L'origine e l'evoluzione della proprietà

Paul Lafargue (1890)


CAPITOLO TERZO. Il collettivismo consanguineo.

I. Frazionamento della gens in famiglie matriarcali e patriarcali

La storia della proprietà è così intimamente legata, nei suoi inizj, a quella della famiglia, che non si può fare a meno di parlare qui brevemente delle trasformazioni di quest’ultima, pur rimandando il lettore all’opera di F. Engels sull’Origine della famiglia, dove l’argomento è trattato con lo sviluppo e con la competenza che richiede. 1

La gens o il clan forma dapprima una grande famiglia indivisa: tutti i suoi membri albergano sotto lo stesso tetto e vivono in comune; i bambini appartengono alla gens e si hanno in conto di fratelli e sorelle; essi chiamano madri e padri le donne e gli uomini della generazione dei loro veri genitori. Questa confusione non impedisce però alle madri selvagge di riconoscere i bambini che diedero alla luce, con certezza maggiore delle madri incivilite, i cui figli sono tanto sovente sostituiti a balia. I figli, naturalmente, si stringono attorno alla vera loro madre, in ispecial modo quando, proibite le relazioni sessuali nel seno di una stessa gens, la donna è costretta a scegliere il marito od i mariti in un altro clan: il padre diventa allora uno straniero, a volte un ospite di passaggio. In tali condizioni di cose, la madre doveva essere necessariamente il capo della famiglia, appena questa si venne costituendo; ed infatti essa lo fu in tutte le razze umane, la qualcosa è oggi accertata. Si è visto più sopra come, nella casa comune del clan, ogni donna maritata avesse una cameretta privata, dove conservava le provviste comuni, delle quali si facevano ogni volta tante parti quant’era il numero delle donne. La famiglia individuale nasceva allora sotto la forma matriarcale, nel seno stesso della famiglia comunista della gens. Quando le donne maritate, traendo seco i loro i figli, le sorelle più giovani ancor nubili ed i fratelli, le cui donne vivevano in un altro clan, si separarono per stabilirsi a parte, l’abitazione comune si frazionò in tante case particolari quant’erano le famiglie.

L’individualizzarsi della famiglia sotto la forma matriarcale produsse lo scioglimento della comunanza di abitazione. La madre diventa allora padrona di casa, despoina – sovrana – dicevano i Lacedemoni; allora comincia a sorgere il germe della proprietà fondiaria familiare. Essa esordisce modestamente, è limitata al pezzo di terra su cui è fabbricata la casa: è la terra salica.2

Finchè dura la forma matriarcale, i beni mobili ed immobili si trasmettono per linea femminile; si è eredi della madre e dei parenti suoi. A Giava, dove questa forma di famiglia esiste tuttora, i beni mobili di un uomo toccano alla famiglia della madre sua; egli non può fare alcuna donazione ai proprj figli, i quali vivono colla madre in un altro clan, senza il consenso dei fratelli e delle sorelle, suoi eredi naturali.

Da quel che è saputo intorno agli Egiziani ed agli altri popoli, è forza conchiudere che l’uomo, nella famiglia matriarcale, viveva in uno stato di dipendenza. Presso i Baschi – i quali nonostante il cristianesimo e la civiltà, hanno conservato i costumi familiari dei primi tempi, – quando la figlia maggiore eredita, alla morte della madre, i beni di famiglia, eredita anche l’autorità materna sui fratelli e sulle sorelle minori. In casa sua, l’uomo è posto sotto tutela: per tutta la vita è soggetto all’autorità della donna, come figlio, fratello e marito; non possiede null’altro che il peculio datogli da una sorella in occasione del matrimonio. «Il marito è il primo famiglio della moglie» dice un proverbio basco. 3

Questa soggezione dell’uomo alla donna coincide spesso con una gelosa animosità del sesso maschile e con una divisione dei sessi in due classi rivali, aventi ognuna dei riti religiosi proprj ed un linguaggio segreto.

Chiamare donna un guerriero delle nazioni selvagge della valle del Mississipì o un Greco dei tempi omerici, uscenti entrambi appena dal matriarcato, era gravissima ingiuria. Racconta Erodoto che Sesostri allo scopo di eternare il ricordo delle sue vittorie, innalzava obelischi presso i popoli vinti, e, per mostrare il suo disprezzo verso coloro che non gli avevano opposto resistenza, vi faceva incidere sopra l’organo sessuale della donna, quale emblema della loro vigliaccheria.

La lingua popolare francese conserva il ricordo di questo vecchio sentimento quando si serve del nome di quello stesso organo per indicare uno stupido.

Le donne guerriere delle tribù del Dahomey considerano, invece, l’epiteto uomo come un’ingiuria.

L’uomo soppiantò la donna nella direzione della famiglia per abbatterne il predominio, impadronirsi dei suoi beni e per appagare la propria gelosia.

Molto probabilmente questa rivoluzione familiare fu determinata dall’accrescimento delle ricchezze mobiliari: poichè allora francava la spesa di spogliare la donna dell’autorità sua. Questo spogliamento si compiè con maggiore o minore speditezza e brutalità, secondo i varj popoli.

Mentre le donne dei Lacedemoni conservarono fino ai tempi storici parte della loro indipendenza e dei loro beni – il che fece dire ad Aristotile come appunto presso i popoli più guerrieri avessero le donne maggiore autorità, – ad Atene e nelle città marittime, arricchitesi presto col commercio, esse vennero violentemente spogliate dei loro diritti e dei loro beni. Le donne dell’Attica difesero i loro privilegi con le armi e combatterono con energia tanto disperata, che la mitologia e la storia greca conservano il ricordo quelle lotte eroiche.

In questo breve cenno sull’evoluzione familiare, noto questo fatto importante: che la costituzione della famiglia matriarcale prima, patriarcale poi, distrusse il comunismo della gens. Nel suo seno vennero formandosi tante famiglie particolari che ebbero degl’interessi privati e indipendenti da quelli della gens, questa non fu più la famiglia comune che racchiude tutti i suoi membri, ma un complesso di famiglie consanguinee, discendenti cioè da uno stipite comune.

La proprietà comune della gens dovette, a sua volta, frazionarsi per costituire la proprietà privata delle famiglie disgiunte.

II. Proprietà collettiva consanguinea

Le terre continuano ad essere proprietà comune, anche dopo lo smembramento della gens in famiglie private, matriarcali o patriarcali, ma non sono più coltivate in comune da tutto il clan; esse vengono divise annualmente fra le famiglie disgregate del clan; ognuna di queste coltiva il suo pezzo ed ha la proprietà dei raccolti che da sola ha fatto crescere. Non siamo giunti ancora, come si vede, alla proprietà privata del suolo; abbiamo già l’uso privato della terra.

La famiglia non è composta di una sola coppia, bensì da più famigliuole in istretta parentela fra loro; essa è, secondo l’espressione medievale, un focolare (feu) , cioè un insieme di famiglie che vivono in comune «collo stesso pane e colla stessa pentola», attorno allo stesso focolare.

Al comunismo della gens subentra un comunismo di poche famiglie unite fra di loro da legami di sangue; così nasce il collettivismo consanguineo.4

Le terre coltivabili sono divise in lunghi e sottili appezzamenti, ricongiunti poi in tanti lotti, quante sono le famiglie dei focolari; questi lotti, composti di appezzamenti di qualità diversa, vengono formati nel modo più uguale che sia possibile, poichè una estrema eguaglianza deve regnare nella spartizione; ogni famiglia riceve una quantità di terra equivalente a ciò che un paio di buoi può arare in due giorni; quest’unità di misura è di due carra in India, di due jugeri a Roma. 5

Una certa quantità di terra è messa da parte in previsione di un possibile aumento della popolazione, ed anche per sopperire alle spese generali, al pagamento delle imposte ed alla retribuzione dei pubblici funzionarj del villaggio, etc.

Questo terreno posto in serbo, che dapprima è coltivato in comune, più tardi viene dato in affitto.

I lotti, dopo essere stati formati, vengono estratti a sorte, affinchè non vi siano privilegi nè ragioni di malcontento.

Questa divisione delle terre e questa estrazione a sorte per la distribuzione dei lotti esistette presso tutti i popoli della terra.

L’Eterno ingiunge agli Israeliti, quando entrano nella terra promessa, di spartire le terre per tribù e per famiglie, in proporzione del numero dei loro membri, e di distribuire le parti per via di sorteggio; nelle lingue latina e greca le parole sors e kleros, che vogliono dire sorte, significano pure patrimonio, evidentemente perchè i padri di famiglia avevano dalla sorte il loro dominio familiare.

In caso di giuste lagnanze, si corregge l’errore accordando alla famiglia una porzione supplementare presa nel terreno di riserva.

Coloro che assistettero a distribuzioni di tal genere, furono meravigliati dello spirito di uguaglianza che vi regnava e dell’abilità dei contadini misuratori.

Haxthausen racconta che:

«il ministro dei domini della corona di Russia, conte Kisseleff, ordinò, in diversi luoghi del governo di Woronïeje, la misura e l’estimo delle terre a diversi misuratori e tassatori di professione, i quali conoscevano a fondo il loro mestiere.

I risultati provarono come la misura dei contadini fosse ovunque, eccetto qualche differenza del tutto insignificante, conforme a verità. E chi potrebbe dire quale delle due misure fosse la più esatta?» 6

I pascoli, le foreste, le acque, i diritti di caccia e di pesca, gli altri diritti e proventi come le imposte fatte pagare alle carovane, ai negozianti, etc. rimangono indivisi e tutti gli abitanti ne godono.

Quantunque le terre coltivabili siano divise periodicamente tra le famiglie alle quali appartengono i raccolti, nonpertanto il villaggio, e cioè il complesso delle famiglie che lo compongono, conserva il suo diritto di proprietà.

Le coltivazioni si fanno sotto la sorveglianza del consiglio degli anziani e di un suo rappresentante.

«Una famiglia non può coltivare il suo pezzo a capriccio, dice l’agronomo Marshall parlando dei villaggi collettivisti inglesi del secolo scorso; essa deve seminare nel suo campo lo stesso grano che seminano le altre famiglie della comunanza.»7

Anche quando la terra non viene più divisa, il proprietario ne possiede soltanto la superficie;

«qualsiasi tesoro trovato nel suo campo non è suo, ma della comunità: così accade pure pei metalli e pel carbone che si estraggono scavando la superficie. Tutti questi diritti vennero poi usurpati dai signori e dai re a loro esclusivo profitto.»8

La concessione perpetua delle miniere in Francia è un attentato al diritto comunista.

Il sistema di coltura consiste generalmente nella rotazione triennale, in qualche caso anche quadriennale.

Tutte le terre coltivabili del villaggio vengono divise in tre parti uguali, che sono seminate alternativamente: la prima con sementi invernali (grano, segala), la seconda con semi estivi (orzo, avena, piselli, etc.); la terza si lascia a maggese.

La sorta di grani da seminare, il tempo della semina e l’epoca della mietitura erano stabiliti dal consiglio comunale. Ogni villaggio dell’India, racconta Sir G. Campbell, possiede un astrologo, detto Bramino-calendario, il quale è incaricato di indicare i giorni propizi per la semina e pel raccolto.

Haxthausen, osservatore intelligente ed imparziale dei costumi collettivisti del mir russo, constatò che nei lavori campestri regna un ordine perfetto, paragonabile alla disciplina militare.

Nello stesso giorno, all’istess’ora, tutti i contadini si recano al lavoro, gli uni per arare, gli altri per spianare con l’erpice, etc., e ritornano tutti insieme. «Questa regolarità non è prescritta dallo starosta, l’anziano del villaggio, essa è la conseguenza di quello spirito di socialità, che distingue il popolo russo, e del bisogno d’ordine e d’unione, che anima il comune.»

Questi fatti caratteristici, i quali meravigliano il funzionario prussiano e ch’egli crede proprii soltanto dei russi, hanno il loro fondamento nella forma collettiva della proprietà e vennero trovati presso tutti i popoli.

Il Maine, il quale, come giureconsulto del governo inglese nelle Indie, ha potuto studiare da vicino le comunanze di villaggio, scrive:

«Il consiglio degli anziani non comanda nulla; si limita a constatare la consuetudine; esso non promulga ciò che crede ordine di un potere superiore.

Coloro che conoscono le cose a fondo, negano che agli indigeni dell’India faccia mestieri di un’autorità politica o divina a base delle loro usanze; l’antichità di queste è considerata come ragione sufficiente per seguirle alla cieca.» 9

La disciplina militare della quale parla Haxthausen è cosa naturale e non imposta, come lo sono per contro i movimenti dei soldati o le manovre dei lavoratori di quelle colossali intraprese agricole del Far-West americano, che prendono il nome di Bonanza-farms.

Terminate le messi, le terre distribuite alle famiglie ridiventano proprietà comune; tutti gli abitanti del villaggio hanno il diritto di farvi pascolare il proprio bestiame.

Quest’uso di mettere di nuovo le terre in comune per la vaine pâture10 durò a lungo in Francia dopo l’istituzione della proprietà privata del suolo; le terre dei nobili erano soggette a questo diritto consuetudinario.

I borghesi del XVIII secolo si lagnavano amaramente di quest’ultima traccia dell’antico diritto comunista: «Il diritto di pascolo e di vaine pâture – dice un dottore dell’Accademia di Besanzone, limita il diritto di proprietà. Ogni fondo soggetto a tale diritto diventa comunale dall’istante in cui il proprietario ha tolto il raccolto fino al giorno indicato. Il diritto di proprietà del proprietario cessa in quell’istante; esso viene interrotto per essere trasmesso al pubblico.»11

In origine, le terre essendo spartite soltanto fra i padri di famiglia che discendono dai primi occupanti, ciascun membro del villaggio deve conoscere e provare la propria origine. In certi comuni dell’India, esiste una classe speciale di funzionari per tener in ordine e conservare le genealogie; sanno dir di seguito, senza dimenticarne uno solo, tutti i nomi degli antenati. I registri delle famiglie dell’Attica erano tenuti con molta cura; si puniva con gran severità l’iscrizione di un bambino che non appartenesse legittimamente alla tribù.12

I Bavaresi e gli Anglosassoni chiamavano le terre dei villaggi terrae aviaticae, alod parentum, genealogiae – ed in latino barbaro medievale genealogia viene a significare proprietas bona avita e villaggio. (Du Cange, Lex Alamanorum).

La terra, essendo stata proprietà dei maggiori, è per conseguenza proprietà del padre di famiglia che li rappresenta; essa è la patria, il fatherland, la terra dei padri. Nelle antiche leggi scandinave patria e casa sono sinonimi: possedere una casa dava diritto ad una porzione di terra, dava una patria. In quei tempi non si aveva patria nè si godeva dei diritti politici se non si aveva diritto ad una parte di terra: ai padri ed ai figli di famiglia soltanto incombeva la difesa della patria, che era il loro bene; essi soli avevano il diritto di portare le armi.

L’illogica civiltà capitalista, la quale è in contraddizione con tutte le norme del passato, affida la difesa della patria a coloro che non hanno un solo palmo di terra, ed accorda dei diritti politici a coloro che sono privi di ogni bene.

III. Origine della proprietà individuale della terra

La mente logica del selvaggio e del barbaro poteva giungere fino a concepire la proprietà individuale d’un oggetto fabbricato e del quale si diventava padrone coll’uso continuato; ma l’idea di possedere personalmente la terra, che non è stata creata dall’uomo e che gli serve soltanto parte dell’anno, non poteva farsi strada nei loro cervelli; infatti quest’idea penetrò nella coscienza umana tramite una via obliqua.

La proprietà fondiaria privata non incomincia, come vuole la teoria sentimentale di Rousseau, col campo coltivato e ricinto da uno steccato, ma col pezzo di terra su cui è costruita la casa; e ciò perchè la casa è considerata come un oggetto mobile, passivo di appropriazione personale da parte di colui che l’ha costruita e vi abita: di fatto, presso molti selvaggi e barbari la si abbrucia insieme con gli altri oggetti mobili del defunto (armi, animali favoriti, etc.); il diritto più antico dell’Inghilterra e molte consuetudini francesi (fra le altre, quella di Lilla, cap. I, art. 6) annoverano la casa fra i beni mobili.

La libertà individuale del selvaggio e del barbaro dell’età comunista è inviolabile; la casa, data la sua qualità di bene diventato proprietà, gode dell’inviolabilità del proprietario. Essa conserva a lungo quest’inviolabilità dopo che l’uomo ebbe perduta la sua.

Nelle società nelle quali il cittadino può venire imprigionato ed anche venduto come schiavo per debiti, la casa rimane inviolabile; nessuno può entrarvi senza il consenso del capo della famiglia. La giustizia pubblica si ferma sulla sua soglia; se un malfattore vi ripara od anche tocca soltanto il battente della porta, egli è sottratto alla vendetta pubblica per cader sotto quella del padre, il quale ha il potere legislativo ed esecutivo nel seno della famiglia.

Il senato romano, avendo condannato a morte, nell’anno 186 prima di Cristo, alcune matrone romane le cui orgie sfrenate compromettevano la moralità e la sicurezza della repubblica, dovette affidare l’eseguimento della sua sentenza ai capi di famiglia, perchè le donne, rinchiuse nelle loro case, non dipendevano dalla sua autorità e non potevano essere colpite dalla legge.*

Quest’inviolabilità era spinta a tal segno, che un romano non poteva chiedere assistenza al magistrato ed alla pubblica forza per ridurre all’obbedienza un figlio ribelle.

Un borghese di Mulhouse sottraevasi, nel medio-evo, alla giustizia della città col rifugiarsi nella propria casa: il tribunale doveva trasferirsi alla porta dell’abitazione per poterlo giudicare, ed egli poteva rispondere alle interrogazioni fattegli mettendosi alla finestra. Il diritto d’asilo dei templi pagani e delle chiese cristiane era una trasformazione di questa inviolabilità domiciliare: come diremo appresso, la chiesa era una casa comune.

Le case dei villaggi barbari non sono contigue, ma staccate ed attorniate da una striscia di terreno; Tacito, e dopo di lui molti storici, pensava che questo isolamento fosse una misura di precauzione contro gli incendi tanto pericolosi, perchè ordinariamente le case erano di legno e ricoperte di stoppia.

Però, non pare sia questa la ragione vera di quell’uso tanto generale. Si è veduto come i territori di caccia delle tribù selvagge e barbare fossero circondati da zone neutre; così pure la residenza della famiglia, per essere più indipendente dalle case vicine, ne veniva separata col lasciar all’intorno una striscia vuota di terreno, il quale finisce per formare un sol tutto con la casa e diventa proprietà privata; lo si circonda allora di uno steccato, consistente in una palizzata di tronchi d’albero od in un muro a secco; i codici barbari lo denominano cortile legale, legittimo, curtis legalis, hoba legitima.

L’isolamento dell’abitazione era creduto indispensabile tanto, che la Legge delle XII tavole stabilisce dover lo spazio da lasciarsi fra casa e casa della città essere di due piedi e mezzo. (Tav. VII, § 1).

Nè soltanto le case erano isolate, ma anche i pezzi di terreno d’ogni famiglia; e non era certo per preservarli dagli incendi che prendevasi tale precauzione. La Legge delle XII tavole fissa in 5 piedi la larghezza della striscia di terra che doveva intercedere fra i varii campi. (Tavola. VII, § 4).

IV . Origine della giustizia e del furto

Il frazionamento d’una parte della proprietà comune della gens o del clan in porzioni di terra distribuite temporaneamente alle famiglie fu un’innovazione più rivoluzionaria di quel che non sarebbe ai giorni nostri la nazionalizzazione dei beni privati.

L’uso privato della terra ed il possesso individuale dei raccolti si introdussero con estrema difficoltà e si mantennero soltanto col porsi sotto la protezione della divinità e «della spada della legge». La quale ultima, è opportuno aggiungere, non fu inventata che per dar loro protezione. Quella giustizia che non è più soddisfacimento dell’antico talione, della vendetta, sorge nella società umana, soltanto dopo la proprietà privata; la frase là dove non esiste proprietà non può esistere ingiustizia «è vera quanto un teorema d’Euclide, dice Locke: poichè l’idea di proprietà è quella di un diritto su qualche cosa, e l’idea a cui si riannoda la parola ingiustizia è quella di invasione o di violazione di questo diritto.»13

Linguet diceva argutamente a Montesquieu:

«Il vostro Spirito delle leggi non è altro che lo spirito della proprietà

Varie cerimonie religiose inculcavano nell’animo superstizioso dei popoli primitivi il rispetto a questa proprietà privata che ripugnava tanto alla loro natura comunista. In certi giorni dell’anno i capi di famiglia dell’Italia e della Grecia facevano il giro dei loro campi percorrendo la striscia incolta, spingendo innanzi le vittime, cantando inni ed offerendo sacrifizi sulle pietre che segnavano il confine, le quali presso i romani erano degli iddii-termini e presso i greci delle pietre divine di confine. Il contadino non doveva avvicinarsi al termine, per timore che

«il Dio, sentendo l’urto del vomero dell’aratro, non gli gridasse: “Ferma, questo è il mio campo, quello il tuo„». (Ovidio, Fasti, II).

Jehovah è costretto ad inculcare il rispetto del campo altrui con frequenti raccomandazioni e minacce: «Non cambierai di posto il termine del vicino.» (Deuteromonio, XIX, 2) «Sia maledetto colui che trasporta il termine del vicino: tutto il popolo gli griderà dietro: Amen!» (Ivi, XXVII, 17). Giobbe, che ha l’anima di un proprietario arrabbiato, annovera fra i più grandi malfattori coloro che tolgono i termini (XXIV, 2). Platone dimentica il proprio idealismo quando si tratta della proprietà: «La nostra prima legge dev’essere questa: che nessuno tocchi al termine che divide un campo da quello vicino, poichè deve rimaner sempre nello stesso punto. A nessuno venga in mente di svellere la pietra ch’egli ha promesso, con giuramento, di lasciare a posto». (Leggi, VIII). Gli Etruschi invocavano ogni sorta di maledizioni sul capo dei colpevoli.

«Colui che avrà toccato o trasportato il termine sarà condannato dagli Dei, scomparirà la sua casa, sarà estinta la sua razza, la terra sua non produrrà più frutto alcuno; la grandine, la rubigine, il calore soffocante distruggeranno le sue messi; le sue membra saranno coperte di piaghe e cadranno putrefatte.»14

Per certo, la proprietà privata non era apportatrice di fratellanza all’umanità.

Gli anatemi spirituali, che turbano in modo così profondo l’immaginazione fantastica e confusa dei popoli bambini, non essendo bastati a reprimere l’abitudine di pigliare gli oggetti di cui si aveva bisogno, si dovette ricorrere a castighi corporali di una ferocia inaudita, in urto diretto cogli usi e coi sentimenti dei selvaggi e dei barbari, i quali sottomettevansi a terribili torture per abituare il corpo alle lotte continue della vita, ma non davano mai loro il carattere di castigo: furono i padri proprietari che primi inventarono l’orribile: qui bene amat, bene castigat (Chi ama tanto, punisce tanto). Il selvaggio non percuote i suoi bambini: Catlin racconta che un capo Sioux gli diceva con istupore «di aver veduto, sulla frontiera, dei bianchi sferzare i loro figli; cosa questa ben crudele.»

Versare il sangue della propria gens, ucciderne uno dei membri, erano i delitti più orribili che un selvaggio ed un barbaro potessero commettere. A vendicarli, sorgeva tutto il clan. Quando un membro del clan aveva commesso un omicidio o un altro delitto, affinchè nessun altro membro si coprisse d’infamia collo spargere il sangue del colpevole, si espelleva quest’ultimo e lo si votava agli dei infernali.

Dopochè Atene era uscita dalla barbarie, per lunga pezza ancora, non potevansi trovare cittadini che volessero compiere le funzioni repressive della polizia; furono affidate a schiavi, e si ebbe questo strano spettacolo, di veder degli uomini liberi percossi da schiavi.

La proprietà segna il suo apparire con l’insegnare ai barbari il disprezzo di tutti questi sentimenti sacri; leggi che sanciscono la pena di morte sono fatte contro coloro che attentano alla proprietà. – Colui che, di notte, avrà furtivamente fatto pascolare od avrà tagliato dei raccolti cresciuti in campi arati, dice la legge delle XII tavole, se pubere, sarà votato a Cerere e messo a morte; se impubere, verrà flagellato con le verghe ad arbitrio del magistrato e condannato a restituire il doppio del danno. Il ladro sorpreso in flagrante, se uomo libero, dev’essere percosso con le verghe e ridotto in schiavitù; – colui che ha incendiato una catasta di grano dev’essere flagellato e bruciato vivo. (Tav. VIII §§ 9, 10, 14).

La legge dei Burgundi supera in ferocia quella dei Romani: essa condanna alla schiavitù la moglie ed i figli maggiori dei quattordici anni, i quali non avessero denunziato subito il loro marito e il loro padre, colpevole di un furto di cavalli o di buoi (XLVII, §§ 1, 2). La proprietà introduceva la delazione nel seno stesso della famiglia.15

Queste maledizioni spirituali e queste pene corporali, che si trovano presso tutti i popoli, hanno ovunque gli stessi caratteri di ferocia; esse fanno fede della difficoltà provata dalla proprietà nell’infiltrarsi frammezzo alle tribù comuniste. E ciò si capisce, poichè, prima dell’introduzione della proprietà collettiva consanguinea, il selvaggio considera come suo tutto ciò che appartiene al clan, e ne dispone a suo talento, secondo i proprj bisogni.

I viaggiatori che furono vittima di questo diritto di prendere tutto ciò che si trovi a portata di mano considerarono i selvaggi come ladri, quasi che il furto potesse esistere là dove la proprietà privata non ha fatto ancora la sua apparizione.

Ma, quando la proprietà collettiva è costituita, l’abitudine d’impadronirsi delle cose che si vedono e si desiderano diventa delitto se ha per oggetto i raccolti ed il gregge delle famiglie disaggregate della gens; e per combattere quest’uso inveterato è mestieri aver ricorso alle superstizioni religiose ed alle pene corporali. La malvagia e spaventosa giustizia ed i codici abbominevoli sui delitti e sui crimini compaiono nella storia umana solo dopo il costituirsi della proprietà, e come diretta conseguenza di essa.

V. Caratteri della proprietà collettiva

La famiglia patriarcale è una collettività di famiglie: il capo, coi fratelli, coi figli, coi nipoti, colla moglie sua, colle mogli degli altri uomini e coi rispettivi bambini vivono in comune sotto la sola autorità di lui. La sorte della famiglia patriarcale è così intimamente legata alla forma collettiva della proprietà che questa diventa condizione essenziale della sua esistenza; e, quando si incomincia a frazionarla, come si era fatto della proprietà comune della gens, la famiglia patriarcale si sfascia; tutte le famigliuole, riunite prima e tenute insieme dalla proprietà collettiva, si stabiliscono da sole e fondano la famiglia moderna, ridotta alla sua più semplice ed ultima forma: essa non è più composta che da una sola famiglia individuale.

La famiglia e la proprietà passano per le stesse fasi evolutive. La gens è, da principio, la famiglia comune di tutti i suoi membri; essa va frazionandosi in seguito in famiglie matriarcali, poi patriarcali, che sono collettività di famiglie individuali. – La proprietà comune si divide nelle varie proprietà collettive delle famiglie matriarcali e patriarcali, e la proprietà collettiva, a sua volta, si trasforma in proprietà privata di una o più famiglie individuali fra quelle che formavano la comunanza patriarcale.

Tutte le antiche società hanno riconosciuto l’importanza della proprietà per la conservazione della famiglia. Nella terra classica dell’uguaglianza, in Sparta, il cittadino che avesse perduto il proprio fondo di famiglia o l’avesse ridotto a tanto da non poter sopperire alle spese dei pubblici banchetti, era escluso dal ceto aristocratico degli uguali (omoioi) , che soli possedevano i diritti politici.

Lo Stato ateniese sorvegliava l’amministrazione della proprietà della famiglia; ogni cittadino aveva la facoltà di chiedere l’interdizione di un capo famiglia, che amministrasse male i suoi beni.

La proprietà collettiva non apparteneva nè al capo della famiglia nè ai suoi membri viventi, bensì alla famiglia considerata come un ente collettivo che non muore e che va perpetuandosi di generazione in generazione; essa era il patrimonio della famiglia del passato, del presente e dell’avvenire. Apparteneva agli antenati che in essa avevano i loro altari e le loro tombe, ai viventi che ne usufruivano coll’incarico di continuare la tradizione e di conservare il dominio familiare in buono stato per trasmetterlo ai discendenti come l’avevano ricevuto.

La casa era la base essenziale della proprietà familiare; la legge ateniese, che autorizzava la vendita delle terre, proibiva quella della casa. La proprietà fondiaria era inalienabile; essa non poteva uscir mai dalla famiglia nè venir divisa fra i membri di essa; doveva trasmettersi di maschio in maschio.

In Grecia se il padre non lasciava un successore maschio, la figlia erede si univa in matrimonio con un parente di lui, il quale diventava erede. La legge dei Franchi e delle altre tribù germaniche dice: «Se il defunto non ha lasciato un figlio, il denaro e gli schiavi apparterranno alla figlia, e la terra al parente più prossimo nella linea e discendenza paterna.» (Lex Thuringorum) Il capo di famiglia, che a volte era elettivo, amministrava le sostanze; doveva badare a che le coltivazioni e la conservazione della casa fossero ben fatte; provvedeva ai bisogni dei singoli membri della collettività familiare; ed era tenuto a trasmettere la proprietà a colui che gli succedeva nello stato di prosperità in cui l’aveva avuta dal suo predecessore. Per poter adempiere a questi incarichi, egli era munito di un’autorità assoluta: legislatore, giudice e giustiziere, egli condannava e puniva corporalmente gli individui posti sotto di lui; il suo potere giungeva fino a poter vendere come schiavi i proprii figli ed a condannare a morte i suoi soggetti, non esclusa la moglie, la quale pure godeva della protezione – invero precaria assai – della propria famiglia.

La quantità di terra data ad ogni collettività familiare è per solito proporzionata al numero delle famiglie che la compongono: il capo aumenta questo numero unendo in matrimonio i figli maschi ancora fanciulli con donne adulte, le quali diventano concubine sue e fantesche della collettività. Haxthausen racconta di aver veduto nei villaggi russi delle giovani donne, alte e robuste, portare fra le braccia i loro piccoli mariti.

Questa frase banale: «la famiglia è la base dello Stato», che, da quando ha finito di essere esatta, i moralisti ed i politicanti ripetono ad nauseam, era l’espressione della più pura verità nel tempo della proprietà collettiva. Ogni villaggio avente per base tale proprietà è difatti un piccolo Stato vivente di vita propria.16

Il suo governo è il consiglio degli anziani, formato dai capi di famiglia, tutti uguali di fronte al diritto. I comuni indiani, dove il sistema della proprietà è giunto al suo completo sviluppo, hanno un gran numero di funzionari pubblici: operai (carradori, tessitori, sarti, portatori d’acqua, lavandai, etc.); maestri, i quali per insegnare a leggere tracciano l’alfabeto sulla sabbia; genealogisti che devono conservare l’origine e la discendenza di ogni famiglia; astrologhi per annunciare i giorni propizi per la semina e pel raccolto; mandriani per guidare il gregge di tutti gli abitanti; bramini, ed anche danzatrici sacre: tutti questi funzionari sono mantenuti a spese della collettività e devono prestar gratuitamente i loro servigi alle famiglie che discendono dai primi occupanti, non agli stranieri stabilitisi nel villaggio. Sir G. Campbell nota, fra diversi altri fatti curiosi, che il fabbro-ferraio e altri molti artigiani sono pagati meglio del prete.

Il capo del villaggio, eletto per la sua abilità, pel suo sapere, per le sue attitudini amministrative ed anche per la scienza sua in fatto di stregonerie e di magia, è l’amministratore dei beni del comune; egli soltanto ha il diritto di commerciare con l’esterno, di vendere il sopravanzo dei raccolti e dei greggi e di comprare gli oggetti che il comune non fabbrica.

Come osserva Haxthausen, il commercio si fa solo all’ingrosso, cosa questa che presenta molti vantaggi, perchè il contadino, abbandonato a sè stesso, è costretto molte volte a vendere i suoi prodotti a un prezzo inferiore al loro vero valore e in tempo non propizio alla loro vendita. Invece, trovandosi il commercio fra le mani del capo, questi può, valendosi delle sue relazioni con gli altri capi dei villaggi vicini, aspettare un rialzo dei prezzi per fare i suoi contratti e approfittare di tutte le circostanze favorevoli.

Si apprezza la verità di queste considerazioni vedendo in quale modo i piccoli coltivatori francesi siano sfrontatamente gabbati dai negozianti.

I borghesi precipitatisi, come tante cavallette affamate, sull’Algeria e sulla Tunisia per rubare e predare, furono oltremodo indignati quando si accorsero di non potere stringere direttamente relazioni personali con gli Arabi, ma di essere invece costretti a trattare sempre coi capi delle piccole collettività: essi uscirono nelle più strane omelie possibili sulla sorte di quei poveri Arabi, i quali non avevano nemmeno la libertà... di lasciarsi spogliare dai commercianti europei.

Queste piccole società, organizzate sulla base della proprietà collettiva, posseggono una vitalità ed una forza di resistenza che in nessun’altra forma sociale si riscontra in così alto grado. – Le comunanze di villaggio, – dice lord Metcalf, che le studiò nel 1832 mentre era vicerè delle Indie – sono piccole repubbliche, le quali producono quasi tutte le cose di cui abbisognano, e sono quasi indipendenti dal mondo che loro sta attorno. Esse durano là ove nulla ha durato. Le dinastie succedono alle dinastie, le rivoluzioni alle rivoluzioni: gli Hindu, i Patan, i Mogol, i Mahratta, i Sicks e gl’Inglesi sottentrano gli uni agli altri nel potere sovrano; ma le comunanze di villaggio non mutano mai. Nei tempi di guerra o di rivolta, si armano e si fortificano; se un esercito nemico attraversa il paese, le comunità rinchiudono il bestiame entro le mura e lo lasciano passare senza dargli noia. Se il saccheggio e la distruzione sono diretti contro di loro e se non sono in grado di opporre efficace resistenza alle forze che le attaccano, fuggono lontano e si rifugiano in altri villaggi amici; ritornano poi a ripigliare le interrotte occupazioni quando la bufera è passata.

Se gli assassinii ed il saccheggio durano più anni di seguito, tanto da rendere inabitabile il paese, i membri del villaggio restano disseminati; ma, appena intravedono la probabilità di un’occupazione pacifica, ritornano.

Può morire una generazione, ma ritornerà quella che le succede. I figli rioccuperanno i campi dei loro padri, il villaggio avrà l’identica situazione, le case la stessa posizione, i discendenti le stesse terre... E non è cosa facile far loro mutare luogo; spesso non cedono per lunghi periodi di torbidi e di commozioni, ed acquistano forze bastevoli per resistere vittoriosamente al saccheggio e all’oppressione.

In appresso, lord Metcalf osserva, con una certa tristezza, come: «queste comunanze di villaggio, che nessun urto esterno può intaccare, siano distrutte con facilità dalle leggi e dalle Corti di Giustizia inglesi.»17

Il sistema capitalistico non tollera di aver a lato la proprietà collettiva, ch’esso spietatamente distrugge e surroga colla proprietà individuale. Ciò che accade ai giorni nostri nelle Indie inglesi e nell’Algeria, accadde pure in Francia: le comunanze di villaggio, le quali eransi conservate durante il periodo feudale ed erano giunte fino al 1789, vennero disorganizzate dall’azione dissolvente delle leggi fatte durante e dopo la rivoluzione borghese.

Il grande giurista rivoluzionario Merlin sospetto, così chiamato perchè fu relatore della legge dei sospetti – ebbe da solo maggior potenza per distruggere e disperdere i beni comunali e per ispogliarne i contadini, di quel che non avessero avuto insieme i signori feudali durante secoli interi.

All’infuori delle ragioni d’ordine politico, le quali spingono i governi dispotici a proteggere l’organizzazione comunale e familiare fondata sulla proprietà collettiva, ve ne hanno altre di carattere amministrativo non meno importanti.

Essendo i comuni collettivisti altrettante unità amministrative rappresentate dai capi che le dirigono e commerciano a nome loro, il governo fa responsabili questi ultimi del pagamento delle imposte, dell’arruolamento dei soldati, ed impone loro altre funzioni gratuite.

In Russia il governo imperiale concede il proprio appoggio al consiglio comunale ed eseguisce le sue decisioni, incorporando nell’esercito e mandando in Siberia coloro che non si comportano come gli anziani vorrebbero.18

I re di Francia che regnarono prima dell’89 tentarono di difendere i beni comunali ed i privilegi dei contadini insieme con le loro associazioni comuniste, sopravvissute alla trasformazione dei proprietari liberi in servi, e spesse volte vi riuscirono.

L’organizzazione della gens e la proprietà collettiva, quantunque quest’ultima riducesse il comunismo a poche famiglie coabitanti sotto il medesimo tetto, perdurarono presso i servi, i quali nei loro borghi avevano stalle e granai comuni. Le abitazioni di queste comunanze di servi erano spesso raggruppate attorno ai castelli fortificati e venivano dette cellae, nome che molti villaggi hanno conservato fino ad oggi (Celles).

Ridivenuti liberi, i servi continuarono a vivere in comunanza; fino alla Rivoluzione – le terre signorili furono coltivate da associazioni comuniste di contadini, ed i nobili vi trovavano il loro tornaconto.

Lungi dal cercare di sopprimere queste comunanze, le imponevano ai contadini a cui concedevano terre in piena proprietà, ed a quelli ai quali facevano coltivare i proprii beni. Perreciot (t. 1, cap. V) fa menzione di un editto, promulgato nel 1549 dal clero e dalla nobiltà della Borgogna, il quale proibiva ai contadini uscenti dalla manomorta di diventare proprietari ove non si costituissero in comunità. Dalloz (Jurisprudence genérale) cita un contratto del XVII secolo, in cui un signore della Marca dà le sue terre a mezzadria perpetua, a condizione «che i contadini conduttori farebbero un même pot, feu, et chanteau de pain (letteralmente – una stessa pentola, fuoco e tozzo di pane) e vivrebbero in comunanza perpetua». Dunod, giurista del XVIII secolo, nel suo Trattato della manomorta spiega la ragione di questa esigenza dei signori:

«Si vuole la comunanza fra coltivatori, egli dice, perchè le terre della signoria sono così meglio coltivate e perchè i soggetti possono più agevolmente pagare i diritti al signore quando vivono in comune che non quando sono in famiglie staccate.»

Ed i capitalisti ci vengono a dire che, se i lavoratori vivessero in comunanza, diverrebbero, come loro scioperati ed incapaci di far qualcosa di bene!

VI. Comunanze di contadini

Gli economisti, che non vedono più in là della punta del loro naso, prendono il contadino moderno, ridotto in cattivo stato dalla proprietà individuale, come il tipo eterno del coltivatore, ed affermano con serietà ch’egli è, e per conseguenza fu sempre, ribelle al comunismo; che non potè, nè potrà mai, lavorare in comune e consumare in comune il frutto del proprio lavoro. Quest’asserzione fantastica venne ripetuta con tanta costanza, che si finì con l’annoverarla fra le classiche verità del senno borghese; eppure basta aprire le opere di Beaumanoir e di Guido Coquille, i quali, a tre secoli di distanza (Beaumanoir è del XIII secolo, Coquille del XVI), hanno raccolto numerosi documenti sulle comunanze contadine di Francia per essere persuasi della sua completa falsità.

I parçonniers o compains (uomini che vivono dello stesso pane), i quali formavano le società comuniste dette da Coquille mesnages des champs (famiglie dei campi) ed assumevano la coltivazione delle terre signorili e delle bourdeilages (terre che dovevano pagare delle rendite) erano i discendenti dei consortes barbari, aventi diritto a un uguale pezzo di terra nelle distribuzioni a sorte.

Il Laferrière non erra sulla loro origine quando fa risalire «questo uso di mettersi in comunanza al modo di essere della società barbara prima dell’invasione» e quando vi scorge «tracce dell’antico clan celtico.» (Histoire du droit français).

Quest’opinione è tanto più giusta in quanto le comunanze comprendono soltanto individui aventi una stessa origine, e più tardi, quando diventano accessibili anche a persone non legate da vincolo alcuno di parentela, una gran parte delle consuetudini obbliga ad apposito contratto (consuetudini di Dreux, di Chartres, etc.) per l’ammissione dello straniero.

E quando, in seguito ai torbidi che sconvolsero il paese per secoli interi, le famiglie vennero disfatte e i membri loro dispersi, l’abitudine della vita in comune era così inveterata negli abitanti dei villaggi, ch’essa rinasceva in seguito alla semplice coabitazione. «Compagnie se fait par notre coutume» dice Beaumanoir, «par solement manoir ensanble à un pain, et à un pot, un an et unjor, puisque li meubles de l'un et de l'autre sont mêlés ensanble» [«Secondo la nostra consuetudine – dice Beaumanoir – una compagnia si forma assai semplicemente col solo vivere insieme dello stesso pane e della stessa pentola per il tempo di un anno ed un giorno, poiché i mobili dell’uno e dell’altro sono già mischiati insieme»].

Come si vede, questa non è un’associazione le cui condizioni siano previste e discusse prima di ogni azione comune; essa nasce tacitamente, secondo l’espressione medioevale, per il semplice fatto della vita comune durante un breve periodo di tempo.

Le famiglie che «si dedicavano ai lavori dei campi, faticosi assai» – dice Coquille – erano composte da un gran numero di persone, «le une servivano ad arare e condurre i buoi, animali molto lenti, dei quali ordinariamente sono necessarie tre paia per trar l’aratro; altre a menar le pecore ed i montoni, e le altre a condurre i porci.»

Questi ragguagli sono indizio dell’esistenza di importantissime aziende agricole dedite agli allevamenti ed alle coltivazioni. «Ad ognuno è dato un impiego adatto all’età sua, e tutti sono retti da un solo individuo, detto maistre de communautè (capo di comunanza), il qual vien eletto a tal carica, e comanda a tutti gli altri, sbriga gli affari che possono conchiudere nelle città o nelle fiere, ha la facoltà di obbligare i proprii amministrati per cose mobiliari che riguardino la comunanza, ed egli soltanto figura sui ruoli delle taglie e degli altri sussidi.»

Questi capi di comunanze di contadini adempievano, come abbiamo visto, le stesse funzioni dei capi di villaggio indiani e degli starosta del mir russo.

«In queste comunanze si fa caso dei bambini buoni a nulla, perchè si nutre speranza che faranno molto in avvenire; si tiene conto di quelli che sono nel fiore dell’età, perchè lavorano; si apprezzano i vecchi per i consigli e per il ricordo di ciò che hanno fatto. E così, in ogni età ed in ogni modo esse durano, come un ente politico, il quale, per surrogazione continua, non debba morir mai... Da queste considerazioni si può chiaramente scorgere come queste comunanze fossero veri collegi e vere famiglie; le quali erano, per ciò che ha tratto all’interesse, come un corpo composto da più membra in cui ogni membro sia separato dall’altro; e per quello che riguarda la fratellanza, l’amicizia e l’unione economica formano un corpo solo»

Per quasi tutta la Francia si trovano tracce di queste comunanze contadine, che Coquille paragona ad un corpo le cui membra disgiunte sono tenute insieme da sentimenti e da interessi.19

Il Guérard le trova fra i coloni ed i servi che, al IX secolo, coltivavano le terre dell’abbazia di St. Germain-des-Prés, ed esse durano fino alla vigilia della Rivoluzione. Ma i proprietarii fondiarii della seconda metà del XVIII secolo, invece di proteggerle come avevano fatto i nobili antichi, le denunziavano come dannose al buon andamento delle loro terre, e ne domandavano lo scioglimento insieme coll’abolizione dei diritti secolari che i contadini avevano conservato, anche dopo aver perduto le terre, che i signori feudali loro avevano tolte.

La Rivoluzione, che gli storici borghesi dicono essere stata fatta a pro’ dei contadini, li ha spogliati dei loro diritti ed ha smembrato le loro comunanze.

Il processo verbale delle sedute dell’assemblea provinciale del Berry dell’anno 1787 contiene una Relazione sulle cause del malessere del Berry, la quale riassume le principali doglianze dei proprietarii verso i contadini ed i loro «mesnages des champs».

La cagion prima di tale malessere è la neghittosità della classe lavoratrice.

«Questo vizio dei lavoratori del Berry dev’essere ben vecchio, poichè fra i privilegi accordati al municipio di Bourges, noi ne troviamo uno che non sappiamo sia stato chiesto mai da alcuna altra città d’Europa, quello cioè di determinare annualmente il salario dei vignaioli e di stabilire ogni anno il numero delle ore per cui debbono lavorare».

La relazione pecca per ignoranza, perchè in ogni dove, in Francia ed in Europa, i proprietarii si erano attribuito il diritto di stabilire un maximum di salario ed un minimum di ore di lavoro, ai quali costringevano i lavoratori delle città e dei campi; oggidì sono gli operai che domandano sia fissato un minimum di salario ed un maximum di ore di lavoro: questo semplice fatto basta da solo a mostrare di quanto la condizione degli operai sia peggiorata dopo il 1789.

Tutto contribuisce a sviluppare quella maledetta pigrizia che forma la disperazione di quei portentosi lavoratori che sono i signori proprietari. «La consuetudine del Berry, scritta da uomini ligi alle loro usanze e che non avevano cognizione di nulla di meglio al mondo», stabilisce che «i luoghi non coltivati, i quali siano, o ricoperti da carpini, o non dissodati, o macchie, non si debbano dissodare in tempo alcuno;... che i boschi, dopo tre anni al mese di maggio... che i pascoli dal 15 luglio al 15 marzo non possano essere lavorati.» Ciò significa che come già al tempo della proprietà collettiva, tali terreni sono destinati al pascolo del bestiame dei contadini. «Da quanto abbiamo detto si rileva che nessuno, nel Berry, è proprietario in modo assoluto ed esclusivo» che la consuetudine «ebbe per iscopo di assicurare al bestiame una quantità sufficiente di alimento senza che i suoi padroni avessero bisogno di darsi pensiero per mantenerlo». Il diritto di ricingere i campi rispettivi forma oggetto della più importante fra le richieste dei proprietarj anteriori alla Rivoluzione.

Ma le comunanze son quelle che più eccitano lo sdegno dei proprietari del Berry.

«La maggior parte delle famiglie si va ammucchiando nelle comunanze... Non è raro il trovare tre o quattro donne maritate che vivano in comunanza... Alla comunione dei beni fra marito e moglie, i compilatori della consuetudine hanno aggiunto la comunione tacita tra fratelli e sorelle o altre persone che abitino insieme, fondandola sull’abitazione e sulle spese in comune, e sulla conseguente partecipazione ai guadagni, profitti e perdite... Di qui nasce una continuazione di comunanze quasi interminabili e tanto più difficili a disciogliere quanto più hanno durate a lungo. ...Ogni comunanza deve avere un capo ed una matrona... è costume che, tra fratelli e sorelle, il capo sia il fratello maggiore, la matrona la moglie del minore: ecco dunque una repubblica in cui si è cercato di stabilire l’equilibrio del potere... Ognuno vuole usufruire dei benefizj dell’associazione, i quali consistono nell’essere alloggiato, nutrito, calzato, vestito, a spese comuni, e sovente a spese del proprietario... Accade così che quest’ultimo mantiene molta gente, senza che la terra gli renda di più, e che, con molte braccia, si lavora poco. Alle braccia intormentite dall’inoperosità aggiungasi il numero di bocche inutili che devono trovarsi là dove sono tre o quattro donne a far figliuoli, e si concepirà facilmente come, a dispetto della fertilità e dell’estensione delle terre lavorate, la proprietà fondiaria non produca spesse volte grano bastante a sfamare i coloni. In queste repubbliche, che noi abbiamo descritte, deve regnare una grande anarchia. Il capo gode però di un potere assai vasto: vende, compra, baratta, va di qua e di là come gli pare e piace; è un uomo che non conta, per il lavoro... Infine, i divertimenti non possono mancare là dove esistono agi in quantità. Il piacere del far niente è, senza dubbio, dolcissimo per uomini della fatta di quelli di cui abbiamo fatto cenno; ma essi hanno bisogno di altri sollazzi per allietare l’ozio quasi continuo del giorno. Ad uno di loro piace la pesca: egli è il pescatore della comunanza; ad un altro piace la caccia col fucile, egli ne è il cacciatore; ad un terzo piace il tender lacci o reti, ed egli trascorre quattro o cinque ore a metterli ed a sorvegliarli: lo si lascia fare senza rimprovero, purchè porti a casa una preda abbondante.»

Se le comunanze non piacevano ai proprietarj borghesi del secolo XVIII, esse riuscivano per contro ad assicurare il benessere dei coltivatori, ben più felici ed indipendenti dei moderni contadini-proprietarj, per i quali, secondo gli storici ed i borghesi, è stata fatta la rivoluzione dell’89.

La proprietà collettiva, che conservava gli istinti comunisti fra i contadini francesi ed europei, li salvava dalla miseria.

«Il proletariato è sconosciuto in Russia, scriveva Haxthausen, e fintantochè non verrà meno questa istituzione (il mir), non potrà formarsi mai. Ivi un uomo può scialacquare il proprio bene e diventar povero, ma le disgrazie o le colpe del padre non ricadono sui figli, perchè questi ultimi, non ricevendo i loro diritti dalla famiglia, ma dalla comunanza, non ereditano della povertà del padre.»

Questa garanzia contro la miseria ed il proletariato è la vera causa che fa della proprietà collettiva l’incubo della borghesia, la cui fortuna ha appunto per base la povertà degli operai.

La proprietà collettiva, notevole sia per la vitalità e l’indistruttibilità delle piccole società di contadini alle quali dà vita, sia per il benessere che arreca ai lavoratori, sia per gli alti sensi d’ospitalità, di solidarietà e di fratellanza che sviluppa, è notevole anche per la grandezza delle sue opere.

L’Europa venne dissodata e coltivata non da monaci, come pretende la leggenda religiosa, ma da barbari collettivisti:20 di mano in mano che andava crescendo la popolazione di un villaggio, le porzioni individuali di terra andavano scemando necessariamente; per avere nuove terre coltivabili, si abbattevano le foreste. «Questi dissodamenti sono ben di rado opera di famiglie isolate, dice il Kovalewsky. Delle torme intere occupano il suolo insieme, dopo averlo reso atto alla coltivazione coi loro sforzi comuni... Fatti simili si trovano inseriti nelle carte russe del XVI e XVII secolo. Anzi, di quando in quando si riproducono anche oggidì, poichè il governo centrale non vuole riconoscere alcun diritto di proprietà individuale sugli essarts e purprises, parole che nell’antico diritto francese servivano ad indicare queste appropriazioni di terreni incolti.»21

Si possono citare, come esempi di queste grandi opere compiute dalle collettività contadine, i meravigliosi lavori di irrigazione delle Indie e le coltivazioni a terrazzo sul pendio delle montagne di Giava, che misurano, a quanto dice il Wallace, centinaia di chilometri quadrati: «Queste strisce a scalino diventano ogni anno più numerose, a misura che aumenta la popolazione del villaggio, per opera degli abitanti di ogni villaggio, i quali lavorano insieme sotto la direzione del capo rispettivo; e forse questo sistema di coltivazione in comune è il solo che possa far possibile un tale moltiplicarsi di scalini e di canali per l’irrigazione.»22

VII. Frazionamento della proprietà collettiva

La proprietà collettiva, sorta dalla divisione della proprietà comune al tempo in cui la gens si frazionò in famiglie matriarcali o patriarcali, si divide a sua volta per formare la proprietà individuale, quando le famigliuole contenute nella gran famiglia patriarcale si disgiungono.

I frazionamenti successivi di queste due forme di proprietà immobiliare ebbero luogo in seguito all’influenza della proprietà mobiliare, che fu, ed è l’agente più attivo delle trasformazioni della proprietà fondiaria.

L’individuazione della proprietà fondiaria non poteva nascere che dopo l’individuazione della proprietà mobiliare, la quale, per natura sua, si presta a diventar personale.

Le madri di famiglia, che vivevano insieme nell’abitazione comune della gens, nel separarsi portarono via quei pochi oggetti mobili che loro appartenevano, e fabbricarono delle abitazioni isolate, che, per la loro costruzione rudimentale, erano veri oggetti mobili, e come tali vennero considerati. La terra su cui sorgeva la casa rivestì il carattere di proprietà individuale perchè faceva una cosa sola con essa; la casa estese pure questo carattere al terreno che la circondava, il quale, ricinto da palizzate o da muri a secco, formò insieme con essa il fondo familiare, che andò poi ingrandendosi a spese della proprietà collettiva. Quest’ingrandimento ebbe luogo rapidamente, a cagione dell’accrescersi e dell’accumularsi dei beni mobili nei villaggi e nei borghi posti in siti favorevoli allo sviluppo commerciale. L’uguaglianza fra le famiglie patriarcali del villaggio scomparve; le une divennero povere e contrassero debiti, mentre le altre s’arricchivano e si valevano delle ricchezze per impossessarsi delle terre della collettività; le porzioni di terreno delle famiglie indebitate passarono nelle mani dei loro usurai.

L’azione delle ricchezze facevasi ugualmente sentire nella famiglia patriarcale stessa. Da principio, tutti i beni sono comuni; nessuno possiede cosa alcuna individualmente, eccetto gli oggetti di uso personale; nelle famiglie dei villaggi collettivisti dell’India, le monete non sono strumento di traffico, sono oggetti di lusso che vengono cuciti agli abiti. Tutto ciò che si acquista fa parte della massa comune. Un proverbio slavo dice: «Ovunque la vacca sia condotta, essa figlia sempre in casa»; il che vuol dire: in qualunque modo l’individuo si arricchisca, deve far parte del proprio bene alla collettività familiare. Ed è giusto, poichè, a meno di esserne stato cacciato per un delitto, per una causa gravissima, ogni membro della famiglia ha un diritto su tutto ciò che è proprietà comune; egli può andar lontano, assentarsi per lungo tempo, ma quando ritorna ritrova il suo posto in casa.

In Roma e nei paesi slavi, il peculium castrense (bottino di guerra) fu il primo bene mobiliare che venne trasformato in proprietà individuale; poco a poco lo stesso privilegio si estese ai beni acquistati nel servigio dello Stato e della Chiesa, ed agli oggetti portati in dote dalla donna; di modochè, dopo il peculium castrense, formossi il peculium quasi castrense. Fu permesso di negoziare con questo peculio, che gli schiavi potevano accumulare, e che non tardò a comprendere bestiame, schiavi, gioielli, danaro ed anche beni immobili. La disuguaglianza fra i varj membri e le diverse famiglie della comunanza collettivista nacque insieme con le ricchezze: l’armonia interna fu distrutta; ogni famiglia ebbe interessi individuali e spesse volte contrari a quelli delle altre, le quali si disgiunsero e si stabilirono da sole. Si formò allora la famiglia quale noi la conosciamo.

L’evoluzione della proprietà collettiva, e della forma di famiglia che le è corrispondente, fu lentissima nei villaggi che non divennero centri di commercio e di accumulamento di ricchezza mobiliari. A quanto pare, questa forma di proprietà potrebbe durare secoli interi, se non ricevesse la scossa degli urti esterni. Infatti, le comunanze collettiviste formano delle unità economiche, le quali producono nel proprio seno tutto ciò che occorre per la vita materiale ed intellettuale dei singoli membri, e, per contro, rinchiudono pochissimi elementi che possano turbarne l’armonia; in ogni cosa si segue la tradizione conservata dagli antichi e tramandata di generazione in generazione come il più prezioso dei patrimonj. E per vero, quando una comunanza di villaggio raggiunge quel dato grado di sviluppo agricolo ed industriale e provvede ai pochi e modesti bisogni degli abitanti suoi, sembra che essa non trovi entro di sè causa alcuna di evoluzione; e si muove soltanto pel contatto col mondo esterno.

I governi assoluti si incaricano di dar loro la spinta che le mette in moto; e divengono così i primi distruttori della base su cui poggia il dispotismo. Fra le cause principali che introducono la miseria e la disorganamento nei villaggi collettivisti devonsi annoverare i pesi fiscali, la cui funesta influenza è nelle Indie inglesi evidentissima. Le imposte si pagano, da principio, in natura proporzionalmente al prodotto dei raccolti; ma questo sistema non può convenire ai governi che si centralizzano; essi esigono le imposte in contanti, e ne fissano prima l’ammontare, senza tenere conto dello stato delle messi. Per pagarle, i contadini sono spesse volte costretti a ricorrere agli usurai, veri flagelli delle comunanze di villaggio; questi animali immondi, protetti dai governi, derubano sfacciatamente gli abitanti; trasformano i coltivatori in proprietarj di nome, i quali lavorano per pagare i loro debiti che vanno aumentando ad ogni singolo pagamento.

Il disprezzo e l’odio ch’essi inspirano sono intensi e generali; se l’antisemitismo ha sollevato in Russia tante passioni e fu causa di tanti tumulti sanguinosi, si è perchè i contadini confondevano l’ebreo con l’usuraio; molti cristiani che scorticavano i coltivatori in modo non meno perfetto di quel che potesse fare il più circonciso fra i figli di Abramo, vennero depredati ed uccisi.

Però il frazionamento della proprietà collettiva può essere anche conseguenza naturale dei progressi agricoli. Di mano in mano che i sistemi di coltivazione si perfezionano e che i prodotti agricoli trovano degli sbocchi, i contadini si accorgono che occorre più di un anno per raccogliere il benefizio dei lavori e dei concimi incorporati nel terreno che è loro toccato. Chiedono perciò che le divisioni vengano fatte ogni 2, 3, 7 o 20 anni; il governo russo dovette imporle nell’epoca dei censimenti; i moujiks le chiamarono divisioni nere, cioè cattive, per dinotare in qual modo spiacessero alle famiglie, che finivano col considerarsi proprietarie delle terre distribuite loro nell’ultima divisione. Di fatti, è da notare come le terre coltivabili, su cui si sono fatte concimazioni, siano poi le prime che vengano distribuite a lunghi intervalli, e che finiscono con l’immobilizzarsi nella famiglia, mentre le praterie continuano a venir divise annualmente; e prima che le terre coltivabili diventino proprietà privata delle famiglie, gli alberi cresciuti sulle terre comuni destinate alla spartizione, appartengono a coloro che li hanno piantati.

I capi di famiglia dei villaggi collettivisti sono tutti uguali, perchè originariamente appartengono tutti alla medesima gens; ai forastieri che vi pongono residenza come operai o prigionieri di guerra, dopo un soggiorno prolungato e dopo che il diritto di cittadinanza, corrispondente all’antica adozione della gens, è stato loro concesso, si distribuiscono pure delle terre come ai discendenti dei primi occupanti.

L’aggiungersi di stranieri è possibile soltanto laddove il villaggio s’accresce con lentezza e le terre disponibili sono molte; le comunanze troppo popolose sono costrette a far sciame, a mandare fuori numerose colonie, ed a dissodare le foreste vicine; alle volte ogni famiglia ha la facoltà di dissodare il terreno al di fuori di un certo raggio, e per un tempo più o meno lungo esse vengono considerate come proprietarie del terreno messo in coltivazione. Ma il mezzo delle terre incolte e fertili manca presto alle città poste in riva o lungo i fiumi, e all’incrocio delle strade, le quali attirano, per la loro posizione, una gran quantità di forastieri.

In questi villaggi, che si trasformano in piccole città, la cittadinanza non si ottiene che difficilmente, e per avere il diritto di soggiornarvi bisogna pagare delle tasse.23 Coloro che vengono di fuori sono esclusi dal partecipare alle divisioni agrarie, dall’uso dei beni comunali, e dall’amministrazione pubblica; questi diritti sono riserbati ai discendenti dei primi occupanti, che costituiscono così un ordine privilegiato, un’aristocrazia del comune, un patriziato municipale che è in opposizione; da un lato con l’aristocrazia feudale, e dall’altro cogli artigiani, che sono sempre forastieri, almeno in origine, e che per difendersi contro il dispotismo e le vessazioni continue dell’aristocrazia del comune, si riuniscono in corporazioni di mestieri. Questa scissione degli abitanti della città fu una delle cagioni delle lotte intestine, a volte sanguinose, dell’evo medio. Mentre nelle campagne la proprietà feudale andava ingrandendosi a spese della proprietà collettiva, di cui doveva conservare l’impronta fino alla sua trasformazione in proprietà borghese; nelle città, diventate centri attivi di produzione e di commercio, crescevano e si accumulavano le ricchezze mobiliari, che dovevano poi, sugli avanzi della proprietà collettiva e delle organizzazioni comuniste, innalzare la proprietà individuale.


Note

1. F. ENGELS, l’Origine de la famille, de la propriété privée et de l’État; G. Carré éditeur, 1893.

2. L’espressione terra salica ha dato luogo a numerose controversie: fino al XVIII secolo gli storici la traducevano con terre nobili, terre distribuite sotto Clodoveo in compenso di servigi militari, ecc. – Il MABLY, nelle sue Osservazioni sulla storia di Francia, ne ristabilì il senso vero che è: “eredità di beni immobili, podere paterno dei Salj” e non “terra concessa a titolo di beneficio”; GUÉRARD risale al vero significato, dimostrando come salica derivi dalla vecchia parola germanica sala, casa. Terra salica significa dunque letteralmente: “terreno della casa, terra su cui essa è costruita”, che appartiene alla famiglia, rappresentata prima dalla madre, poi dal padre.

3. Quest’alta posizione che la donna occupa nei primi tempi dell’umanità, dimostra – ciò sia detto di volo – che la superiorità fisica ed intellettuale dell’uomo non è una necessità fisiologica primordiale, ma la risultanza d’uno stato economico e sociale perpetuato per lunghi secoli, il quale ha dato campo all’uomo di sviluppare le proprie facoltà più liberamente e più completamente di ciò che abbia potuto fare la donna, tenuta in soggezione, in una sorta di schiavitù famigliare. Il Broca, in seguito a una sua discussione col Gratiolet sui rapporti tra il volume e del peso del cervello coll’intelligenza, riconobbe che l’inferiorità intellettuale della donna potesse derivare semplicemente da un’inferiorità d’educazione. Il Manouvrier allievo del Broca e professore alla scuola antropologica di Parigi, ha constatato che la capacità dei cranj maschili dell’età della pietra, ch’egli ha misurati, era quasi uguale alla capacità media dei cranj dei parigini moderni, mentre al contrario quella dei cranj femminili dell’età della pietra era maggiore di quella delle odierne parigine:

Capacità media dei cranj parigini moderni:

Numero dei cranj misurati

Capacità in cm. c.

77 maschili 1560

1560

41 femminili

1338


Capacità media dei cranj dell’età della pietra:

Numero dei cranj misurati

Capacità in cm. c.

58 maschili

1544

30 femminili

1422

La capacità media dei cranj maschili selvaggi è inferiore di 16 cm. c.; mentre quella dei cranj femminili è superiore di 84 cm. c.

MANOUVRIER, De la Quantité de l’encéphale [Memorie della società di antropologia di Parigi, III, 1885].

4. La proprietà collettiva consanguinea, sotto il nome di mir, di marca, di comunanza di villaggio, ecc., venne ultimamente studiata in Germania da Haxthausen, Maurer, Engels, ecc.; in Inghilterra da Kemble, Maine, Gomme, ecc.; nel Belgio da Laveleye; in Russia dalla signora Efimenko, da Kovalewsky, ecc.; in Francia da Paul Viollet. Io dò il nome di collettivismo consanguineo a questa forma di proprietà, sia per distinguerla dal comunismo primitivo da cui essa deriva, sia perchè, negli inizj, le famiglie, che avevano diritto ogni anno a una parte delle terre comuni, riconoscevano di discendere da uno stesso progenitore.

5. VARRONE e PLINIO narrano che Romolo, dopo avere messo da parte le terre destinate al culto e al pubblico dominio, come accadeva nel Perù, fece tre parti, una per ciascuna tribù; ogni parte venne divisa in trenta lotti per le trenta curie, e queste divisero la loro porzione in altri aggruppamenti, per modo che ogni famiglia ricevesse un pezzo di terra uguale a due jugeri. – Il jugum o jugerum è quella quantità di terra che un paio (giogo) di buoi può arare in un giorno.

6. A. DE HAXTHAUSEN, Études sur la situation intériure, la vie nationale et les institutions rurales de la Russie; edizione francese, 1847.

7. MARSHALL, Elementary and practical treatise on landed property; 1804.

8. F. ENGELS, Socialism utopian and scientific; 1892.

9. H. S. MAINE, Village communities in the East and the West.

10. La vaine pâture era un diritto di pascolo sulle terre coltivate dopo che il raccolto era fatto. [N.d.T.]

11. Ethis de Novéan, primo segretario dell’Indipendenza della Franca-Contea, Mémoire, premiata dall’Accademia di Besanzone e pubblicata nella Gazzetta del Commercio, dell’Agricoltura e della Finanza del 1767.

12. Pericle, al sommo della sua potenza, dovette difendersi davanti all’assemblea popolare di Atene per aver iscritto sui registri della sua patria un figlio che aveva avuto da Aspasia, la quale, essendo straniera, non avrebbe potuto divenire moglie sua legittima.

13. Locke, Essay on the human understanding, book IV, ch. III, § 18.

14. Formola sacra, citata da FUSTEL DU COULANGES nella Cité antique.

15. La proprietà è sempre feroce e sanguinaria; in paesi cristianissimi e filantropicissimi, ancora non è molto, impiccavansi i ladri, dopo averli torturati, se ne avanzava il tempo. I falsari di biglietti di banca erano, ancor poco tempo fa, condannati a morte in Inghilterra; in tutti i paesi inciviliti sono condannati ai lavori forzati a vita. – Il sangue delle ecatombi del giugno 1848 e del maggio 1871 fu versato sull’altare della proprietà.

16. Il contadino russo vive e muore nel proprio comune; tutto ciò che v’ha fuori non esiste per lui; difatti la parola mir serve ad indicare ugualmente il mondo e la collettività di villaggio.

17. Report of select committee of the House of Commons; 1832.

Il notevole rapporto di lord METCALF è pubblicato per intero nel vol. IX. Sir. H. S. MAINE non ne fa parola nel suo lavoro sulle Comunanze di villaggio, e questo documento importante non fu inserito nella pubblicazione dei rapporti di lord METCALF fatta nel 1855 a cura di W. KAYE.

I giurati, i politici, i filosofi ed i riformatori di religione hanno discusso ben sovente sul diritto assoluto di proprietà; queste discussioni, quantunque interminabili, mettevano capo allo stesso punto da cui si era partiti: che cioè la proprietà aveva avuto per origine la violenza, ma che il tempo – il quale per solito rende brutta ogni cosa – l’aveva fatta bella e sacrosanta. A nessuno era venuto in mente di studiare storicamente la proprietà; i pensatori che davano fuori sistemi filosofici sul progresso dell’umanità avrebbero creduto di abbassarsi troppo con l’occuparsi dell’esistenza materiale dell’uomo e delle società. Fino a questi ultimi tempi gli storici e gli economisti non sospettavano l’esistenza della proprietà collettiva.

Un funzionario prussiano, HAXTHAUSEN, viaggiando in Russia verso il 1840, la scoprì, ma non ne intese l’importanza dal punto di vista storico; egli credette che il mir fosse una realizzazione delle utopie san-simoniane, di gran moda in quel tempo. BAKUNINE ed i liberali russi fecero di nuovo, dopo HAXTHAUSEN, la scoperta del mir; e siccome, non ostante la loro anarchia amorfa, BAKUNINE ed i suoi discepoli russi sono dominati dallo “sciovinismo”, annunziarono essere gli Slavi la razza privilegiata, che doveva condurre l’umanità per la via del progresso; profetizzarono che il mir, questa forma primitiva ed esausta della proprietà, doveva essere la forma dell’avvenire: alle nazioni occidentali non restava altro che rinunziare alle loro civiltà e scimmiottare il collettivismo dei contadini russi.

In virtù del principio per cui più difficilmente si scorge ciò che entra negli occhi, HAXTHAUSEN, il quale aveva saputo scoprire il mir in Russia, non si accorse come in Germania esistessero traccie numerose della mark, e afferma che la proprietà collettiva è una particolarità del popolo slavo. MAUREE ha dimostrato più tardi che i Germani avevano conosciuto la forma collettiva della proprietà, e dopo di lui una legione d’investigatori trovarono il collettivismo consanguineo in tutti i paesi, in tutte le razze. Però, prima di HAXTHAUSEN, i funzionari inglesi delle Indie avevano avvertito questa forma di proprietà nelle province che amministravano; ma la loro scoperta, racchiusa nelle relazioni ufficiali, non aveva avuto pubblicità alcuna. Dopochè la questione fu posta all’ordine del giorno, si vide che gli scrittori della fine del secolo XVIII conoscevano la proprietà collettiva; fra gli altri: Le Grand d’Aussy, Volney, François de Neufchâteau etc; ma essi la consideravano come una curiosità od una rozza anomalia.

18. Varii socialisti russi credono alla conservazione del mir; la desiderano, pensando che sarebbe più facile introdurre il comunismo agrario con una classe di contadini che vivono in collettività. Un governo rivoluzionario, approfittando dei sentimenti comunisti sviluppati dalla proprietà collettiva, potrebbe infatti prendere dei provvedimenti per nazionalizzare il suolo ed organizzare la coltivazione sociale. Ma, sfortunatamente, è molto dubbio che un potere rivoluzionario e socialista possa venir su e stabilirsi in Russia, finchè domina la proprietà collettiva. Infatti, i villaggi comunisti sono autonomi; producono nel loro seno tutto quello che loro occorre e sono molto imperfettamente in relazione fra di loro, dimodochè riesce facile al governo il soffocare qualsiasi tentativo di federazione, come capita appunto nelle Indie.

L’Inghilterra, con 50000 uomini di truppe europee tiene soggetto un impero grande come la Russia e più popolato. Le comunità indiane, senza un legame che le riunisce federativamente, non possono opporre resistenza alcuna.

Si può dunque conchiudere che la forma collettiva della proprietà, e l’organizzazione familiare e comunale che è in filiazione con essa, sono la vera base del dispotismo.

19. DONIOL dice che “la maggior parte dei villaggi, gruppi, borghi e tenimenti segnati sulle carte, nei registri, o nelle ‘usanze’ locali se hanno un nome preceduto dall’articolo i (les), quando tali nomi non ricordino esclusivamente un accidente del terreno che sia particolare della località, rappresentano, nelle campagne luoghi dove abitano le comunanze.” (H. DONIOL, Histoire des classes rurales en France; 1865).

20. I monaci ed i preti prendevano parte alla coltivazione delle terre mangiando e bevendo i numerosi canoni che prelevavano sui loro servi, coloni e vassalli, e cantando con maggior fervore delle laudi sacre, il

Vinum bonum et suave
............
Mundana laetitia,
............
Ave, placens in colore,
Ave, fragrans in odore,
Ave, sapidum in ore,
Dulce linguae vinculum
............
Monachorum grex devotus,
Omnis ordo, omnis mundus
Bibunt ad aequales potus
Et nunc et in saeculum
............
Felix venter quem intrabis,
Felix lingua quam rigabis,
Felix os quod tu lavabis,
Et beata labia.
Supplicamus, hic abunda,
Per te mensa sit facunda,
Et nos, cum voce jucunda,
Deducamus gaudia!

(O vino buono e soave, gioia del mondo... ave, o tu dal colore piacente, ave, o tu dal soave odore, ave, o tu tanto gustoso in bocca, dolce vincolo della lingua. – La schiera devota dei monaci, tutti gli ordini, tutto il mondo, bevono a vasi ricolmi, ora e nei secoli. – Felice il ventre ove entrerai, felice la lingua che tu bagnerai, felice la bocca che tu laverai, e beate le labbra. – Te ne supplichiamo, sii abbondante, siano per cagion tua fecondi i banchetti, e noi, con voce gioconda, viviamo fra i gaudi!)

Delle varianti di questa canzone, riprodotta da Edelestand du Meril, nelle Poesie popolari latine del medioevo furono trovate nei conventi di Francia, Germania e Svezia.

21. M. KOVALEWSKY, Tableau des origines de la famille et de la propriété, Stockholm, 1890.

22. A. R. WALLACE, The Malay Archipelago, 1869.

23. RIVIÈRE, cita un’ordinanza del 1223 che stabilisce come ogni straniero, per avere il diritto di soggiorno in Reims, deve pagare un quarto di staio di grano ed una gallina all’arcivescovo, 8 scudi al sindaco e 4 agli scabini. L’arcivescovo era il signore feudale; il canone da pagarglisi è lieve a paragone degli altri, mentre quelli del sindaco e degli scabini, che fanno parte del patriziato del comune, sono gravissimi, avuto riguardo all’epoca.

*. Cfr. Livio XXIX, 8-28.



Ultima modifica 2021.05.15