particolare in quella latino-cristiana.

Cominciamo col far riferimento a due autori, Tertulliano e Minucio Felice, che, oltre tutto, anche per quanto riguarda la dottrina evemeristica, appaiono in connessione fra di loro37.

In AD NATIONES, II, 12, dopo aver esposto una visione della divinità di carattere intrinsecamente evemeristico, Tertulliano conclude facendo riferimento all'autorità degli scrittori sui quali egli si è basato per la sua esposizione:

Si qua ergo vel vestris scriptoribus litterisve vestris superioribus, sed idcirco magis proximis, quoniam illius aetatis, fides adiacet, satis de Saturno et prosapia eius probatum est homines fuisse.

Non si può non notare nel citato contesto innanzitutto l'affermazione conclusiva, «homines fuisse», riferita agli dei, che costituisce in un certo senso il sigillo conclusivo del ragionamento.

Ma interessante risulta per noi anche il riferimento, se pure anonimo e generico, agli scrittori che hanno diffuso quella dottrina ed alla «fides» che nelle loro affermazioni va riposta.

Per quanto riguarda invece Minucio Felice, il riferimento alla dottrina evemeristica si legge indirettamente in OCTAVIUS, XX, 5-6, mentre sotto l'influsso della concezione di Evemero appare anche tutta l'argomentazione e il contenuto del cap. XXI, in cui Evemero stesso è esplicitamente nominato.

In XX, 5 si legge quanto segue:

Similiter ac vero erga deos quoque maiores nostri improvidi, creduli rudi simplicitate crediderunt. Dum reges suos colunt religiose, dum gestiunt eorum memorias in statuis retinere, sacra facta sunt quae fuerant adsumpta solacia. Denique et antequam commerciis orbis pateret et antequam gentes ritus suos moresque miscerent, unaquaeque natio conditorem suum aut ducem inclitum aut reginam pudicam sexu suo fortiorem aut alicuius muneris vel artis repertorem venerabatur ut civem bonae memoriae: sic et defunctis praemium et futuris dabatur exemplum38.

È evidente che Minucio Felice intende ricondurre la dottrina razionalistica di Evemero in termini di una semplicità che da una parte tende a svuotarla del suo significato di dissacrazione religiosa, mentre dall'altra intende servirsene per rafforzare, con un argomento attinto allo stesso mondo pagano, la dimostrazione che il personaggio cristiano di Ottavio Ianuario sta facendo, nel corso della seconda parte del dialogo, della vanità degli dei pagani.

Comunque è nel cap. XXI che l'uso della dottrina evemeristica si fa più esplicito, poiché l'interlocutore, il pagano Cecilio, viene invitato proprio a rifarsi alla testimonianza di Evemero:

Lege historicorum scripta vel scripta sapientium: eadem mecum recognosces. Ob merita virtutis aut muneris deus habitos Evhemerus exsequitur, et eorum natales, patrias, sepulchra dinumerat et per provincias monstrat, Dictaei Iovis et Apollinis Delphici, Phariae Isidis et Cereris Eleusiniae39.

La dottrina evemeristica non è qui né discussa né valutata, in quanto lo scrittore si limita a ricercare l'autorità dello storico e pensatore pagano a sostegno della sua dimostrazione. Sarebbe, se mai, interessante chiedersi a quale delle due categorie di studiosi nominate all'inizio, historici e sapientes, Minucio intenda ascrivere Evemero. Poiché subito dopo, nel corso del capitolo, appare nominato Prodico, che affermò che divennero divinità coloro che viaggiando per il mondo si erano resi benemeriti per il ritrovamento e la diffusione di nuovi prodotti, e si aggiunge che dello stesso parere è «anche la filosofia di Perseo»40, direi che entrambi, Prodico e Perseo rientrino nella categoria dei sapientes, cioè dei filosofi, per cui da assegnare alla categoria degli storici rimane il solo Evemero. Ed in fondo è naturale che Minucio avesse interesse a considerare storico Evemero, e non pensatore, al di là della valutazione, diciamo così, letteraria, perché dal fatto che la richiamata testimonianza fosse quella di uno storico, derivava alla testimonianza stessa un attendibilità maggiore di quella che essa avrebbe potuto avere se si fosse configurata come testimonianza di un filosofo, o, più genericamente, pensatore, le cui affermazioni rientrano in una sfera di più condizionante opinabilità.

A conclusione dello stesso cap. XXI appare anche un riferimento alla famosa lettera di Alessandro Magno il macedone alla madre, lettera che Minucio sembra considerare autentica, ma che in realtà, come si sa, è opera di un seguace di Evemero, Leone di Pella.

Alexander ille Magnus Macedo insigni volumine ad matrem suam scripsit, metu suae potestatis proditum sibi de diis hominibus a sacerdote secretum: illi Vulcanum facit omnium principem, et postea Iovis gentem41.

Si trattava, in sostanza, di una ennesima variazione sul tema delle genealogie degli dei. L'elemento interessante è costituito dal fatto che la notizia è riferita dallo PS. Alessandro come un «secretum» rivelatogli solo in considerazione del timore ispirato dalla sua potenza. In altri termini, si viene ad affermare che la interpretazione razionalistica di Evemero costituisce soltanto la violazione di un segreto ben noto alle caste sacerdotali e da esse gelosamente custodito proprio perché rappresenta il fondamento della loro autorità. Il nome di Evemero compare anche in ARNOBIO, ADVERSUS NATIONES, IV, 29:

Et possumus quidem hoc in loco omnis istos, nobis quos inducitis atque appellatis deus, homines fuisse monstrare vel Agragantino42 Euhemero replicato, cuius libellos Ennius, clarum ut fieret cunctis, sermonem in Italum transtulit, vel Nicagora Cyprio vel Pellaeo Leonee vel Cyrenensi Theodoro vel Hippone ac Diagora Meliis vel auctoribus aliis mille, qui scrupolosae diligentiae cura in lucem res abditas libertate ingenua protulerunt43.

Si noti il richiamo ad Ennio, che appare divulgatore della dottrina evemeristica, in una prospettiva che già altrove s'è notata e che può definirsi apostolica, in quanto Arnobio gli attribuisce l'intenzione di rendere accessibile a tutti (questo mi pare il senso del clarum cunctis) il contenuto ideale di quella dottrina.

La rassegna dei riecheggiamenti del pensiero evemeristico nella letteratura latino-cristiana non può chiudersi senza menzionare il rapporto di fondo con Evemero che appare in Firmico Materno.

Con Firmico Materno siamo, in realtà, di fronte ad un caso particolare. Egli, infatti, accoglie il metodo evemeristico per la spiegazione dei fatti e dei personaggi divini, senza però collocarlo in una posizione preferenziale rispetto all'altro metodo che pure si presentava alla attenzione sua come degli altri apologisti, vale a dire il metodo allegorico.

Firmico non pensa neanche a conciliare i due metodi e si riserva, in un certo senso, il diritto di scegliere tranquillamente, se così si può dire, di volta in volta il metodo che più gli appare utile ai fini della particolare occasione polemica.

In questo, del resto, egli non è lontano dalla posizione dello stesso Lattanzio, che al metodo allegorico fa larghe concessioni, come quando spiega44 che la pioggia d'oro in cui si trasformò Giove nell'episodio mitico della seduzione dì Danae non rappresenta altro che le monete d'oro con le quali Giove stesso corruppe la fanciulla, e che l'aquila che rapì Ganimede non rappresenta altro che l'insegna di una legione dalla quale il bel fanciullo fu portato via.

L'intonazione evemeristico affiora, comunque, in maniera evidentissima in alcune narrazioni esplicative di fatti mitici. Si veda, ad esempio, la spiegazione dei misteri di Libero e Libera45, a proposito della quale il Pastorino scrive: «In questo capitolo Firmico Materno tratta, a tinte fortemente evemeristiche, il mito ed il rito di Zagreus e quello di Dioniso tebano. Egli vuole spiegare il mito come causa del rito, con buona garanzia per la sua genuinità»46. E proprio nel corso di questo capitolo leggiamo il riferimento a Giove come re di Creta, che rappresenta un luogo quasi canonico della dottrina evemeristica: «Liber itaque Iovis filius fuit, regis scilicet Cretici»47. Questa affermazione, che il Pastorino definiva «un luogo comune della polemica antipoliteistica, sia tra i pagani, sia tra i cristiani»48, trovava le sue molteplici espressioni nella serie degli accenni al regno di Giove su Creta, all'antro nel quale egli nacque e al sepolcro di lui che nella stessa isola si custodirebbe, che si leggono in Callimaco49, Esiodo50, Arato51, Luciano52, Cicerone53, Tertulliano54, ed altri.

Nello stesso passo si legge anche il particolare del cuore del fanciullo sbranato che per ordine del padre viene collocato nella parte della statua che riproduceva il petto55.

In questo particolare il Goosen volle vedere56 un fondo di verità, nel senso che il racconto di Firmico poteva essere rivolto alla spiegazione dell'origine del culto, sorto quindi con la finalità di pacificare Giove.

In realtà anche per quanto si riferisce a questo specifico particolare, il fondo evemeristico del contesto firmiciano può considerarsi indubbio, poiché corrisponde a quel concetto del legame tra il senso consolatorio di certe immagini dei defunti e la successiva fase della divinizzazione di quelle immagini che noi vediamo ampiamente espresso in Minucio Felice57, Lattanzio58, ed altri.

Ma una più chiara professione di fede nel metodo evemeristico la possiamo leggere in VII, 6:

«Amat enim Graecorum levitas eos qui sibi aliquid contulerint, vel qui concilio aut virtute se iuverint, divinis appellare nominibus, et sic ab ipsis beneficiorum gratia repensatur, ut deos dicant, deos esse credant, qui sibi aliquando profuerint»59.

Il senso e la prospettiva evemeristica di questo passo sono evidenti soprattutto per il nesso che risulta statuito fra la benefica attività terrena di questi personaggi e la loro conseguente divinizzazione.

Del resto, proprio a proposito di questo passo, il Faggin60 scriveva: «Così Firmico Materno enuncia il suo metodo evemeristico».

Del resto, quando in VII, 1 Plutone diventa nella narrazione di Firmico Materno, «dives rusticus, cui propter divitias Pluton fuit nomen», lo stesso Faggin dopo aver ricordato le congetture degli studiosi moderni come il Körte e il Pettazzoni, secondo le quali si tratterebbe di un cerimoniale sessuale, derivante dal carattere naturalistico-magico del rito primitivo, conclude scrivendo che «Firmico Materno irretito nel suo evemerismo è cieco dinanzi all'evidenza»61.

Cap. V. IL PROBLEMA DELLA FORMA DELL'OPERA ENNIANA

La conoscenza solo frammentaria e indiretta che noi abbiamo dello scritto enniano in cui risulta esposta la dottrina evemeristica, ha determinato incertezza e contrasti d'opinione anche per quel che riguarda la forma espressiva della quale lo scrittore latino s'è servito.

Ci si chiede, infatti, se la sua opera fosse in prosa o in versi, nel senso che dalla lettura delle citazioni di Lattanzio, che, come s'è più volte detto, rappresenta la più cospicua, se non l'unica, fonte della nostra conoscenza dell'opera alcuni critici hanno ritenuto di poter giungere alla conclusione che lo scritto enniano fosse in prosa, mentre altri hanno invece creduto di poter identificare strutture metriche nelle citazioni stesse, concludendo che ci si trova di fronte ad uno scritto in versi.

A prescindere dal problema di fondo, poiché io ritengo che tutto un discorso preliminare e pregiudiziale andrebbe fatto per stabilire le prospettive intellettuali di Ennio in relazione alla scelta dell'uno o dell'altro piano espressivo, quello della prosa, cioè, o quello della poesia, è interessante ripercorrere il cammino in base al quale gli studiosi sono giunti all'una e all'altra conclusione, sia per esprimere una valutazione ed una conseguente scelta preferenziale, sia per tutta una serie di considerazioni metodologiche che questa analisi ci permetterà di compiere.

Cominciamo con l'osservare che il riconoscimento di strutture metriche nelle citazioni di Lattanzio, al quale abbiamo testé accennato, è nella maggior parte dei casi piuttosto fortunoso ed insicuro. Ma anche a non voler tener conto di questa condizione pregiudiziale di incertezza, rimane una osservazione fondamentale da non ignorare.

Infatti, anche quegli studiosi che hanno creduto di poter riconoscere dei versi nelle citazioni enniane, fatte da Lattanzio, per trarne poi la conclusione che l'opera di Ennio era in versi, non hanno però risolto in maniera univoca e concorde il problema preliminare, quello del tipo di verso che Ennio avrebbe adoperato per la sua opera.

In altri termini, noi vediamo che mentre il Vahlen ritenne di poter identificare la presenza di un ritmo giambico trocaico, il Ten Brink giunse all'identificazione di veri e propri settenari, mentre il Némethy riconosceva la presenza di ritmi dattilici.

È appena il caso di far notare che le notevoli diversità esistenti in quanto a struttura fra i vari tipi di verso che a giudizio dei citati studiosi62 sarebbero identificabili nella prosa enniana riferita da Lattanzio63, sembrano rendere per lo meno improbabile l'identificazione dei versi stessi.

In particolare il Némethy ritenne di poter aggiungere anche altre specifiche considerazioni, a sostegno della sua convinzione che lo scritto di Ennio fosse in versi.

Egli affermava infatti64 che di Ennio non ci è nota nessuna opera in prosa, e si serviva di questa, peraltro discutibile, considerazione per dedurne che anche lo scritto con cui aveva diffuso la dottrina evemeristica doveva essere in versi. L'argomento, per così dire, ex silentio, non ha, ovviamente peso determinante sul piano di una seria e concreta considerazione critica, poiché niente può impedirci di supporre che per questo scritto, a differenza degli altri, avesse preferito come tramite espressivo la prosa.

Ma, d'altra parte, la Vallauri65 ha anche giustamente osservato che l'affermazione che Ennio non avesse composto alcuna opera in prosa non è in sé sostenibile in senso assoluto, poiché si può almeno avanzare l'ipotesi che le Saturae, delle quali poco o nulla ci è noto, fossero una forma letteraria la cui caratteristica di multiformità si estendesse anche al mezzo espressivo, per cui in pratica fossero composte da un misto di prosa e di versi.

È sempre il Némethy a citare, a sostegno della sua tesi, il fatto che l'isola di Panchaia, che rappresenta la scena dominante della narrazione di Evemero, sia stata menzionata nei loro versi da Lucrezio66, da Tibullo67 e da Ovidio68. Egli ritiene che queste tre citazioni di un particolare, di natura puramente geografica, da parte di tre poeti, debbono farci inclinare a credere che quello spunto, ridotto, si badi bene, ad un solo nome, essi l'abbiano tratto da un'opera in versi.

È appena il caso di far notare che la deduzione dello studioso è in verità piuttosto fragile, poiché non v'è alcun motivo per credere ed affermare che un poeta non possa aver tratto un labile spunto, qual è quello rappresentato soltanto da un nome, da uno scritto in prosa.

Si suole anche citare una testimonianza di Varrone69, che val la pena di riportare qui nella sua integrità, per seguire il processo in base al quale si è voluto da essa ricavare, in maniera, in verità, piuttosto opinabile, un'altra prova della natura poetica dello scritto enniano.

Arista et granum omnibus fere notum: gluma paucis. Itaque id apud Ennium solum scriptum scio esse in Evhemeri libris versis70.

La lettura del testo di Varrone chiaramente dimostra come esso non offra alcun elemento per giungere a trarre dal testo stesso conforto alle tesi che lo scritto enniano fosse stato composto in versi. Varrone, infatti, si limita a riferire che il vocabolo gluma, di cui sta parlando, gli risulta attestato solo nella traduzione latina dello scritto di Evemero. Comunque, né della traduzione latina, né dello scritto originale greco si dà alcun giudizio caratterizzante. L'unico rapporto di fatto che appare enunciato, e senza alcuna particolare sottolineatura, è quello di traduzione, espresso dal versis, accordato con libris.

Analogamente si può osservare nei riguardi di un passo di Cicerone71, dal quale pure s'era ritenuto di poter trarre la deduzione che ci si trovasse in presenza di un'opera in versi:

Quid? Qui aut fortes aut claros aut potentes viros tradunt post mortem ad Deos pervenisse, eosque esse ipsos, quos nos colere, precari venerarique soleamus, nonne expertes sunt religionum omnium? Quae ratio maxime tractata ab Euhemero est, quem poster et interpretatus et secutus est praeter ceteros Ennius. Ab Euhemero autem et mortes et se. pulturae demonstrantur Deorum. Utrum igitur con. firmasse videtur religionem an penitus totam sustulisse?

Anche in questo caso, la sola ordinata lettura de testo ciceroniano mi pare sufficiente per lasciare almeno perplessi di fronte alla deduzione, che pur si è voluto fare, che il testo enniano, al quale Cicerone allude, fosse un testo poetico.

Cicerone si limita a ricordare questo testo attraverso due verbi, interpretor e sequor, che potranno, se mai, fornire lo spunto per interessanti considerazioni sul rapporto di fondo fra il testo di Evemero e quelle di Ennio, ma che comunque, in ogni modo, non con sentono alcuna deduzione, né a favore della tesi di un Evemero latino in versi, né di un Evemero latino in prosa.

E per quanto riguarda l'uso dei due verbi, si potrebbe, per ora, senz'altro accettare quel che ipotizzava la Vallauri72, che, cioè, Cicerone avesse voluto lasciar intendere che Ennio «pur attenendosi in linea di massima al testo di Evemero, si sia preso talora la libertà di aggiungere alcunché di suo».

Aggiungerei che la valutazione positiva di Ennio alla luce di questa sua particolare fatica di interprete-traduttore, il collocamento dello scrittore di Rudiae in una certa sfera simpatetica rispetto a Cicerone, lo si può cogliere, a mio avviso, anche in quell'aggettivo noster, che suole in Cicerone assumere una certa carica semantica di ordine affettivo.

D'altra parte non si può trascurare un'altra considerazione che induce, se pure in maniera indiretta, a ritenere che il testo enniano preso in considerazione da Lattanzio, anzi proprio per il fatto di essere stato preso in considerazione da Lattanzio, fosse un testo di prosa e non di poesia.

Sono, infatti, frequenti in Lattanzio le affermazioni tendenti a sottolineare la maggiore attendibilità e credibilità della prosa rispetto alla poesia, in quella stessa prospettiva mentale che si nota a proposito di Minucio Felice73 e che ci induce a credere che egli volesse ascrivere Evemero nel numero degli storici piuttosto che in quello dei pensatori o filosofi.

In proposito è interessante anche un passo di S. Agostino 74, che contiene un'esplicito e pertinente accenno al carattere storico della narrazione di Evemero:

Quid de ipso Iove senserunt, qui eius nutricem in Capitolio posuerunt? Nonne adtestati sunt Euhemero, qui omnes sales deos non fabulosa garrulitate, sed historica diligentia homines fuisse mortalesque conscripsit?

È evidente che la «fabulosa garrulitate» con tutta la sfumatura vagamente dispregiativa che in questo specifico contesto viene ad assumere, deve essere intesa in relazione, anzi in contrapposizione alla «historica diligentia», per cui se pure non si può ricavare alcun elemento pro o contro la tesi dell'Ennio in prosa, rimane perlomeno confermato non solo l'aspetto formale in prosa dello scritto originale di Evemero, che, in ogni caso, non è in discussione, ma anche il carattere storico, direi quasi scientifico, del suo contenuto.

Si possono citare almeno cinque passi di Lattanzio in cui si colgono affermazioni nell'ordine concettuale che or ora abbiamo sottolineato.

Che la prosa debba essere vista su un piano di maggiore credibilità rispetto alla poesia, è concetto sul quale Lattanzio torna ripetutamente. Il primo accenno si legge in DIV. INST., I, 11,17:

Potuerunt igitur homines alium deum habere rectorem si Saturnus non fuisset ab uxore delusus. At enim poetae ista finxerunt. Errat quisquis hoc putat. Illi enim de hominibus loquebantur, sed ut eos ornarent quorum memoriam laudibus celebrabant, deos esse dixerunt. Itaque illa potius fitta sunt quae tamquam de diis, non illa quae tamquam de hominibus sunt locuti: quod clarum exemplum fiet quod inferemus75.

L'opinione che Lattanzio intende manifestare nei riguardi della poesia, in questa particolare prospettiva della sua minore autorità, si coglie chiaramente nella ripetizione del verbo «fingo» per caratterizzare l'azione, per così dire, creativa dei poeti. Ed il carattere negativo dell'azione implicita nel verbo fingo si ricava, per via di conferma indiretta, anche dall'affermazione: «Errat quisquis hoc putat», che trova immediato riferimento nella frase «At enim poetae ista finxerunt» che precede.

Il secondo accenno si legge in DIV. INST., I, 11,23/26:

Non ergo res ipsas gestas finxerunt poetae, quod si facerent, essent vanissimi, sed rebus gestis addiderunt quemdam colorem. Non enim obtrectantes illa dicebant, sed ornare cupientes. Hinc homines decipiuntur, maxime quod dum haec omnia ficta esse a poetis arbitrantur, colunt quod ignorant. Nesciunt enim qui sit poeticae licentiae modus quousque progredi fingendo liceat, cum officium poetae in eo sit ut ea quae vere gesta sunt in alias species obliquis figurationibus cum decore aliquo conversa traducat. Totum autem quod referas fingere, id est ineptum esse et mendacem potius quam poetam. Sed finxerint ista quae fabulosa creduntur: num etiam illa quae de diis feminis deorumque conubiis ditta sunt? Cur igitur sic figurantur, sic coluntur? Nisi forte non tantum poetae, sed pictores etiam fictoresque imaginum mentiuntur.

Si noti anche in questo contesto l'insistita ripetizione del verbo fingo (finxerunt, ficta esse, fingendo, fingere, finxerint, fictores), che segna quasi il ritmo lessicale della citazione.

Ma un particolare interesse acquista in questo passo quello che può essere considerato quasi un tentativo di definizione di una poetica, almeno da quel punto di vista che allo scrittore cristiano, in questa fase della sua polemica, poteva interessare.

Vediamo, infatti, delineare una sorta di precetto del «vero», suscettibile da parte del poeta di una trasfigurazione, di una trasposizione che ne segni una conquista di decus, ma che comunque deve per il poeta stesso costituire il limite invalicabile della sua capacità creativa. Anche se è ammessa una «poetica licentia», l'ammissione è fatta solo per indicarne il modus; è evidente che il senso della «poetica licentia» è quello legato al verbo fingere, con la implicita limitazione data dall'affermazione che non bisogna dimenticare «quosque progredi fingendo liceat».

L'officium del poeta risulta definito e delimitato dall'avverbio «vere». Egli può, come dicevamo, trasfigurare, in alias species, ma rimane sempre valida la condizione essenziale, che, cioè, oggetto della sua trasposizione siano cose «quae vere gesta sunt».

Ma da questa concezione della poesia discende automaticamente il concetto che per un ambito come quello religioso, dove di questa funzione esornativa della poesia non si sente la necessità, la prosa abbia valore descrittivo molto più rigoroso e determinante.

E si badi che, parliamo di non necessità della poesia sempre che essa venga intesa nel pieno rispetto del modus. Ché se questo rispetto non risulta osservato, la condanna di Lattanzio suona molto più violenta e decisa, tanto che egli giunge all'affermazione che chi pensi di poter completamente inventare l'oggetto della sua composizione poetica, «ineptum et mendacem esse potius quam poeta».

Il terzo luogo in cui Lattanzio torna sul concetto che stiamo qui illustrando si legge in DIV. INST., I, 11, 36:

Multa in hunc modum poetae transferunt, non ut deos mentiantur, quos colunt, sed ut figuris versicoloribus venustatem ac leporem carminibus suis addant. Qui autem non intellegunt quornodo aut quare quidque figuretur, poetas velut mendaces et sacrilegos insecuntur.

Qui appare ulteriormente definita la funzione e il significato della poesia, su una linea concettuale che richiama ampiamente, per non citare altri, la poetica lucreziana, vividamente enunciata in DE RERUM NATURA, I, 925 e segg.

Al poeta, comunque, non viene attribuita alcuna intenzione ateistica o, in ogni caso, tale da diminuire la maestà sacrale degli attributi divini. La colpa, se mai, va fatta ricadere su coloro che, mal intendendo le finalità delle belle favole poetiche, attribuiscono ad esse un contenuto di formale verità e finiscono quindi col considerare sacrileghi i poeti.

In sostanza in quest'ultimo contesto la colpevolezza dei poeti potrebbe al più essere ritrovata in radice, nel fatto stesso di aver creato per il lettore l'occasione dell'errore. S'intende, quindi, che ancora una volta risulta indirettamente sottolineata la maggiore limpidezza, in questa specifica prospettiva, della prosa, che, se non altro, non crea questa possibilità di errore.

Ad un tono di più marcato, direi quasi risentito, disprezzo verso le fole poetiche Lattanzio torna in DIV. INST., I, 11, 47:

Hoc certe non poetae tradunt, sed antiquarum rerum scriptores.

L'affermazione è fatta a titolo conclusivo e rafforzativo, dopo la notizia che a Creta si mostra il sepolcro di Giove, sul quale si legge l'iscrizione «Iuppiter Saturni». Il riferimento al valore documentario dell'iscrizione viene da Lattanzio sottolineato appunto con l'affermazione su riferita, che, cioè, non da fantasticherie di poeti derivano quelle notizie ma da attendibili «rerum antiquarum scriptores».

L'ultimo accenno al rapporto prosa-poesia, con la conseguente valutazione preferenziale della prosa, si legge in DIV. INST., I, 14, 1:

Nunc, quoniam ab iis quae rettuli aliquantum Sacra Historia dissentit, aperiamus ea quae veris litteris continentur, ne poetarum quidem ineptias in accusandis religionibus sequi ac probare videamur.

Lattanzio appare qui preoccupato di chiarire la portata documentaria delle sue affermazioni, facendo notare che esse trovano conforto in «veris litteris». Si noti che in questo contesto più esplicitamente che altrove appare una vera e propria contrapposizione fra le «poetarum ineptiae» e le «veris litteris» alle quali lo scrittore intende fare riferimento.

E quando avremo fatto notare che questo passo che su si è riferito è, in pratica, la premessa per una lunga citazione enniana, quella contenente la storia di Saturno e delle sue nozze con Opi, risulterà abbastanza chiaramente che per Lattanzio la citazione di Ennio si colloca nella sfera concettuale delle «verae litterae», ben lontana dunque dalle «poetarum ineptiae».

Ma dal testo di Lattanzio si può ricavare anche tutta una serie di riferimenti al fatto che le sue citazioni di Ennio sono alla lettera. Ed è chiaro che anche queste testimonianze, che ora passeremo opportunamente in rassegna, conducono alla conclusione che lo scrittore cristiano aveva presente un testo in prosa, dal quale letteralmente attingeva le sue citazioni.

Il primo riferimento si legge in DIV. INST., I, 11, 33:

Hanc historiam et interpretatus est Ennius et secutus. Cuius haec verba sunt76.

La stringata concisione dell'espressione che introduce la citazione enniana, con l'esplicito riferimento alle «verba», chiaramente esprime la voluta sottolineatura da parte di Lattanzio del carattere testuale e letterale della sua citazione.

Analogamente in DIV. INST., I, 11, 45, per introdurre una citazione enniana, quella che descrive l'attività politico-amministrativa svolta da Giove nella sua vita di re, Lattanzio scrive:

Ennius in Sacra Historia descriptis omnibus quae in vita sua" gessit, ad ultimum sic ait.

Si noti la presenza dell'espressione «descriptis omnibus quae in vita sua gessit», che ha chiaro valore riassuntivo e serve a Lattanzio a collegare la successiva citazione al contesto generale delle notizie che egli ricava, direttamente e indirettamente, dal testo enniano. Per cui risulta chiaramente sottolineato il carattere letterale della successiva citazione, sia dal verbo «ait», sia dal riferimento contenuto nell'espressione avverbiale «ad ultimum», che trova riscontro nell'avverbio «deinde», con cui subito dopo inizia la citazione. Un qualche contributo all'indagine che stiamo svolgendo può leggersi anche in DIV. INST., I, 13, 14:

Ennius quidem in Euhemero non primum dicit regnasse Saturnum, sed Uranum patrem. Initio, inquit, primus in terris imperium sumnium Caelus habuit.

Il carattere letterale della citazione mi pare possa cogliersi soprattutto attraverso la contrapposizione dei due verbi, «dicit» e «inquit», il primo adoperato per riferire in forma riassuntiva e quindi indiretta il concetto, mentre il secondo introduce la citazione testuale.

Ma, del resto, anche il già citato luogo delle DIV. INST., I, 14, 1, oltre a contenere un particolarmente significativo sviluppo del concetto del rapporto prosa-poesia, può avere un qualche interesse anche al fine di sottolineare il carattere testuale delle citazioni enniane di Lattanzio.

In quel luogo, infatti, a conclusione del concetto di contrapposizione fra le «verae litterae» e le «ineptiae poetarum», e per segnare il passaggio alla citazione di Ennio, si legge la già notata espressione «hac Ennii verba sunt», il cui valore abbiamo già commentato a proposito di DIV. INST., I, 33.

Il senso e il fine di questa ripetuta precisazione che le citazioni del testo enniano sono citazioni letterali, si comprende facilmente pensando che per Lattanzio quelle citazioni non hanno un valore letterario ma sono rivolte a sostenere la sua tesi della assoluta vuotezza sul piano religioso del pantheon classico. È chiaro, quindi, che nel momento stesso in cui egli fa appello alla testimonianza di uno scrittore pagano a sostegno delle sue tesi, deve preoccuparsi di ribarire che il pensiero di quello scrittore è da lui stesso citato in una prospettiva di doveroso e rigoroso rispetto testuale, senza il quale le citazioni stesse perderebbero ogni valore e significato.

Comunque, difronte a questa chiara, inequivocabile insistente precisazione di Lattanzio, il Némethy, che evidentemente si rendeva conto che una volta accettata per vera la preoccupata chiarificazione dello scrittore cristiano, finiva con l'essere un po' difficile sostenere ancora la originaria forma poetica del testo enniano, giunse ad una sorta di compromesso, col quale pervicacemente riteneva di poter continuare a sostenere la sua tesi della forma poetica del testo enniano.

Lo vediamo, infatti, ammettere che tra l'opera di Ennio, per lui indiscutibilmente scritta in poesia, e Lattanzio esista una rielaborazione, un rifacimento in prosa, di autore ovviamente assolutamente sconosciuto, al quale Lattanzio, magari in assoluta buona fede si è rifatto per le sue citazioni, considerandolo il testo autentico di Ennio77.

A questo punto, non mi pare sia necessario spendere molte parole per dimostrare la precarietà metodologica di una costruzione critica che si regge, almeno per questo specifico aspetto, su una ipotesi, quella della esistenza della citata rielaborazione in prosa del testo enniano, che se pur non assurda, in sé, non trova, comunque, conforto in alcun elemento esterno, per cui rimane confinata sul piano delle astrazioni ipotetiche, cui manca ogni necessario aggancio, anche indiretto e suppositizio, con la realtà.

Comunque, come già osservava lo Skutsch78, la supposizione dell'esistenza di questo Ennio rielaborato in prosa, a metà strada fra l'Ennio originale in versi e le citazioni del testo enniano quali si leggono ancora oggi in Lattanzio, dovrebbe, per intanto, portare almeno ad un risultato, quello di rinunziare a tentare di ritrovare nel testo enniano di Lattanzio tracce di ritmi e strutture metriche, quali che siano.

Di contro, lo stesso Némethy riconosceva il sapore di autenticità delle citazioni di Lattanzio, giungendo fino a istituire confronti fra versi degli Annali di Ennio e passi di quelle citazioni, che a suo avviso apparivano particolarmente vicini, in ordine stilistico, agli scritti di Ennio.

L'ultima ma non meno importante considerazione permette di farla il già citato passo ciceroniano, in particolare per la presenza della locuzione praeter ceteros. Quella locuzione, infatti, finisce col darci notizia, indirettamente, dell'esistenza di altri interpreti e traduttori di Evemero, fra i quali Cicerone intende dare, per così dire, la palma a Ennio. E questa sua intenzione sembrerebbe che la si possa ricavare se non altro dal fatto che gli altri interpreti ai quali abbiamo accennato appaiono confinati nella genericità di un pronome, ceteros. E si tenga presente che solitamente Cicerone ama la completezza della citazione dotta, fino a scadere qualche volta nella enumerazione prolissa di personaggi che a lui appaiono culturalmente rilevanti, nel contesto specifico di cui si occupa.

Resta da chiedersi in quale prospettiva vada collocato questo interessamento di Cicerone per la dottrina evemeristica nella sua versione latina. La Vallauri ritiene che si possa pensare ad un certo influsso del prestigio personale di Ennio, come letterato, che avrebbe reso quella dottrina interessante per i Romani, al di là di un eventuale loro specifico e diretto interesse per i risvolti politici e religiosi della dottrina stessa.

Ma mi pare che, almeno a questo proposito, abbia visto più giusto il Némethy, che ipotizzava un diretto interesse dei Romani per la dottrina evemeristica, interesse che, aggiungerei, avrà ben potuto trovare fertile terreno di sviluppo nella simpatia che circondava l'opera di Ennio e che si accrebbe quando questo prototipo ideale dell'epoca romana trovò il suo ultimo sbocco nell'epica virgiliana.

Possiamo, dunque, concludere che l'Evemero latino che Lattanzio conosceva e che abbondantemente citò, offrendone così a noi la conoscenza, era un Evemero in prosa, era, anzi, l'Evemero di Ennio, scritto in prosa.

Sull'argomento, del resto, si veda anche quanto scrive il Rostagni:

«Di quest'opera così singolare, da Ennio spregiudicatamente ridotta, ampi estratti, in prosa, ci sono giunti per mezzo del cristiano Lattanzio, che li cita nelle sue DIVINE ISTITUZIONI. Può darsi che qua e là Lattanzio abbia eliminato o attenuato gli arcaismi; ma non è da dubitare che, in massima, la sua trascrizione sia stata fedele e che perciò in prosa fosse il testo stesso di Ennio (come d'altronde era anche l'originale greco), tanto più che risultano falliti i tentativi di scoprire nei brani riportati tracce di versificazione. Quindi questi brani sono per noi — insieme agli scritti integri o frammentari di Catone — i più antichi esempi di prosa latina»79.

Si noti, tra l'altro, la recisa convinzione dello studioso, che considera «falliti i tentativi di scoprire nei brani riportati tracce di versificazione» e che quindi annovera i frammenti enniani trasmessi da Lattanzio fra i più antichi documenti della prosa latina. Ci sarà da fare qualche riflessione sulle genesi della valutazione espressa attraverso l'avverbio «spregiudicatamente» col quale il Rostagni caratterizza l'opera di traduttore e interprete compiuta da Ennio. In realtà la presenza dei due verbi interpretatus e secutus est nel già più volte citato brano ciceroniano farebbe pensare ad una impostazione di questa attività interpretativa un po' meno libera di quanto si possa ricavare dall'avverbio «spregiudicatamente».

Del resto anche il Norden scrive:

«I frammenti della sua [di Ennio] traduzione in prosa della Ἱερὰ ἀναγραϕή di Evemero sono per noi i testi più antichi, con gli scritti di Catone, della prosa letteraria»80.

Ed in questa valutazione noi vediamo sottolineati entrambi gli aspetti che già apparivano messi in risalto nel giudizio del Rostagni, il carattere prosastico dello scritto e la sua conseguente posizione di priorità nella storia della prosa latina.

Alla prosa, ma non con assoluta sicurezza, ascrive l'opera il Marchesi, che scrive:

«Nell'Euhemerus ovvero Historia sacra era spiegata l'origine degli dei secondo la razionalistica e quasi beffarda concezione di Euhemeros di Messina, vissuto fra il quarto e il terzo secolo, il quale vedeva nelle divinità la divinizzazione di uomini astuti e potenti: sia l'opera di Ennio, sia l'originale greco erano probabilmente in prosa»81.

Va detto, però, che il Marchesi sottolinea forse eccessivamente il carattere illuministico, se così si può dire, dello scritto e del pensiero evemeristico, come si nota dal fatto che la concezione evemeristica vien qualificata come «quasi beffarda», il che, almeno a livello formale non è, per quel carattere di seriosa impostazione della narrazione, mentre gli uomini divinizzati vengono qualificati con l'aggettivo «astuti», che finisce con l'inserire il processo stesso di divinizzazione in una prospettiva intenzionale da parte degli stessi oggetti della divinizzazione, intenzionalità che almeno in Evemero non si legge.

Frutto della cultura siceliota sono considerati dal Paratore sia l'Epicharmus che l'Euhemerus.

Il primo scritto interpretava gli dei come simboli di forze della natura, per cui il Paratore afferma che

«un passo più innanzi verso questa soluzione del problema della divinità era compiuto nell'Euhemerus, versione o rielaborazione probabilmente in prosa di una opera, scritta anch'essa probabilmente in prosa, di Evemero di Messina (di Messene?), vissuto a cavaliere fra il sec. IV e il sec. III, e quindi ancora di attualità al tempo in cui Ennio scriveva»82.

Per quello che più specificamente in questo contesto ci interessa, dobbiamo notare che anche il Paratore rimane sul piano del dubbio per quel che riguarda la forma letteraria dell'opera. Interessante è, invece, la notazione relativa all'attualità dell'opera ai tempi di Ennio. Comunque, più avanti il Paratore, a proposito di Evemero, sembra echeggiare quanto già abbiamo dovuto notare nel Marchesi, perché lo definisce «malizioso retore filosofeggiante».

Non è sfuggito, in ogni caso, al Paratore il significato intrinsecamente legato alla contingenza politica dello scritto enniano, poiché egli scrive: «Ad Ennio, che cantava ad una nazione che aveva divinizzato il proprio fondatore, ed era amico di un geniale condottiero cui aveva predetto l'immortalità, una simile concezione non doveva riuscire ostica»83.

Il carattere prosastico dello scritto enniano risulta accolto senza ombra di incertezza dal Lana, che scrive:

«Ennio fu anche il creatore della prosa artistica romana, con l'Euhemerus: traduzione o rifacimento della Storia sacra di Evemero di Messina (IV-III sec. a.C.): un tentativo di spiegazione razionalistica della fede negli dei. È una prosa artificiosamente ingenua (noi giudichiamo dai frammenti conservatici da Lattanzio nelle sue Divinae Institutiones), che a differenza del De agri cultura catoniano, non trae i suoi moduli stilistici dal linguaggio tecnico delle leggi romane o dalle cadenze dei carmina religiosi, bensì riflette una certa complessità nella formulazione del pensiero, alla quale si accompagna, tuttavia, — e l'accostamento per lo più stride — l'abuso della paratassi, delle ripetizioni del pensiero, delle rime, delle riprese non necessarie di termini mediante pronomi, da cui viene alla prosa enniana un colorito ora troppo dotto ora falsamente popolareggiante»84.

Il giudizio del Lana è particolarmente interessante, non solo per la decisa collocazione dello scritto di Ennio nell'ambito della prosa, quanto per l'esame attento e diligente delle caratteristiche di quella prosa, esame che, oltre tutto, giunge a delle conclusioni così vive e pertinenti da consentire di escludere ancora una volta la già confutata ipotesi del Némethy, quella, cioè, della rielaborazione in prosa dell'originale stesura in versi.

Interessante è anche quanto osserva il Perelli, il quale oltre a confermare l'appartenenza dello scritto di Ennio alla prosa, mette in risalto un contrasto di fondo che potrebbe forse cogliersi fra questo scritto ed altre opere di Ennio, in quanto scrive:

«In apparenza vi è contraddittorietà fra una dottrina così scettica e razionalistica [quella evemeristica] e le credenze mistiche di altre parti dell'opera di Ennio, ma bisogna considerare che la religiosità mistica di Ennio è di tipo filosofico, ed è del tutto disgiunta dalla religiosità mitologica popolare; perciò potevano coesistere l'interpretazione razionalistica della religione popolare e la fede in una religione più elevata, accettabile da uno spirito colto»85.

In altri termini, l'apparente contraddizione finisce col risolversi in una prova di più intima e viva coerenza, in quanto l'accostamento di Ennio al razionalismo evemeristico si spiega anche alla luce delle sue intime convinzioni religiose, nel quadro di quell'inappagato bisogno di spiritualità superiore che rende viva e drammatica la vicenda degli intellettuali che vivono in epoche travagliate come la sua.

Anche il Bignone, del resto, sottolineava in generale l'interesse di Ennio per la problematica religiosa, considerandolo anzi la più chiara motivazione della traduzione da lui fatta dello scritto greco di Evemero, una opera come egli la definisce,

«tra romanzesca e filosofica, che ebbe grande fortuna nell'età classica, e persino, attraverso indirette testimonianze, nell'età moderna»86.

E più avanti lo stesso studioso acutamente mette in risalto il carattere di sostanziale adesione alla tematica spirituale dell'età ellenistica che lo scritto di Evemero rivelava, scrivendo:

«Questo fare della mitologia un fantasioso romanzo corrispondeva singolarmente allo spirito dell'ellenismo; così come del resto il bisogno di sostituire qualcosa di nuovo all'ormai stanco e liso paganesimo antico. E corrispondeva pure allo spirito della filosofia greca, in cui perennemente rinasce l'interpretazione allegorica della mitologia classica, in Prodico, in Ecateo, in Erodoto, in Eforo e negli Stoici»87.

Per quanto si riferisce poi più specificamente alla questione della stesura in prosa o in versi dell'opera enniana, il Bignone scrive:

«Dell'Evemero di Ennio, che fu particolarmente famoso tra i polemisti cristiani contro il politeismo antico, la maggior parte dei frammenti, o per meglio dire delle testimonianze, ci sono conservati da Lattanzio, nella sua opera polemica Divinae Institutiones, in una prosa che conservava qualche traccia dell'antica prosa arcaica; onde appare che quest'opera di Ennio non dovesse essere in poesia; il che del resto è naturale88, poiché in prosa era scritta la Sacra storia di Evemero. Il tentativo, infatti, di trovare residui di versi nei frammenti riassuntivi conservatici da Lattanzio non riuscì»89.

Al termine di questa rassegna, dalla quale risulta non solo confermata l'appartenenza dello scritto enniano alla prosa latina, di cui anzi costituisce una delle pagine documentarie più interessanti e significative, ma anche lumeggiato il rapporto che questo scritto ebbe con la personalità dell'autore e con le vicende spirituali del suo tempo, non possiamo non considerare sottolineata anche l'importanza che assume la vasta messe delle citazioni enniane fatte da Lattanzio, vasta messe che colpisce ancora di più la nostra attenzione se porremo mente al fatto che essa segue ad un lungo silenzio della letteratura latina nei riguardi di questo scritto, un silenzio interrotto soltanto da quelle citazioni di Cicerone che già sono state esaminate e collocate nella loro piuttosto ristretta prospettiva, un silenzio che non è azzardato definire colpevole, soprattutto se pensiamo alle consonanze spirituali che quella dottrina evemeristica che Ennio aveva raccolto e di cui s'era fatto banditore avrebbe dovuto trovare nell'animo del Romano, vuoi a livello puramente intellettuale, vuoi a livello di più diffusa e borghese partecipazione concettuale a quella seducente problematica religiosa.

Cap. VI. SCIPIONE IL MAGGIORE E L'EVEMERISMO ENNIANO

Una interpretazione e valutazione delle prospettive spirituali di Ennio traduttore-interprete di Evemero non può non partire dalla ricostruzione e conseguente interpretazione dei valori culturali e spirituali dell'epoca in cui Ennio visse la sua complessa e feconda giornata letteraria.

Roma vive nel periodo della II guerra punica una crisi tanto profonda quanto molteplice, che investe la anima del mondo romano a vari livelli e in vari settori, da quello etico-religioso a quello politico-sociale.

Le radici più vive e condizionanti di questa crisi vanno identificate nelle nuove concezioni religiose che riescono a penetrare sempre più profondamente nel mondo romano, determinando una serie di reazioni non sempre facili da incanalare allora, non sempre facili da interpretare per noi oggi.

L'origine di queste nuove visioni del divino va ricercata prevalentemente nel mondo greco, anche se non è del tutto da escludere che un qualche peso nell'insorgere della crisi spirituale di cui stiamo parlando lo abbiano avuto anche concetti religiosi provenienti da un ambiente geograficamente più vicino alla romanità, qual è quello etrusco90.

In questa temperie spirituale, che esigeva un'azione di rilancio culturale, tale da permettere il superamento senza conseguenze dell'antinomia, per non parlare di frattura, creatasi fra la tradizione spirituale romana e í nuovi apporti culturali, si inserisce la personalità di Ennio.

In fondo, nessuno meglio di lui poteva rappresentare il superamento della crisi, nessuno si trovava in condizioni psicologiche e culturali migliori di quelle in cui nativamente egli si era trovato.

Giunto alla cittadinanza romana senza essere romano, giunto alla cultura latina, senza essere latino, egli possedeva in forza di questa sua condizione di superiorità o, forse, addirittura di indipendenza rispetto alla tradizione, la possibilità di avviare un discorso di superamento e rinnovamento, di un tipo che certamente non avrebbe potuto né impostare né sviluppare uno scrittore che fosse stato condizionato dal passato fino al punto di perdere di vista il futuro.

In particolare, quando Ennio si accosta alla dottrina evemeristica con un'opera alla quale non è avventato riconoscere una finalità divulgativa, non a livello culturale, ma ad un livello che si sarebbe tentati di definire evangelico, è chiaro che egli mira a trasmettere quella dottrina non attraverso i canali più o meno accessibili della cultura, ma attraverso quelli magari meno facili ma più profondi e penetranti della spiritualità.

In altri termini, nell'intenzione di Ennio c'era il conseguimento, la pratica realizzazione di un primo accostamento della spiritualità romana ad una prospettiva razionalistica che egli sentiva feconda se non nel suo significato intrinseco, almeno a livello strumentale.

Quello che egli voleva ottenere era una presa di coscienza, in ordine al problema religioso, che fosse in qualche modo suscettibile di una ulteriore penetrazione, fino al possesso consapevole di una verità che egli magari non conosceva ma di cui intuiva o magari anche soltanto desiderava l'esistenza91.

Roma conquistava al tempo di Ennio l'individualismo, affermandolo su un piano tanto soggettivo quanto oggettivo. La prima conseguenza di questo soggettivismo individualistico fu l'accorciamento delle distanze fra l'umano e il divino, accorciamento che non è detto debba realizzarsi soltanto in una prospettiva denegatrice, ateistica e blasfema. Esso può anche risolversi in una forma di avvicinamento che, se esalta l'umano, non annulla o deprime il divino.

Del resto l'uomo ha un ben limitato interesse a realizzare un livellamento del rapporto umano-divino che abbassi al suo livello il divino: se mai la conquista deve realizzarsi in un'elevazione dell'umano.

In questo clima si comprende l'origine di processi di divinizzazione, nati magari sul piano occasionale e limitato di una esasperazione di onoranze, e sfociati poi in una sorta di consacrazione rituale, confortata dalla tradizione.

C'era, in sostanza, nell'aria una sorta di atmosfera di attesa, pregna di aspirazioni indistinte ma tutte orientate verso una forma di trascendenza, forse un po' ingenua nelle sue espressioni, ma comunque sincera nel suo significato più intimo92.

Niente di strano, quindi, che in un'atmosfera del genere, ad un militare che suscitava l'ammirazione e la simpatia popolare, potesse essere riconosciuta una ascendenza divina, con tutto quello che in termini di conseguenti onoranze divine ne derivava.

Quel che si dice del militare vale, ovviamente, per qualsiasi altro personaggio che riuscisse ad inserirsi nel clima dell'ammirazione popolare.

Ma il riferimento al militare viene istintivo pensando alla figura di Scipione, di quello Scipione che, se non altro a livello familiare, fu il capostipite di quel circolo degli Scipioni che fece nella Roma degli anni successivi il non facile ma pur necessario discorso della humanitas93.

Quale sia stato il contributo di Ennio sul piano generale del nuovo orientamento etico-religioso della spiritualità romana e sul piano particolare della celebrazione di Scipione, lo si comprenderà appieno quando avremo riflettuto che ad innalzare l'uomo al rango divino si può giungere solo se avremo abbassato la divinità al livello umano.

In altri termini, la credibilità di un processo di divinizzazione nasce soprattutto dalla dimostrazione che un analogo processo si è svolto in passato, per cui nulla e nessuno vietano che, in analoghe circostanze, col verificarsi delle stesse condizioni, il processo si ripeta, applicandosi, ovviamente, a nuove creature che così assurgevano a rango celeste94.

A questo punto è chiaro che quando parliamo di abbassare la divinità a livello umano, non siamo in un'atmosfera ateisticamente denegatrice, poiché si tratta soltanto di trovare il punto di partenza di questa parabola che s'è conclusa nelle sfere dell'Olimpo; si tratta soltanto di identificare l'origine di questa apoteosi, il cui vertice, si badi bene, si è ben lungi dal voler sminuire o negare nella sua altezza e nella sua importanza.

In questa particolarissima e contingente prospettiva romana che ci stiamo preoccupando di delineare, il trovare l'origine degli dei significa soltanto scoprire la strada che essi, per così dire, hanno compiuto per giungere al divino.

Ed è ovvio che il desiderio di conoscere questa strada non è né astratto né disinteressato.

Fu questo, dunque, il primo contributo di natura indiretta che Ennio diede alla celebrazione di Scipione, che, del resto, egli esaltò nei suoi versi in maniera che noi possiamo conoscere solo indirettamente.

È illuminante in proposito quanto a proposito di Ennio scriveva Silio Italico95:

Ennius, antiqua Messapi ab origine regis,
miscebat primas acies, Latiaque superbum
vitis adornabat dextram decus; hispida tellus
miserunt Calabri; Rudiae genuere vetustae;
nunc Rudiae solo memorabile nomen alumno.
Is prima in pugna — vates ut Thracius olim,
infestam bello quateret cani Cyzicus Argo,
spicula deposito Rhodopeia pectine torsit
spectandum sese non parva strage virorum
fecerat, et dextrae gliscebat caedibus ardor.
Advolat, aeternum sperans fore, pelleret Hostus
si tantam labem, ac perlibrat viribus hastam.
Risit nube sedens vani conamina coepti
et telum procul in ventos dimisit Apollo
ac super his: «Nimium, iuvenis, nimiumque superbi
sperata hausisti. Sacer hic ac magna sororum
Aonidum cura est et dignus Apolline vates.
Hic canet illustri primus bella Itala versus
attolletque duces caelo; resonare docebit
hic Latiis Helicona modis nec cedet honore
Ascraeo famave seni»96.

Della citazione di Silio Italico che abbiamo preferito riprodurre nella sua integrità, va sottolineato ai fini della particolare prospettiva di questo momento della nostra indagine il senso ovviamente estensivo dell'espressione «attollet duces caelo», dove si coglie da una parte il riferimento ai duces, che abbastanza facilmente ci riporta a quella figura di Scipione il Maggiore che ci è apparsa sin da principio in rapporto con le finalità sottintese dell'accostamento enniano ad Evemero, mentre dall'altra parte ci troviamo di fronte ad un'idea di divinizzazione attraverso l'esaltazione poetica che non ha bisogno di essere ulteriormente commentata nei suoi rapporti e nelle sue implicanze di fondo, ovviamente non in senso storico, con il contenuto essenziale dell'evemerismo.

Ma più specifico, diretto e sintomatico appare un altro richiamo alla celebrazione poetica dell'Africano da parte di Ennio, quello, cioè, che leggiamo in Lattanzio97:

Apud Ennium sic loquitur Africanus:
Si fas endo plagas coelestum ascendere cuiquam est,
Mi soli maxima porta patet . . .98.

Il frammento, comunemente considerato uno degli Epigrammata di Ennio, con la dichiarazione di una sorta di diritto acquisito all'immortalità, sotto forma di ingresso nelle piaghe dei celesti, posta sulla bocca dello stesso Scipione, finisce col costituire una indiretta conferma della connessione di fondo che ci è parso di poter cogliere tra il significato politico della elaborazione religiosa di Evemero e la rielaborazione e comunque trasmissione all'ambiente culturale romano che di essa Ennio volle fare.

Il romano dai tre cuori, nella prospettiva vibrante della sua interpretazione dell'evemerismo sentì, dunque, la portata che nella vicenda politico-religiosa della romanità poteva avere la diffusione di quella dottrina sia per la possibilità di creare le premesse per un discorso i religioso di più viva implicanza concettuale, sia per la possibilità di nuove aperture religiose immediate e magari anche contingenti, ma comunque non prive di significato, sotto forma di divinizzazione di duci e comandanti, nella prospettiva, cioè, in cui il poeta di Rudiae appariva collocato da Silio Italico, quando quest'ultimo scriveva: «attollet duces caelo».

Cap. VII. LATTANZIO E L'EVEMERISMO

Il rapporto fra la dottrina evemeristica e Lattanzio si colloca in una prospettiva particolare, che si può considerare delineata o almeno accennata già alla presenza quantitativamente rilevantissima delle citazioni enniane di contenuto evemeristico che si riscontrano nelle Divinae Institutiones di Lattanzio.

Non si dimentichi, in altre parole, che Lattanzio costituisce per noi la fonte più diretta e cospicua della conoscenza dello scritto col quale Ennio trasmise al territorio culturale della latinità la dottrina che Evemero aveva presentato alla cultura ellenistica.

Si è già notato come questa dottrina, per il suo carattere razionalizzante ma comunque dissacrante degli antichi miti e fatti religiosi, rappresentava di per sé una forte attrazione sulla mente e sulla cultura degli scrittori giudaici prima e cristiani poi, che ben s'accorgevano della portata distruttrice che quella dottrina aveva se sapientemente adoperata allo scopo di ricondurre ad una concreta e terrena realtà le divinità del pantheon olimpico tradizionale.

Ma nel caso di Lattanzio non possiamo non fare qualche considerazione particolare, che è poi lo scopo della nostra indagine, poiché ci troviamo di fronte ad una citazione che per la sua mole ed estensione complessiva finisce con l'essere documento e spia di un interesse che dobbiamo per lo meno cominciare a definire particolare.

Se, infatti, in Minucio Felice il riferimento alla dottrina evemeristica rimaneva nell'ambito di una limitata menzione, di un generico ed indiretto accenno allo scrittore e ai suoi seguaci; se in Tertulliano non si andava al di là di questo stesso limite; se in Firmico Materno l'evemerismo rimaneva sostanzialmente al fondo del suo ragionamento, ponendosi anzi in frequente alternativa con l'altra tecnica di spiegazione del patrimonio mitico-religioso, quella allegorizzante; se, in definitiva gli apporti dell'evemerismo agli scrittori cristiani non dirò non raggiungevano, ma neppure si accostavano all'apporto che in particolare esso fornisce, se non altro sul piano quantitativo, a Lattanzio, vorrà dire che deve esistere nella formazione e nel carattere dell'uomo e dello scrittore Lattanzio una componente di fondo che si svolge in forma di predisposizione al recepimento di questa impostazione mitico religiosa, o per lo meno che si realizza sotto l'aspetto di una sua nativa disponibilità alla cultura di stampo più genericamente classico che specificamente cristiano.

È stato detto che

«l'opera di Lattanzio ha scarso interesse nella storia del dogma, movendosi prevalentemente sul campo della teologia e dell'etica naturale; ove affiorano concetti specificamente cristiani, non si ha originalità di posizione né approfondimento speculativo»99.

Il che vuol dire che già si comincia a delineare una particolare angolazione sotto la quale va vista la coscienza religiosa di Lattanzio, che, dunque vive una religiosità naturale più che cristiana, in quanto la problematica cristiana non trova in lui il necessario approfondimento speculativo.

È stato anche detto che egli è un autore

«médiocre, au sense latin du mot, et un peu aussi au sense français»100.

Il che vuol dire che in lui la nota dell'equilibrio non raggiunge la tonalità superiore del materiato possesso del cristianesimo, ma rimane invece sul piano buonsensistico, come espressione di una prudenza che è più accortezza umana che amorosa saggezza cristiana.

Se aggiungeremo che il De Labriolle lo definiva «cosciencieux professeur»101, non saremo lontani dal comprendere il limite del suo possesso culturale, la visuale non deformata ma comunque non ampia e non approfondita nella quale rimane la sua coscienza culturale.

È logico, quindi, che nel porre le basi della polemica antipagana, nell'iniziare una rassegna delle manchevolezze della religione tradizionale, nell'avviare il discorso della falsità di quella religione, in contrapposizione con la intima e sostanziale verità di quella cristiana, egli soggiaccia più ampiamente degli altri scrittori della latinità cristiana alla tentazione di adoperare la dottrina evemeristica ai fini della propria trattazione e dimostrazione.

Egli non coglie la particolare collocazione di quello apporto culturale, che svolgeva in sostanza una funzione soltanto denegatrice dei valori religiosi, almeno nel senso che faceva venire a mancare quell'aggancio con la prospettiva extranaturale, se non pure soprannaturale, che costituiva la forza di coesione della religione tradizionale.

Ma c'è un'altra considerazione che ci permette di lumeggiare il senso che assume il rapporto Lattanzio-evemerismo. Ed è quella per la quale non è impossibile parlare per Lattanzio di una certa impronta eclettica, per cui confluiscono nella sua formazione umana oltre che culturale elementi di molteplice derivazione e significazione, che pur se non si compongono in sintesi di superiore unità, attingono comunque una certa organicità, nel crogiuolo della sua esposizione e rielaborazione della problematica cristiana. E l'accenno che abbiamo fatto ad un ipotizzabile eclettismo di Lattanzio induce, almeno a livello di risonanza, a ricordare l'eclettismo che fu considerata la nota dominante dell'attività di pensiero di uno scrittore della età classica della letteratura latina, di quel Cicerone al quale Lattanzio fu accostato, oltre tutto, anche attraverso una fortunata definizione letteraria. Mi riferisco all'appellativo di «Cicerone cristiano», che gli viene comunemente riferito e che si fa risalire a Pico della Mirandola, che per primo l'avrebbe così soprannominato102.

Già il De Labriolle notava che

«Le fait même qu'il ait pu être appelé le Cicéron chrétien, et qu'il ait presque égalé par la pureté de son style les maîtres classiques qu'il admirait, nous est une preuce qu'il s'est tenu dans les régions tempérées: une pensée plus forte et plus neuve aurait dérangé cetre belle harmonie classique» 103.

Se poi aggiungeremo che in sostanza l'istituzione del rapporto fra Cicerone e Lattanzio è, in realtà, di gran lunga anteriore a Pico della Mirandola, tanto che lo si può far risalire a Girolamo, che scriveva: «quos (libros) si legere volueris, dialogorum Ciceronis ἑπιτομήν reperies»104, risulterà ancora più chiaro che quella identificazione, col rapporto che almeno sul piano letterario essa presuppone, è molto di più di una elegante definizione, di un raffinato accostamento fra due scrittori lontani nel tempo e nel pensiero.

Anche se nessuno può revocare in dubbio il contenuto sostanzialmente corretto sul piano dogmatico del pensiero di Lattanzio, è lecito senz'altro sottolineare, almeno ai fini della nostra indagine, il carattere di vicinanza almeno metodologica, il rapporto di consonanza almeno nella tecnica delle scelte culturali che si può riscontrare fra il «Cicerone cristiano» e quell'autentico e originale, quello senza aggettivazioni, il Cicerone pagano.

E questa consonanza finisce con l'essere un elemento di ulteriore chiarificazione di fronte alla larga presenza della dottrina evemeristica, attraverso il tramite enniano, nello scritto di Lattanzio.

In altri termini, il rapporto con Cicerone costituisce una indiretta ed intuibile conferma della predisposizione eclettica di Lattanzio, dalla quale mi pare abbastanza illuminato anche l'ampio uso che egli ha ritenuto di fare dei frammenti espositivi del pensiero di Evemero, a lui noti attraverso Ennio.

Se di Lattanzio è stato scritto:

«Nella sua erudizione è vasto, nella polemica è molto destro ed accorto e nello esporre i suoi pensieri è di una chiarezza incomparabile»105,

non sarà difficile trarre almeno una conclusione, che quella erudizione vasta fu posta al servizio della polemica, nella quale egli appare veramente accorto proprio per l'uso ampio e saggio e tecnicamente proficuo del materiale informativo che gli veniva dalla sua conoscenza del patrimonio culturale del pensiero classico.

Sia ben chiaro, comunque, che quando si parla di un atteggiamento eclettico o, più genericamente e prudentemente, di una predisposizione all'eclettismo da parte di Lattanzio, non si deve giungere a credere che in lui si verifichi quella commistione spesso addirittura fortunosa di elementi eterocliti, che si verificava in Arnobio e, seppure su scala ed in proporzioni minori, in Minucio Felice.

Nel caso di quest'ultimo si trattava di accostamenti che derivavano soprattutto dal carattere di contrapposizione dialogica che l'opera aveva; erano le conseguenze di quel processo di esteriorizzazione ed oggettivazione della polemica pagano-cristiana che col suo scritto Minucio aveva voluto tentare. Per cui noi dobbiamo giudicare quegli accostamenti e quelle giustapposizioni di concetti ed affermazioni la cui difformità giunge talvolta al limite della contraddittorietà106, proprio alla luce e sulla scorta di questo carattere di contraddittorio che contrassegna lo scritto minuciano107.

Nel caso poi di Arnobio il fenomeno è ben più grave e diversamente valutabile, nelle sue cause e nei suoi sviluppi, poiché in lui le contraddizioni non rimangono al livello formale, in quanto finiscono con l'investire, e si sarebbe tentati di dire anche col travolgere, la sostanza dogmatica della realtà religiosa cristiana.

Del resto la posizione dottrinaria e la stessa collocazione spirituale di Arnobio possono considerarsi elegantemente definite da queste parole del De Labriolle:

«Quoi qu'il en soit, l'intérêt du cas d'Arnobe, ce sont les contradictions mêmes d'une pensée longuement façonnée par la lecture des oeuvres profanes, puis remodelée par une tardive crise religieuse, et qui, impuissant à ramener à l'unité ces influences contradictoires, a sereneiment juxtaposé dans le même ouvrage les affirmation plus hétéroclites» 108.

Se Lattanzio fu eclettico, in questo particolare e limitato significato che stiamo esponendo e precisando, lo fu anche perché la sua esistenza e quindi anche la sua conversione si svolsero nella prospettiva protettrice e talora illuminante della cultura pagana.

Del resto, anche la sua chiamata alla cattedra di Nicodemia, potrebbe rientrare in questo clima di paganesimo culturale, anzi di difesa culturale e retorica del paganesimo, in specie se si accetta l'opinione dell'Amatucci, secondo il quale

«la chiamata di un ciceroniano ad insegnar retorica a Nicomedia sul finire del III sec., si dové alle preoccupazioni imperiali dinanzi al fatto che in provincia specialmente oramai non si contavano più le persone anche colte che manifestamente professavano il cristianesimo e avevano grande autorità nelle varie chiese. A questo stato di cose Roma, non potendo oramai più reagire efficacemente per mezzo di sacerdoti, cercava di farlo avvalendosi dei maestri di retorica, i quali erano i veri formatori dell'anima dei giovani»109.

L'Amatucci, in altri termini, ritiene che, almeno nelle intenzioni dell'imperatore, l'andata di Lattanzio a Nicomedia, per assumere la cattedra di retorica, dovesse segnare un rilancio, se non altro sul piano culturale, della verità pagana.

Si comprende quindi l'incertezza sulla data di conversione di Lattanzio come la riflessione che in proposito fa il Rusca:

«Non conosciamo quando egli si sia avvicinato spiritualmente al Cristianesimo, se prima di giungere a Nicomedia (in Africa il Cristianesimo era assai diffuso) o nei primi tempi della sua permanenza colà. Lattanzio non doveva essere un Cristiano troppo dichiarato e scoperto quando Diocleziano gli affidò quell'incarico, sia pur in epoca anteriore alla violenta persecuzione contro i Cristiani che ebbe luogo nel 303»110.

Comunque lo stesso Amatucci concludeva che a Nicomedia Lattanzio,

«andatovi per insegnare abbia piuttosto appreso buona parte di quelle dottrine filosofiche delle quali si mostra più o meno precisamente informato, ma certo molto più largamente informato di Cipriano e meno confusamente di Arnobio. Che, se Lattanzio ci fa sapere che nella nuova sede frequentava i filosofi pagani dopo esser divenuto cristiano, mi pare si possa legittimamente supporre che abbia fatto ciò anche prima. Anzi io credo che la conversione di lui si dové soprattutto all'impressione fatta sul suo animo dalla sincerità dei sentimenti e dalla costanza di vita di coloro che professavano il cristianesimo, l'una e l'altra da lui paragonate con la ipocrisia, l'opportunismo, la ciurmeria di quelli che allora si dicevano filosofi, uomini inepti, vani, ridiculi. Questa conversione, avvenuta in un ambiente come quello di Nicomedia e in un'anima educata alla scuola di Arnobio, non poteva che condurre Lattanzio a scorgere nel cristianesimo soprattutto una nuova filosofia»111.

E possiamo aggiungere che se vedeva nel cristianesimo una nuova filosofia, questa sua convinzione lo portava automaticamente ed istintivamente a cercare il sostegno di questa sua nuova convinzione e scoperta filosofica in quel bagaglio intramontabile di concezioni filosofiche di varia estrazione e provenienza che la cultura pagana gli aveva trasmesso.

Niente di strano, quindi, che in questo complesso e multiforme bagaglio trovasse posto anche l'evemerismo, che il suo fascino ha esercitato su tanti scrittori cristiani per quelle ragioni intrinseche che abbiamo più volte sottolineato e che condussero Lattanzio ad interessarsi a tal punto alla problematica evemeristica, da diventare la più ampia e sicura fonte della nostra conoscenza dei riflessi che quella dottrina ebbe nella cultura latina, attraverso il tramite enniano.


Note

1. In verità non mancano altre indicazioni diverse, circa la città natale di Evemero, che viene identificata in Agrigento da CLEMENTE ALESSANDRINO, in PROTR., II, 24, 2. Ma il commento dello scoliasta al luogo citato di Clemente Alessandrino lascia intendere che era assai più diffusa la identificazione con Messene. Ateneo (XIV, 658, E) nomina Evemero attribuendogli come aggettivo di nazionalità ὁ Κῷος, ma nulla si può aggiungere a sostegno di questa attribuzione dei natali di Evemero a Coo, per cui essa rimane assolutamente isolata.

2. Cassandro fu re di Macedonia dal 316 al 297.

3. (3) DIODOR., Ap. EUSEB., Praep. ev. Il, 2, 55: Εὐήμερος μὲν οὖν, φίλος γεγονὼς Κασσάνδρου τοῦ βασιλέως καὶ διὰ τοῦτον ἠναγκασμένος τελεῖν βασιλικάς τινας χρείας καὶ μεγάλας ἀποδημίας.

4. JACOBY, in PAULY-WISSOWA, Real-encycl. VI, col. 952 segg.

5. HERTER, in PAULY-WISSOWA, Real-encycl. Suppl. 5, col. 426.

6. τὰς δὲ ξυνθήκας ἐν στήλῃ λιθίνῃ ἀναγράϕειν

7. In IOV., vv. 9-10:

‘Κρῆτες ἀεὶ ψεῦσται’: καὶ γὰρ τάφον, ὦ ἄνα, σεῖο
Κρῆτες ἐτεκτήναντο: σὺ δ᾽ οὐ θάνες, ἐσσὶ γὰρ αἰεί.

8. NÉMETHY, Euhemeri reliquiae, Budapest, 1889, p. 7.

9. Iamb., I, vv. 9-11:

ἐς τὸ πρὸ τείχευς ἱρὸν ἁλέες δεῦτε,
οὗ τὸν πάλαι Πάγχαιον ὁ πλάσας Ζᾶνα
γέρων λαλάζων ἄδικα βιβλία ψήχει.

10. LESKY, ALBIN, Storia della letteratura greca, Milano, 1962

11. PFEIFFER, Callimachus, Oxford, 1953, vol. II, pag. XXXIX.

12. VALLAURI, G., Evemero di Messene, Testimonianze e frammenti, Torino, 1956, pag. 5. In realtà alla fine degli Αἴτια, e precisamente nell'ultimo verso a noi noto, Callimaco si limita a dire che «andrà sul prato della Musa pedestre», il che potrebbe anche essere inteso nel senso che passerà alla prosa. Poiché, però, Orazio, parlando della sua poesia giambica, in Sat., II, 6, 17, nonché in Ep., II, 1, 251, la definisce Musa pedestris, si è ritenuto che analogo senso potesse darsi all'espressione callimachea, per cui il passaggio, l'evoluzione che qui Callimaco vorrebbe indicare sarebbe quella che lo condusse alla poesia giambica. Su questa ipotesi, abbastanza diffusa, ed alla quale fra i moderni si oppone il Lesky (op. cit., pag. 890), è costruita, naturalmente, la complessa ricostruzione cronologica che su si è esposta.

13. VALLAURIEvemero di Messene, Testimonianze e frammenti, Torino, 1956, pag. 5.

14. Op. cit., pag. 6.

15. Per quanto riguarda la precisa dizione del titolo, il problema verrà esaminato più àvanti. Per ora lo si indica nella forma su citata per comodità di trattazione.

16. Si tratta di uno scrittore nativo di Abdera, che visse ed operò nell'ambito della produzione pseudostorica all'epoca del primo re della dinastia dei Tolomei. Scrisse un'opera SUGLI EGIZIANI , a noi parzialmente pervenuta solo perché ampi estratti di essa compaiono in Diodoro. Con un'abile fusione di materiale storico-etnografico e materiale mitologico, tradizionale o addirittura inventato. Ecateo realizza l'esposizione di una utopia politica, localizzandola nell'antico Egitto, che così veniva ad essere identificato come la culla originaria della civiltà, in tutte le sue forme. Non è da escludere che la localizzazione della trattazione nell'ambito del territorio egiziano sia da considerarsi dovuta anche all'alone di mistero, leggenda, e religiosità misterica che aveva sempre circondato l'Egitto. Su un piano ancora più astratto, al di là dell'utopia e nel campo della divagazione che oggi diremmo fantascientifica, nel senso più negativo di questa parola, apparteneva l'altro scritto di Ecateo, intitolato SUGLI IPERBOREI. Gli furono poi attribuiti anche altri scritti, fra cui un libro SUGLI EBREI e uno SU ABRAMO. Ma l'attribuzione, del tutto insostenibile, deve considerarsi originata dal fatto che all'opera di Ecateo sugli Egiziani fu ricondotto l'excursus sugli Ebrei che si legge in Diodoro. La supposizione di uno specifico interesse di Ecateo per la problematica etnico-storica del popolo ebraico indusse ad attribuirgli la paternità degli altri due scritti che abbiamo ricordato.

Cap. II. LA DOTTRINA EVEMERISTICA

17. La nota caratteristica della produzione di Teopompo di Chio, che noi conosciamo però in forma molto frammentaria, fu la costante presenza di una inquietudine spirituale, che lo indusse ad un'azione culturale multiforme, svariata e non sempre intimamente coerente. A parte le numerose orazioni di carattere epidittico, ricordiamo un'EPITOME DI ERODOTO, dodici libri di ELLENICHE, con i quali continuava l'opera di Tucidide, fino alla, battaglia navale di Cnido, del 394, cinquantotto libri di FILIPPICHE, in cui narrava la vicenda storica di Filippo, centrandola intorno all'idea che l'ascesa al trono di Filippo avesse segnato l'inizio di una nuova era. Proprio in questa opera, precisamente nei libri VIII e IX, che furono pubblicati a parte, troviamo la descrizione di un paese favoloso Meropide, che ci avvicina alla descrizione di Evemero. In realtà però il nesso di fondo fra queste narrazioni di carattere utopistico è diverso da un puro e semplice rapporto di dipendenza imitativa. È stato giustamente osservato che

«gli stati ideali, o romanzi utopici, di cui esempi più significativi, accanto all'Ατλαντικός λόγος platonico, sono la MEROPIDE di Teopompo, la CITTÀ DEL SOLE di Ecateo d'Abdera e di Giambulo, vengono già anticipati nella vocazione utopistica alla base della idealizzazione dei popoli primitivi, che non risale certo al IV secolo. Già fin da Omero sarà facile rintracciare le vestigia sparse di questo motivo». (GIANNINI, A., Mito e utopia nella letteratura greca prima di Platone, Rendic. Ist. Lomb. Sc. Lett., 101, 1967, pag. 121).

Il che rende più chiaro il senso del rapporto di fondo, che si configura come la risposta a livello più o meno istintivo, ad una esigenza generica ed indistinta di evasione, anche se si tratta di una forma particolare di evasione che deve portare l'uomo non fuori ma verso la realtà.

18. CANTARELLA, R., La letteratura greca dell'età ellenistica e imperiale, Firenze, 1968, pag. 140.

Cap. III. LA FORTUNA DELL'EVEMERISMO

19. III, 25, 4.

20. Si trattava di un'antica città dell'Epiro, che sorgeva nella valle omonima. Ebbe notevole importanza sul piano politico e religioso, sia sotto i Pelasgi, sia, in seguito, sotto gli Elleni, Era la sede di un famoso oracolo di Zeus, consultato dai più famosi eroi della antica mitologia. Comunque la menzione più antica di quest'oracolo è quella che si legge in Omero, Odissea, XIV, 327, ma anche XIX, 296. In ogni caso sembra si possa dedurre che il culto di Giove a Dodona si fosse innestato sul culto di una divinità indigena precedente, in quanto gli si attribuisce come moglie, in quella sede, Dione e l'epiteto che lo caratterizza è quello di NAIOS.

21. Si legga il garbato racconto di Erodoto (II, 52-57):

Un tempo, a quanto son venuto a sapere, a Dodona si sacrificava invocando gli dèi in generale, senza designarli con un nome o un appellativo, perché non ne possedevano ancora. Li chiamavano «dèi» perché avevano stabilito l'ordine nell'universo e lo tenevano sotto il loro dominio distributivo. Poi, dopo molto tempo, appresero dall'Egitto i nomi delle divinità, meno quello di Diòniso, che impararono molto più tardi. Più tardi ancora mandarono a intèerrogare circa queste denominazioni l'oracolo di Dodona, che è ritenuto il più antico della Grecia e a quel tempo era anche l'unico oracolo esistente. Allorché dunque i Pelasgi chiesero a Dodona se dovessero adottare i nomi dei barbari, l'oracolo rispose di sì e da allora essi sacrificarono ai singoli dèi, chiamandoli col loro appellativo, e che i Greci impararono a fare altrettanto.

Ma quale fosse l'origine di ciascun dio o se esistessero ab aeterno e a quale fosse il loro aspetto, lo ignorarono fino a ieri, per così dire; ché, a mio parere, Esiodo ed Omero sono vissuti non più di quattrocento anni prima di me e sono stati precisamente loro a fissare per i Greci, nei loro poemi, una teologia e dare agli dèi i loro epiteti, distribuendo onori e attribuiti, nonché a descriverne l'aspetto. Quanto poi ai poeti, che hanno fama di più antichi di Esiodo e di Omero, sono vissuti dopo di loro. Delle cose che ho riferito più sopra, le prime sono affermazioni delle sacerdotesse di Dodona, le seconde invece, riguardanti Esiodo e Omero, sono prodotto di ragionamenti miei.

Circa poi gli oracoli, quello dei Greci e quello di Libia, ecco che cosa ne dicono gli Egiziani. I sacerdoti del Zeus Tebano mi raccontarono che due donne, addette al loro tempio, furono un tempo rapite da gente fenicia e una di esse, dicevano, fu portata in Libia, l'altra in Grecia: furono queste donne a istituire i primi oracoli presso i popoli testé nominati. Avendo poi io domandato donde avessero ricavato notizie così sicure, mi risposero che erano state fatte grandi ricerche di quelle donne, ma non si era riusciti a rintracciarle; solo più tardi erano venuti a sapere di loro ciò che mi avevano raccontato.

Questo dunque io seppi dai sacerdoti tebani: le profetesse di Dodona, invece, raccontano che due colombe nere si levarono da Tebe egizia e una scese in Libia,- l'altra da loro, a Dodona e, posatasi su una quercia, disse con voce umana che bisognava fondare in quel luogo un oracolo di Zeus: allora i Dodonei, persuasi di aver ricevuto un comando divino, lo eseguirono puntualmente. Le sacerdotesse aggiunsero che la colomba, che era volata presso i Libici, ordinò loro di istituire l'oracolo di Ammone, cioè di Zeus. Questo mi dissero le profetesse di Dodona, la più anziana delle quali si chiamava Promenia, la seconda Timarete e la più giovane Nicandra, e anche gli altri Dodonei del tempio mi confermarono le loro parole.

La mia opinione personale è questa: se veramente i Fenici rapirono le donne consacrate e le vendettero, l'una in Libia e l'altra in Grecia, mi pare che quest'ultima debba essere stata venduta nella regione chiamata allora Pelasgia — antico nome dell'Ellade — ai Tesprozi, e che più tardi, servendo come schiava presso di loro, abbia costruito sotto una quercia un sacrario di Zeus, e, come è naturale, essendo stata a suo tempo consacrata a Tebe, nel tempio del dio, si ricordasse dei luoghi donde era venuta. Imparata poi la lingua greca, istituì un oracolo: e fu lei a dire che la sorella era stata venduta in Libia da quegli stessi Fenici che avevano portato lei in Grecia.

A me poi sembra che quelle donne siano state chiamate colombe dai Dodonei, perché erano straniere e il loro linguaggio ricordava loro il cinguettio degli uccelli. Quanto al fatto che dopo un certo tempo la colomba di Dodona cominciò a Parlare con voce umana, si può spiegare così: che col passare del tempo la donna fu in grado di esprimersi in modo comprensibile per i Dodonei, mentre, finché aveva parlato una lingua straniera, era parso che garrisse come un uccello. Come avrebbe infatti potuto una colomba emettere voce umana? Quando poi dicono che quella colomba era nera, intendono indicare che si trattava di una donna egiziana. Anche il modo di rendere gli oracoli in Tebe egizia è simile a quello usato a Dodona, e dall'Egitto è pure derivata l'arte di divinare osservando le vittime sacrificate.

22. II, 45:

«I Greci raccontano molte leggende che non hanno nessun fondamento; ad esempio questa, che, quando Eracle giunse in Egitto, gli Egiziani lo incontrarono come una vittima e lo condussero con grande pompa all'altare per sacrificarlo a Zeus: ed egli dapprima li lasciò fare, ma quando già stavano per cominciare il sacrificio, ricorse alla forza e li uccise tutti. Quando raccontano queste favole, i Greci dimostrano di ignorare il carattere e i costumi degli Egiziani. Come avrebbe potuto questo popolo, cui la religione vieta di immolare persino le bestie, fatta eccezione per i porci, i buoi e i vitelli, purché non abbiano segni particolari, e per le oche, come avrebbe potuto questo popolo, cui la religione vieta di immolare persino da solo, e non ancora dio, per loro stessa ammissione, uccidere molte migliaia di persone? Possano gli dei e gli eroi proteggerci per quello che abbiamo detto» (Trad. A. Mattioli).

23. DE ISIDE ET OSIRIDE, 23, 360: μεγάλας μὲν τῷ ἀθέῳ λεῲ κλισιάδας ἀνοίγοντας [καὶ] ἐξανθρωπίζοντι τὰ θεῖα, λαμπρὰν δὲ τοῖς Εὐημέρου τοῦ Μεσσηνίου φενακισμοῖς παρρησίαν διδόντας, ὃς αὐτὸς ἀντίγραφα συνθεὶς ἀπίστου καὶ ἀνυπάρκτου μυθολογίας πᾶσαν ἀθεότητα κατασκεδάννυσι τῆς οἰκουμένης, τοὺς νομιζομένους θεοὺς πάντας ὁμαλῶς διαγράφων εἰς ὀνόματα στρατηγῶν καὶ ναυάρχων καὶ βασιλέων ὡς δὴ πάλαι γεγονότων ἐν δὲ Πάγχοντι γράμμασι χρυσοῖς ἀναγεγραμμένων, οἷς οὔτε βάρβαρος οὐδεὶς οὔθ᾿ Ἕλλην, ἀλλὰ μόνος Εὐήμερος, ὡς ἔοικε, πλεύσας εἰς τοὺς μηδαμόθι γῆς γεγονότας μηδ᾿ ὄντας Παγχώους καὶ Τριφύλλους ἐντετύχηκε.

24. MUELLER, Frag. hist. graec., II.

25. III, 56, 2-5; 70, 7-8.

26. SANCHUNATION - In Euseb., Praep. evang., I, 9.

27. Sapienza, capp. 13-14 (Trad. A. Penna).

28. È facile il richiamo al dato storico costituito dal fatto che il re Tolomeo III, essendogli morto un figlio, giovinetto, ne volle la divinizzazione.

29. ORAT., XII, 61.

30. DISS., II, 10.

Cap. IV. L'EVEMERISMO NELLA CULTURA LATINA

31. IV. INSTIT., I, 11, 14 e I, 11, 63. Il secondo si riscontra in I, 11, 63; I, 13, 2; I, 14, 1; I, 17, 9; I, 22, 21. Si potrebbe cominciare col notare che la prevalenza dell'uso della sola indicazione «sacra historia» (cinque casi contro i due dell'indicazione completa col nome dell'autore), indurrebbe ad avanzare l'ipotesi che l'espressione «sacra historia» fosse qualcosa di meno generico di una indicazione perifrastica del contenuto dell'opera, che fosse, in altre parole, un titolo.

32. JACOBY, Die fragmente der Griechischen Historiker, Berlin, 1923, pag. 309.

33. DIV. INSTIT., 14, 1.

34.

«Quelli che sostengono che tutti que' Dei che oggi ancora sono oggetto del nostro culto e delle nostre preghiere non furono altro che uomini coraggiosi, illustri, potenti, deificati dopo la morte. Fra questi c'è Euhemero, che il nostro Ennio ha copiato e seguito, il quale racconta persino ove gli Dei sono morti e dove si trovano le loro sepolture. Ti sembra, forse, che tutti costoro abbiano confermata la religione o non piuttosto l'abbiano estirpata fin dalle radici?» (Trad. Alberto Zuccoli, Milano, 1947).

Si badi, però, che la resa dei due verbi interpretatus et secutus è perlomeno approssimativa, come chiariremo in seguito.

35.

«Quanto a questi uomini deificati, oggetto ancora al dì d'oggi delle nostre più sante e auguste cerimonie, hai visto, o Balbo, come sia illusione l'opinione pubblica con la realtà». (Trad. Alberto Zuccoli, Milano, 1947).

36.

«Se io volessi prendere in considerazione le antiche tradizioni e intendessi tirar fuori da queste quelle affermazioni che gli scrittori della Grecia tramandarono, quelle stesse divinità che sono ritenute come divinità superiori, si troverebbero che sono giunte in cielo partendo da noi, dalla terra. Chiedi chi sono coloro dei quali si mostrano i sepolcri in Grecia; ricordati, dal momento che sei un iniziato, quali tradizioni si tramandano nei culti misterici: allora finalmente comprenderai quanto ciò sia chiaro».

Il riferimento agli «dei delle maggiori genti», detti anche Consentes, per distinguerli dagli dei minori, trova una certa analogia, probabilmente non fortuita, nella distinzione dei senatori in patres maiorum e minorum gentium. Comunque i Consentes erano 12: Iuno, Vesta, Minerva, Ceres, Diana, Venus, Mars, Mercurius, Iovis, Neptunus, Vulcanus, Apollo.

37. Il problema del significato da dare in senso cronologico a questa connessione concettuale, e talora più che concettuale, che si riscontra fra i due scrittori, problema che investe, in sostanza, la cronologia degli scritti determinando una questione di priorità fra l'Apologeticum e l'Ad Nationes di Tertulliano da una parte e l'Octavius di Minucio Felice dall'altra, esula dagli scopi e dai limiti della presente trattazione. Diremo soltanto che in questo specifico caso, l'analogia fra lo scritto di Tertulliano e quello di Minucio potrebbe legittimamente, anche se almeno apparentemente in modo facilistico, trovare la sua spiegazione nella esistenza di una fonte comune.

38.

«Parimenti i nostri antenati si sono sbagliati in ciò che concerne gli dei: malaccorti, creduloni, hanno prestato fede con una rozza faciloneria. Mentre onorano i re con una venerazione religiosa, mentre desiderano vederli anche dopo morti nelle immagini, mentre cercano di conservare la memoria mediante le statue, finiscono per considerare oggetti di culto quelle cose che erano state create per motivi consolatori. Infine, prima che il mondo si fosse aperto ai commerci e prima che le genti mescolassero i propri riti e costumi, ogni nazione venerava quale proprio fondatore o un illustre condottiero o una regina casta e coraggiosa più di quel che consenta il sesso o l'autore di qualche arte: li veneravano come cittadini di chiara fama e così ad un tempo davano un premio a dei morti e un esempio ai posteri». (Trad. Luigi Rusca, Milano, 1957).

39.

«Leggi gli scritti degli storici o quelli dei filosofi: sarai della mia opinione. Evemero passa in rassegna gli uomini che furono considerati dei in ricompensa del valore o delle loro prestazioni, e ne indica il giorno della nascita, dove sono nati, dove sepolti, li classifica per provincia: Giove Dicteo, Apollo Delfico, Iside Faria, Cerere Eleusina». (Trad. Luigi Rusca, Milano, 1957).

40. In eandem sententiam et Persaeus philosophatur.

41.

«Il famoso Alessandro Magno il macedone, in una nota lettera alla propria madre disse che il segreto concernente gli uomini-dei gli era stato rivelato da un sacerdote che temeva la sua potenza: in tale scritto si ritiene Vulcano come il primo di tutti e dopo di lui viene la stirpe di Giove». (Trad. Luigi Rusca, Milano, 1957).

42. Arnobio attribuisce ad Evemero una origine diversa da quella comunemente riconosciuta, facendolo nascere ad Agrigento. Comunque, per la questione della città natale di Evemero si veda anche la nota 1 a pag. 7.

43.

«Possiamo a questo proposito dimostrare che tutti costoro che voi cì presentate e chiamate dei, furono uomini, sull'autorità dell'agrigentino Evemero, i cui scritti Ennio, affinché fossero noti a tutti, tradusse in lingua italica, o Nicagora di Cipro, o Leone di Pella, o Teodoro di Cirene, o Ippone e Diagora di Melo, o mille altri autori, che con attenta cura svelarono delle cose che erano state nascoste con primitiva libertà».

44. DIVINAE INSTITUTIONES, I, 8/22.

45. DE ERRORE PROFANARUM RELIGIONUM, VI, 1/5

46. IULI FIRMICI MATERNI, DE ERRORE PROFANARUM RELIGIONUM, A cura di Agostino Pastorino, Firenze, 1969, pag. 74.

47. DE ERRORE PROFANARUM RELIGIONUM, VI, 1.

48. PASTORINO, A., op. cit., pag. 75.

49. INNO A GIOVE, V. 8 e segg.

50. TEOGONIA, 485.

51. FENOMENI, 33.

52. TIMONE, 6. Ma si veda anche GIOVE TRAGEDO, 45 e IL CONCILIO DEGLI DEI, 6.

53. DE NATURA DEORUM, III, 21, 53.

54. AD NATIONES, II, 17, 5. Ma si veda anche APOLOGETICUM, 25, 7.

55. Il fanciullo Libero era stato ucciso e fatto a brani dai Titani, satelliti di Giunone, gelosa di Giove che quel bambino aveva avuto da una relazione adulterina. Le membra del fanciullo sbranato furono cotte e mangiate dagli assassini. Ma la sorella del bambino, Minerva, conservò il cuore per svelare e provare il delitto, e nello stesso tempo per placare in qualche modo l'ira del padre. Questi, infatti, dopo aver sottoposto ad ogni sorta di tormenti i Titani, fece fare una statua di gesso che raffigurava il fanciullo e nella parte che rappresentava il petto pose il cuore conservatogli da Minerva.

56. GOOSEN, W., Les origines de l'eucharestie, Paris, 1926, pag. 306.

57. XX, 5.

58. DIVINAE INSTITUTIONES, I, 15. Ma si veda anche II,2

59.

«In fatti la leggerezza dei Greci ama chiamare con nomi divini coloro che con consigli, valore od altri li beneficano, dimostrando la loro gratitudine col chiamare o credere dei quelle benefiche persone». (Trad. G. Faggin).

60. GIULIO FIRMICO MATERNO, L'errore delle religioni profane, Prima versione italiana, con introduzione e note di Giuseppe Faggin, Lanciano, 1932, pag. 154.

61. FAGGIN, G., op. cit., pag. 154.

Cap. V. IL PROBLEMA DELLA FORMA DELL'OPERA ENNIANA

62. La rassegna appare in JACOBY, op. cit., col. 955.

63. Non si dimentichi, infatti che la fonte della nostra conoscenza del testo enniano va sempre identificata nelle Divinae Institutiones di Lattanzio.

64. Op. cit., pag. 19.

65. Op. cit., pag. 7.

66. II, 417.

67. III, 23.

68. MET., X, 307, 310.

69. DE RE RUSTICA, I, 48.

70.

«La barba e il grano sono quasi noti a tutti; ma la lolla è nota a pochi. Per quanto a me consta, so che soltanto ne fa menzione Ennio nei libri di Euhemero ch'egli ha tradotti». (Trad. Giangirolamo Pagani).

71. DE NATURA DEORUM, I, 42, 119.

72. Op. cit., pag. 7.

73. Si veda qui, al cap. IV, pag. 49 e segg.

74. AUGÚST., DE CIVITATE DEI, VI, 7.

75. L'esempio che seguiva era quello di Danae, con la interpretazione allegorica di questo episodio mitologico.

76. Per i due verbi interpretatus e secutus est si veda anche il su citato passo ciceroniano, De natura deorum, I 42, 119.

77. Op. cit., pag. 22 e segg.

78. PAULY-WISSOWA, Real-encycl., V, col. 2600 e segg.

79. ROSTAGNI, A., Storia della letteratura latina, Torino, 1964, vol. I, pag. 218.

80. NORDEN, E., Letteratura romana, Bari, 1958, pag. 34.

81. MARCHESI, C., Storia della letteratura latina, Milano, 1950. vol. I. pag. 87.

82. PARATORE, E., Storia della letteratura latina, Firenze, 1957, pag. 70.

83. PARATORE, E., op. cit., pag. 71.

84. LANA, I., Antologia della letteratura latina, Firenze, 1967, vol. I, pag. 238.

85. PERELLI, L., Storia della letteratura latina, Torino, 1969, pag. 54.

86. BIGNONE, E., Storia della letteratura latina, Firenze, 1942, vol. I, pag. 305.

87. BIGNONE, E.. op. cit.. pag. 305.

88. L'argomento che al Bignone appare come naturale, al limite dell'ovvio, per cui lo scritto di Ennio doveva essere in prosa per il semplice fatto che in prosa era l'originale greco filosofico che egli prendeva a tradurre o interpretare, non convince in realtà neanche il sottoscritto, che pure per altri motivi è più che convinto della forma prosastica dello scritto enniano. C'è un'obiezione, infatti, che si presenta abbastanza facilmente, quella che Lucrezio, che pur traduceva o comunque trasmetteva alla letteratura latina un originale filosofico greco in prosa, l'opera di Epicuro, non ha esitato a servirsi della forma poetica, anzi l'ha considerata un mezzo necessario per rendere più accettabile il difficile verbo epicureo al gusto e alla sensibilità del lettore romano.

89. BIGNONE, E., op. cit., pag. 305.

Cap. VI. SCIPIONE IL MAGGIORE E L'EVEMERISMO ENNIANO

90. Si veda in proposito W. WARD FOWLER, Roman ideas of Deity in the last century before the Christian Era, London, 1914, pag. 101.

91. Questo potrebbe spiegare anche il fatto che probabilmente egli lasciò fuori dall'indagine evemeristica le divinità tradizionali. In verità, comunque, lo stato frammentario della nostra conoscenza del testo enniano non ci permette di stabilire siffatta circostanza con definitiva e quindi proficua certezza.

92. Diversamente giudicava il DEL GRANDE, che in Hybris, Colpa e castigo nell'espressione poetica e letteraria degli scrittori della Grecia antica da Omero a Cleante, Napoli, 1947, pag. 416 scrive:

«Evemero poté aver presa sui ceti intellettuali, e sino ad un certo punto. I popoli continuarono ad avere fede nei vecchi dei e a pregarli come per il passato. L'insoddisfazione verso tutto il complesso di fede e culto, congiunta col bisogno di credere nel soprannaturale vigente e agente, fece rifluire masse umane verso le sette misteriche, mai così fiorenti e numerose come in età ellenistica, e qui magari la vecchia concezione hybrica si rinsaldò e rifiorì più piena».

In realtà si potrebbe anche pensare che evemerismo e culti misterici non siano fra di loro in alternativa antitetica, ma siano soltanto le due facce di una stessa medaglia, due modi di essere e di realizzarsi di una stessa indistinta ma diffusa insoddisfazione spirituale, quella insoddisfazione alla quale, in una certa prospettiva, fa riferimento del resto anche il Del Grande.

93. Per il rapporto fra il Circolo degli Scipioni e Scipione il Maggiore, si veda BROWN, R. M. A study of the Scipionic circle, Iowa, 1934, pag. 85. È stato anche osservato (VALLAURI, G., Origine e diffusione dell'everismo nel pensiero classico, Torino, 1960, pag. 20) che

«nei confronti dell'Africano Maggiore sembra maniarsi per la prima volta a Roma il culto della personalità, che aprirà lentamente la strada al culto imperiale».

94. Si veda, in proposito, EHRENBERG, V., Lo stato dei Greci, Firenze, 1967, pag. 239:

«Più volte si è mostrato come la venerazione religiosa di grandi personalità avesse il suo fondamento nell'evoluzione dello spirito greco in genere e, in particolare, nella natura antropomorfica della religiosità greca. A ragione si è fatto rilevare che la concezione di Evemero, la quale si diffuse press'a poco nello stesso periodo, costituì il perfetto riscontro al culto del sovrano: se gli dei non erano stati una volta che re potenti era naturale riconoscere come dei i potenti contemporanei. Per lo più il culto cittadino dei sovrani era una creazione spontanea delle comunità cittadine e in quanto divinizzazione locale di grandi uomini stava al limite tra il tributo d'onori e la venerazione religiosa. Spesso era espressione di gratitudine per una prestazione o un beneficio particolare, talvolta che re potenti era naturale riconoscere come dei i potenti mai pensare di spiegarlo come prodotto di una vera e propria esigenza religiosa».

Ma più avanti lo stesso Ehrenberg sente la necessità di aggiungere:

«Gratitudine e paura sono congiunte in questo riconoscimento dell'umana potenza e grandezza; questi sono però sentimenti naturali di fronte a qualunque divinità, e sarebbe temerario voler negare ogni carattere puramente religioso al culto dei sovrani».

95. PUNICHE, XII, 393-413.

96.

«Ennio, disceso per l'antica origine dal re Messapo, combatteva nelle prime file, la destra onorata della latina vite. Era venuto dalla rozza Calabria e nato nell'antica Rudi ora ricordata soltanto per suo figlio. Egli pari al tracio vate che quando le navi di Argo furono assalite da Cizico, deposta la lira, lanciava ferocemente rodopee frecce, meraviglioso a vedersi per l'indomabile ardire, faceva strage di nemici. Lo vide Osto e ad un tratto gli lanciò contro con gran forza un giavellotto che se avesse tolto quel flagello dal campo, gli avrebbe procacciato gloria immortale. Ma Apollo, assiso sulle nuvole, derise il vano sforzo e allontanando il giavellotto disse: «Hai troppo osato, o giovane speranzoso. Costui è sacro e protetto dalle Muse, poeta degno di Apollo. Egli canterà per primo le itale guerre e innalzerà al cielo i condottieri. Egli farà risuonare l'Elicona dei ritmi latini e non cederà in merito e fama al vecchio Ascreo». (Trad. Antonio Petrucci).

97. DIVINAE INSTITUTIONES, I, 18, 10.

98.

«Se a qualcuno è lecito salire ai regni dei Celesti, per me solo s'apre la porta più grande».

Cap. VII. LATTANZIO E L'EVEMERISMO

99. PELLEGRINO, M., Lattanzio, in Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano, 1951, vol. VII, col. 953.

100. PICHON, R., Lattance. Etude sur le mouvement philos. et religieux sous le règne de Constantin, Paris, 1901, pag. VIII.

101. DE LABRIOLLE, P., Histoire de la littérature latine chrétienne, Paris, 1947, vol. I, pag. 291.

102. Opera omnia, 1573, pag. 21.

103. DE LABRIOLLE, P., op. cit., pag. 291.

104. S. GIROLAMO, EPISTOLE, LVIII, 10.

105. FRANCESCHINI, P. G., Patrologia, Milano, 1919, pag. 206.

106. Si pensi soprattutto alla diversa opinione che Minucio manifesta sul conto dei filosofi, che in un passo (XX, 1) appaiono in una luce assai positiva, in quanto leggiamo:

«Exposui opiniones omnium ferme philosoforum, quibus inlustrior gloria est, Deum unum multis licet designasse nominibus, ut quivis arbitretur, aut nunc Christianos philosophos esse aut philosophos fuisse iam tunc Christianos»,

mentre in un altro passo (XXXVIII, 6) essi vengono gratificati di non positivi apprezzamenti:

«Philosophorum supercilia contemnimus, quos corruptores et adulteros novimus et tyrannos et semper adversus sua vitia facundos».

107. Il sottotitolo «Contraddittorio fra un pagano e un cristiano» appare, ad esempio, nella traduzione italiana di Luigi Rusca, Milano, 1957.

108. DE LABRIOLLE, P., op. cit., pag. 29.

109. AMATUCCI, A. G., Storia della letteratura latina cristiana, Torino, 1955², pag. 103.

110. LATTANZIO, Così morirono i persecutori, Trad. Luigi Rusca, Milano, 1957, pag. 7.

111. AMATUCCI, A. G., op. cit., pag. 103.



Ultima modifica 2019.06.01