Le nazionalizzazioni arma del capitalismo

Bruno Maffi (1946)


Questo articolo, pubblicato nel dicembre 1946 sul numero 4 della rivista Prometeo (Serie I), è stato trascritto per il web dalla Libreria Internazionale della Sinistra Comunista.

 

Un punto fermo dell’analisi marxista della società e del sistema di produzione borghese deve ormai essere considerato il fatto che l’intervento e il controllo dello Stato nell’economia non solo non rappresenta una frattura nelle leggi fondamentali dell’economia capitalistica, ma è il portato naturale ed inevitabile di tutto il suo sviluppo storico, e che quest’intervento può spingersi fino all’eliminazione della forma giuridica della proprietà privata individuale dei mezzi di produzione non solo senza eliminare, ma al contrario potenziando, quello che è il dato fondamentale del sistema di produzione capitalistico: lo sfruttamento del lavoro umano attraverso l’appropriazione del plusvalore.

Tutta l’economia capitalistica nel periodo successivo alla prima guerra mondiale si è orientata verso forme generalizzate di intervento e di controllo statale, e l’esperimento totalitario nazifascista ha, allo stesso modo dell’esperimento americano del New Deal, assolto la funzione di permettere e favorire l’accumulazione capitalistica e di controbilanciare le forze determinanti della caduta tendenziale del saggio del profitto in una fase caratterizzata dal succedersi di violente crisi economiche e perciò dalla ricorrente minaccia di altrettanto violente crisi sociali.

Di fronte alla campagna pubblicitaria che i partiti della “ricostruzione nazionale” svolgono in tutti i paesi per gabellare la politica delle nazionalizzazioni come un “passo avanti verso il socialismo”, l’avanguardia rivoluzionaria deve avere il coraggio di affermare che, al contrario, quella politica rappresenta il più raffinato metodo di sfruttamento intensivo del lavoro e di conservazione totalitaria del profitto, e che avvia al socialismo al modo che avvia ad esso tutta l’evoluzione dell’economia capitalistica, portando cioè alla più drammatica esasperazione il contrasto tra il carattere sociale della produzione e il carattere privato dell’appropriazione dei prodotti del lavoro, e l’antitesi tra capitale costante e capitale variabile. Nella fase monopolistica, accentratrice, totalitaria del capitalismo la politica delle nazionalizzazioni e della economia controllata dallo Stato è l’estrema arma di difesa del profitto e il più spietato strumento di sfruttamento del lavoratore.

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Alla fine del secondo conflitto imperialistico, la politica delle nazionalizzazioni ci appare come l’incrocio di esigenze insieme politiche ed economiche della società capitalistica. Le prime si ricollegano a quello che è il dato fondamentale della situazione aperta dalla guerra: il fatto cioè che questa è stata combattuta dalla parte vincente con la partecipazione diretta dei partiti tradizionali della classe operaia assurti a forze agenti e dominanti dello spaventoso massacro. Bisognava dare al conflitto l’apparenza di un “contenuto sociale”, e non è certo a caso che gli stessi slogan fossero lanciati, con tanto maggior zelo e calore quanto più la guerra volgeva alla fine, da una parte e dall’altra della barricata, e la repubblichetta di Salò gettasse sul mercato il suo piano di “socializzazione” dell’economia italiana proprio mentre il Consiglio nazionale francese della Resistenza portava a termine il suo. La pace, portando quasi dovunque al potere i partiti cui era spettato durante la guerra l’onore di convogliare in essa il proletariato non come massa passiva e recalcitrante ma come forza attiva, affidava loro il compito di sostanziare, dello stesso “contenuto sociale”, la ricostruzione postbellica, la riattivazione del meccanismo logoro dell’economia borghese. L’ideologia della “nazione” e del “popolo” doveva realizzare nella pace gli stessi benefici effetti che aveva realizzato in guerra con un insieme di parole d’ordine immediatamente suggestive per la classe operaia. La via era stata indicata e tracciata dagli stessi più tipici rappresentanti della conservazione capitalistica, e se in Inghilterra la politica laburista delle nazionalizzazioni trovava un terreno già preparato dalla politica economica del gabinetto Churchill, in Francia, dove il carattere propagandistico e pubblicitario della campagna delle nazionalizzazioni è stato particolarmente trasparente, i propagandisti di sinistra potevano ereditare gli slogan gaullisti della lotta contro i monopoli e per “l’assunzione da parte della nazione dei fondamentali mezzi di scambio e produzione e la partecipazione della classe operaia alla direzione della economia nazionale” (Programma del Consiglio nazionale della Resistenza, inverno 1944).

Il frastuono scatenato dalla sapiente regia dei partiti di massa passava la spugna sulla memoria degli operai, ai quali pur non sarebbe dovuto sfuggire che le stesse parole d’ordine e le stesse realizzazioni avevano fatto la fortuna della Carta fascista del Lavoro e la miseria del proletariato italiano, tedesco o giapponese.

Più complesse erano le esigenze economiche. La ricostruzione dell’economia capitalistica esigeva, soprattutto in Europa dove il dissesto era stato più pauroso, la concentrazione massima dei mezzi e delle possibilità di produzione, la mobilitazione di tutte le energie e di tutti i capitali: l’intervento diretto dello Stato nella direzione dell’economia era imposto da ragioni di classe, le stesse che avevano determinato durante la guerra la disciplina ferrea della produzione e, come stupefacente contropartita, avevano motivato in America la garanzia statale dei profitti. Industrie spaventosamente deficitarie da risanare, capitali inattivi da mobilitare, situazione generale d’incertezza, negativa dal punto di vista della iniziativa e dell’investimento capitalistico privato, così come da quello delle possibilità obiettive di realizzazione del profitto, necessità di aumentare la produzione e di tendere al massimo l’arco della produttività operaia, disordine e irrequietezza nel mercato del lavoro (commentando i piani di nazionalizzazione nel periodo della resistenza, De Gaulle ne sintetizzava gli obiettivi nell’attribuzione allo Stato di un ruolo di organizzazione economica “al fine di aumentare la produzione e conciliare gli antagonismi sociali”) [1]: erano questi i problemi che si affacciavano con terribile urgenza al capitalismo e che solo “forze di sinistra” potevano compiutamente risolvere proprio per lo spietato carattere di classe che rivestivano, proprio per l’intensificato sfruttamento del lavoro che imponevano.

Oggi, a distanza di poco più di un anno dalla fine del conflitto, un’analisi critica di quanto è stato fatto nei principali settori economici europei permette di concludere con estrema nettezza che gli obiettivi di classe della nazionalizzazione sono stati raggiunti, quasi sempre, senza neppure salvare la faccia. [2]

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Ciò è particolarmente vero in Inghilterra, dove il governo laburista si è assunto il compito di portare a termine quell’opera di potenziamento dell’economia nazionale, di riorganizzazione e razionalizzazione dell’industria e di controllo e mobilitazione del credito che non era riuscito al governo conservatore e che era imposto come imperiosa esigenza dalla necessità di riguadagnare il terreno perduto sul terreno delle competizioni commerciali e nella stessa compattezza politica dell’impero. Il controllo e l’intervento statali nell’economia, mentre da una parte hanno qui portato alla statizzazione di alcuni servizi pubblici la cui gestione privata rappresentava ormai un anacronismo rispetto alle necessità funzionali dell’Impero [3], hanno trovato la loro più classica espressione nella nazionalizzazione dell’industria carbonifera e in quella della Banca d’Inghilterra, provvedimenti chiaramente intesi a concentrare la struttura economica nazionale, a potenziarne l’efficienza, a colmarne il deficit e, nello stesso tempo, a garantire i redditi di capitale in un periodo di difficilissima congiuntura economica.

È infatti caratteristico che la nazionalizzazione abbia avuto inizio proprio in quel settore industriale di cui più si lamentava da oltre un venticinquennio l’arretratezza tecnica, la ridotta capacità produttiva, l’incapacità di concorrere sul mercato mondiale con l’industria americana ed europea, e l’altissimo grado di dispersione in un’infinità di unità produttive scarsamente efficienti o addirittura passive: l’industria carbonifera. La via era già stata tracciata dal Coal Act del 1938, che disponeva il riscatto delle “royalties”, cioè dei diritti dei proprietari terrieri ad un premio sul carbone estratto nelle miniere sottostanti al suolo di loro proprietà, accollando all’erario - e quindi al contribuente - una spesa di 64,5 milioni di sterline, e dai provvedimenti presi dal gabinetto conservatore durante la guerra ai fini della disciplina della produzione e del consumo dei combustibili.

Il Coal Industry Nationalization Bill ha portato a termine questo processo senza che sostanziali divergenze siano affiorate tra i partiti. La legge, che si propone esplicitamente l’obiettivo di razionalizzare e riorganizzare in senso unitario la produzione e la lavorazione del carbone, dispone il passaggio in proprietà allo Stato di tutte le industrie relative all’estrazione, lavorazione e distribuzione del minerale e di alcune branche industriali ad esse collegate: l’acquisto delle attrezzature industriali avviene per il tramite del National Coal Board, il quale dirigerà l’intero complesso economico in vista, da una parte, “di promuovere la sicurezza del lavoro e la salute e il benessere dei lavoratori”, e dall’altra di gestire le imprese in modo che le entrate coprano le spese, secondo cioè il normale criterio amministrativo di qualunque impresa privata. Il National Coal Board è costituito da un presidente e da otto membri nominati dal Ministero per i combustibili e l’energia e scelti fra una rosa di esperti dell’amministrazione industriale e commerciale dell’organizzazione del lavoro, ai quali, regolandosi sulle entrate normali dei dirigenti dell’economia privata, è stato assegnato lo stipendio annuo di 17.500 lire sterline [4]: di fronte ad esso il Ministro ha poteri di carattere indicativo generale, ma non esecutivi, mentre funzioni puramente consultive hanno i consigli dei consumatori del carbone per uso industriale e domestico. Il riscatto avviene mediante concessione agli azionisti di titoli del debito pubblico soggetti a determinate restrizioni nella loro disponibilità, e, quanto al suo ammontare, esso è stabilito da una speciale commissione arbitrale composta di alti magistrati sulla base del prezzo di mercato libero delle aziende.

Ne consegue:

1) la direzione dell’industria carbonifera è affidata, sotto il controllo generale dello Stato, ad “esperti” industriali e commerciali che sono praticamente le stesse persone fisiche dei più noti rappresentanti dell’alto capitalismo, mentre è esclusa la famosa rappresentanza diretta degli operai;

2) gli ex-azionisti ricevono obbligazioni a reddito fisso garantite dallo stato e indipendenti nel loro frutto dall’avvenire e dalle mutevoli vicende dell’industria carbonifera, mentre una ristretta cerchia dei medesimi (quegli stessi che già imperavano come magnati del carbone prima della nazionalizzazione) ricevono per altra via, la via del lautissimo stipendio di funzionari del National Coal Board, un profitto capitalistico sotto garanzia statale;

3) l’erario, cioè ancora il contribuente, si accolla il riscatto di un’industria deficitaria: i debiti contratti precedentemente da questa potranno essere rimborsati con largo respiro; disposizioni estremamente longanimi sono state emanate allo scopo “di proteggere quelle persone che hanno pagato alti premi per le azioni preferenziali ad alto frutto”, (Times del 21-12-1945);

4) la non commerciabilità almeno iniziale dei nuovi titoli, che aveva suscitato alcune reazioni negli ambienti finanziari, serve in realtà ad impedire che una precipitosa e compatta offerta sul mercato ne riduca il valore, mentre il Tesoro ha promesso “non ufficialmente” di adottare “un atteggiamento ragionevole” ogni qual volta un ex-proprietario abbia bisogno di fondi per reinvestimenti produttivi (Reuter, comunicato del 21-12-1945), talché la reazione in borsa è stata complessivamente favorevole;

5) le industrie nazionalizzate funzionano secondo i criteri della normale contabilità commerciale;

6) l’Ufficio Nazionale del Carbone ha per suo compito precipuo quello di favorire e portare a termine una riorganizzazione e un ammodernamento dell’industria estrattiva e di trasformazione suscettibili di aumentare la produttività del lavoro e di comprimere i costi.

Un comunicato Reuter del 22-12-45 precisava:

“La miglior cosa nella legge è che l’Ufficio Nazionale sarà in grado di spendere 150 milioni di sterline in nuova moneta fornita dal governo, oltre alla facoltà di prendere in prestito 10 milioni per le riattrezzature di capitali nei primi cinque anni: il più forte argomento in favore della nazionalizzazione è che questo capitale ‘fresco’ non avrebbe potuto in nessun altro modo essere ottenuto”.

In altre parole, solo la nazionalizzazione permetterà la mobilitazione di capitali inattivi e, attraverso questa mobilitazione, una riorganizzazione su vasta scala della produzione. Quanto agli ex-azionisti, essi possono dormire sonni tranquilli sul cuscino dei titoli di stato e sui redditi che per altra via otterranno.

Quanto alla nazionalizzazione della Banca d’Inghilterra, è da notare che essa ha lasciata intatta, se non formalmente, sostanzialmente la precedente attrezzatura dell’istituto; il governatore, il suo aggiunto e i 16 membri del consiglio di amministrazione sono nominati dalla Corona tra i soliti esperti finanziari: il Tesoro può dare direttive alla banca ma non può prendere provvedimenti a carattere esecutivo senza consultarla, mentre l’Istituto di emissione può “chiedere tutte le informazioni e dare tutti i consigli a banchieri” (The Economist, 18-10-1945) intervenendo così a sostegno delle contrattazioni private e indirizzando il capitale verso gli investimenti più produttivi: infine, gli azionisti ricevono quattro obbligazioni al 3% per ogni azione, in modo da aver garantito per un ventennio lo stesso interesse del 12% annuo che negli ultimi 22 anni le azioni davano loro in media. È altresì significativo che, contemporaneamente alla politica delle nazionalizzazioni, una legge sugli investimenti sia venuta incontro all’industria privata accordando prestiti allo stesso tasso d’interesse, normalmente basso, che lo Stato paga per il debito pubblico, e che la nazionalizzazione di altri settori industriali, come la siderurgia, contempli l’istituzione di due settori paralleli, uno nazionalizzato, l’altro libero, permettendo così una doppia mobilitazione del capitale sotto l’egida sovrana dello Stato.

Se i laburisti hanno dunque tutto il diritto di vantarsi, come hanno fatto anche di recente, di aver garantito alla Gran Bretagna un periodo di pace sociale e sventato la minaccia degli scioperi, altrettanto diritto dobbiamo riconoscere loro di aver tutelato senza fronzoli retorici gli interessi fondamentali dei capitalisti.

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Le stesse finalità produttivistiche ritroviamo in Francia alla base della politica delle nazionalizzazioni, insieme con una forte accentuazione dei motivi politici e propagandistici. È l’ideologia della “nazione”, delle nazionalsocialiste “Reichsvereinigungen”, della “comunità popolare”, che ha qui presieduto alle nazionalizzazioni, ed è in nome della cosiddetta lotta contro i monopoli che lo Stato si è assunto la direzione e le passività di industrie notoriamente deficitarie [5] sottraendole ai capitalisti privati, mentre gli uomini politici di sinistra, di destra e di centro, e con essi la Confédération Générale du Travail organizzavano il “battage” pubblicitario per l’aumento della produttività e per una politica di sacrifici “comuni” di tutta la nazione. [6]

Abbiamo già osservato che il programma della nazionalizzazione rimonta al periodo della resistenza e le sue prime realizzazioni al governo De Gaulle. Da allora, il programma si è svolto secondo una logica linea di sviluppo con differenze soltanto formali introdotte dal governo Gouin allo scopo di rinverdire il mito del controllo popolare sulla gestione delle grandi aziende. In realtà, la nazionalizzazione ha colpito (se questo può essere il termine), o settori industriali cronicamente in crisi, o aziende d‘“interesse nazionale” o - cosa solo apparentemente in contrasto con le precedenti ragioni e giustificata dall’interesse generale di classe di rafforzare il bilancio dello stato - complessi produttivi che facevano gola allo Stato perché produttivi di altissimi profitti, e la cui espropriazione poteva essere giustificata col facile pretesto della lotta contro i collaborazionisti o con altre considerazioni patriottiche (il caso delle officine Renault, divenute Régie Nationale des Usines Renault) [7]. I decreti del dicembre 1944 e dell’ottobre 1945 investivano le Houillères Nationales du Nord et du pas de Calais della direzione dell’intero sfruttamento minerario dei due dipartimenti nell‘“esclusivo interesse della nazione”, e lo potevano tanto più facilmente in quanto il grado di concentrazione delle aziende era in quel settore già elevatissimo mentre era relativamente basso il saggio dei dividendi. Nel programma De Gaulle lo Stato esercitava il controllo, ma non aveva la proprietà del nuovo complesso, ch’era amministrato in forma tripartita da un consiglio di rappresentanti dello stato, degli operai e dei consumatori con potere consultivo e da un presidente eletto per decreto ministeriale e investito di responsabilità personale. Era una concezione autoritaria del controllo pubblico, che il governo socialista Gouin doveva abbandonare in nome di un’amministrazione tripartita controllata dallo Stato e con responsabilità collettiva: la proprietà delle miniere passava, nell’aprile 1946, allo Stato dietro indennizzo con titoli al 3%, e a capo del gigantesco monopolio era istituito un ente nazionale, i “Charbonnages de France”, con funzioni di coordinamento e controllo su scala nazionale ed articolati in “Houilléres de Bassin” investite non soltanto del compito della produzione, gestione e vendita ma della missione di: “assicurare l’equilibrio finanziario delle loro imprese tenuto conto degli obblighi relativi ad essi e particolarmente dei carichi di capitale e d’investimento…” (legge 26-4-1946, art. 2), e dotate di completa autonomia finanziaria.

Criteri analoghi sono stati seguiti nella nazionalizzazione dell’industria del gas e dell’elettricità: in entrambi i casi, “non si ha un servizio pubblico, ma le imprese nazionalizzate vivranno e agiranno come tutte le altre imprese private…” (Previd. Soc., gennaio-marzo 1945, p. 26), cioè proponendosi come obiettivo il pareggio del bilancio e la realizzazione di un utile ed esercitando un potere di monopolio nella determinazione dei prezzi.

È chiaro che, ad uno sforzo massimo di coordinamento e di concentrazione industriale e finanziaria, si collega qui uno sforzo convergente dello Stato per dare ad imprese normalmente deficitarie o travagliate da gravi difficoltà la possibilità di riassestarsi e di vivere con l’aiuto, l’appoggio finanziario, la direzione tecnica, il controllo politico-economico e il provvidenziale intervento risanatore, dello Stato. Sono aziende che vivono sulla base della contabilità aziendale capitalistica con in più l’enorme vantaggio di poter drenare sussidi e sovvenzioni dello Stato come istituti di interesse e di utilità pubblica e che fondano la loro politica dei prezzi non già sui decantati principi dell’interesse pubblico ma su quello della realizzazione di un utile di bilancio. E poiché si tratta in generale di aziende logore, non è davvero da stupirsi che, nel corso dei recenti aumenti di prezzo, il proletario e il consumatore francese, non parliamo del contribuente, abbiano avuto il piacere di constatare che gli aumenti più forti si verificavano proprio nelle merci e nei servizi delle imprese divenute “nazionali”. La legge del bilancio capitalistico è una legge di ferro. Ciò non impedisce ai nostri bravi teorici del “socialismo democratico”, per i quali una politica di classe è, da parte proletaria, “gretta ed egoistica”, di proclamare, a proposito appunto della nazionalizzazione francese: “Nel chiedere un’economia pianificata e diretta dal controllo dello Stato, il socialismo europeo non persegue perciò puramente interessi egoistici di classe, ma riflette gli interessi delle nazioni…” [8], e di parlare di democrazia industriale solo perché gli operai, praticamente militarizzati e funzionarizzati nelle nuove gigantesche aziende nazionali, avranno un loro rappresentante in seno al consiglio tripartito di amministrazione della propria prigione.

Il “cambiamento di rotta” da De Gaulle a Gouin si è pertanto limitato a sostituire, anche in altre aziende delle quali non ci occuperemo, il sistema della direzione tripartita a quello della direzione fondamentalmente autoritaria delle imprese nazionalizzate, lasciando però intatti gli altri e ben più decisivi caratteri. Ed è anche da notare che la nazionalizzazione si è circoscritta ad alcuni settori economici lasciando “liberi” altri settori non meno palesemente monopolistici, mantenendo il mercato e le sue leggi e riassorbendo nel nuovo apparato direttivo lo stesso personale delle vecchie imprese a gestione privata.

Né il quadro cambia se ci riferiamo alla nazionalizzazione attuata nel settore bancario. È stata qui preminente l’esigenza di un contingentamento e di una disciplina del credito ai finì della ricostruzione: è stata nazionalizzata la Banca di Francia dietro trasferimento delle azioni allo Stato contro obbligazioni nominative negoziabili fruttanti il 2%: sono state pure nazionalizzate le quattro grandi banche di deposito contro cessione agli azionisti di carature che danno diritto ad un dividendo annuo da stabilirsi dai consigli di amministrazione e comunque non interiore a quello del 1944 (e il Lavergne commentava che lo Stato “espropriando quelle quattro banche, ha assunto imprese il cui profitto non ha cessato per vari anni di essere estremamente basso” e se ne è accollati tutti gli oneri, Revue Economique et Sociale, febbr. 1946): nei consigli di amministrazione di questi istituti prevalgono in modo nettissimo i rappresentanti dell’amministrazione finanziaria dello Stato affiancati dai soliti competenti in materia economica, industriale e commerciale, e da altrettanti portavoce delle organizzazioni sindacali “più rappresentative” agenti nei limiti stabiliti da decreti governativi [9]; infine, fatto estremamente caratteristico, non sono nazionalizzate proprio quelle grandi “banche d’affari” che tradizionalmente esercitano una potestà monopolistica sulla vita economica francese e non solo controllano il finanziamento industriale, ma hanno potenti vincoli con l’estero (e un nostro buon socialista se ne stupisce! v. Giuseppe Colombini, La Riforma bancaria in Francia, Critica Sociale, 1-16 gennaio 1946), mentre tutta la struttura bancaria è stata sottoposta al controllo, questo si (ed è ben naturale), dello Stato per il tramite di organismi governativi come il Conseil National du Crédit e la Commission de Contrôle des Banques.

Per concludere con questa sommaria rassegna, abbiamo in Francia un esteso controllo del credito in vista del suo accentramento e della sua mobilitazione ai finì della ricostruzione dell’apparato produttivo capitalistico in una misura che all’iniziativa privata non sarebbe stata consentita; un intervento disciplinatore dello Stato nella produzione per ridare ossigeno alle industrie boccheggianti e favorire una ripresa della potenza espansiva dell’imperialismo francese; la creazione di un insieme di imprese statali dotate di piena autonomia finanziaria e dirette secondo le regole in uso nelle società industriali e commerciali, e quindi con gli stessi criteri di sfruttamento, in vista del pareggio delle entrate e delle uscite, e della realizzazione del più alto utile possibile, secondo le leggi della concorrenza e del mercato, sia esso nazionale od internazionale; la costituzione, infine, di un’enorme bardatura statale e di un gigantesco apparato funzionaristico nel quale, e attorno al quale, si muovono gli stessi uomini del vecchio capitalismo francese, tradizionalmente attrezzato a vivere in perfetta simbiosi con lo Stato. La “Patrie” si è messa una corazza di funzionari (il solo Ministero degli Interni ha portato il suo organico da 14.160 a 96.000 funzionari dal 1938 ad oggi) e contro ad essa continua disperatamente a cozzare la classe operaia.

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Il fenomeno è forse meno trasparente dal lato giuridico, ma ancor più suggestivo nella sostanza, nell’esperimento cecoslovacco e polacco. Si è giunti qui, dove lo sforzo ricostruttivo imponeva decisioni vitali e ben più energiche, ad un intervento molto più generalizzato del potere statale nell’economia. Mentre larghi settori venivano lasciati al libero sfruttamento del capitale privato, debitamente incoraggiato e promosso dagli stessi poteri pubblici, soprattutto nei settori interessanti il commercio e la distribuzione, l’intera grande industria è stata nazionalizzata tanto più facilmente e senza contrasti, in quanto in molti casi si trattava di espropriare senza indennità proprietà di cittadini ex-nemici o di collaborazionisti.

Per il resto, in entrambi i paesi, l’espropriazione avveniva dietro adeguato indennizzo agli ex-proprietari od azionisti, e tutta l’economia nazionale veniva sottoposta ad un regime di controllo simile a quello che tutta l’Europa centrale aveva già sperimentato sotto il nazismo.

Che questi provvedimenti mirassero soprattutto a rendere possibile e rapida la ricostruzione con mezzi che la sola iniziativa privata non avrebbe consentito, è dimostrato dal contemporaneo sforzo di pianificazione, che nei due paesi si compie sotto direzione “di sinistra”; che l’intervento dello Stato abbia avuto generalmente scopi di salvataggio risulta dalle stesse dichiarazioni del ministro cecoslovacco dell’Industria, secondo il quale il primo anno di nazionalizzazione si chiude con un deficit di 1 miliardo di corone nelle miniere di carbone, con un deficit di 896 milioni di corone nelle acciaierie, con un passivo di 400 milioni nell’industria chimica (dati delle Basler Nachrichten 10-10); il carattere capitalistico delle imprese socializzate è dimostrato dal fatto che conservano una piena autonomia finanziaria e lavorano in vista della produzione di profitti (Revue Internationale, 1946, n. 5); la finalità di classe della legge è sottolineata dal par. 2 del decreto 24-10-1945, che crea in Cecoslovacchia i comitati d’impresa, con lo scopo di garantire “il funzionamento normale e senza scosse dell’azienda”; inoltre, in Polonia le imprese nuove non sono colpite dalla nazionalizzazione e restano proprietà privata intangibile, mentre speciali garanzie sono istituite a tutela degli interessi del capitale straniero investito nelle industrie soggette a nazionalizzazione.

La verità è che in questi paesi l’estrema penuria di beni capitali, la deficienza di personale tecnico e di mano d’opera specializzata (specie dopo l’espulsione delle minoranze tedesche) e la violenta crisi da cui la loro struttura economica era stata colpita con la fine della guerra, esigevano una disciplina unitaria della produzione ed un rapido aumento della produttività del lavoro. Ed è su quest’ultimo terreno che appare più chiaro il carattere di spietato sfruttamento dell’economia “controllata”. Bisognava creare un “entusiasmo costruttivo” nelle masse lavoratrici: e si è giunti alla mobilitazione delle masse cecoslovacche per l’offerta di giornate supplementari di lavoro non pagato (si veda in Drapeau Rouge dell’8 aprile 1946 l’intervista del presidente del P.C. belga Lahaut), all’organizzazione di “brigate del lavoro” per le miniere e all’introduzione del lavoro obbligatorio degli studenti, alla campagna per la mobilitazione industriale e alla minaccia di sanzioni contro gli “attentati alla morale lavoratrice”, che significa, in termini di classe, la minaccia di intervenire violentemente contro ogni reazione proletaria alle ferree leggi dello sfruttamento (per una documentazione degli slogan propagandistici v. The Economist, 19 ott. 1946). Solo in virtù di una simile mobilitazione si potranno infatti raggiungere a tempo di record gli altissimi indici di produzione stabiliti dai “piani”.

Cosi la nazionalizzazione s’inquadra in un processo di esasperazione ed accelerazione del ritmo di accumulazione capitalistica, e perciò dello sfruttamento del lavoro umano. E poiché esso si realizza in paesi a forte mordente nazionalistico, diventa l’arma prediletta della preparazione a nuovi e ancor più terribili urti imperialistici. In economie di questo tipo (e tutte le economie sono fondamentalmente simili, nella fase imperialistica del capitalismo), la spietata lotta di concorrenza non è annullata sul terreno nazionale, ed è acuita ed esacerbata sul terreno internazionale.

Più volte è stato chiarito dal nostro movimento che l’attuale fase della dominazione capitalistica è, nel fondo, fascista, in quanto tende a realizzare pur con altri mezzi lo stesso inquadramento ferreo delle masse lavoratrici nello Stato, lo stesso svuotamento del carattere classista degli organismi sindacali, lo stesso controllo dell’opinione pubblica, che gli Stati totalitari erano riusciti precedentemente ad imporre. Questo inquadramento avviene non solo attraverso il rafforzamento rapido e efficacissimo degli organi tradizionali dello Stato capitalistico, ma anche (e con non minore efficacia) attraverso la rete a maglie fitte dei grandi partiti, il cui alternarsi alla direzione della “cosa pubblica” serve solo a far apparire meno rigido e soffocante il metodo totalitario di governo.

Orbene, le nazionalizzazioni hanno servito ottimamente a questo scopo, mettendo a disposizione dei “partiti della ricostruzione” un ulteriore e potentissimo strumento di manovra e di controllo, vuoi ai finì delle continue lotte di concorrenza fra di loro, vuoi ai finì di una prolungata e martellante pressione economica e politica sul proletariato. La storia delle nazionalizzazioni in Francia ha dimostrato come i diversi partiti succedutisi al governo modellassero, a loro immagine e somiglianza, le industrie nazionalizzate, e si creassero nel loro seno una vastissima clientela, costituita sia dallo stuolo di medio e piccoli borghesi entrati a far parte della nuova gigantesca burocrazia di Stato, sia dai funzionari sindacali che le nazionalizzazioni hanno perfettamente inquadrato nel meccanismo statale. [10]

In tal modo le nazionalizzazioni s’inseriscono come particolare momento in quel processo di rinnovamento della società capitalistica che, da una parte, tende a legare a doppio filo allo Stato le organizzazioni sindacali operaie e, dall’altra, mira a riassorbire nell’apparato produttivo e amministrativo borghese gli strati socialmente e politicamente infidi e fluttuanti dei ceti medi e, se occorre, gli stessi capitalisti individuali che lo sviluppo del sistema capitalistico ha privato della proprietà privata o del controllo diretto dei mezzi di produzione.

E poiché in tutti i Paesi i “grandi” partiti politici vivono non per virtù propria, ma in quanto agenti di pubblicità e di commercio delle grandi ditte internazionali capitalistiche che, nell’attuale schieramento postbellico, si chiamano Inghilterra, Russia e Stati Uniti, la politica delle nazionalizzazioni rientra nel quadro generale della lotta svolta da questi colossi per accaparrarsi, tramite i partiti da essi dipendenti, i posti di controllo o addirittura di comando delle singole economie “nazionali” (e che meglio si direbbero coloniali), cioè, in definitiva, nel quadro generale della strategia su cui va intessendosi la trama della futura terza guerra imperialistica.

Possiamo dunque concludere sintetizzando: la nazionalizzazione non sopprime né il mercato, dalle cui leggi continua ad essere dominata l’economia, anche se all’interno delle frontiere nazionali è garantito all’industria nazionalizzata un apprensivo regime di monopolio, né lo sfruttamento del lavoro, attraverso la realizzazione ed appropriazione del plusvalore: in una gran parte dei casi, tende al salvataggio di unità economiche deficitarie, in tutti garantisce per vie più o meno palesi il profitto capitalistico. Sul piano dei rapporti inter-imperialistici, essa costituisce l’espressione più evidente e scoperta della tensione di tutte le forze economiche nazionali, in vista di un urto sul terreno della forza che essa contribuisce d’altronde a preparare. Infine, nel gioco delle lotte di classe, le nazionalizzazioni rappresentano il più raffinato metodo per immobilizzare le energie attive del proletariato ed irreggimentare i suoi eventuali compagni di strada.

Ciò non impedisce ai nostri bravi affossatori del marxismo di ricantare, su tutti i giornali e su tutte le riviste, le delizie dell’Europa che marcia verso il socialismo.





NOTE


[1] Per la storia delle nazionalizzazioni in Francia, si veda fra l’altro, Nationalization in France, in The World Today, agosto 1946.

[2] Non l’hanno neppure salvata i nostri nazionalcomunisti i quali, per bocca del min. Scoccimarro, hanno dichiarato di intendere per nazionalizzazione non la deprivatizzazione dei grandi complessi industriali, ma soltanto il controllo dello Stato sull’iniziativa privata negli interessi generali del Paese, formula, questa, tipicamente corporativa, la cui applicazione si sta compiendo in Ungheria. In questo paese, infatti, le più recenti misure di “nazionalizzazione”, che toccano aziende costituenti più della metà dell’industria ungherese, non hanno recato pregiudizio alcuno al diritto di proprietà degli azionisti, limitandosi ad avocare allo Stato la direzione e il controllo della produzione e (disposizione significativa) l’assunzione delle perdite, mentre il limite massimo dei dividendi da distribuire agli azionisti è limitato, con un procedimento di cui l‘“economia corporativa” ci aveva dato già numerosi esempi, al 3%. È anche da notare che la “nazionalizzazione” ungherese, ridotta nei termini di un puro e semplice controllo statale sulla produzione, è prevista per un periodo di otto anni, pari a quello in cui dovranno essere pagate le riparazioni di guerra (Basler Nachrichten, 30/11).

[3] Della nazionalizzazione della Cable and Wireless il cancelliere dello Scacchiere Dalton ha dichiarato che essa “non soltanto costituisce un progresso nel campo sociale, ma è di utilità pratica per la politica imperiale” (Boll. Ec. Ansa, 14/5), mentre il Monde avvertiva che la C. a. W. aveva già provveduto a trasferire una parte del suo attivo ad una società del settore non nazionalizzato (28-29/4)!

[4] Neue Zürcher Zeitung, 2/2/1946.

[5] La Neue Zürcher Zeitung del 2/11/1946 stima a 800 milioni il deficit della sola industria carbonifera.

[6] Per chi ami una documentazione: il 21 luglio 1945 Thorez dichiara a Waziers, di fronte ai minatori: “Produrre è oggi là forma più elevata del dovere di classe… Affermo che in questo periodo è impossibile approvare uno sciopero di minatori.”

Il 2 settembre, alla festa dell’Humanité, grida: “Uno sforzo immenso dei lavoratori è indispensabile per… assicurare le basi materiali della grandezza e dell’indipendenza della Francia”.

A Lione, nell’autunno, il segretario generale della C.G.T. [confederazione generale del lavoro] dichiara che, poiché non si lavora più per dei trust ma per la “nazione”, dovere ed interesse degli operai è di “non sollevare scioperi e accrescere la produzione al massimo”. E si potrebbe continuare all’infinito con discorsi altrettanto patriottici di Cachin, Duclos, Philip, e con le requisitorie dei capi sindacali contro gli operai che non mettono abbastanza ardore e spirito di sacrificio nella “battaglia per la produzione”.

[7] A detta del The World Today dell’apr. 1946, art. cit., “il cartello fu nazionalizzato per far fronte a determinate esigenze del mercato, oltre che allo scopo di sopprimere, o quanto meno di influire in senso moderatore su uno dei principali centri di agitazione operaia”.

[8] F. Pagliari, La democrazia industriale in Francia, Critica Sociale, 1-16 genn. 1946.

[9] Sottolineiamo questo fatto non perché crediamo che la situazione cambierebbe se il “controllo operaio” fosse effettivo, ma solo a conferma del carattere demagogico delle parole d’ordine altrui.

[10] Quest’aspetto è particolarmente sottolineato da Gélo et Andréa in un articolo su La Révolution anticapitaliste en France et les nationalisations pubblicato in International correspondence, vol I, n. 2, luglio 1946.


Ultima modifica 28.12.2009