Utopie pacifiste

Rosa Luxemburg (1911)


Pubblicato per la prima volta su Leipziger Volkszeitung, nel maggio 1911, questo articolo è stato successivamente ristampato in forma più breve su Die Internationale, nel gennaio 1926, per poi essere tradotto in inglese, sempre in forma ridotta, sulla rivista The Labour Monthly, nel luglio dello stesso anno. La versione italiana, che si basa sulla sopracitata traduzione (l’unica in lingua inglese presente sul MIA), non rappresenta quindi l’edizione integrale dell’articolo. Alcune sezioni sono state purtroppo rimosse, ma quello che resta è stato ripetutamente confrontato con le versioni integrali in lingua francese e tedesca, per rendere la traduzione italiana il più possibile fedele all’originale.
Tradotto per il MIA da Stefano Marotta.


I

Qual è il nostro compito riguardo alla questione della pace? [1]

Esso non consiste semplicemente nel dimostrare in ogni occasione l’amore dei socialdemocratici per la pace; il nostro compito è prima di tutto chiarire alle masse la natura del militarismo e far emergere con nitidezza e precisione le differenze di principio fra la posizione dei socialdemocratici e quella dei borghesi appassionati di pace.

In cosa consiste questa differenza? Certamente non solo nel fatto che i borghesi apostoli della pace si affidano al fascino della retorica, mentre noi confidiamo solo in parte nelle parole. I nostri punti di partenza sono diametralmente opposti: gli amici della pace presenti nei circoli borghesi credono che la pace nel mondo e il disarmo possano essere realizzati entro la struttura dell’attuale ordine sociale, mentre noi, che basiamo la nostra analisi sulla concezione materialistica della storia e sul socialismo scientifico, sappiamo che il militarismo può essere cancellato dal mondo solo con la distruzione del sistema capitalista. Da ciò deriva la reciproca opposizione delle nostre tattiche nella diffusione dell’idea di pace. I pacifisti borghesi si sforzano - e dal loro punto di vista è perfettamente logico e comprensibile - di inventare ogni sorta di progetto “pratico” per ridurre gradualmente il militarismo, e sono naturalmente inclini a prendere per buono ogni segno apparente di una tendenza verso la pace, a credere sulla parola ad ogni dichiarazione della diplomazia, amplificandola fino a farne il fondamento della propria attività. I socialdemocratici, dal canto loro, devono, in questa come in tutte le vicende inerenti la critica sociale, considerare come loro compito quello di qualificare i tentativi borghesi di limitare il militarismo come pietose mezze misure, e le sentimentali dichiarazioni provenienti dagli ambienti governativi come diplomatiche messinscene, opponendo alle finzioni e alle rivendicazioni borghesi una spietata analisi della realtà capitalistica.

Da questo punto di vista i compiti dei socialdemocratici, in merito alle benevole dichiarazioni elargite dal governo britannico [2], non possono che essere quelli di definire l’idea di una parziale limitazione degli armamenti come una impraticabile mezza misura, e di spiegare alla popolazione che il militarismo è strettamente intrecciato alle politiche coloniali, alle politiche doganali, alle politiche internazionali, e che quindi le nazioni presenti, se davvero volessero onestamente e sinceramente dire basta alla concorrenza sugli armamenti, dovrebbero iniziare dal disarmo della politica commerciale, abbandonando in tutte le parti del mondo le predatorie campagne coloniali e le politiche internazionali delle sfere d’influenza - in una parola dovrebbero fare, nella loro politica estera come in quella domestica, l’esatto contrario di tutte quelle politiche che la natura di un moderno stato capitalista esige. Da ciò si può evincere con chiarezza il nocciolo della concezione socialdemocratica secondo cui il militarismo, in entrambe le sue forme - come guerra e come pace armata - è il figlio legittimo e la logica conseguenza del capitalismo, quindi può essere superato solo con la distruzione del capitalismo stesso; per questo chiunque desideri onestamente la pace nel mondo e la liberazione dal tremendo fardello degli armamenti deve desiderare anche il socialismo.

Solo in questo modo è possibile portare avanti una efficace attività di educazione e propaganda socialdemocratica nell’ambito del dibattito sugli armamenti. Ma questo lavoro diventerebbe estremamente difficile e la posizione dei socialdemocratici risulterebbe incerta ed oscura se, per qualche assurdo scambio di ruoli, il nostro partito provasse a convincere lo stato borghese che esso può benissimo limitare gli armamenti e portare la pace mantenendo l’impostazione di classe propria di uno stato capitalista.

Ha costituito fin’ora l’orgoglio e la solida base scientifica del nostro partito, il fatto che, non solo le linee generali del nostro programma, ma anche gli slogan della nostra pratica politica quotidiana, non fossero plasmati sulla base dei nostri desideri, ma che in ogni circostanza confidassimo nella nostra analisi delle tendenze dello sviluppo sociale, facendo delle oggettive linee di questo sviluppo la base della nostra impostazione. Per noi il fattore determinante non risiede nei rapporti di forza all’interno dello stato, ma nelle tendenze di sviluppo della società. La limitazione degli armamenti, il ridimensionamento del militarismo, non può coincidere con l’ulteriore sviluppo del capitalismo internazionale. Solo coloro che credono nell’attenuazione e mitigazione degli antagonismi di classe, e nella possibilità di esercitare un controllo sull’anarchia economica del capitalismo, possono credere all’eventualità che questi conflitti internazionali possano essere rallentati, mitigati e spazzati via. Perché gli antagonismi internazionali degli stati capitalisti non sono che il complemento degli antagonismi di classe, e l’anarchia del mondo politico non è che l’altra faccia dell’anarchico sistema di produzione del capitalismo. Entrambi possono crescere solo insieme e solo insieme possono essere superati. “Un po’ di ordine e di pace” sono per questo impossibili, al pari delle utopie piccolo-borghesi sulla limitazione delle crisi nell’ambito del mercato capitalistico mondiale, e sulla limitazione degli armamenti nell’ambito della politica mondiale.

Gettiamo uno sguardo agli eventi degli ultimi quindici anni dello sviluppo internazionale. Dov’è che essi mostrano una qualsiasi tendenza verso la pace, verso il disarmo, verso la soluzione dei conflitti mediante l’applicazione del diritto internazionale?

Durante questi quindici anni noi abbiamo avuto questo: la guerra fra Giappone e Cina nel 1895, che è il preludio al ciclo asiatico dell’imperialismo; la guerra fra la Spagna e gli Stati Uniti nel 1898; la guerra anglo-boera in Sud Africa nel 1899-1902; la campagna delle potenze europee in Cina nel 1900; la guerra russo-giapponese del 1904; la guerra tedesca contro gli Herero in Africa nel 1904-1907; in seguito vi fu anche l’intervento militare della Russia in Persia nel 1908, e al momento attuale l’intervento militare della Francia in Marocco, senza contare le incessanti schermaglie coloniali in Asia e in Africa. Dunque la realtà dei fatti dimostra che nel corso di questi quindici anni difficilmente ne è passato uno senza che si verificasse una qualche attività bellica.

Ma più importanti ancora sono le conseguenze di queste guerre. La guerra con la Cina è stata seguita in Giappone da una riorganizzazione militare che gli ha permesso, dieci anni più tardi, di intraprendere una guerra contro la Russia, e che ha reso il Giappone la potenza militare dominante del Pacifico. La guerra boera ha portato ad una riorganizzazione militare dell’Inghilterra e al rafforzamento delle sue forze armate di terra. La guerra con la Spagna ha rappresentato per gli Stati Uniti il punto di partenza per una riorganizzazione della marina militare che ha reso gli Stati Uniti una potenza coloniale in grado di estendere i propri interessi imperialistici all’Asia, gettando in tal modo le basi per un conflitto di interessi nel Pacifico fra Stati Uniti e Giappone. La campagna cinese è stata accompagnata in Germania da una profonda riorganizzazione militare, la grande Legge Navale del 1900, che ha segnato l’inizio della competizione marittima della Germania con l’Inghilterra e l’inasprimento degli antagonismi fra queste due nazioni.

A tutto questo si aggiunge un ulteriore fenomeno di grande importanza: il risveglio politico e sociale delle periferie del mondo, delle colonie e delle “sfere di influenza” ad una vita indipendente. La rivoluzione in Turchia, in Persia, il fermento rivoluzionario in Cina, in India, in Egitto, in Arabia, in Marocco, in Messico, sono tutti punti di partenza per nuovi antagonismi politici, tensioni, azioni militari e corse al riarmo su scala globale. E’ soprattutto nel corso di questi ultimi quindici anni, che gli attriti nelle politiche internazionali sono aumentati a un livello senza precedenti, che una serie di nuovi stati sono entrati attivamente nella contesa sullo scenario internazionale, che tutte le grandi potenze hanno attuato una radicale riorganizzazione militare. Gli antagonismi, in conseguenza di tutti questi avvenimenti, hanno raggiunto un’intensità mai vista prima, e il processo si è aggravato sempre di più, poiché se da un lato il fermento a oriente cresce di giorno in giorno, dall’altro tutti gli accordi fra le potenze militari diventano inevitabilmente fonte di nuovi conflitti. La Triplice Intesa fra Russia, Gran Bretagna e Francia, che Jaurès ha acclamato come una garanzia per la pace nel mondo, ha condotto all’inasprimento della crisi nei Balcani, ha accelerato lo scoppio della rivoluzione turca, ha incoraggiato la Russia ad un’azione militare in Persia e ha portato ad una riconciliazione fra Turchia e Germania che, a sua volta, ha reso gli antagonismi anglo-tedeschi ancora più acuti. L’accordo di Potsdam [3] ha condotto all’inasprimento della crisi in Cina e il patto russo-giapponese ha sortito il medesimo effetto. Pertanto rifiutare di riconoscere che tali avvenimenti possono portare a tutto fuorché a una mitigazione dei conflitti internazionali o a un qualsiasi passo avanti in direzione della pace nel mondo, significa chiudere gli occhi di fronte alla realtà.

Alla luce di questi fatti, come si può parlare di tendenze alla pace nello sviluppo borghese, che siano in grado di contrastare e neutralizzare le sue tendenze alla guerra? Dov’è che trovano la loro espressione? Nelle dichiarazioni di Sir Edward Grey e del parlamento francese? Nel “braccio stanco” della borghesia? Ma la piccola e la media borghesia si sono sempre lamentate del peso del militarismo, allo stesso modo in cui gemono di fronte alla devastazione della libera concorrenza, alle crisi economiche, alla mancanza di etica mostrata nelle speculazioni borsistiche, al terrorismo dei cartelli e dei trust. La tirannia dei magnati del trust in America ha anche suscitato una ribellione di grandi masse di persone e un duro procedimento legale contro i trust da parte delle autorità dello stato. I socialdemocratici interpretano questo come un sintomo dell’inizio di una limitazione allo sviluppo dei trust, o non fanno piuttosto una simpatica scrollata di spalle davanti alle ribellioni piccolo-borghesi e un sorriso beffardo di fronte a una tale campagna di stato? La “dialettica” della tendenza pacifista nello sviluppo capitalista, che si suppone dovrebbe colpire e sconfiggere la sua tendenza alla guerra, conferma semplicemente il vecchio adagio secondo cui le rose del profitto capitalista e del dominio di classe hanno spine anche per la borghesia, ma essa preferisce soffrire e tenerle il più a lungo possibile attorno alla testa, piuttosto che seguire il consiglio dei socialdemocratici, eliminando le spine assieme alla testa.

Spiegare questo alle masse, smascherare senza pietà tutte le illusioni riguardo ai tentativi da parte della borghesia di costruire la pace, proclamare la rivoluzione proletaria come primo ed unico passo concreto in direzione della pace - questo è il compito dei socialdemocratici nei confronti di tutti gli inganni sul disarmo, vengano essi da Petersburg, da Londra o da Berlino.

II

Il carattere utopico della posizione che prospetta un’era di pace e ridimensionamento del militarismo nell’attuale ordine sociale, è chiaramente rivelato dalla sua necessità di ricorrere all’elaborazione di un progetto. Poiché è tipico delle aspirazioni utopiche delineare ricette “pratiche” nel modo più dettagliato possibile, al fine di dimostrare la loro realizzabilità. A questa tipologia appartiene anche il progetto degli “Stati Uniti d’Europa” come mezzo per la riduzione del militarismo internazionale.

«Noi appoggiamo tutti gli sforzi», disse il compagno Ledebour nel suo discorso al Reichstag del 3 aprile, «che mirano a sbarazzarsi dei banali pretesti posti a giustificazione dell’incessante guerra degli armamenti. Noi esigiamo l’unione economica e politica degli stati europei. Io sono fermamente convinto che gli Stati Uniti d’Europa, non solo si realizzeranno sicuramente durante l’era del socialismo, ma potrebbero realizzarsi anche prima che giunga quel tempo, per far fronte alla concorrenza commerciale degli Stati Uniti d’America. In conclusione noi chiediamo che la società capitalista, che i capi di stato capitalisti, nell’interesse dello sviluppo capitalista dell’Europa stessa, al fine di evitare che l’Europa venga completamente sommersa della competizione mondiale, si preparino a questa unificazione dell’Europa negli Stati Uniti d’Europa.»

E nella Neue Zeit del 28 aprile, il compagno Kautsky scrive:

« ... Per ottenere una pace duratura, che bandisca per sempre il fantasma della guerra, c’è solo una cosa oggi da fare: l’unione degli stati della civiltà europea in una federazione con una politica commerciale comune, un parlamento, un governo e un esercito confederali - ossia la formazione degli Stati Uniti d’Europa. Qualora si riuscisse in questa impresa, un grandioso passo potrebbe dirsi compiuto. Una simile federazione di stati possiederebbe una tale superiorità di forze che senza alcuna guerra potrebbe obbligare tutte le altre nazioni che non volessero associarsi volontariamente ad essa, a liquidare i loro eserciti e rinunciare alle loro flotte. Ma in quel caso la necessità di armamenti per i gli stessi nuovi stati uniti scomparirebbe. Essi sarebbero nella posizione di rinunciare a tutti gli ulteriori armamenti, di rinunciare ad un esercito permanente e a tutte le armi offensive sul mare, cosa che noi chiediamo già da oggi, ma anche di rinunciare a tutti gli strumenti di difesa e al sistema militare stesso. In questo modo una perpetua era di pace potrebbe sicuramente iniziare.»

L’idea degli Stati Uniti d’Europa come condizione per la pace potrebbe a prima vista sembrare ad alcuni plausibile, ma a un esame più attento non ha nulla in comune con il metodo di analisi e con la concezione della socialdemocrazia.

In quanto seguaci della concezione materialistica della storia, noi abbiamo sempre sostenuto l’idea che i moderni stati, al pari delle altre strutture politiche, non siano prodotti artificiali di una fantasia creativa, come ad esempio il Ducato di Varsavia di napoleonica memoria [4], ma prodotti storici dello sviluppo economico. Ma qual è il fondamento economico alla base dell’idea di una federazione di stati europei? L’Europa, questo è vero, è una geografica e, entro certi limiti, storica concezione culturale. Ma l’idea dell’Europa come unione economica, contraddice lo sviluppo capitalista per due ragioni. Innanzitutto perché esistono lotte concorrenziali e antagonismi estremamente violenti all’interno dell’Europa, fra gli stati capitalistici, e così sarà fino a quando questi ultimi continueranno ad esistere; in secondo luogo perché gli stati europei non potrebbero svilupparsi economicamente senza i paesi non europei. Come fornitori di derrate alimentari, materie prime e prodotti finiti, oltre che come consumatori degli stessi, le altre parti del mondo sono legate in migliaia di modi all’Europa. Nell’attuale scenario dello sviluppo del mercato mondiale e dell’economia mondiale, la concezione di un’Europa come un’unità economica isolata è uno sterile prodotto della mente umana. L’Europa non rappresenta una speciale unità economica all’interno dell’economia mondiale più di quanto non la rappresenti l’Asia o l’America.

E se l’unificazione europea è un’idea ormai superata da un punto di vista economico, lo è in egual misura anche da quello politico.

I tempi in cui il continente europeo rappresentava il centro di gravità dello sviluppo politico e il polo delle contraddizioni capitalistiche, sono ormai lontani. Oggi l’Europa è solamente un anello nell’intricata catena delle connessioni e contraddizioni internazionali. E cosa ancor più importante, gli stessi conflitti europei non si svolgono più sul continente europeo, ma su ogni mare e in ogni parte del mondo.

Solo distogliendo lo sguardo da tutti questi sviluppi, e immaginando di essere ancora ai tempi del concerto delle potenze europee [5], si può affermare, per esempio, di aver vissuto quarant’anni consecutivi di pace. Questa concezione, che considera solo gli avvenimenti sul suolo del continente europeo, non vede che la principale ragione per cui da decenni non abbiamo guerre in Europa sta nel fatto che gli antagonismi internazionali si sono infinitamente accresciuti, oltrepassando gli angusti confini del continente europeo, e che le questioni e gli interessi europei si riversano ora all’esterno, nelle periferie dell’Europa e sui mari di tutto il mondo.

Dunque quella degli “Stati Uniti d’Europa” è un’idea che si scontra direttamente con il corso dello sviluppo sia economico che politico, e che non tiene minimamente conto degli eventi dell’ultimo quarto di secolo.

Che un' idea così poco in sintonia con le tendenze di sviluppo non possa fondamentalmente offrire alcuna efficace soluzione, a dispetto di tutte le messinscene, è confermato anche dal destino dello slogan degli “Stati Uniti d’Europa”. Tutte le volte che i politicanti borghesi hanno sostenuto l’idea dell’europeismo, dell’unione degli stati europei, l’anno fatto rivolgendola, esplicitamente o implicitamente, contro il “pericolo giallo”, il “continente nero”, le “razze inferiori”; in poche parole l’europeismo è un aborto dell’imperialismo.

E se ora noi, in quanto socialdemocratici, volessimo provare a riempire questo vecchio barile con fresco ed apparentemente rivoluzionario vino, allora dovremmo tenere presente che i vantaggi non andrebbero dalla nostra parte, ma da quella della borghesia. Le cose hanno una loro propria logica oggettiva. E oggettivamente lo slogan dell’unificazione europea, nell’ambito dell’ordine sociale capitalistico, può significare soltanto una guerra doganale con l’America, dal punto di vista economico, e una guerra coloniale, da quello politico. La campagna cinese dei “reggimenti uniti d’Europa”, con il feldmaresciallo Waldersee come guida e il vangelo degli unni come stendardo, non è una fantasticheria, è l’espressione reale, l’unica possibile, della federazione degli stati europei nell’attuale ordine sociale.

Note

1 Questa è l’unica frase in tutto l’articolo a non essere stata scritta da Rosa Luxemburg. I redattori del Die Internationale devono averla aggiunta per introdurre l’articolo, in mancanza dell’introduzione vera e propria. La parte iniziale dell’articolo infatti non compare in questa seconda edizione tedesca.

2 Il 13 Marzo 1911 il Segretario di Stato britannico Sir Edward Grey si espresse alla Camera sulla possibilità di un accordo (mai realizzato) con la Germania, che prevedeva una limitazione delle spese militari e della produzione di navi da guerra da parte di entrambi i paesi.

3 L’accordo, firmato il 19 agosto 1911, sancì un’alleanza di breve durata fra Russia e Germania, finalizzata alla costruzione della linea ferroviaria Berlino-Baghdad

4 Era uno stato della Polonia fondato da Napoleone Bonaparte nel 1807, con il trattato Tilsit, e liquidato solo sette anni più tardi da una nuova spartizione, a seguito della fallimentare campagna di Russia..

5 La Luxemburg allude ironicamente alla Santa Alleanza, stipulata all’indomani del Congresso di Vienna fra le quattro potenze europee uscite vincitrici dal confronto con la Francia di Napoleone (Austria, Prussia, Russia e Inghilterra).


Ultima modifica 13.08.10