Il materialismo economico di Carlo Marx

Paul Lafargue (1884)


Fonte: Il materialismo economico di Carlo Marx / Paolo Lafargue, Milano: Uffici della Critica Sociale, 1893, 45 p.; 20 cm.

Riprodotto per ragioni di studio (learning purposes) da: Leonardo Maria Battisti, dicembre 2019.


INDICE
    I. L'idealismo e il materialismo nella storia
    II. L'ambiente naturale: teoria darwiniana
    III. L'ambiente artificiale: teoria della lotta di classe

I. L'idealismo e il materialismo nella storia

Pei materialisti della scuola di Marx l'uomo è il prodotto di un doppio ambiente: l'ambiente cosmico o naturale e l'ambiente economico o artificiale. Lo chiamo artificiale, perché è il fatto dell'arte umana. Le istituzioni civili e politiche, le religioni, le filosofie e le letterature delle umane società hanno le loro radici nell'ambiente economico; è dal terreno economico che esse traggono gli elementi della loro grandezza come della loro decadenza; è nell'ambiente economico — e in esso soltanto — che il filosofo della storia deve rintracciare le cause prime delle evoluzioni e rivoluzioni sociali.

Io sottoporrò la grande teoria di Marx alla prova della storia, studiando due ambienti economici: l'ambiente feudale o del servaggio e l'ambiente capitalista o del salariato. Ma prima ancora di iniziare questi studi speciali, credo utile consacrare questo primo scritto a talune delle teorie idealiste che servirono a spiegare gli eventi della storia umana, e consacrarne un secondo a considerazioni generali sull'azione dell'ambiente naturale e dell'ambiente artificiale.

I.

In luogo di spiegare i fenomeni, onde il corpo umano e la natura esteriore sono teatro, coll'azione delle forze della materia, a tutta prima gli uomini — ed era infatti più semplice — ricorsero all'intervento di esseri non esistenti realmente che nella loro fantasia. Per tal modo la difficoltà veniva allontanata piuttosto che risolta; si può anzi dire che per tal modo si creava una difficoltà nuova. Infatti l'uno dei còmpiti della mente umana fu poi di distruggere, l'una dopo l'altra, le varie religioni e filosofie che, in un dato momento, avevano servito all'uomo per spiegarsi l'universo. Distruggere per ricostruire, disassimilare per assimilare, è questa la condizione essenziale della vita, tanto sociale quanto individuale.

Le vicende della vita individuale (nascita, pubertà, rapporti sessuali, malattie, morte) stavano sotto il controllo di esseri imaginarii; la religione cattolica, che ha poco inventato e poco distrutto, ma che fu abilissima nel rubare, trasformò gli dei pagani in cerimonie religiose (i sacramenti del battesimo, della comunione, dell'estrema unzione). Diversi iddii avevano l'incarico di guidare il sole, di scatenare la tempesta, di lanciare la folgore; le religioni monoteiste accentrarono in un iddio solo cotesti molteplici attributi.

Ma l'uomo doveva eziandio spiegarsi i fenomeni sociali, che lo colpivano ancor più terribilmente dei naturali. Egli vi impiegò lo stesso procedimento. Erano ancora degli dèi, che avevano cacciato l'uomo dal paradiso terrestre e l'avevano condannato alla fatica e al dolore; la grandezza e la decadenza degli imperi erano regolate dalla divina Provvidenza.

Per dare un esempio del modo di spiegare la concatenazione dei fatti, ch'è proprio a chi ricorre all'intervento d'un personaggio imaginario, citerò il Discorso sulla Storia universale del Bossuet, una delle sintesi più notevoli della storia del mondo. Pel Bossuet, come per gli idealisti di tutti gli spiritualismi, non sono già le necessità materiali dell'esistenza, non sono i bisogni, gli interessi e le passioni, che muovono gli uomini ed i popoli; in loro vece è un dio che li sprona e che li guida, per vie note a lui solo, a una meta che rimane loro sconosciuta.

Il Dio, creato da Bossuet, si serve

«degli Assiri e dei Babilonesi per punire il popolo ebreo; dei Persi per ristabilirlo; di Alessandro e dei suoi primi successori per proteggerlo; dell'illustre Antioco e de' suoi successori per esercitarlo; dei Romani per sostenerne la libertà.... Gli Ebrei durarono fino a Cristo sotto la potenza dei Romani. Quando lo disconobbero e lo crocifissero, gli stessi Romani prestarono, senza saperlo, il proprio braccio alla vendetta divina e sterminarono quel popolo ingrato. Iddio, che aveva risolto di riunire nel tempo medesimo il popolo novello di ogni nazione, cominciò col riunire sotto quel medesimo impero le terre ed i mari. Il commercio di tanti diversi popoli, prima reciprocamente stranieri, e quindi riuniti sotto la dominazione romana, fu uno dei mezzi più potenti onde si valse la Provvidenza per dare corso al Vangelo.»

Vico, nella sua Scienza nuova, osserva con molta finezza come i Greci, temendo di inimicarsi gli dèi pel fatto che i costumi di questi eran contrarii ai loro, non trovarono niente di più semplice che dare agli dei le loro proprie abitudini, che non erano davvero l'ideale della decenza.

Anche Bossuet aveva un salutare timore del suo Dio, che rovesciava gli imperi con tanta facilità; per ingraziarselo, gli prestò i sentimenti servili dai quali egli stesso era animato.

«Non mi périto ad assicurarvi — egli dice al suo reale alunno — che, fra tutti i re, sono i vostri antenati quelli a cui più chiaramente alludono le illustre profezie della Bibbia.»1

Parimenti, era stato per stabilire i papi a Roma e per glorificare Luigi XIV che Dio aveva seminato la terra di rovine e colpito di tanti dolori il genere umano. Tale la conclusione di una delle più belle concezioni religiose della storia.

* * *

Servendomi del metodo di Bossuet, che è poi il metodo degli idealisti, non durerei fatica a dimostrarvi che Iddio non compi le formidabili rivoluzioni degli imperi che per onorare l'adulterio e favorire i mezzani delle proprie consorti.

Infatti, qual uomo sceglie Iddio fra tutti i nati della terra perché diventi il padre del suo popolo diletto, perché inizii la serie gloriosa di re, che sarà illustrata da Davide e da Salomone, e sarà chiusa da Gesù Cristo, il figliuolo di Dio? — Egli sceglie Abramo, un mezzano della propria moglie. Ecco ciò che narrano in proposito quelle Sacre Scritture, la cui diffusione fu uno dei grandi fini della divina Provvidenza.

La carestia avendo invaso il paese che Abramo abitava, egli scese in Egitto; prima di porsi in viaggio, cosa parlò a Sara, sua moglie (citerò testualmente, poiché questo brano vale un «documento umano» della scuola di Zola):

«13. — Di', ti prego, che tu sei mia sorella, affinché io sia ben trattato a cagion tua e la mia vita sia, grazie a te, preservata.

«14. — E allora avvenne che, non appena fu Abramo giunto in Egitto, gli Egizii si avvidero che la moglie sua era bellissima.

«15. — Gli ottimati della corte di Faraone anch'essi la videro e la lodarono in presenza di lui; essa fu involata per essere condotta in casa di Faraone.

«16. — Il quale, in grazia di lei, beneficò Abramo; questi ebbe pecore, bovi, asini, servi e fantesche, asine e camelli.»2

Il santo patriarca trovò tanto piacevole questo metodo di acquistare asini e schiavi d'ambo i sessi, che non fu alieno dalle recidive. Quando andò ad abitare Gerar, fra Cades e Sur, egli disse di Sara, sua moglie: «è mia sorella»; e Abimelecco, re di Gerar, «mandò a prendere Sara».

«E Abimelecco prese delle pecore, dei buoi, dei servi, delle fantesche e ili donò ad Abramo, e gli rese Sara, moglie sua.

«E disse a Sara: «Ecco, io diedi al fratel tuo mille monete d'argento.»3

Non crediate che la storia degli altri popoli non contenga testimonianze altrettanto certe e irrefutabili della volontà divina. Al contrario, Dio volle che i grandi urti dei popoli tra loro fossero provocati da avventure nuziali. L'antagonismo della Grecia e dell'Asia, che principiò colle guerre di Troja e si prolungò fino alla conquista dell'Asia per opera di Alessandro, ebbe origine dall'avventura galante della bella Elena col pastorello Paride e finì quando il guerriero macedone rapi a Dario le numerose sue spose.

I Romani, cui Dio dette l'impero del mondo, non divennero il suo popolo favorito se non dopo che ebbero rapito le Sabine ai rispettivi mariti. Allorché, inebbriati dai loro successi, lasciavano cadere in desuetudine le antiche costumanze, Iddio, per rigenerare il suo popolo corrotto, suscitò ed elevò alla dignità di censore Catone, l'austero Catone, nel quale dovevano rifiorire le virtù di Abramo e che prestava la sua donna al retore Ortensio per poca moneta.

Nel medio evo i signori feudali, che usavano ed abusavano del diritto della prima notte, erano, per grazia divina, i primogeniti della nazione: ai dì nostri, i borghesi che, non contenti di usare di quell'istesso diritto sulle serve dei loro opifici, le costringono anche a completare i loro insufficienti salarii industriali coi tristi salarii della prostituzione, sono gli eletti di Dio; è su di essi ch'egli rovescia la pioggia d'oro de' suoi favori; i volgari ruffiani del trivio, che si limitano a sfruttare due o tre sciagurate, Dio li colloca nella polizia e dà loro da spezzare le teste dei socialisti — di questi empii che negano Iddio e la sua divina Provvidenza....

I sopracciò e gli uomini gravi giudicheranno un po' pazzesca e fantastica questa storia universale concludente alla glorificazione dell'adulterio e del ruffianesimo. Tuttavia, se essa è meno servile di quella di Bossuet, essa non è meno logica; disegnandola a grandi linee, io volevo mostrare il grottesco della filosofia storica degli idealisti, sia che essi invochino un Dio unico, sia che invochino le idee eterne di Giustizia, Libertà, Fratellanza, ecc.

II.

Dio fu cacciato ignominiosamente dalla natura; le funzioni che un tempo gli si attribuivano vennero riconosciute proprietà della materia; dal secolo decimottavo in poi si tenta invano di cacciarlo anche dalla storia.

Là dove era passata la spietata critica degli Enciclopedisti, l'ingenuo Iddio d'Israello aveva fatto il suo tempo; nella tormenta rivoluzionaria esso fu abolito per decreto come una semplice guardia campestre. Ma perché il popolo accettasse con pazienza le grevi miserie che dovevano essergli addossate, i filosofi, i pensatori, gli economisti e i politici della borghesia si posero all'opera e fabbricarono nuovi dèi. Il Dio dei cattolici fu surrogato dai semidei della mitologia borghese, dal dio Progresso, dalle dee Libertà, Fratellanza, Patria, Giustizia, ecc. Decorarono questi nuovi dèi colle qualità del dio detronizzato; questi dèi sono immortali e hanno missione di condurre l'umanità nelle vie dell'avvenire; e, a far completa l'illusione, i filosofi li fecero antropomorfi, li rivestirono, come Gesù e come Giove, di forma umana.

Ma questi dèi dell'Olimpo borghese sono privi di grandezza e di poesia; più ridicoli ancora delle divinità mitologiche pagane e cristiane. Il loro carattere illogico e contraddittorio salta agli occhi.

I preti laici della borghesia (filosofi, economisti, moralisti e politici) giurano sui loro propri errori, sulle loro menzogne e sulla loro ciarlataneria, che il dio Progresso presiede allo sviluppo e al perfezionamento della specie umana, e che l'azione del dio Progresso si rivela con la maggiore energia nelle nazioni che godono della civiltà capitalista. E intanto, ovunque il dio Progresso regna, si constata la più miserevole degenerazione della specie umana.

Questa opinione non è di qualche socialista brontolone e rivoluzionario, ma di uno dei maggiori sapienti del periodo borghese, il chimico J. V. Liebig.

«In tutti i paesi d'Europa dove regna la coscrizione, dopochè questa fu introdotta, la statura media degli uomini adulti s'è rimpicciolita ed essi divennero meno idonei al servizio militare. Prima della rivoluzione del 1789, la statura minima del soldato di linea in Francia era di 165 centimetri; nel 1818 (legge 10 marzo) di 157; finalmente, dalla legge 21 marzo 1832, fu ridotta a 156. Oltre la metà degli uomini sono generalmente dichiarati inidonei al servizio per difetto di statura e vizi di costituzione. — In Sassonia, nel 1780, la statura militare era di 178 centimetri; oggi è di 155. — Secondo i dati forniti dal dott. Meyer nella Gazzetta di Baviera del 9 maggio 1862, risulta da una media di sette anni che in Prussia, su 1000 coscritti, sono inadatti al servizio 717, dei quali 318 per insufficienza di statura e 399 per difetto di costituzione. — Nel 1858 Berlino non potè fornire il suo contingente per la riserva; mancavano 156 uomini.»4

Questa opinione sulla degenerazione della specie umana nei paesi inciviliti non è isolata. Carlo Darwin scrive:

«Il dott. Bedde dimostrò di recente che, per gli abitanti della Gran Bretagna, il risiedere nelle città e certe occupazioni esercitano una influenza sul rimpicciolimento della statura; che questo rimpicciolimento ereditario; e che lo stesso fenomeno si riproduce agli Stati Uniti. Il dottor Bedde crede inoltre che una razza non raggiunge il suo più alto grado di energia morale se non quando tocca il suo massimo di sviluppo fisico.»5

Il dio Progresso guida i popoli di civiltà capitalista alla degenerazione fisica e alla degradazione morale.

I borghesi repubblicani ardono d'un amore così cocente per le tre dee, Libertà, Eguaglianza, Fratellanza, che vanno a scrivere i loro sacri nomi persino sulle carceri; dimostrano così che nella società capitalista vi è altrettanta libertà, eguaglianza e fratellanza, fuori quanto dentro le prigioni. La società attuale è un immenso ergastolo; senza distinzione di età nè di sesso, la gran massa della nazione è rinchiusa in opifici e condannata a un duro lavoro quotidiano di dieci o dodici ore per non ricevere che un salario da fame*1. Al tempo in cui il Dio cattolico regnava e la Trinità repubblicana non era per anco concepita e messa al mondo, prima del 1789, gli operai godevano tutta la loro libertà le domeniche e i giorni festivi (questi ultimi in numero di 38); erano dunque liberi dal lavoro novanta giorni all'anno, ossia un giorno ogni quattro giorni e mezzo. Dacché le tre dee borghesi soppiantarono i santi del calendario, padroni liberi-pensatori e cattolici abolirono i giorni festivi, infliggono il lavoro domenicale e nutrono ancor peggio, loro operai; infatti la statura diminuisce6.

La dea Patria ha i gusti depravati della prostituta. Essa non apre le sue braccia e non concede i suoi favori se non a coloro che la battono, la derubano e la tradiscono. I Gambettisti — questi grandi patrioti della politica — misera la croce della Legione così detta d'onore sul petto di Bleichröder, consigliere di finanza del Bismarck, quel degno figliuolo di Abramo che, quando discutevasi l'indennità di guerra, diceva allo spietato vincitore: «Andate là con coraggio, domandate alla Francia dieci miliardi, essa sarà ben felice di cavarsela a questo prezzo.» — Sono patrioti della finanza che esportarono i risparmi della Francia e li consacrarono all'armamento militare e industriale delle nazioni rivali. — Sono i patrioti dell'industria che fanno venire di Germania, dal Belgio, dall'Austria la materia prima lavorata per rovinare la mano d'opera nazionale. — Sono i patrioti dell'Accademia di scienze morali e politiche e della Società degli Economisti che discutono sui mezzi d'introdurre in Francia coolies della China per affamare con maggiori riduzioni di salari i loro compatrioti francesi.

La dea Giustizia autorizza e sanziona furti, che padroni commettono sulla classe salariata, sotto nome di profitti, interessi, rendite.

Senonchè, l'ideologia borghese che, come in altri tempi Gesù e la Vergine Maria, servì e serve ancora a ingannare il buon popolo, comincia ad aver fatto anch'essa il suo tempo. Il materialismo economico di Marx le darà il colpo di grazia.

* * *

«Ma — diranno gli economisti — le leggi naturali dell'economia politica non sono già idee pure, ma leggi positive, scoporte coll'osservazione e controllate dall'esperienza quotidiana. Queste leggi sono eterne ed immobili e i socialisti, prima di intaccarle, vi logoreranno tutti i loro denti, come il serpente sulla lima.»

È in questa credenza nell'immortalità di coteste leggi naturali che drappeggiano i Leroy-Beaulieu e i Courcelle Seneuil per contemplare le miserie popolari colla placidità di un vivisettore che mette a nudo gli organi di un ranocchio. È questa credenza religiosa che, qualche anno fa, faceva dire al Courcelle-Seneuil nell'Accademia di scienze morali e politiche:

«Sia pur vero che, coll'organizzazione attuale, il povero tenda a diventare più povero, il ricco più ricco; che prova questo, dal punto di vita scientifico, assoluto, universale? Nulla.»

A udire i signori economisti, i lavoratori debbono, senza mormorare, accettare i loro guai e basire, accanto alle ricchezze che essi furono soli a creare, e ciò giusta le leggi naturali dell'economia politica.

Esaminiamo se queste leggi naturali sono così eterne ed immobili come gli economisti pretendono.

Una delle leggi più eterne ed immobili della economia politica è la concorrenza, la causa di ogni progresso, di ogni sviluppo sociale. Ma la concorrenza si distrugge da sé stessa; perché un'industria non si sviluppa che accentrandosi; i grandi organismi della produzione moderna, le miniere, i filatoi, le fabbriche, le strade ferrate, gli istituti di credito, ecc., sono de' giganteschi monopolii, che non poterono costituirsi se non sopprimendo a grado a grado la concorrenza di migliaia di produttori.

Talune industrie, la coniazione delle monete, il trasporto delle lettere, per esempio, sono sottratte alla concorrenza borghese e monopolizzate dallo Stato. — Perché i Leroy-Beaulieu non domandano che le lettere e la moneta siano abbandonate ai rischi e alla frodi della concorrenza? Non per altro, se non perché i capitalisti sono troppo interessati nella questione. La fede degli economisti nella immutabilità delle loro leggi naturali è una fede che sa adattarsi; essa consente loro di reclamare, senza vergogna, l'intervento dello Stato, per sopprimere ogni concorrenza, ogniqualvolta vi è di mezzo un interesse borghese da salvaguardare.

Un'altra dello più immutabili o più eterne leggi dell'economia politica è quella dell'offerta e della domanda. È essa che fissa i prezzi delle merci, e gran numero di economisti pretendono che sia ancor essa che crea il loro valore; è insomma la legge che fa marciare il mondo. Tuttavia vi furono società fiorenti ove questa legge non esisteva. Ad esempio, nel medio evo, il prezzo delle merci non era fissato dalle leggi dell'offerta e della domanda, ma dai sindaci delle corporazioni. (È bensì vero che pei signori economisti il medio evo è un'epoca a rovescio del senso comune).

Ma forse che nella stessa nostra società capitalista l'azione della legge dell'offerta e della domanda non è sospesa dal fatto delle incette? Non è molto, degli speculatori erano riesciti ad accaparrare tutto il petrolio in Francia; erano essi, non la legge dell'offerta e della domanda, che ne regolavano i prezzi. La casa Rothschild, che possiede le più importanti cave di mercurio che siano in attività, regola essa come le conviene il prezzo di questo metallo. Il prezzo del trasporto delle lettere è forse regolato dall'offerta e dalla domanda?

Che in seguito a una rivoluzione la classe operaia s'impadronisca del potere politico e nazionalizzi gli strumenti di produzione (macchine, miniere, terre, ecc.), e immediatamente la legge dell'offerta e della domanda cesserà di esistere; poichè i prodotti non saranno più distribuiti secondo i mezzi d'acquisto del richiedente, ma secondo i bisogni e secondo l'abbondanza dei prodotti.

Pretendere che le leggi dell'economia politica siano immutabili ed eterne, come le leggi dell'astronomia, è pretendere che le evoluzioni degli ambienti economici, onde esse non sono che la risultante, siano altrettanto lente ed insensibili quanto le evoluzioni del mondo sidereo; è esprimere un'opinione tanto ridicola, quanto quella di chi sostenesse immobile ed eterna la forma dei nostri panciotti e dei nostri pantaloni.

Le leggi dell'economia politica, come la forma dei nostri vestiti, variano in ragione del trasformarsi dei modi di produzione e di scambio.

* * *

V'è un'altra teoria che pretende spiegare i fenomeni storici. Questa ebbe il suffragio di antropologi e di dotti economisti, ed è la teoria delle razze; secondo la quale una data razza, dotata di qualità speciali, sarebbe destinata ad invadere la terra e soppiantare gli altri popoli.

Disgraziatamente, gli inventori della teoria non riescirono ancora ad intendersi sulla scelta della razza eletta; ogni teorico crede di vedere nella propria la razza predestinata. Così, a volta a volta, è la razza slava, la germanica, la latina, la mongola, che vien proclamata la razza superiore.

Ma la teoria delle razze, che tende a sostituire l'idea di Patria, divenuta troppo angusta, non è che del vecchiume rabberciato; è la teoria biblica, spogliata della sua ingenua poesia. Così, partiti dal principio della creazione ad opera di un dio, gli storici e i pensatori della borghesia tornarono insensibilmente, colla loro ultima teoria delle razze, al punto di partenza; perchè, chi mai avrebbe dotato la razza superiore delle qualità che le assicurano la prevalenza, se non un dio collocato fuori e sopra l'umanità?

La filosofia della storia s'è aggirata in un circolo vizioso, senza mai poterne uscire.

Se gli storici furono impotenti a scoprire le leggi che presiedono all'evoluzione della società, ciò fu perché camminavano colla testa nella nebbia fumosa delle fantasticherie idealiste; essi sdegnavano di studiare le condizioni materiali dell'esistenza degli uomini e delle società; ignoravano le passioni, i bisogni e gli interessi ch'esse generano; consideravano l'uomo come librantesi al disopra delle circostanze materiali, e avente in sè stesso o in iddii soprannaturali le cause delle proprie azioni. Per Hegel, l'ultimo dei grandi metafisici, era l'Idea che, contrapponendosi a sè stessa e facendo il capitombolo, si svolgeva e generava, svolgendosi, i fenomeni della natura e della società.

Se anche gli economisti, che dovean pure occuparsi di coteste condizioni materiali, furono colpiti della stessa impotenza, si fu perché studiavano il mondo economico al modo stesso degli idealisti. Per essi i fenomeni economici e lo leggi di questi fenomeni erano eterne ed immobili; essi temevano di ricercare l'azione dei fenomeni economici sulla massa umana e la reazione della massa umana sullo svolgersi di quei fenomeni; credevano o fingevano di credere che, come l'uomo non può influire sul corso dei pianeti, così del pari non possa esercitare alcuna azione sul corso dei fenomeni economici.

I fenomeni e le forze economiche non sono immobili; essi seguono un cammino evolutivo e, per essere di creazione umana, le loro trasformazioni sono più rapide di quelle degli altri fenomeni della natura; e l'uomo non cesserà di essere il loro zimbello se non quando avrà compreso la loro direzione, la loro azione e i loro effetti; allora potrà controllarle e farle servire ai propri bisogni. L'uomo domò la natura; l'elettricità distruttiva della folgore diventò la nostra fantesca; essa trasmette il moto al pensiero, illumina le nostre notti e quandochessia ci cuocerà il desinare.

La produzione meccanica, che centuplicò la potenza produttiva dell'uomo, che fu madre feconda delle ricchezze del capitalismo, non seppe essere sinora che il flagello delle classi produttrici. Mai, in nessuna civiltà, la sorte dei lavoratori non fu altrettanto misera ed incerta; mai il sopralavoro dell'uomo, della donna e del fanciullo, che nei tempi andati rimanevano presso il focolare domestico, non fu così lungo e spossante; — eppure la macchina abbrevia il lavoro umano, essa è un cansa-lavoro, come dicono gl'inglesi (labor saving machine). I signori economisti dicono agli operai:

«Curvate il capo, accettate docilmente il vostro destino; perché, come predicò Gesù, vi saranno sempre poveri sulla terra, quand'anche essa rigurgitasse di ricchezze.»

Gli economisti concludono al fatalismo che abbrutisce degli spiritualisti — al fatalismo della rassegnazione supina.

Il materialismo economico di Marx scuote dall'uomo il torpore del fatalismo spiritualista. Esso grida al lavoratore:

«Rialzati, studia le forze economiche che ti schiacciano; esse uscirono dalle mani dell'uomo, così come gli dèi dal suo cervello; tu puoi controllarle; se tu lo vuoi, la macchina, questo strumento di tortura, diverrà l'iddio redentore che libererà l'uomo dal lavoro penoso e gli darà ozio a godere dei piaceri del corpo e dello spirito.»

Il materialismo economico chiama i proletariati delle nazioni civili alla rivolta; esso insegna loro che non si emanciperanno se non dopo che avranno infranto lo stampo economico della società capitalista. Le società umane non si sviluppano che facendo scoppiare gli stampi economici divenuti troppo stretti per contenerle. Lo spirito umano non progredisce che calpestando le religioni e le filosofie che già lo cullarono e le quali, dopo avergli servito di guida, si trasformano in mezzi di reazione e di compressione.

* * *

Dacché l'umanità è uscita dallo stampo comunista — questa prima culla delle società umane — queste ingrandirono in tre ambienti economici caratterizzati dal rispettivo modo di produzione: schiavitù, servitù, salariato.

Il modo di produzione di questi ambienti economici creò interessi opposti fra gli uomini e li divise in classi antagoniste; la storia delle società umane non è che la storia della lotta delle classi che le costituiscono. Così dunque, come lo espresse con tanta chiarezza F. Engels:

«La struttura di una data società, forma sempre la base reale che dobbiamo studiare per intendere tutta la super-struttura delle istituzioni politiche e giuridiche, non meno che delle teorie religiose o filosofiche, che le son proprie. Per tal modo l'idealismo è cacciato dalla scienza della storia; la base d'una scienza storica materialista è posta. — La via è dischiusa che ci condurrà a spiegarci il modo di pensare degli uomini di una data epoca per mezzo del loro modo di vivere, scambio di voler spiegare — come si era fatto sino allora — il loro modo di vivere coi loro modo di pensare.»7

Quando avvenne la memorabile discussione sulla unità di composizione, che l'Europa scientifica, Geoffroy-Saint-Hilatre diceva al suo illustre avversario Cuvier, che attribuiva ad un dio la creazione delle specie:

«La vostra scienza naturale non è che una collezione di fatti; a che servono questi materiali se non li si utilizza, se non se ne costituisce un edificio?»

E non poteva essere altrimenti fin che le cause dei fenomeni naturali si cercavano fuori della natura. Fu solo quando Darwin risuscitò la grande teoria di Lamark e di Saint-Hilaire e la rese irrefutabile mercé un ammasso formidabile di fatti e di scoperte geniali, fu solo allora che l'idealismo fu cacciato dalla storia naturale e che la scienza naturale diventò una «scienza generale e filosofica» come Saint-Hilaire aveva predetto. La sua filosofia rovescia tutte le metafisiche.

Marx ha importato la teoria degli ambienti nella storia umana. — Ma non è da credere che il materialismo economico di Marx e d'Engels sia uno di quei volgari adattamenti delle teorie naturaliste alle scienze sociali, onde in questi ultimi tempi furono tanto prodighi i darwiniani d'Inghiterra, di Germania e di Francia. No, Carlo Marx è cronologicamente il primo. Quando la teoria degli ambienti dormiva quel greve sonno che cominciò nel 1832, Marx formulava la sua teoria della lotta delle classi nella sua Miseria della filosofia, pubblicata in francese nel 1847; l'anno seguente, Marx e Engels esponevano, nel Manifesto Comunista, la teoria delle trasformazioni sociali imposte dalle trasformazioni dell'ambiente economico.

Il materialismo economico di Marx ucciderà l'idealismo storico e il suo fatalismo che abbrutisce; creerà la filosofia della storia e preparerà le teste pensanti del proletariato alla rivoluzione economica, che schiuderà le porte di un mondo novello — il mondo del lavoro libero.

II. L'ambiente naturale: teoria darwiniana

I

Ogni classe dominante mantiene la sua oppressione colla forza brutale e colla forza intellettuale.

La religione è una delle principali forze intellettuali che curvano sotto il giogo le classi oppresse. Nel secolo decimottavo la borghesia era la classe subalterna, essa lottava contro la nobiltà sostenuta dal clero; allora quindi era volterriana e giuocava anche all'ateismo. Ma non appena divenuta classe dominante, voltò casacca e tornò, piano piano, alla fede de'suoi padri; oramai essa non doveva più temere l'oppressione religiosa, bensì utilizzarla. Ristabilì Dio per decreto, come per decreto lo aveva abolito; rialzò gli altari che aveva rovesciati e salariò i preti che aveva spogliati e perseguitati. E i preti si mostrarono servitori capaci di qualunque bassezza per compiacerle. Non deve quindi sorprenderci di trovare nei distretti industriali la classe dei padroni la più profondamente bigotta e il pretume cattolico e protestante il più corruttore dell'intelligenza operaia. Il prete serve chi lo paga; la sua divisa è il ritornello della briosa canzonetta di Béranger:

Non saltare a metà!
Su via! salta, pagliaccio;
Salta per tutti — allons ! là— e llà !

Ma la religione cristiana avea molto perduto della sua antica influenza; per rabberciarne gli strappi e aiutarla nella sua opera di oppressione intellettuale, i filosofi e i politici della borghesia crearono gli dèi della religione libera pensatrice: Progresso, Lavoro, Libertà, Patria, ecc.; gli economisti inventarono le loro leggi naturali eterne e, per abbrutire sempre meglio l'uomo, foderarono il fatalismo religioso col contrafforte del fatalismo economico. Malthus, che concentrava in una sola persona il prete e l'economista, formulò la sua legge della popolazione e insegnò che, non avendo la previdente Provvidenza preparati i viveri per tutti gli uomini, gli uni dovevano crepare di fame perchè gli altri crepassero d'indigestione.

Ma la borghesia trova che questa trinità religiosa (la religione cristiana, la religione liberale, la religione economica) non basta ancora a comprimere intellettualmente la classe salariata; essa cerca quindi dì puntellare la sua dominazione economica e politica con teorie scientifiche.

La Chiesa, ignorante e grossolana, folgorava i suoi anatemi contro le scienze naturali, queste invenzioni del diavolo; e accendeva i suoi roghi per i dotti, questi stregoni, emissari di Satanasso. La borghesia invece, non meno ignorante ma più quattrinaia, li utilizza irreggimentandoli al proprio servizio. Le scienze naturali domarono le forze della natura, e gliele sottomisero; due forze, di scoperta relativamente recente, l'elasticità del vapore acqueo e la elettricità, sono fra i più poderosi agenti della sua fortuna. La borghesia non uccide più i dotti, preferisce sfruttarli; nelle grandi intraprese industriali ed agricole, chimici, ingegneri ed agronomi concorrono come semplici proletari al suo arricchimento. Ma essa attende ben altro dalle scienze naturali: essa intende fare delle loro più ardite teorie altrettanti strumenti d'oppressione intellettuale. La borghesia vuole che tutte le forze intellettuali ribadiscano alla miseria la classe salariata.

* * *

Carlo Darwin, il più grande naturalista e uno dei più profondi pensatori della nostra epoca, colui che ridestò dal suo lungo sonno la teoria di Lamark e di G. Saint-Hilaire, che le infuse nuova vita e la fece trionfare, tentò provare che le ineguaglianze sociali sono fatalità naturali. Scienziati di secondo e di decimo ordine, che vivono sulle idee degli uomini di genio come i pidocchi sulla pelle dei leoni, andarono più in là; martirizzarono i loro cervelli per dimostrare che la teoria darwiniana è la più schiacciante confutazione del socialismo moderno: nella lotta per l'esistenza, essi dicono, la vittoria non toccando che ai meglio dotati e ai più adatti (to the fittest), i godimenti della terra spettano di diritto agli individui inutili, agli incapaci della classe possidente; gli uffici più elevati della nazione spetteranno alla straordinaria intelligenza dei Thiers, dei Mac-Mahon, dei Luigi Napoleone; le ricchezze della società debbono toccare in sorte all'onestà innata ed acquisita dei Bontoux e degl'intriganti della Borsa; i dividendi delle strade ferrate, delle miniere, degli opifici, debbono essere intascati dal lazzaronismo dei possessori di azioni e di obbligazioni. La miseria invece e la degradazione fisica ed intellettuale devono rimunerare il lavoro, l'energia e l'intelligenza dei produttori.

Gli Haeckel del darwinismo che, per meritare le buone grazie dei capitalisti, vollero degradare la scienza al livello di una religione, dimostrarono soltanto — ciò che i socialisti già sapevano — che in fatto di servilismo i dotti valgono i preti, e che i rivoluzionari del passato secolo ebbero le loro buone ragioni per troncare la testa a Lavoisier, questo padre della chimica moderna, e complice dei finanzieri che rovinavano la rivoluzione. I darwiniani di Francia, di Germania e d'Inghilterra non riusciranno a falsificare la scienza sino a farne uno strumento di oppressione intellettuale. La scienza fu sempre e continuerà ad essere rivoluzionaria; essa sradicherà i pregiudizi seminati a piene mani dalla classe possidente per sorreggere il proprio vacillante potere. Cotesta teoria darwiniana, che doveva sanzionare scientificamente l'ineguaglianza sociale, arma invece di nuovi argomenti i materialisti comunisti per chiamare le classi oppresse alla riscossa contro questa società barbara, nella quale chi semina la ricchezza non raccoglie che inopia, dove tutte le rimunerazioni sociali sono ghermite dai più incapaci e dai più inutili, e dove le leggi della evoluzione organica sono ignorate, disconosciute, attraversate.

Poichè vi hanno darwiniani che si assunsero la parte dei Freppel della religione, dei Gambetta del liberalismo e dei Malthus della economia dichiarando che le leggi naturali, come quelle di Dio, della politica e della economia, condannano il lavoratore alla inferiorità sociale, io debbo qui criticare la sociologia dei signori naturalisti, come ho criticato l'idealismo storico ed economico. Ma anzitutto devo esporre a grandi tratti la teoria darwiniana coi suoi meriti e colle sue, imperfezioni.

II

Era comodo e alla portata dei poveri di spirito, ai quali è promesso il regno dei cieli, spiegare la creazione delle piante e degli animali coll'intervento di un essere immaginario. Nulla infatti di più semplice: la Provvidenza divina, così previdente, aveva creato le piante per l'alimentazione degli animali, e questi per l'alimentazione degli uomini. Certi fatti smentivano questa piacevole teoria; vi hanno piante che avvelenano gli animali, e accadeva che dei leoni divorassero il pastore insieme alle pecore: ma questi erano fatterelli insignificanti che si trascuravano. Quando la geologia esumò dalle viscere della terra scheletri ed impronte di animali scomparsi, che sembravano gli sbozzi degli animali esistenti, essa sconcertò un tantino le idee correnti. I dotti che, come il grande naturalista Agassíz, ammettevano che «ogni specie vivente è un'idea incarnata della divinità», dichiararono che i pterodàttili e gli altri animali fossili erano «tipi profetici».

«L'idea archetipa — diceva l'anatomista Owen — si manifestò sul nostro pianeta in carne ed ossa con diverse forme modificate, assai prima che apparissero le specie animali che dovevano servirle da esemplari».8

I tipi profetici di Agassiz e l'idea archetipa di Owen, che si manifestano in. forme successive e imperfette prima di giungere alla loro perfezione nell'animale ora vivente, non sono in definitiva che la parafrasi magniloquente della spiegazione goffa ma ingenua del secolo decimottavo. Dio, si diceva allora, aveva prima modellate le forme animali e poi diede loro un'anima; ebbene i fossili erano appunto gli sbozzi informi non animati e di scarto. I fossili erano quindi altrettante prove della imperizia dell'Onnipotente.

La teoria divina della creazione raggiungeva un grottesco sempre più divertente, quanto più se ne generalizzava l'applicazione. Bernardino di Saint-Pierre, che trovava dappertutto nella natura il dito di Dio, scopriva che gli spicchi del popone e della zucca incocomeravano un'idea della divinità: essi indicavano al padre come egli deve dividere il popone tra i suoi figliuoli, e la zucca, che ha gli spicchi più numerosi, coi suoi vicini. Eccellente filantropo questo buon Dio! Egli insegnava che si doveva mangiare in famiglia il frutto succulento, e agli amici distribuire generosamente fette di zucca.

Col progresso delle scienze sorgevano obiezioni sempre più numerose ed imbarazzanti. Nel medio evo i teologi discutevano, non meno a lungo e colla stessa sicumera dei nostri economisti quando parlano dell'armonia degl'interessi economici, la questione se Adamo avesse posseduto un ombellico. Dio, dicevano gli uni, non può far nulla d'inutile, e, poiché Adamo non fu generato da una donna, egli non aveva bisogno di ombellico, quindi non doveva averlo. Dio, rispondevano gli altri, non può far nulla d'incompleto; se Adamo non avesse avuto ombellico sarebbe stato incompleto, dunque lo aveva. Rabelais, l'incomparabile umorista, fa discutere i suoi bevitori per sapere qual cosa nacque prima, se l'idea di bere o la sete. I teologi, che avevano tanto tempo da perdere in discussioni oziose quanto i nostri economisti, sarebbero stati nondimeno atterriti se avessero conosciuto il numero di organi inutili che l'anatomia ha scoperto nel corpo umano e sui quali si sarebbero dovute fare discussioni infinite.

Nella sua memoria sull'ala dello struzzo diceva Saint-Hilaire:

«Questi rudimenti di forchetta non furono soppressi perché la natura non fa mai salti improvvisi e lascia sempre qualche vestigio di un organo, anche quando è affatto superfluo, se questo organo ha rappresentato una parte importante nelle altre specie della stessa famiglia. Così si trovano, sotto la pelle dei fianchi, le vestigia dell'ala del casuario; così nell'uomo, all'angolo interno dell'occhio, si vede un rigonfiamento della pelle, nel quale si riconosce il rudimento della membrana nictitante, onde molti quadrupedi ed uccelli vanno provveduti».

Questi organi, che nell'uomo sono rudimentali, perché a lui inutili, ma che negli animali sono sviluppati dall'uso, sono altrettante prove che dimostrano che l'uomo il discendente da cotesti animali, dei quali non seppe o non poté conservare in perfetto stato l'eredità.

* * *

Un'altra scienza nuova, l'embriologia, doveva rivelare fatti ancora più singolari. Gli spiritualisti annettevano un'importanza particolare all'appendice caudale; la coda era l'organo che separava l'uomo dal resto degli animali; la mancanza di coda nell'uomo era il segno della sua superiorità. Meschina superiorità, che stava sospesa ad una coda! Vi fu un momento in cui essi ebbero una orribile paura di perdere questa preziosa prova della origine divina dell'uomo: viaggiatori assicuravano di aver incontrato nell'interno dell'Africa certi negri, i Nyam-Nyam, ornati di quest'elegante ed utile appendice; fortunatamente, fatte le verifiche, si scopri che la pretesa coda non era che un ornamento che essi fissavano al loro deretano, come fanno le nostre belle signore coi loro culi posticci. Gli spiritualisti però non avevano ragione di giòlito: l'embriologia dimostrò che, se l'uomo non possedeva la coda, gli è che l'aveva perduta, non in battaglia, ma nel ventre materno; infatti nel feto il coccige si proietta liberamente, come una vera coda, molto al di là delle gambe rudimentali. L'assenza di pelo, salvo in qualche parte del corpo, distingueva anch'essa l'uomo dagli animali; ma ora si sa che il corpo umano, allo stato fetale, coperto di un vello abbondante fino al sesto mese. Ormai non v'è più alcuno che neghi che l'uomo, come la scimmia ed il cane, esce da un uovo, e che nella sua vita intrauterina presenta le maggiori analogie colle altre specie di animali, di cui riassume più o meno completamente le fasi di sviluppo.

Lo sviluppo dell'uomo, come di qualsiasi altro animale, non sembra essere che una ricapitolazione delle fasi di sviluppo degli animali che lo precedettero nella serie, o, ciò che è il medesimo, le specie animali interiori non sono che fasi di sviluppo delle specie superiori9, come la schiavitù, il servaggio ed il salariato non sono che fasi dello sviluppo sociale.

Quanto più le scienze progredivano, lo splendore dei cieli e le bellezze della natura proclamavano sempre meno la gloria di Dio; al quale per altro rimanevano i mostri per annunziare la sua onnipotenza.

«Il mostro — scriveva fieramente l'ex ateo Chateaubriand nel suo Genio del Cristianesimo — è un documento di queste leggi del caso che, secondo gli atei, dovrebbero aver prodotto l'universo. Dio li ha permessi per mostrarci ciò che è la creazione senza di lui.»

Saint-Hilaire però tolse a Dio anche questo misero indizio della sua onnipotenza, dimostrando che il mostro non è un fenomeno che stia fuori delle leggi naturali, ma semplicemente un essere, nel quale non si svilupparono tutte le trasformazioni necessarie a raggiungere il tipo normale, un essere che ha subito un arresto di sviluppo.

Mentre l'embriologia svelava il processo evolutivo degli animali, lo studio degli organismi sviluppati mostrava che, qualsiasi forma un organo assuma, esso è sempre composto degli stessi elementi, quantunque spesso modificati in modo da essere appena riconoscibili. Così il guscio del gambero è il suo scheletro, esso vive dentro invece che sopra al suo scheletro; la tasca della femmina del kanguro è una piega della pelle, molto profonda; la proboscide dell'elefante è un eccessivo prolungamento del suo naso; il corno del rinoceronte è un ammasso considerevole di peli che aderiscono tra loro. Aristotile aveva già notato che

«la penna essendo per l'uccello quello che la scaglia è pel pesce, si possono paragonare le penne con le scaglie, e del pari le ossa con le spine, le unghie umane coll'unghione cavallino, la mano colla pinza del granchio. Ecco in qual modo le parti che compongono gl'individui sono le stesse e sono differenti.»10

Questi nuovi fatti rovesciarono la teoria divina e generarono una nuova dottrina che Oken così formulava:

«L'uomo non fu creato, si è sviluppato».

III.

Rigettata l'ipotesi d'un Dio creatore, si doveva, per spiegare i fenomeni della vita, ricorrere all'azione dello forzo della materia; attribuire la creazione delle piante e degli animali e le loro trasformazioni all'azione dell'ambiente cosmico, del «mondo ambiente» come diceva Saint-Hilaire. Con un Dio creatore si poteva darsi conto di ogni cosa, senza troppo scervellarsi. Così, gli uomini erano stati creati per satollare di sangue le pulci e le cimici; i lavoratori per satollare di godimenti gli oziosi; i locatari per pagare le pigioni, i proprietari per intascarle, ecc.

La teoria materialista della natura sopprime queste spiegazioni, altrettanto facili quanto concludenti. I naturalisti moderni, se somigliano ai preti per la servilità, non sono dotati di quell'ignoranza benedetta che permette alle persone religiose di lanciarsi così arditamente nel beotismo; essi devono ricercare faticosamente i principali agenti naturali dell'evoluzione organica, senza pretendere di saper assegnare la cagione di tutti i fenomeni. A Carlo Darwin spetta l'onore di avere scoperto parecchi di cotesti agenti e di averne dimostrata l'azione nella formazione delle specie.

Darwin ebbe il vantaggio di vivere nella terra classica degli allevatori; egli notò che gli animali domestici andavano soggetti a molteplici variazioni, le quali, quando richiamavano l'attenzione d'un allevatore, venivano coltivate e «fissate».

Huxley cita un esempio caratteristico: i montoni del Massachusetts avevano il diavolo nelle gambe; non c'era siepe, per quanto alta, che non superassero; i fittaiuoli il disperavano di non poterli chiudere in nessuno steccato. Un giorno una pecora partorì un'ariete di gambe molto corte. Ecco il rimedio all'ardore acrobatico dei miei montoni, sì disse il proprietario del gregge. Egli allevò accuratamente queste ariete nano, se ne servì come riproduttore, e in capo a pochi anni non possedeva che montoni a gambe corte, che avevano perduto le tendenze saltabeccanti dei loro antenati. I vicini lo imitarono ed oggi in America c'è una razza di montoni nani, come da noi ce n'è una di cani bassotti.

Gli stessi fenomeni avvengono fra gli animali selvatici. Dal parto di una lupa o di un coniglio femmina non tutti piccini, benchè somiglianti, escono eguali; essi differiscono, più o meno tra loro. Il più vorace, ad esempio, il più alacre alla poppa diviene più presto forte ed abile a cansare i pericoli ed a procurarsi il nutrimento. Esso ha maggiori probabilità di raggiungere l'età adulta, di riprodursi, e quindi di trasmettere le qualità voraci che gli assicurarono la superiorità. I dindi selvatici sono camminatori terribili, la femmina traversa distanze enormi seguita dalla sua pigolante famiglia; i pulcini troppo deboli per reggere a queste corse, rimangono per via e muoiono, mentre i giovani tacchini dai garetti d'acciaio resistono e trasmettono le loro qualità. La natura non è nè morale, nè buona, nè intelligente; le sue forze cieche sopprimono spietatamente i deboli e non lasciano in vita che i forti.

Le più piccole variazioni di un organo che danno a un'animale un vantaggio sui suoi concorrenti sono conservate e, trasmettendosi di padre in figlio per generazioni e generazioni, si sviluppano; così si spiegano gli artigli aguzzi del leone, sua arme offensiva, e l'abbondante criniera che protegge, come scudo, il suo petto. Gli animali prendono il colore degli oggetti fra cui vivono; i camaleonti sono verdi come le foglie degli alberi, i pidocchi biancastri come il cuoio capelluto; questa analogia di colore li protegge contro i loro nemici. Le femmine degli uccelli, che durante l'incubazione debbono rimanere immobili, sarebbero facilmente segnalate agli uccelli da preda, se avessero le piume brillanti dei maschi. Ecc., ecc.

* * *

V'è dunque una selezione naturale fra gli animali allo stato di natura: sono i meglio dotati, i meglio adattati al loro ambiente naturale che trionfano Della lotta per la vita. La selezione naturale differisce dalla selezione artificiale, che fa l'allevatore, in questo: che l'uomo, scegliendo o sviluppando una qualità nell'animale, non pensa che all'utile che essa gli presenta; sovente anzi le sacrifica l'animale; così la grascia sviluppata, nei maiali è loro immensamente nociva. La selezione naturale, al contrario, non preserva che le qualità utili agli animali. È perché le forze della natura sono prive di intelligenza, che i loro risultati sono così intelligenti.

Ma nella natura agiscono eziandio forze intelligenti: dovunque v'è scelta, determinazione, v'è necessariamente un'azione intellettuale. Le farfalle, che svolazzano su un campo od un'aiuola, scelgono, «selezionano» i fiori sui quali posarsi; ed è ventura per noi che esse abbiano lo stesso nostro gusto pei colori, perché sono esse che conservarono e svilupparono la brillante colorazione dei fiori: svolazzando di corolla in corolla, trasportano il polline fecondatore, e si notò che sono i fiori dai colori più vivaci quelli che di preferenza sono visitati da questi loro alati paraninfi. Anche gli uccelli hanno il senso della bellezza molto sviluppato; i maschi, corteggiando le loro femmine, fanno la ruota e ostentano le piume più brillanti. Le scimmie, che nella serie animale sono i più prossimi antenati dell'uomo, presentano agli occhi innamorati delle loro amanti i loro ani coronati di aureole brillantemente colorate. Oh! illustre Cousin, dove mai va a rannicchiarsi il Bello, questo attributo di Dio?

Le piante e gli animali non avrebbero potuto svilupparsi se non avessero posseduta questa proprietà — piena di misteri più imperscrutabili di quelli delle religioni — l'eredità, che permette loro di trasmettere le qualità acquisite. Ogni essere organico è un'accumulatore delle qualità dei suoi antenati; esso è un conservatore che eredita, conserva e trasmette perfino gli organi dei quali ha perduto l'uso.

La selezione naturale e sessuale, questa geniale scoperta di Darwin, non può tuttavia offrire la chiave di tutt'i fenomeni della vita; ve ne ha parecchi che sfuggono alla sua spiegazione; Darwin era il primo a riconoscerlo. Non citerò che un esempio: l'organo vocale del pappagallo, così straordinariamente flessibile, non gli serve affatto allo stato naturale; le sue sorprendenti capacità non appaiono che quando l'animale entra nella società dell'uomo.

Per comprendere in qualche modo certi fenomeni degli esseri organizzati, convien ricorrere alla legge della «compensazione degli organi», che Saint-Hilare chiamò la legge di «subordinazione degli organi» e che Cuvier così formulava:

«Ogni essere organico forma un complesso, un sistema unico e chiuso, le cui parti si corrispondono reciprocamente e concorrono alla medesima azione definitiva per mezzo di una azione reciproca. Nessuna di queste parti può cangiare senza che cangino anche le altre.»

Per esempio la forma dei denti di un animale non può modificarsi senza che ne conseguano modificazioni più o meno rilevanti nelle mascelle e nei muscoli che le muovono, nelle ossa del cranio colle quali sono legate, nelle ossa e nei muscoli del collo e delle gambe, nel modo di nutrizione dell'animale e conseguentemente anche nella lunghezza e forma dei suoi intestini, in una parola: in tutte le parti del suo corpo. — Probabilmente la formazione di organi, quali l'apparato vocale del pappagallo, è conseguenza della trasformazione delle sue zampe, delle sue ali, o di qualsiasi altro organo che dovette modificarsi per adattarsi alle condizioni del mondo ambiente.

* * *

Se ogni essere organizzato forma un sistema le cui parti sono così intimamente unite, che una sola non può essere toccata senza che le altre siano scosse, l'ambiente cosmico, colla sua fauna, cioè coi suoi animali, e colla sua flora, ossia colle sue piante, costituisce un sistema vasto e senza limiti, ma le cui parti tutte quante non sono meno intimamente connesse. L'ambiente cosmico non si può modificare senza reagire sugli animali e sulle piante che l'abitano; e reciprocamente la piante e gli animali non si possono modificare senza reagire sul loro ambiente cosmico. Le foreste, per esempio, hanno una notevole influenza sulla temperatura d'un paese, sulla quantità d'acqua che esso riceve e sulla formazione della sua terra vegetale. Darwin segnalò reazioni dovute ad esseri infinitamente piccoli e a cause eccessivamente triviali. I vermi, che mangiano terra, elaborano la terra vegetale e la riportano alla superficie, seppellendo sotto i loro escrementi filiformi i cintoli che la ricoprono. L'amore, che le vecchie zitelle di campagna hanno pei gatti, che acchiappano i topi campagnuoli, i quali distruggono gli alveari dello api e dei calabroni, che a loro volta, foraggiando, trasportano il polline e contribuiscono così alla fecondazione e moltiplicazione delle piante — questo amore agisce indirettamente sulla umidità dell'atmosfera. Così, se il mondo ambiente determina la sua flora e la sua fauna, le piante e gli animali creano di nuovo gli ambienti cosmici che han loro data la vita.

Ed è di fronte a questi fenomeni di reazione degli esseri viventi sull'ambiente cosmico, che gli economisti affermano che gli uomini non possono influire sulle leggi del loro ambiente economico, di quell'ambiente che creano essi stessi!

Le piante e gli animali di un medesimo ambiente agiscono e reagiscono gli uni sugli altri pel fatto della loro associazione, allo stesso modo delle parti d'uno stesso organismo. Kant aveva già osservato che gli alberi delle foreste non hanno le forme sghembe e contorte degli alberi dell'aperta campagna, battuti dal vento; essi si proteggono reciprocamente e lanciano dritti i loro fusti in cerca dell'aria e della luce. Il botanico Nägeli fa notare che le piante viventi a macchie sono più suscettibili di variazione delle altre.

«Certe piante delle Alpi», egli dice, «si modificarono reciprocamente, e presentano, se posso così esprimermi, particolari tipi sociali, che differiscono in ogni gruppo e quindi in ogni località. Ciò prova incontestabilmente che la loro forma si alterò in seguito alla loro associazione.»

Quest'azione e reazione reciproca degli esseri organizzati, è ancor più potente negli animali; essa altera i loro organi, e suscita in essi qualità morali antinaturali e prima sconosciute. Si sa quanto è potente fra gli animali l'amore materno; se i maschi trascurano i loro piccini, come i borghesi i loro bastardi, se talvolta li divorano addirittura — gli industriali, che esercitano il «diritto della prima notte» sulle loro serve di officina, si contentano di sfruttarli — le femmine al contrario li proteggono, li curano, vi sono persino insetti che li nutrono coi loro corpi. Tuttavia le regine delle api, che non sono che le madri degli alveari, uccidono esse stesse le loro figlie per evitare torbidi nell'alveare; esse sacrificano il loro sentimento materno alla pace della collettività. A un sentimento analogo obbediscono le fanciulle-madri che commettono infanticidi; esse non vogliono offuscare le coscienze ed eccitare l'indignazione morale delle loro amiche e conoscenti.

L'associazione paralizza ed estingue pure un altro sentimento ancor più necessario dell'amore materno alla conservaziono della vita: l'egoismo individuale, che negli animali è altrettanto ferocemente sviluppato quanto nel cuore dei borghesi più inciviliti. Fra le scimmie, gli elefanti, i bufali, tutti gli animali che vivono in famiglie, i maschi più forti si portano sempre dove c'è pericolo, e si sacrificano essi stessi per proteggere i piccini, le femmine e i deboli della collettività.

* * *

Voi lo vedete, le forze che agirono e agiscono nella natura per creare e sviluppare la vita sono numerose e varie. Io non pretendo di averle tutte noverate, né i naturalisti di averle tutte scoperte; tuttavia quando questi signori, spogliandosi dei loro metodi scientifici, si trasformano in «sociologi» — la parola, abbastanza brutta, è di loro invenzione, e conviene applicarla loro — essi fanno astrazione dalle forze molteplici che agiscono nel mondo naturale, per non conservarne che una sola, la concorrenza vitale, la lotta per l'esistenza. Essi castrano la loro scienza, perché questa possa fare l'apologia della società capitalista.

La concorrenza vitale dei naturalisti non è che il riflesso nel loro cervello di ciò che avviene nel mondo economico; essa non è che l'applicazione al mondo vegetale ed animale della concorrenza industriale e commerciale che gli economisti divinizzano. Darwin almeno era cosciente del fatto. Nella sua Origine delle specie, egli confessa che l'idea della selezione naturale non germogliò nel suo cervello che dopo la lettura del libro dell'economista Malthus. Ma, introducendo nella scienza sociale la loro concorrenza vitale, i darwiniani, che si credono così astuti, non fanno insomma che restituire ciò che hanno preso e rifriggere naturalisticamente la lezione degli economisti; e ignorano che la loro nuova teoria della formazione delle specie basata sulla concorrenza vitale è una brillante conferma del materialismo economico di Marx, pel quale le religioni e le filosofie profondano le loro radici nel terreno economico.

Infatti, è notevole la coincidenza che la teoria darwiniana venne formulata in Inghilterra, nel paese dove la concorrenza economica aveva raggiunto il suo più alto grado di sviluppo; fu così universalmente ammessa in tutti i paesi dove regnava questa concorrenza economica, e diventò per le classi dominanti un mezzo di spiegare le ineguaglianze sociali e di condannare, in nome della natura, i produttori alla miseria e alla degradazione.

IV.

Esaminiamo ora quanto valga questa famosa concorrenza vitale, sia dal punto di veduta naturalista che dal punto di veduta sociale.

Vedemmo ch'essa era impotente a spiegare molti fenomeni (organo vocale dei pappagalli, sentimenti antimaterni, antiegoistici, ecc.). Ma rimane da sapere se la concorrenza vitale, che riesce alla sopravvivenza dei meglio adatti all'ambiente, sia sempre una causa di progresso organico. La vittoria, il campo di battaglia, rimangono all'animale meglio adattato, è questo un fatto innegabile; ma l'animale meglio adattato, è esso sempre il meglio dotato, il più sviluppato? non è invece spesso l'animale il più delicatamente organizzato, che, incapace ad acconciarsi a condizioni inferiori di vita, cede il posto, ed è il vinto?

Darwin segnala il fatto; Ray Lankaster lo mette in piena luce.

«È indubitato», egli dice, «che spesso la selezione naturale agisce sopra una razza d'animali nel senso della riduzione della statura. Poichè la piccolezza di certi animali ne favorisce la sopravvivenza, in parecchi casi assi furono ridotti a dimensioni microscopiche. Ma questa riduzione, spinta all'estremo, riesce alla perdita o alla soppressione di alcuni degli organi più importanti. I bisogni di un piccolissimo animaletto sono limitati in confronto di quelli d'un grande animale, e si trova spesso che il cuore e i vasi sanguigni, le branchie e i reni, ed altresì gambe e muscoli, andarono perduti nei discendenti ridotti e degenerati d'una razza più grande.»11

E come esempio di questa specie di degenerazione Ray Lankaster cita i rotiferi, i polizoari, ecc.

Anche nel regno animale quindi la lotta per l'esistenza non è sempre una causa di progresso, lo è talora di degenerazione.

* * *

Vediamo ora quale potrebb'essere il suo ufficio nelle società umane.

L'animale selvatico è solo a trarre vantaggio dalle qualità che acquista. L'uomo incivilito è forse nello stesso caso? I montoni dell'Africa meridionale acquistarono la proprietà d'immagazzinare grascia nella coda, gli ottentoti l'accumulano nelle natiche: i montoni e gli ottentoti vivono del proprio grasso nelle epoche di carestia. Un agricoltore produce più frumento che non ne possa consumare in un anno, ma poichè non lo immagazzina sotto la sua pelle, egli non lo trova quando ne ha bisogno. Come le api del loro miele, l'agricoltore è derubato del frutto del suo lavoro dal proprietario fondiario e da altri animali da preda.

Denti aguzzi e artigli affilati sono gli strumenti di lavoro dei leoni, cioè i loro mezzi di procurarsi vettovaglie; l'astuzia è lo strumento di lavoro delle volpi. Ma essendo questi strumenti parte integrante del loro corpo, non possono essere ritorti contro di essi da altri animali. Ma gli strumenti manifatturati dall'uomo non sono incorporati in lui, i pensieri del suo cervello possono essere estrinsecati e materiati in libri, in invenzioni meccaniche, scoperte chimiche, ecc.; — strumenti e pensieri possono essere appropriati dal capitalista, che li ritorce contro i loro proprî creatori. Le invenzioni rovinano gli inventori, ma arricchiscono gl'industriali e i capitalisti che non inventarono se non l'arte di spogliare gl'inventori. Le strade ferrate producono magri salari agli operai che vi lavorano notte e giorno, ma grassi dividendi agli azionisti che non vi lavorano se non per staccare i tagliandi e passare alla cassa.

La lotta per l'esistenza dei signori darwiniani non può dunque spiegare lo sviluppo umano, perché le condizioni di esistenza degli uomini sono diverse da quelle degli animali e delle piante.

È bensì riuscito a Darwin di trasferire una teoria economica — la teoria della popolazione di Malthus — nella sua propria scienza; ma ai darwiniani il goffo tentativo di ritrasportare nella scienza sociale, ch'essi conoscono come un taglialegne conosce la botanica, la loro teoria della sopravvivenza, fece miseramente cilecca. Gli uomini sono bestie — d'accordo; la società capitalista, basata sulla concorrenza economica, è bestiale — nulla di più vero. Ma non sono queste ragioni sufficienti per credere che la concorrenza vitale tra gli uomini presenti i medesimi caratteri che tra i dindi e le ostriche.

Nelle società umane, dacché uscirono dal comunismo primitivo, la lotta per l'esistenza veste due forme: la forma individuale, o lotta da individuo a individuo; e la forma collettiva, o lotta di classe contro classe; e uno dei più grandi meriti di Mari ed Engels è di avere analizzato, sin dal 1847, queste due forme della concorrenza vitale fra gli uomini.

III. L'ambiente artificiale: teoria della lotta di classe

I.

L'uomo vive in un doppio ambiente: l'ambiente cosmico o naturale e l'ambiente economico o artificiale, creato dall'arte umana. Le azioni e reazioni combinate di questi due ambienti determinano l'evoluzione dell'uomo e delle società.

Fin che l'uomo non è che un essere organico che si distingue a mala pena dagli altri animali per certe qualità ed abitudini, si può considerarlo come il prodotto immediato delle forze che agiscono nella natura.

L'uomo preistorico, l'uomo dell'età della pietra, quale ce lo mostrano per analogia i popoli selvaggi tuttora esistenti dell'Oceania, dell'America e dell'Africa, non subiva che l'influsso dell'ambiente naturale. Non viveva, infatti, che nella natura; andava nudo; tutt'al più, nei climi freddi sospendevasi al collo una pelle di animale che girava davanti o di dietro secondo la direzione del vento; ignorava l'uso dei metalli; conosceva appena quello del fuoco; fabbricava i suoi ricoveri con rami d'albero, come il chimpanzè; come certe scimmie, non aveva altri ordigni e altre armi che pietre e bastoni; non aveva vasellami da metter al fuoco; la lingua da lui elaborata era così rudimentale, che non possedeva né il verbo essere, né parole generiche come albero, colore, calore, ecc.; e aveva raggiunto un così misero sviluppo mentale, che non sapeva contare oltre il tre od il quattro. — Per spiegare la formazione delle diverse razze umane di queste epoche primitive, ben può il naturalista non ricorrere ad altro che all'azione delle forze naturali, come fa per le altre specie animali. La concorrenza vitale, la lotta per la vita quale esiste fra gli animali, era la legge dell'uomo primitivo. Per inseguire una preda e ghermirla, per disputarsi una femmina e portarla via, impiegavano l'elasticità e la forza delle braccia e delle gambe: dilaceravano i loro nemici coi denti e colle unghie, li percotevano con sassi e bastoni; il vincitore era il più forte, il più abile, il meglio dotato.

Ma questa concorrenza animale si modifica e veste altri caratteri, già fin dai tempi preistorici. Scoperta l'arte di lavorare i metalli (epoca del bronzo), gli uomini non si batterono già più colle sole loro armi naturali; possedevano armi artificiali, e il vincitore non era sempre il più forte, ma piuttosto meglio armato. Così, per molti antropologi, è quasi certo che gli uomini dell'età della pietra, abitanti l'Europa, furono sterminati e surrogati da altra razza venuta dall'Oriente e che conosceva l'uso del bronzo. Conforta quest'opinione il fatto che le spade di bronzo, dovunque trovate, in Irlanda, Scozia, Norvegia, Germania, sono identiche affatto: sembrano fuse da uno stesso artefice. Sola differenza la forma delle incisioni; in Danimarca portano delle spirali, più al sud sono adornate di linee e di circoli. L'impugnatura è piccola, il che sembra indicare che gli uomini, che le maneggiavano e che vinsero gli uomini dell'età della pietra, avevano piccole mani.

* * *

Ciò che avveniva nei tempi preistorici si ripete oggidì. Quando uno Stanley, un Brazza o qualsiasi altro ladrone incivilito viene in lotta con un negro del Congo, la vittoria non rimane al più forte, al più agile, al più coraggioso, ma alla polvere e al revolver. La stessa cosa sul campo di battaglia industriale. Quando i tessitori a mano disputavano il mercato ai tessitori della grande industria, il campo non rimase all'operaio piu energico, laborioso, abile, ma al telaio meccanico e alla forza motrice del vapore. Ecco dunque che nelle società umane le cose vanno un po' diversamente che fra gli animali: non le sole qualità naturali, ma sopratutto gli strumenti di lavoro e le armi assicurano la vittoria. Si può dire che la vera lotta per l'esistenza e pel perfezionamento non è fra gli uomini, ma fra i loro organi artificiali. Questa concorrenza vitale delle armi e degli strumenti, che presenta caratteri della concorrenza vitale delle piante e degli animali, fu la causa del meraviglioso svolgersi dei congegni industriali e guerreschi.

Quando due padroni, armati di strumenti industriali ugualmente evoluti, lottano a chi caccerà l'altro dal mercato, essi si battono sul dorso dei loro operai; essi fanno a chi andrà più in là nel diminuire i salarii e prolungare la giornata di lavoro, nel surrogare gli uomini colle donne e coi fanciulli, l'operaio abile col manovale. Se questa lotta per l'esistenza dei padroni non perfeziona i due concorrenti né fisicamente né intellettualmente, conduce in compenso alla degenerazione fisica e alla degradazione intellettuale e morale della classe salariata.

La lotta per l'esistenza fra gli uomini usciti dalla pretta animalità non ha dunque né i caratteri né i risultati di quella fra gli animali e fra le piante e chi voglia darsi conto dell'evoluzione umana dovrà analizzare gli ambienti artificiali che l'uomo traversato e la loro azione sull'uomo e sulle società.

I due ambienti in cui l'uomo vive, il naturale e l'artificiale, non sono immobili e sempre identici a sè stessi. Essi si trasformano.

La storia della formazione della terra ci prova che l'ambiente naturale si evolve; a questa evoluzione cosmica connetteva Geoffroy-Saint-Hilaire la sua teoria della formazione delle specie; la trasformazione, p. es., dei rettili in uccelli era da lui attribuita alle modificazioni chimiche dell'atmosfera che, arricchendosi d'ossigeno, permise la vita ad animali a sangue caldo. Ma l'ambiente cosmico evolve lentamente; devono passare migliaia d'anni per produrvisi mutamenti di qualche importanza; perciò le specie animali e vegetali ci sembrano immobili, le condizioni che le generano non mutando che in modo insensibile. Al contrario, l'ambiente artificiale evolve rapidamente: è perciò che la storia dell'uomo, confrontata a quella dei bruti, presenta un aspetto così mosso e così vario. Essendo diversi gli ambienti artificiali in cui gli uomini evolvono, ne vengono non meno grandi differenze tra le varie razze umane. Il parigino differisce per intelligenza da un fuegino più che due razze diverse di cani o di scimmie.

II.

L'uomo non è il solo animale che si sia creato nella natura un ambiente artificiale. Certe specie animali (castori, api, formiche, ecc.) riescirono a costruirsi ambienti artificiali che lasciano loro raggiungere un grado di sviluppo ignoto alle altre specie.

Celso, il gran medico latino, scriveva or sono diciotto secoli:

«Se gli uomini pretendono distinguersi dagli animali perchè abitano città, fanno leggi e istituiscono governi, quanto s'ingannano! Le formiche e le api fanno altrettanto; hanno i loro re che esse proteggono e servono; le loro guerre, le loro vittorie, i loro massacri dei vinti; hanno città e sobborghi, e orari di lavoro regolari; cacciano e castigano gli insetti... Se qualcuno dall'alto dei cieli potesse gettare uno sguardo sulla terra, qual differenza fra le opere degli uomini e quelle delle api e delle formiche?»

— Dopo Celso, numerosi e pazienti osservatori studiarono i costumi di questi animaletti.

I formicai sono uno dei portenti della natura.

«La loro caratteristica — dice Forel — è l'assenza di un modello fisso, particolare ad ogni specie, come pei calabroni e per le api. Le formiche sanno l'arte di adattare le loro costruzioni alle circostanze e di trar partito dal terreno.»

Esse fabbricano muri, rizzano pilastri, collocano travi, dispongono impiantiti, sovrappongono piani; in certi formicai se ne contò sino a quaranta. I nidi di termiti, così abbondanti nel Senegal, si elevano da tre a sei metri sul livello del suolo e sono così solidi da reggere un uomo e magari un bufalo; comunicano coll'esterno mercè corridoi sotterranei larghi fin trenta centimetri. Che sono i monumenti degli uomini appetto a quelli di questi piccoli ortópteri? Se paragoniamo l'altezza e l'estensione di queste costruzioni colla statura dei loro costruttori, i lavori dell'uomo sembreranno cosa ridicola. Una piramide costrutti sulla medesima scala dovrebbe essere alta mille metri. Il più alto monumento costrutto dagli uomini, la piramide di Cheope, non ne è alta che 146; il pinnacolo del campanile di Strasburgo 142 e la torre San Giacomo a Parigi 58.

I formicai possiedono granai ove si accumulano i grani raccolti dalla colonia; le formiche li spogliano delle buccie, che gettano fuori; non si scoprì ancora con qual misterioso processo ne impediscono la germinazione, che sanno perfettamente arrestare quando per caso comincia. Ammucchiano in fresche cantine minuzzoli di foglie che forniscono loro dei funghi microscopici di cui sono ghiottissime. Qualcuno pretende perfino che certe formiche del Texas siano agricoltori, sappiano preparare la terra e seminarla; ma il fatto non è ancora scientificamente stabilito.

«Chi avrebbe creduto le formiche un popolo pastore?»

diceva Hubert. Eppure lo sono: esse hanno delle greggi di afidii che forniscono loro una secrezione zuccherina, e un formicaio è tanto più prospero quanto più son numerose le sue vacche. Su dei fusti d'albero esse costruiscono stalle, ove imprigionano i loro afidii, altri ne conservano sotto terra su delle radici; quando cangiano di nido li trasportano seco; in autunno ne raccolgono le uova e ne hanno cura fino che ne erompono i piccini. Audubon osservó delle formiche che impiegavano gli afidii come animali da soma; fra due file di sorveglianti li facevano trasportare dei brandelli di foglie, poi, a lavoro terminato, li richiudevano nel formicaio.

* * *

La divisione del lavoro, che non appare se non timidamente nelle primitive società umane, è così sviluppata fra le formiche, che diede origine a tali «differenziazioni» fra gli abitanti d'uno stesso formicaio da farlo parere composto di specie diverse. Il lavoro di riproduzione è confidato a pochi maschi e a una femmina, la quale dagli uomini, che vollero trovare un riscontro alla loro organizzazione sociale anche fra gli animali, ebbe nome di regina, ma che non ha veruno degli attributi della sovranità; è curata, nutrita, ma è guardata a vista e spesso imprigionata dalle altre formiche senza sesso che compongono la gran massa della colonia e che si suddividono in guerriere ed operaie.

Nel formicaio regna il più assoluto comunismo. Il lavoro vi è libero, le formiche attendono ad esso instancabili. Salomone le citava ad esempio dei suoi sudditi ebrei:

«Va, o poltrone, verso la formica, osserva le sue vie e sii saggio. Essa non ha nè capo, nè direttore, nè governante, pure essa prepara in estate il suo pane e durante la messe ammassa le vettovaglie.»12

Nel formicaio tutto è di tutti. Le formiche spingono tant'oltre il sentimento comunista, che persino gli alimenti ingeriti rimangono per qualche tempo a disposizione della collettività. Il loro tubo digerente è diviso in due parti; l'una, l'anteriore, è una specie di credenza al servizio della colonia; l'esofago teso forma una specie di gozzo e può contenere una grande quantità di alimenti liquidi. Occorrendo, questi liquidi vengono rigurgitati per alimentare compagni affamati, le larve, le femmine e i maschi incapaci a procurarsi nutrimento. In talune specie australiane, questa proprietà è utilizzata per trasformare un certo numero di formiche in veri vasi da conserve; le si impinza di succhi ch'esse debbono custodire e rendere al momento voluto.

Non solo l'ordine e l'armonia regnano in seno al formicaio, ma talora si annodano relazioni pacifiche all'estero coi formicai vicini, benché in generale tra i varii formicai regni la guerra più attiva. Nella Petite Salève, pianura de' dintorni di Ginevra, Forel osservò una nazione di formiche, formata da oltre cento colonie viventi nella pace più perfetta; in una pianura fra i monti Allegani, nell'America del Nord, Coock scoperse da 1600 a 1700 formicai conici, alti da due a cinque piedi; tutti i loro abitanti erano strettamente uniti, non si attaccavano mai, si mettevano assieme per respingere i nemici esterni (ragni, serpenti, ecc.), e si aiutavano reciprocamente per la costruzione e riparazione dei loro nidi. Era una federazione di formicai.

I fatti accennati — e potrei citarne ben altri — attestano tale uno sviluppo intellettuale, per cui Darwin potè sclamare:

«Il cervello di una formica è una delle più sorprendenti particelle di materia organizzata, più sorprendente forse del cervello dell'uomo.»

Questo sviluppo intellettuale non può attribuirsi alla concorrenza vitale dei signori darwiniani, bensì all'azione protettrice ed educatrice dell'ambiente artificiale creato dalla formica; ambiente che in seno al formicaio sopprime ogni lotta, ogni concorrenza individuale, per non lasciar sussistere che la lotta collettiva di tutta la colonia contro la natura che la circonda.

III.

Le più recenti indagini storiche dimostrano che il primo stampo, in cui furono modellate le società umane, è il comunismo. Oggi ancora in Asia, in Oceania in Africa, nella stessa Europa, si trovano popoli che ignorano la proprietà individuale della terra, toltane quella della casa e dell'attiguo giardino. I campi son possesso collettivo dell'intera tribù; le terre arabili son divise fra le famiglie ogni anno, od ogni tre o sette anni, a seconda delle consuetudini locali; boschi e pascoli rimangono proprietà indivisa.

Questa forma collettiva della proprietà trae seco un organamento sociale e familiare ignoto alle società in cui regnano altre forme di proprietà. Nei popoli a proprietà collettiva, malgrado le differenze di razza e di clima, si trovano vizii, virtù e passioni identiche, come identiche abitudini e modi di pensare; — l'ambiente artificiale unifica le razze che l'ambiente naturale differenzia. Così il furto, che è per eccellenza la virtù degli inciviliti borghesi in regime di proprietà individuale, è sconosciuto nelle comunità primitive; tutti i loro membri lavorano; non uno di essi vive facendo lavorare altrui e derubandolo di una parte dei prodotti del suo lavoro; liberamente si prestano i loro servizii e non passa loro neanche pel capo di pretendere una rimunerazione. In Russia, nell'India, quando una famiglia non può compiere la sua messe, le altre ve l'aiutano e non attendono, per tutto salario, che una festicciuola dove si beve allegramente. In coteste comunità primitive non esistono leggi; vi si ignora quel che noi chiamiamo giustizia, diritto, dovere; consuetudini e tradizioni, ecco tutto ciò che vi esiste; sola pena a chi viola la consuetudine è la riprovazione generale; talora, in certe comunità indiane, il colpevole è tenuto a pagare una certa quantità di bevanda, che si smaltisce nelle feste pubbliche13.

Senza il soccorso di alcuna delle istituzioni repressive delle nazioni capitaliste sedicenti incivilite (polizia, magistratura, sistema penitenziario, ecc.) un ordine stabile e una perfetta armonia regnano in seno alle comunità primitive, benchè, come i formicai, esse guerreggino generalmente fra di loro. A loro è ostile tutto ciò che è straniero; questo sentimento trova la sua vera espressione nel vocabolo latino hostis, che significa insieme nemico e straniero, e d'onde derivano ospite e ostilità.

E appunto perchè le società umane primitive si evolvettero in ambienti artificiali che sopprimevano ogni antagonismo individuale, ogni concorrenza vitale darwiniana, è appunto per ciò che l'uomo potè svilupparsi ed elevarsi al di sopra dell'animalità.

* * *

Gli antagonismi non appaiono nelle società umane se non quando la forma collettiva della proprietà si dissolve e la società si divide in classi aventi interessi opposti; ma giammai la lotta per l'esistenza non riveste, nelle società umane, la forma di quella osservata fra gli animali e fra i vegetali: e sopratutto essa non dà luogo ai medesimi risultati.

Nei formicai, perchè le diverse funzioni indispensabili alla vita delle comunità vengano compiute, le formiche si dividono in categorie, in classi: classe dei riproduttori (femmina e maschio), classe dei neutri, suddivisa in classe guerriera e classe operaia. A quest'ultima incombono tutti i lavori; le altre non hanno da provvedere che alla riproduzione e alla difesa; tutte queste categorie compiono un ufficio essenzialmente utile.

La stessa suddivisione in categorie e in classi si effettua pure nelle società umane; le classi esonerate dalla briga di provvedere alla propria alimentazione compirono sempre, all'origine, una funzione utile, indispensabile alla vita della comunità che procurava loro i mezzi di sussistenza. Nelle teocrazie giudee, indiane, egiziane, galle, ecc., prima dell'invenzione della scrittura sillabica, i sacerdoti erano i depositarii della tradizione e delle cognizioni acquistate; erano incaricati dell'amministrazione dei beni della collettività e della direzione generale del lavoro. Le aristocrazie feudali, in Europa e in Asia, ebbero anch'esse in origine la loro utilità; il proprietario campagnolo s'infeudava a un signore e s'impegnava a pagargli un tributo in natura (canone) e in lavoro (corvata), a patto d'esser protetto e difeso contro i numerosi nemici che lo circondavano. Il signore doveva possedere un castello dove, in caso di assalto, il contadino potesse riparare il bestiame e la messe, e doveva nutrire un certo numero d'armati per rintuzzare gli assalti. Come ben dice Engels,

«è la legge della divisione del lavoro, che giace in fondo alla divisione della società in classi»14.

Ma le classi emancipate dal lavoro abusarono sempre della loro superiorità sociale, e l'abuso che esse facevano dei loro privilegi diventava tanto più nocivo e intollerabile, quanto più le funzioni utili loro spettanti perdevano importanza, grazie alle trasformazioni dell'ambiente sociale che le avea generate. Tutte quante ricorsero alla forza e alla rapina, all'astuzia e alla frode, per estendere e consolidare il loro dominio a danno della classe lavoratrice e per trasformar la direzione sociale in sfruttamento delle masse. Di utili e benefiche che erano all'origine, le classi emancipate dal lavoro finirono sempre per diventare nocevoli ed oppressive.

Per mantenere la loro oppressione, le classi emancipate, diventate classi dominanti, impiegano la forza intellettuale e la forza brutale sapientemente organizzate. Già mostrai la borghesia, volterriana quando lottava contro la nobiltà, imbigottirsi dopo che fu divenuta classe dominante e inventare la religione liberale, coi suoi déi: Progresso, Libertà, Lavoro, Leggi naturali dell'Economia politica, ecc., e infine tentare di decretare la inferiorità sociale della classe lavoratrice in nome della scienza naturale. Anche l'aristocrazia era passata per le stesse evoluzioni; vi fu un tempo in cui la guerra era dichiarata fra il papa e l'imperatore, il barone e il vescovo, il castello e la chiesa; eppure essi finirono per coalizzarsi onde opprimere intellettualmente e fisicamente i lavoratori di città e di campagna.

La forza brutale e compressiva (esercito, polizia, magistratura, sistema penitenziario, ecc.), onde servonsi le classi dominanti, cresce quanto più esse diventano inutili e quanto più la classe oppressa si estende e accentua il suo antagonismo. La classe inferiore non può effettuare la propria emancipazione che distruggendo la forza intellettuale e la forza brutale della classe dominante; che facendo precedere la lotta a mano armata da una campagna teorica preparatoria.

* * *

Per tener testa ai reclami e agli scatti della classe oppressa, la classe dominante presenta una fronte compatta, benchè la discordia regni nel suo seno. Nel 1848 e nel 1871 vedemmo tutte le frazioni politiche della borghesia sospendere le loro contese ed allearsi per schiacciare la sollevazione popolare. Ma le lotte politiche delle frazioni della classe dominante non sono che superficiali e non palesano che imperfettamente le lotte intestine e incessanti che si combattono nel suo seno. Infatti, come avverte Marx,

«se tutti i membri della classe dominante hanno il medesimo interesse in quanto formano una classe rimpetto a un'altra classe, essi hanno poi interessi opposti, antagonisti, in quanto stanno gli uni rimpetto agli altri. Per la borghesia questo antagonismo scaturisce dalle condizioni della vita borghese»15.

La concorrenza industriale e commerciale, questo dogma fondamentale dell'economia borghese, non è in fine che la dichiarazione di guerra degli interessi della stessa borghesia. Questa guerra trae seco fatalmente la spropriazione dei vinti, che sono rigettati nel proletariato, e la concentrazione della ricchezza sociale in mani sempre meno numerose; quindi, mano mano che la classe borghese aumenta le sue ricchezze, essa diminuisce di numero e diventa sempre meno capace di difenderle colle propria forze.

L'aristocrazia passò per le stesse fasi d'evoluzione. Le perpetue guerre dei baroni feudali traevano seco la loro distruzione reciproca; i beni del vinto e i suoi armigeri andavano ad ingrossare l'armata e ad arrotondare le terre del vincitore. Questa eliminazione costante dei suoi membri fini per ridurre la classe aristocratica e agevolarne la soppressione come classe dominante.

La lotta per l'esistenza tra gli animali tende a perfezionare l'individuo e a sviluppare la specie, mentre essa, nelle società umane, non migliora l'individuo, decima la classe dominante e ne prepara l'abolizione.

A misura che la classe emancipata dal lavoro decresce e si trasforma in classe parassita ed oppressiva, la classe oppressa si estende e comprende nelle sue file tutte le capacità intellettuali necessarie per la direzione economica e politica della società; allora l'antagonismo fra le due classi s'intensifica e scoppia in lotte civili. Questo antagonismo ingenerò nel medio evo le guerre dei contadini e i sollevamenti delle città che prepararono la caduta della classe feudale: e ai dì nostri ingenera gli scioperi che mettono sossopra di continuo le relazioni economiche, e le rivolte operaie che perturbano il mondo politico.

La guerra civile, colle sue ferocie e i suoi orrori, segna l'apogeo dell'antagonismo delle classi; la presa d'assalto dei poteri pubblici dello Stato diventa la condizione dell'emancipazione della classe oppressa, della classe rivoluzionaria.

Lo Stato diventa la fortezza ove si trincera la classe dominante, incapace a difendersi e per causa della riduzione numerica de' suoi membri e per causa della loro imbecillità16.

Lo Stato è allora l'organizzazione delle forze intellettuali e brutali onde ha bisogno la classe dominante per assicurare le sue condizioni di sfruttamento e per mantenere la massa lavoratrice nelle condizioni di soggezione (schiavitù, servaggio, salariato) che reclama il modo di produzione esistente. Finché la società è divisa in classi antagoniste, cioè a dire fin che è necessario tener in freno una classe, l'esistenza d'uno Stato è una fatalità che né acqua benedetta libero-scambista, né esorcismi anarchisti possono distruggere. La classe oppressa che, pel momento, è la classe rivoluzionaria, deve impadronirsi dello Stato, trasformarlo secondo le necessità della lotta e ritorcerne tutte le forze contro la classe ch'essa dee spossessare.

Nel secolo scorso la borghesia francese era la classe rivoluzionaria; essa non si emancipò che ponendo la mano sullo Stato, trasformandolo e servendosi delle forze di esso per spezzare le resistenze della nobiltà e del clero. Ma la borghesia, malgrado il suo zibaldone filantropico e le sue declamazioni «fraternitarie», si presentava come classe sfuttatrice della massa lavoratrice; essa non poteva dunque distruggere lo Stato; al contrario, lo rafforzò e il dì stesso del suo arrivo al potere lo impiegò a comprimere le rivolte popolari. Lo Stato non potrà venir soppresso che dalla classe che abolirà le classi; e le classi non potranno essere abolite se non quando l'antagonismo degli interessi economici sarà risolto, quando la proprietà individuale, onde esso nasce, sarà trasformata in proprietà nazionale o comune.

«Dacché non v'è più alcuna classe da mantenere nell'oppressione — scrive Engels — dacché il dominio di classe, la lotta per l'esistenza basata sull'anarchia della produzione, le collisioni e gli eccessi che ne derivano sono spazzati via, non v'é più nulla da reprimere, uno Stato diventa inutile. Il primo atto per cui lo Stato si costituisce realmente rappresentante di tutta la società — la presa di possesso dei mezzi di produzione in nome della società — sarà al tempo stesso il suo ultimo atto come Stato. Il governo sulle persone cede il posto all'amministrazione delle cose e alla direzione dei processi di produzione. La società libera non tollera uno Stato fra sè e i proprî membri.»17

Vedemmo che, fin qui, tutte le società umane si erano divise in classi; questa divisione era stata la conseguenza fatale della produttività poco sviluppata della società. Laddove il lavoro sociale non fornisce che una somma di prodotti a mala pena eccedente lo stretto necessario all'esistenza di tutti, laddove il lavoro, per conseguenza, assorbe tutto o quasi il tempo della gran maggioranza dei membri della società, questa società si divide necessariamente in classi. Allato alla grande maggioranza votata esclusivamente al lavoro, si forma una minoranza esente dal lavoro direttamente produttivo e incaricata degli affari comuni della società: direzione generale del lavoro, governo, difesa, giustizia, scienze, arti, ecc.

Ma, grazie allo sviluppo straordinario della produzione meccanica, questa divisione in classi non sarà più necessaria in una società dove la produzione e la distribuzione dei prodotti saranno regolati socialmente e scientificamente.

«La possibilità, per mezzo della produzione sociale, di assicurare a tutti, non solo un'esistenza materiale soddisfacente che si abbellirà sempre più, ma di garantir loro eziandio il libero sviluppo ed esercizio di tutte le loro facoltà fisiche ed intellettuali; questa possibilità esiste ora, per la prima volta, ma esiste.»18


Note

1. Discorso sulla Storia universale, parte III, cap. 1.

2. Genesi. cap. XII, versetti 43-46.

3. Genesi, cap, XX, versetti 2, 4, 16.

4. J. V. LIEBIG: La chimica nella sua applicazione all'agricoltura e alla fisiologia, 1862.

5. C. DARWIN: L'origine dell'uomo. Vol. I.

6. I De Mun e i Calla hanno rimesso a galla il socialismo cristiano. Se non vogliono che il loro socialimo di sacrestia venga preso per una truffa, farebbero bene a cominciare dal costringere i loro amici cattolici a ristabilire negli opifici il riposo domenicale e festivo.

P. L.

7. F. ENGELS: Socialismo utopistico e socialismo scientifico.

8. OWEN, Nature of limbs (1849)

9. SERRES, nella sua Anatomia comparata del cervello, dice che i pesci, per un gran numero dei loro organi, sono gli embrioni permanenti delle classi superiori.

10. ARISTOTILE: Storia degli animali (trad. di Camus: tomo I).

11. RAY LANKASTER, Degeneration: a chapter in Darwinism. 1880.

12. Proverbi: Cap. VI, § 7 e 8.

13.

«Nell'India — scrive il celebre giurista inglese H. S. Mayne — i Consigli degli anziani delle comunità rurali non danno mai ordini; essi si limitano a dichiarare ciò che è sempre stato.... Non vi è diritto e dovere, nel senso giuridico della parola; in una comunità indiana, una persona lesa non si lagna di una ingiustizia individuale, ma di un turbamento recato nell'intero ordine di quella piccola società. La legge consuetudinaria, ciò che è ancor più singolare, non è tenuta in vigore da sanzioni. Nel caso pressoché inconcepibile di ribellione alle decisioni del Consiglio, la sola punizione sicura non sembra essere che la riprovazione universale.» — (Le comunità rurali dell'Est e dell'Ovest; 1871).

14. F. ENGELS: Socialismo utopistico e socialismo scientifico.

15. K. MARX: Miseria della filosofia, risposta alla Filosofia della miseria di Proudhon; 1847.

16. Uso qui la parola imbecillità nel suo senso primitivo, latino. Imbecillís, significava inadatto alla guerra. La perdita della virtù guerriera è uno dei segni certi della morte vicina di una classe.

17. F. ENGELS: Socialismo utopistico e socialismo scientifico.

18. F. ENGELS: Opera citata.

*1. Nei setifici lombardi sono comuni gli orari di tredici, quattordici e fin sedici ore; i salari femminili vi oscillano, secondo le età ed altre circostanze, da quattro, cinque soldi a una lira. (Nota dei traduttori).



Ultima modifica 2021.04.13