Il catechismo dei lavoratori

Paul Lafargue (1886)


Fonte: Paul Lafargue, Il diritto all’ozio. La religione del Capitale, a cura di Lanfranco Binni, Firenze, Il Ponte Editore, 2015.

Trascritto da Leonardo Maria Battisti su licenza concessa dal Fondo Walter Binni, febbraio 2019.


Domanda: «Come ti chiami?».
Risposta: «Salariato».

D. «Chi sono i tuoi genitori?».
R. «Mio padre era salariato, come mio nonno e il mio bisnonno, ma i miei antenati erano servi e schiavi. Mia madre si chiama Povertà».

D. «Da dove vieni, dove vai?».
R. «vengo dalla povertà e vado alla miseria passando per l’ospedale, dove il mio corpo sarà usato per sperimentare nuovi farmaci e come oggetto di studio per i medici che curano i privilegiati del Capitale».

D. «Dove sei nato?».
R. «In una soffitta, sotto il tetto di una casa costruita da mio padre e dai suoi compagni di lavoro».

D. «Qual è la tua religione?».
R. «La religione del Capitale».

D. «Quali doveri ti impone la religione del Capitale?».
R. «Due doveri principali: il dovere della rinuncia e il dovere del lavoro.
La mia religione mi ordina di rinunciare ai miei diritti di proprietà sulla terra, nostra madre comune, sulle ricchezze delle sue viscere, sulla fertilità della sua superficie, sulla sua misteriosa fecondazione a opera del calore e della luce del sole; mi ordina di rinunciare ai miei diritti di proprietà sul lavoro delle mie mani e del mio cervello: mi ordina infine di rinunciare al mio diritto di proprietà sulla mia stessa persona: dal momento in cui oltrepasso la soglia della fabbrica, non mi appartengo piú, sono una cosa del padrone. La mia religione mi ordina di lavorare dall’infanzia alla morte, di lavorare alla luce del sole e a quella del gas, di lavorare giorno e notte, sulla terra, sottoterra e sul mare, di lavorare ovunque e sempre».

D. «Ti impone altri doveri?».
R. «Sí. Di prolungare la quaresima per tutto l’anno, di vivere di privazioni sfamandomi solo a metà, di ridurre tutti i bisogni del mio corpo e reprimere ogni aspirazione del mio spirito».

D. «Ti proibisce alcuni cibi?».
R. «Mi proibisce di mangiare la selvaggina, il pollame, la carne bovina di prima, seconda e terza scelta, di gustare il salmone, l’astice, i pesci di carne delicata; mi proibisce di bere vino genuino, acquavite e latte appena munto».

D. «Quali cibi ti concede?».
R. «Il pane, le patate, i fagioli, il merluzzo, le aringhe affumicate, gli scarti di macelleria, la carne di vacca, di cavallo, di mulo e gli insaccati. Per recuperare in fretta le mie forze esauste, mi concede di bere vino adulterato, alcool di patate e spaccabudella di barbabietola.

D. «Quali doveri ti impone verso te stesso?».
R. «Di risparmiare sulle spese, vivere nella sporcizia e tra i parassiti, portare abiti sdruciti, rattoppati, rammendati, usandoli fino all’ultimo, finché non siano ridotti in brandelli, e camminare senza calze, con le scarpe bucate che si bevono l’acqua sudicia e ghiacciata delle strade».

D. «Quali doveri ti impone verso la tua famiglia?».
R. «Di proibire a mia moglie e alle mie figlie ogni civetteria, ogni raffinatezza ed eleganza, di vestirle di stoffa comune, quanto basta per non urtare il senso del pudore degli sbirri; di insegnare loro a non tremare d’inverno sotto abiti di cotone e a non soffocare d’estate nelle topaie; di inculcare ai miei bambini i sacri principi del lavoro affinché possano, fin dall’infanzia, guadagnarsi il pane e non essere a carico della società, insegnando loro ad andare a letto senza cena e al buio per abituarli alla miseria che è il loro destino nella vita».

D. «Quali doveri ti impone verso la società?».
R. «Di accrescere la ricchezza della società, prima di tutto con il mio lavoro e poi con i miei risparmi».

D. «Che cosa ti ordina di fare dei tuoi risparmi?».
R. «Di portarli alle Casse di Risparmio dello Stato perché servano a ripianare i deficit del bilancio*1 o di affidarli alle società fondate dai filantropi della finanza perché li prestino ai nostri padroni. Dobbiamo sempre mettere i nostri risparmi a disposizione dei nostri padroni».

D. «Ti permette di prendere quanto hai risparmiato?».
R. «Meno spesso possibile; ci raccomanda di non insistere quando lo Stato rifiuta di restituirli*2 e di rassegnarci quando i filantropi della finanza, anticipando le nostre richieste, ci annunciano che i nostri risparmi sono andati in fumo».

D. «Hai diritti politici?».
R. «Il Capitale mi concede l’innocente distrazione di eleggere i legislatori che confezionano leggi per punirci; ma ci proibisce di occuparci di politica e di ascoltare i socialisti».

D. «Perché?».
R. «Perché la politica è il privilegio dei padroni, perché i socialisti sono dei farabutti che ci derubano e ci ingannano. Ci dicono che chi non lavora non deve mangiare, che tutto appartiene ai salariati dal momento che hanno prodotto tutto, che il padrone è un parassita da eliminare. La santa religione del Capitale ci insegna, al contrario, che lo spreco dei ricchi crea il lavoro che ci fa mangiare, che i ricchi mantengono i poveri: se non ci fossero più, i poveri morirebbero di fame. Ci insegna inoltre a non essere troppo stupidi da credere che le nostre mogli e le nostre figlie saprebbero indossare le sete e i velluti che tessono, quando vogliono vestirsi semplicemente di brutti tessuti di cotone, e che non sapremmo apprezzare i vini genuini e mangiare i cibi raffinati, noi che siamo abituati a tirare la cinghia e alle bevande adulterate».

D. «Chi è il tuo Dio?».
R. «Il Capitale».

D. «È eterno?».
R. «I nostri preti più dotti e gli economisti ufficiali dicono che esiste dall’inizio del mondo, ma siccome in quei tempi era molto piccolo, Giove, Geova, Gesú e gli altri falsi dèi hanno regnato al suo posto e in suo nome; ma dopo l’anno 1500 circa diventò grande e da allora non smette di crescere in grandezza e in potenza; oggi domina il mondo».

D. «Il tuo Dio è onnipotente?».
R. «Sí. La sua potenza è all’origine di tutte le felicità della terra. Quando distoglie lo sguardo da una famiglia e da una nazione, le condanna a vegetare nella miseria e nel dolore. La potenza del Dio Capitale cresce proporzionalmente alla sua massa: ogni giorno conquista nuovi paesi, e ogni giorno estende il gregge di salariati che per tutta la vita sono consacrati ad aumentare la sua massa».

D. «Quali sono gli eletti del Dio Capitale?».
R. «I padroni, i capitalisti, i possidenti».

D. «In quale modo il Capitale, tuo Dio, ti ricompensa?».
R. «Continuando a dare sempre del lavoro a me, a mia moglie e ai miei bambini!».

D. «È questa la tua unica ricompensa?».
R. «No. Dio ci autorizza a soddisfare la nostra fame assaporando con gli occhi le appetitose vetrine di carni e cibi che non abbiamo mai assaggiato, che mai assaggeremo e di cui si nutrono gli eletti e i sacri preti. La sua bontà ci permette di riscaldarci le membra rattrappite dal freddo, guardando le calde pellicce e i panni spessi di cui si coprono gli eletti e i sacri preti. E inoltre ci accorda il delicato piacere di rallegrare i nostri occhi ammirando, mentre passa in carrozza sui boulevards e nelle pubbliche piazze, la santa tribú dei possidenti e dei capitalisti, luccicanti, paffuti, panciuti, danarosi, circondati da una turba di servi gallonati e di cortigiane impiastricciate di trucco. Allora ci riempie di orgoglio pensare che se gli eletti godono delle meraviglie di cui noi siamo privati, quelle meraviglie sono l’opera delle nostre mani e dei nostri cervelli».

D. «Gli eletti sono di una razza diversa dalla tua?».
R. «I capitalisti sono impastati con la stessa argilla dei salariati, ma sono stati scelti tra migliaia e milioni».

D. «Che cosa hanno fatto per meritare questa elevazione?».
R. «Niente. Dio dimostra la sua onnipotenza riversando i suoi favori su chi non li ha affatto meritati».

D. «Il Capitale è dunque ingiusto?».
R. «Il Capitale è la giustizia stessa, ma la sua giustizia è superiore alla nostra debole comprensione. Se il Capitale fosse costretto ad accordare la sua grazia a chi la merita, non sarebbe affatto libero, la sua potenza avrebbe dei limiti. Il Capitale può affermare la sua onnipotenza solo scegliendo i suoi eletti, i padroni e i capitalisti, nel mucchio degli incapaci, dei fannulloni e dei farabutti».

D. «In quale modo Dio ti punisce?».
R. «Condannandomi alla disoccupazione; allora vengo scomunicato: privato di cibo, di vino e di fuoco. Allora io, mia moglie e i miei figli moriamo di fame».

D. «Quali colpe dunque devi commettere per meritare la scomunica della disoccupazione?».
R. «Nessuna. Il Capitale decreta a proprio piacimento la disoccupazione, senza che la nostra debole intelligenza possa comprenderne la ragione».

D. «Quali sono le tue preghiere?».
R. «Non prego con le parole. La mia preghiera è il lavoro. Ogni preghiera recitata disturberebbe la mia preghiera efficace che è il lavoro, l’unica preghiera di profitto per il Capitale, l’unica che crea plusvalore».

D. «Dove preghi?».
R. «Dappertutto: sul mare, sulla terra e sottoterra, nei campi, nelle miniere, nelle fabbriche e nelle botteghe. Perché la nostra preghiera sia accolta e ricompensata, dobbiamo deporre ai piedi del Capitale la nostra volontà, la nostra libertà e la nostra dignità. Al suono della campana, al fischio della macchina, dobbiamo accorrere; e una volta in preghiera, come automi muovere braccia e gambe, piedi e mani, ansimare e sudare, tendere i muscoli e sfinire i nervi. Dobbiamo essere umili di spirito, sopportare docilmente le ire e le ingiurie del padrone e dei capireparto, che hanno sempre ragione, anche quando pensiamo che abbiano torto. Dobbiamo ringraziare il padrone quando riduce il salario e allunga la giornata di lavoro, perché tutto quello che fa è giusto e per il nostro bene. Dobbiamo essere onorati quando il padrone e i capireparto molestano le nostre moglie e le nostre figlie, perché il nostro Dio, il Capitale, concede loro il diritto di vita e di morte sui salariati e lo ius primae noctis sulle salariate. Piuttosto che lasciarci sfuggire dalle labbra una protesta, piuttosto che permettere alla rabbia di farci ribollire il sangue, piuttosto che metterci in sciopero e ribellarci, dobbiamo sopportare ogni sofferenza, mangiare il nostro pane coperto di sputi e bere la nostra acqua lurida di fango, perché per punire la nostra insolenza il Capitale arma il padrone con cannoni e sciabole, con prigioni e bagni penali, la ghigliottina e il plotone di esecuzione».

D. «Riceverai una ricompensa dopo la morte?».
R. «Sí, enorme. Una volta morto, il Capitale mi lascerà sedere e riposare. Non soffrirò piú né il freddo né la fame, non dovrò piú angosciarmi per il pane di oggi e di domani. Mi godrò il riposo eterno della tomba».


Note

*1. Nel catechismo si allude a fatti che accadono in Francia ma che i suoi redattori vorrebbero certamente veder generalizzati negli altri paesi. Le somme depositate nelle Casse di Risparmio sono state usate per liquidare il debito fluttuante che raggiungeva 1.200 milioni di franchi; ogni anno le eccedenze delle uscite sulle entrate delle Casse di Risparmio servono, come dice il catechismo, a ripianare i deficit di bilancio. Beaulieu segnalava la pericolosità di questa situazione: lo Stato potrebbe fallire se i depositanti andasse a ritirare il loro denaro. È da notare il carattere veramente internazionale del catechismo capitalista, che formula i doveri e i diritti dei proletari senza distinzioni di paese e di razza [N.d.A.].

*2. È già successo nel 1848; i redattori prevedono che accadrà ancora e vogliono preparare gli operai risparmiatori [N.d.A.].



Ultima modifica 2019.01.14