Perplessità dell'Inghilterra postbellica

Bruno Maffi (1947)


Questo articolo è stato pubblicato in forma anonima nell’aprile del 1947 sul numero 6 della rivista Prometeo (Serie I), e trascritto per il web, sia dalla Libreria Internazionale della Sinistra Comunista, che dalla redazione di Battaglia Comunista, ma sempre in forma anonima. La paternità del presente articolo è però certificata dall’ISC (Istituto di Studi sul Capitalismo) che, nel catalogo online della sua biblioteca specializzata, lo attribuisce a Bruno Maffi.

La situazione economica inglese è stata già riassunta su queste colonne (1) nei seguenti termini: la guerra ha spezzato il tradizionale equilibrio della bilancia britannica dei pagamenti, nel quale l'alto provento delle cosiddette esportazioni invisibili compensava largamente la forte eccedenza di merci importate. Riducendo il gettito dei noli con la paralisi della marina mercantile, delle commissioni ed assicurazioni, con la decadenza di Londra come mercato internazionale dei capitali, degli investimenti all'estero col crescente indebitamento per l'acquisto di materie prime, munizioni e servizi, il secondo conflitto mondiale ha reso fortemente passiva la bilancia commerciale inglese: i soli disinvestimenti hanno causato perdite annue corrispondenti al reddito di 800 mila operai e hanno perciò duramente inciso sullo standard di vita tradizionalmente elevato dell'Inghilterra.

La fine delle operazioni militari non ha spostato i termini del problema. Se la progressiva riattivazione della marina mercantile ha provocato un aumento del gettito dei noli, di fronte ad essa stanno un'importazione destinata continuamente ad aumentare per render possibile la ricostituzione delle scorte, la ricostruzione e modernizzazione degli impianti, il raggiungimento di un «equilibrio alimentare» senza il quale anche le speranze di aumentare la produttività del lavoro svanirebbero, e il crescente ritmo dei disinvestimenti per far fronte ai debiti commerciali e finanziari contratti appunto per la ripresa. L'importazione, che nel 1945 aveva raggiunto appena il 63% del livello anteguerra, è salita nel 1946 al 70 e dovrebbe nel 1947 raggiungere il 100%: gli impegni di carattere militare e politico e l'assistenza ai paesi occupati comportano una spesa annua di non meno di 400 milioni di sterline: per coprire il complesso di questi pagamenti all'estero, che la «Economic Survey for 1947» fa ammontare per l'anno in corso a 1.625 milioni di sterline, il governo britannico deve puntare in parte sull'apertura di nuovi prestiti e per la parte maggiore su uno sviluppo intensivo dell'esportazione, che dovrebbe raggiungere nel 1947 il 140% del volume anteguerra.

Ma il ritmo dei disinvestimenti non si è, frattanto, rallentato. L'episodio più recente è rappresentato in questo campo dall'accordo raggiunto con l'Argentina: per liquidare il debito commerciale in sterline verso questo paese, l'Inghilterra ha dovuto vendere le azioni delle compagnie ferroviarie britanniche in Argentina per un totale di 150 milioni (il credito argentino era di 126 milioni) e rinunciare così non solo ad un introito annuo di 4 milioni, ma ad una posizione politica di primo piano, proprio mentre gli Stati Uniti lavorano per trascinare definitivamente nella loro orbita il governo Peròn. D'altra parte, se l'Inghilterra può sperare in un almeno parziale cancellazione dei debiti commerciali da parte di alcuni Dominions, come l'Australia e la Nuova Zelanda, la cosa appare assai più difficile per l'India, l'Egitto e l'Iraq, che sono ora fra i massimi e più esigenti creditori della Madrepatria, e che, esigendo da questa l'integrale pagamento dei debiti, provocheranno ulteriori disinvestimenti inglesi nelle rispettive nazioni (per la sola India, ciò significherebbe la perdita da parte britannica di un provento annuo di almeno 10 milioni di sterline), anche se dovessero accedere al criterio di dilazionare il saldo di un certo numero d'anni. (2)

In queste condizioni, una sola via rimane aperta all'Inghilterra: tendere tutte le energie produttive verso l'esportazione, raggiungere entro il 1950 un volume merci esportate non inferiore al 175% dell'anteguerra, sacrificare a questo obiettivo ogni rivendicazione immediata. E il problema che questo piano di esportazione solleva è chiaro: potrà la meta essere raggiunta senza provocare una permanente crisi dell'apparato produttivo britannico? È anzi, questa meta, comunque raggiungibile? Alla risposta, positiva o negativa a queste domande è legato il destino politico, economico e sociale dell'Inghilterra postbellica.

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Anche guardando la situazione dal puro punto di vista commerciale, appare chiaro che le prospettive vicine e lontane di sviluppo delle esportazioni britanniche sono condizionate a fattori estremamente problematici. È vero che l'andamento del commercio estero nel 1946, sembra giustificare la previsione di un aumento del 40% nell'anno in corso; ma già negli ultimi mesi di quell'anno il tasso mensile in incremento delle esportazioni è diminuito. Le ragioni di questo rallentamento sono varie. Anzitutto è da notare che il grosso delle esportazioni è stato finora costituito da prodotti di industrie che lavorano ancora in regime di produzione di guerra e che, come tali, sfruttano condizioni di favore sia per quanto riguarda la disponibilità di mano d'opera, sia per quanto riguarda l'appoggio dello Stato. Una simile condizione di cose non può durare a lungo, non soltanto perché il mercato estero di questi prodotti (automobilistici e chimici) tende a ridursi, ma perché sono per se stessi più sensibili alle oscillazioni della congiuntura, e troveranno sul mercato interno una crescente richiesta e perciò minori possibilità di collocamento all'estero (è stata per esempio richiesta in Parlamento una riduzione nelle esportazioni di macchinario indispensabile per la modernizzazione degli impianti).

D'altra parte, la sopravvenuta crisi dell'industria carbonifera ha paralizzato per diversi mesi ogni possibilità di esportazione di carbone, tanto che, nel già citato «Bilancio Economico per il 1947», si prevede uno spostamento verso le vendite all'estero di prodotti industriali, che dovrebbero aumentare di almeno il 65% rispetto al 1946: ma questo spostamento urta contro le esigenze del mercato interno, implica non facili e non rapidi riassestamenti nei diversi rami produttivi e, soprattutto, trova i suoi limiti nell'offerta internazionale degli stessi prodotti. Sono correnti nuove di esportazione che bisogna aprire, in un mondo in cui le contrattazioni commerciali soggiacciono tuttora a vincoli complicati, e dove ogni nuovo aspetto della concorrenza internazionale provoca ripercussioni non sempre facilmente prevedibili e meno ancora solubili (3).

Contro analoghe difficoltà urta un'altra esigenza del commercio estero britannico in questa delicatissima fase di trapasso: la necessità di orientare le vendite prevalentemente verso quei paesi a «valuta dura» (cioè convertibili in oro o in dollari) che dovrebbero fornire le valute indispensabili per finanziare le importazioni dagli Stati Uniti, divenuti i principali fornitori dell'Inghilterra (circa due quinti delle importazioni britanniche vengono dall'America del Nord, che assorbe invece appena il 14% delle esportazioni dalla Gran Bretagna) e i mezzi di pagamento per il servizio dei debiti. Ciò significa l'abbandono almeno parziale di correnti commerciali già avviate e l'inizio di nuove: abbandono ed avvio tanto più difficili in quanto sconvolgono tradizioni commerciali non rapidamente modificabili, hanno per oggetto mercati fortemente contesi ed implicano in contropartita uno stretto controllo delle importazioni dagli stessi paesi verso i quali si dovrebbe esportare.

Ma, se queste difficoltà incidono sulle prospettive immediate di sviluppo delle esportazioni britanniche, ben altre e più gravi difficoltà oscurano le prospettive lontane. Non basta volere esportare: occorre trovare dei mercati pronti ad assorbire le merci offerte. Ora, è ben vero che la «fame di merci» è oggi generale, e l'offerta internazionale è ridotta, ma di questa situazione possono trar vantaggio immediato solo quei paesi industriali che hanno una possibilità diretta e, per così dire, istantanea di esportare, non un paese come l'Inghilterra che sta appena rimettendosi da una crisi profonda e giungerà attrezzata per un'esportazione massiva solo nel 1950, quando cioè il mercato internazionale avrà in gran parte soddisfatto le richieste e i margini di collocamento si saranno ridotti. Perché l'aumento delle esportazioni al 175% dell'anteguerra non rimanga teorico, una sola alternativa si pone alla Gran Bretagna: o aumentare la sua partecipazione al commercio mondiale da 1/4 del 1938 ad almeno i 2/5, o contare su un aumento del volume di questo stesso commercio. La prima possibilità è da ritenersi esclusa, poiché di fronte alla Gran Bretagna si trovano come giganteschi concorrenti non soltanto gli Stati Uniti, ma la Russia, i Dominions e tutti i paesi industrializzatisi durante la guerra: la seconda è condizionata alla prospettiva di una generale riduzione delle tariffe doganali e all'introduzione del sistema del «commercio multilaterale».

Ora, quest'ultimo sistema è sostenuto, per le ragioni che già altra volta abbiamo indicato, dagli Stati Uniti (4), ed è ben vero che l'Inghilterra è disposta ad appoggiarne la realizzazione, ma può consentirla soltanto a scadenza non immediata e al termine di un periodo relativamente lungo di aggiustamenti e di compensazioni. Non bisogna dimenticare che il commercio inglese trova una delle sue garanzie di svolgimento normale e senza scosse nel sistema delle preferenze interimperiali, ed è proprio contro questo sistema che si appuntano le critiche nord-americane, è ad esso che recentemente Truman ha fatto risalire la responsabilità prima dei mali di cui ha sofferto il mondo nel decennio successivo alla Grande Crisi e che si sono conclusi nella seconda Grande Guerra, mentre ad uno smantellamento del sistema delle preferenze si oppongono (qualora, almeno, non sia accompagnato da forti e sicure garanzie complementari) quasi tutti i Dominions.

Le più recenti evoluzioni della politica commerciale americana rendono ancor più incerta la prospettiva generale. La vittoria repubblicana negli Stati Uniti è, almeno in parte, una vittoria delle antiche tendenze protezioniste: la repubblica stellata chiede l'abbassamento delle barriere doganali negli altri paesi, ma tanto gli industriali quanto i sindacati operai si oppongono alla riduzione delle tariffe proprie. Questa tendenza non si è ancora nettamente concretizzata: ma è significativo che, in seguito ad un compromesso fra Casa Bianca e Congresso, verso la fine di febbraio sia stato introdotto nel meccanismo ormai decennale degli «accordi di reciprocità commerciale» una clausola-scappatoia, che autorizza una delle due parti - gli Stati Uniti - su parere della commissione doganale del Parlamento, a ritirare alcune delle concessioni fatte all'altra quando abbiano provocato un aumento delle importazioni suscettibile di danneggiare gli interessi dell'industria nazionale, e ad istituire contingenti di importazione, dazi maggiorati ecc.

In altre parole, il commercio di esportazione britannico si troverà a dover affrontare l'agguerritissima concorrenza statunitense su tutti i mercati del mondo, la probabile, lenta liquidazione del sistema delle preferenze imperiali e, quale contropartita al cosiddetto liberismo della politica commerciale americana, aumentate difficoltà di penetrazione nel mercato interno di quel Paese. «Siamo i giganti economici del mondo», ha detto Truman: la fragile barchetta del commercio britannico naviga su mari che la volontà altrui può rendere di colpo impraticabili.

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E tuttavia, le incognite maggiori vanno cercate altrove, e precisamente nella struttura generale dell'economia britannica.

Il programma per l'incremento dell'esportazione ha provocato una tensione di tutto l'apparato produttivo inglese.

Esportare di più significa produrre di più, e a costi tali che vincano la concorrenza coi massimi paesi produttori del mondo. Attraverso l'attuale politica delle nazionalizzazioni, l'Inghilterra sta facendo sforzi inauditi per razionalizzare, concentrare e rimodernare le principali industrie; ma questo sforzo, se potrà dare in una fase ulteriore i suoi frutti, tende oggi piuttosto ad aumentare che a diminuire i costi di produzione. Si tratta di piani a lunga scadenza e di tutto un processo di riattrezzatura il cui bilancio si potrà tirare solo fra qualche anno, e che per ora costa solo ingenti somme allo Stato.

Riattrezzare l'industria, dotarla di macchinari più efficienti, significa importare mezzi di produzione soprattutto dagli Stati Uniti, ma a questa importazione pone dei limiti la difficoltà di conciliare altri approvvigionamenti essenziali all'economia britannica: materie prime per l'industria, generi alimentari che l'agricoltura inglese non fornisce merci sulle quali lo Stato conta per accrescere i proventi fiscali (5), tutto questo nel quadro di una politica che, se prevede logicamente un aumento degli acquisti all'estero, deve tuttavia contenerli in rapporto al difficile problema dell'equilibrio della bilancia dei pagamenti e, più ancora, alla necessità di non aumentare oltre misura (e possibilmente ridurre) il debito di natura commerciale verso i paesi dell'«area del dollaro» (6).

Produrre di più significa inoltre poter contare su un approvvigionamento continuo di materie prime (e il problema si ricollega a quello dell'importazione in genere e dall'«area del dollaro» in particolare) e di combustibili. Ora è proprio in questo ramo che la crisi si presenta più acuta. L'inizio del 1947 è stato accompagnato dal crollo dei rifornimenti di carbone: le esportazioni hanno accusato il colpo scendendo in febbraio al 93% della media mensile 1938 (in volume) contro il 112% del gennaio. Quest'ultimo fenomeno è, in parte, un aspetto della riconosciuta arretratezza tecnica della massima industria estrattiva britannica, e, per altra parte, un riflesso del problema dominante dell'industria inglese - la deficienza di mano d'opera; ma sotto entrambi questi aspetti nessuna prospettiva concreta esiste di rapido miglioramento della situazione. Il governo ha bensì fissato in 200 milioni di tonnellate il livello minimo, di produzione carbonifera per l'anno in corso; ma la crisi di quest'inverno e le difficoltà connesse al reclutamento di mano d'opera rendono quanto mai problematico il raggiungimento di tale quota, mentre persiste il deficit dell'energia elettrica (calcolato in 1,4 milioni di KW.) e la possibilità di equilibrare la produzione alla domanda è prevista al minimo per il 1950. Posto di fronte a questi problemi, il governo inglese è inevitabilmente spinto ad esasperare la politica dei controlli, della pianificazione, dell'intervento autoritario nel campo dei consumi e di una forma più o meno larvata di autarchia. Dovrà limitare le importazioni di generi alimentari, e stimolare, come appunto fa, la produzione agricola (soprattutto zootecnica); dovrà, come già sta facendo, predisporre piani di riduzione e distribuzione del combustibile; dovrà infine incidere ulteriormente sui consumi civili per destinare a scopi di investimento il massimo del reddito nazionale: dovrà, in una parola, protrarre in questi anni di cosiddetta pace il regime di economia che la guerra ha instaurato, e renderlo ancora più rigido e pesante (7).

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È ovvio che la «psicosi dell'esportazione» abbia i suoi riflessi più diretti e più preoccupanti nel campo del lavoro, punto fra tutti il più sensibile dell'attuale situazione economica inglese.

Si può dire che tutti i problemi della politica economica britannica dipendano oggi direttamente dal problema dell'offerta di mano d'opera. Questa offerta rimane tuttora, tenuto conto delle cresciute esigenze produttive e degli obblighi di natura militare, inferiore di 1 milione e mezzo o due alla domanda: già in condizioni d'inferiorità per la sua arretratezza tecnica quest'industria inglese, alla quale si chiede uno sforzo massimo per produrre ed esportare di più, manca oltre tutto di braccia. Come procurarsi la mano d'opera supplementare, necessaria a colmare quest'impressionante deficit? La smobilitazione delle forze armate, che, potrebbe risolvere in parte il problema, urta contro gli impegni internazionali del Paese: il «Libro Bianco» prevede per l'anno in corso una riduzione degli effettivi militari di 250 mila unità, ma esclude che si possa scendere al disotto del livello di 1,17 milioni di soldati. Lo stesso «Libro Bianco» prospetta una riduzione del personale impiegatizio di 80 mila unità (si noti che nel corso della guerra il personale dello Stato è cresciuto da 1 milione e mezzo a più di due milioni), ma è poco probabile che, col ritmo preso dalle nazionalizzazioni, questo processo di smantellamento della burocrazia statale abbia corso: e sono, comunque, gocce d'acqua di fronte al fabbisogno più sopra indicato di unità produttive. Più recentemente, si è pensato all'importazione di lavoratori dall'estero e all'utilizzazione dei polacchi smobilitati, soprattutto nell'industria estrattiva: si tratta di effettivi dell'ordine di circa 200 mila uomini, il cui impiego urta tuttavia, da una parte, contro le difficoltà di alloggio e di sostentamento, e, dall'altra, contro l'ostilità delle organizzazioni sindacali, timorose dell'influenza depressiva che quest'afflusso di mano d'opera straniera non qualificata potrà esercitare sui salari medi dell'operaio britannico; delle frizioni interne che la loro sistemazione, d'altronde inevitabile, in case di nuova costruzione potrebbe provocare in un momento in cui le maestranze operaie indigene soffrono di un'acuta crisi degli alloggi, e della possibilità che i lavoratori stranieri diventino una massa di manovra a disposizione dello Stato per il boicottaggio delle rivendicazioni sindacali. E non manca, specie fra i conservatori, chi fa rilevare la contraddizione fra queste esigenze generali e la politica sociale che il governo laburista è tenuto a svolgere, e della quale è un aspetto l'elevazione dell'età scolastica da 14 a 15 anni, che priva l'industria di almeno 160 mila giovani forze lavorative.

Ma il problema non si ferma qui. V'è il problema della distribuzione della mano d'opera che pesa in modo decisivo sulla situazione dell'industria inglese, e in particolare dell'industria di esportazione. La verità è che, attraverso il meccanismo dell'economia di guerra, si è venuta creando una situazione di questo genere: mentre alcuni rami industriali (metallurgia, chimica), sono relativamente ben provvisti di mano d'opera, altri rami, fra cui appunto l'industria carbonifera, tessile di altri beni di consumo, soffrono di un'acuta deficienza di forze lavorative. Evidentemente, approfittando della congiuntura favorevole, le prime industrie sono in grado di offrire agli operai condizioni salariali e di lavoro assai più favorevoli delle altre. Ma questa situazione si riflette sulle industrie produttrici di beni maggiormente richiesti sul mercato internazionale, soprattutto sull'industria tessile: è in gran parte per questa ragione che la percentuale delle cotonate sul volume complessivo delle esportazioni britanniche è scesa nel 1946 al 6,9% contro il 10,6% dell'anteguerra; quella dei prodotti lanieri al 4,8 contro il 5,7; quella del carbone dal 7,9 ad appena 1%. Ora, come abbiamo già osservato, è appunto su questi prodotti che la politica commerciale inglese fa leva per un duraturo aumento delle esportazioni.

Il governo laburista si è rifiutato finora, per ragioni politiche fin troppo chiare, di intervenire autoritariamente nel mercato del lavoro, e di imporre in questo campo quel sistema di controlli e di coazioni cui ha invece dovuto ricorrere nel campo dell'organizzazione industriale in genere. Ma la logica dei fatti lo trascina su questa via, che è la via del totalitarismo, la via - ironia della storia - nazionalsocialista.

Per non avventurarvisi immediatamente, al governo laburista si apre una sola via, che però conduce per indiretto ad un risultato analogo: da una parte, praticare una politica di blocco dei salari limitato alle industrie dotate di mano d'opera sufficiente e controbilanciato da una parziale autorizzazione di aumenti nelle industrie «undermanned», allo scopo di ristabilire un equilibrio fra le une e le altre e frenare il drenaggio di forze lavorative nelle industrie che offrono condizioni salariali e di lavoro più favorevoli; dall'altra, praticare una politica di intensificazione della produttività del lavoro, destinata a far fronte ad un altro problema fondamentale dell'Inghilterra postbellica, l'eccedenza di mezzi di pagamento rispetto alla quantità di beni offerti sul mercato o, in altre parole, l'inflazione (8). Entrambe queste due soluzioni importano una presa di posizione netta contro le rivendicazioni sindacali degli operai, che può non trovare ostacoli immediati nelle Trade Unions, dominate dal partito di governo, ma ne ha già trovati e più ne troverà nel proletariato, col quale tanto il partito laburista quanto le organizzazioni sindacali sono costretti a fare i conti in vista del crescente divorzio fra operai e sindacati nei più recenti scioperi e della prospettiva di un inasprimento delle lotte di classe nel clima duro di una politica di restrizioni e di «patriottici sacrifici».

Ed ecco il governo laburista capovolgere i termini della sua originaria impostazione della politica sociale. Esso che s'era impegnato ad ottenere la riduzione della settimana lavorativa, è oggi costretto a sostenere il ritorno alla settimana di 48 ore, e a dichiarare, nel «Libro Bianco»:
«La nazione non può permettersi il lusso di un più breve tempo di lavoro, a meno che non sia dimostrato che ciò aumenti la produzione per teste per anno. Un maggior ozio è una desiderabile cosa, ma non è oggi la necessità numero 1 allo stesso grado dei mezzi di sussistenza importati, del carbone, dell'abbigliamento e delle case».
Esso che si era schierato contro lo sfruttamento intensivo dell'operaio, è costretto a rivolgere appelli per una maggiore produttività individuale accompagnata ad una grande moderazione nelle richieste di aumento dei salari, e a studiare, da una parte, la reintroduzione di sistemi di retribuzione a premio e, dall'altra, lo sviluppo di sistemi di assistenza, dopolavoro, riduzione dell'onere fiscale sui salari e stipendi, che urtano, i primi, contro la proclamata necessità di stabilizzare e possibilmente ridurre i costi di produzione, i secondi contro le esigenze del bilancio dello Stato (9).

Esso che si è fatto passare per l'animatore della lotta contro la politica totalitaria fascista, è costretto a proclamare ufficialmente sua la politica corporativa della collaborazione patriottica fra datori di lavoro e prestatori d'opera e, mentre continua a ribadire la volontà di non intervenire autoritariamente nel campo sociale, sarà alla lunga obbligato a ricorrere a mezzi coercitivi, a passare dalla politica della «volontaria moderazione» nelle rivendicazioni salariali ad una politica di imperio, dalla politica a intonazione liberale del passaggio della mano d'opera da un'industria all'altra secondo le leggi della domanda e dell'offerta ad una politica di regolamentazione dall'alto. Esso che si è proposto di ridurre il carico fiscale sui redditi di lavoro, progetta ora bensì di abbassare il livello delle imposte sul lavoro straordinario ma, per evitare il pericolo di una nuova spinta inflazionistica, progetta di aumentare le imposte indirette sui consumi, togliendo così con una mano quello che aveva dato con l'altra. Per render possibile un aumento della produttività del lavoro, deve poter assicurare maggiori quantità di generi alimentari all'operaio, mentre il piano di importazione glielo vieta. Sempre allo scopo di tendere al massimo i fattori produttivi, deve reintrodurre su scala sempre più vasta il lavoro notturno e sospendere le restrizioni previste per le donne e i ragazzi, reagendo nel contempo alla pressione degli organi sindacali che chiedono per le ore notturne la retribuzione concessa per il lavoro straordinario.

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Da questa sommaria analisi appare evidente che la situazione economica inglese è dominata da fattori contraddittori che imprimono a tutto l'apparato produttivo un carattere di estrema fragilità ed incertezza. L'economia inglese si muove fra esigenze opposte: ha bisogno di aumentare le importazioni per ricostituire le scorte, riattrezzare le industrie, nutrire a sufficienza i suoi operai, e deve nello stesso tempo contenerle in rapporto ad esigenze valutarie e commerciali; deve cercar di ridurre i costi di produzione razionalizzando i metodi di lavoro, e ogni sforzo di razionalizzare e perfezionare l'attrezzatura tecnica si riflette in un aumento dei costi; deve esportare di più in un mondo dalle strutture fattesi più rigide, dove su mercati relativamente ristretti si scatena una concorrenza feroce; deve aumentare la produttività del lavoro e, nel contempo, limitare le richieste operaie; deve modificare sia le tradizionali correnti del suo commercio estero, sia il rapporto reciproco fra le sue industrie, sia gli spostamenti della massa operaia sul mercato interno, cioè compiere a tempo di record un processo di riassestamento a lungo respiro; deve conciliare l'inconciliabile, un'esigenza politica di libertà, e un'esigenza economica di accentramento e di regolamentazione dall'alto; deve mantenere i suoi impegni internazionali di grande potenza, e lo può alla sola condizione di ritardare il lento processo di risanamento dell'apparato produttivo.

Il piano di ricostruzione britannico è dunque costruito sulle sabbie mobili. Tutto è problematico in esso; e, man mano che gli verrà meno l'appoggio di fattori psicologici sui quali il governo laburista (e solo esso) ha finora potuto contare, l'attuale fase di trapasso si rivelerà come il ponte di passaggio verso una nuova, spietata forma di totalitarismo.

La classe operaia inglese non ha neppure la prospettiva di una volontaria rinuncia al benessere immediato dell'oggi contro la sicura garanzia di un miglioramento futuro. La storia ha fretta, e la ricostruzione economica britannica ha bisogno di tempo. Strettamente legata all'evoluzione internazionale dell'economia capitalistica, l'economia inglese ne riflette, esasperate, le perplessità. L'euforia dei primordi dell'esperimento laburista sta svanendo: il capitalismo inglese si chiede se, nonostante il laburismo, nonostante le solide barriere opposte alla ripresa della lotta di classe, da un partito che si professa «operaio», la ricostruzione sarà possibile. O se proprio nel corso di quest'inquieta e disordinata ricerca di nuovi equilibri, forze gigantesche non ne scrolleranno le basi.





NOTE

  1. «Prometeo», n. 2, pag. 75-76.

  2. Il 18 marzo, il ministro delle finanze egiziano ha escluso da parte del suo governo ogni parziale cancellazione del debito inglese (450 milioni di sterlina): analoga dichiarazione ha fatto l'Irak. Si aggiunga che è prevista l'alienazione anche di diverse compagnie elettriche e ferroviarie inglesi in Brasile a liquidazione del credito in sterline di quel paese (65 milioni). Il 18 marzo, il ministro delle finanze egiziano ha escluso da parte del suo governo ogni parziale cancellazione del debito inglese (450 milioni di sterlina): analoga dichiarazione ha fatto l'Irak. Si aggiunga che è prevista l'alienazione anche di diverse compagnie elettriche e ferroviarie inglesi in Brasile a liquidazione del credito in sterline di quel paese (65 milioni).

  3. Quest'articolo era già stato scritto prima dell'annuncio tatto da Attlee ai Comuni che l'Inghilterra dovrà sospendere l'esportazione di carbone, la produzione 1947 essendo prevista in un massimo di 175-180 milioni di tonnellate contro i 200 milioni stabiliti dal piano. Va pure sottolineato come sintomo delle tendenze di sviluppo di un mercato mondiale che si vorrebbe in espansione, il rigido controllo sulle importazioni introdotto dalla Svezia, uno dei più importanti mercati inglesi, al fine di bloccare l'emorragia di divise.

  4. «Prometeo», n. 2, pag. 79-80.

  5. Una delle critiche mosse al piano economico governativo per il 1947 è stata quella di aver previsto un'importazione di tabacchi e di film per 68 milioni contro appena 60 milioni (di cui 20 soltanto per navi) di beni capitali.
  6. È interessante osservare che, nel 1946, mentre il passivo globale della bilancia commerciale (importazioni meno esportazioni e riesportazioni) sommava a 335,64 milioni di sterline, il passivo nei confronti dei paesi dell'«area del dollaro» (Stati Uniti e Canada) raggiungeva i 353,26 milioni: questo passivo, non potendo essere saldato con divise non pregiate, viene coperto in gran parte coi dollari dei prestiti americano e canadese, che vanno infatti rapidamente esaurendosi. Come salderà il suo passivo quando il prestito sarà consumato, cioè alla fine del prossimo anno, l'Inghilterra? Giustamente la «Neue Zürcher Zeitung» del 3-3 osservava che «il problema del commercio estero inglese è anzitutto un problema di dollari».

  7. Per il 1947, il piano di investimento di capitali dovrà assorbire almeno il 20% del reddito nazionale in lavori di riparazione e costruzione e nell'installazione di nuovi impianti, e superare di almeno il 15% il livello anteguerra: per raggiungere questo scopo essenziale per il potenziamento delle industrie-chiave e dell'agricoltura sarà necessaria un'ulteriore riduzione dei consumi civili, per una percentuale di reddito nazionale riservata al consumo personale è stata ridotta al 66% del reddito nazionale contro il 78% dell'anteguerra, con conseguente riduzione generale del tenore di vita della popolazione.

  8. Nel 1946, la popolazione inglese disponeva di un reddito netto (detratte le imposte sul reddito) di circa 7 miliardi di sterline, di fronte al quale stava un'offerta di beni di consumo per un valore di soli 6 miliardi. Solo un terzo dell'eccedenza di potere di acquisto era controbilanciata da un aumento netto dei risparmi, mentre la somma rimanente esercitava una pressione inflazionistica, che solo un rigoroso controllo dei prezzi permetteva di frenare.
  9. Recentemente è stata introdotta nelle miniere la settimana di 5 giorni, ma è significativo che la sesta giornata sia pagata a titolo di buono-premio, a condizione cioè che l'operaio abbia lavorato tutti i 5 giorni precedenti, e che le Trade Unions si sian fatte garanti di un aumento nella produttività del lavoro.


Ultima modifica 28.12.2009