Anti-Dühring

Seconda Sezione: Economia

 

VII. Capitale e plusvalore

 

"Per cominciare, per quanto riguarda il capitale, Marx non accetta il concetto universalmente corrente in economia, secondo il quale il capitale è un mezzo di produzione prodotto esso stesso e tenta invece di sublimarlo in una più specifica idea storico-dialettica che si addentra nel giuoco delle metamorfosi dei concetti e della storia. Secondo lui il capitale nasce dal denaro, e costituisce una fase storica che comincia col secolo XVI, cioè con gli inizi di un mercato mondiale, che si presuppone siano avvenuti in quest'epoca. Ora, è chiaro che in una tale concezione il rigore dell'analisi economica venga perduto. In concezioni tanto confuse che vorrebbero essere per metà storiche e per metà logiche e che invece sono in realtà soltanto prodotti bastardi di fantasie storiche e logiche, il potere di distinzione dell'intelletto naufraga insieme con ogni retto uso dei concetti", e così continua a chiacchierare per tutta una pagina; "(...) con la caratterizzazione che Marx ci dà del concetto di capitale non possono ingenerarsi che confusioni nella dottrina rigorosamente economica (...) facilonerie che si spacciano per verità logiche (...) fragilità dei fondamenti" ecc.

Quindi, secondo Marx, il capitale sarebbe nato dal denaro al principio del XVI secolo. È come se si dicesse che la moneta metallica ben tremila anni fa è nata dal bestiame, dato che prima, tra l'altro, il bestiame faceva le funzioni della moneta. Solo Dühring è capace di esprimersi in un modo così rozzo e maldestro. In Marx, nell'analisi delle forme economiche, nel cui seno avviene il processo di circolazione delle merci, come ultima forma appare il denaro.

"Questo ultimo prodotto della circolazione delle merci è la prima forma fenomenica del capitale. Dal punto di vista storico, il capitale si contrappone dappertutto alla proprietà fondiaria, nella forma di denaro, come patrimonio in denaro, capitale mercantile e capitale usuraio (...) La stessa storia si svolge ogni giorno sotto i nostri occhi. Ogni nuovo capitale calca la scena, cioè il mercato -mercato delle merci, mercato del lavoro, mercato del denaro- in prima istanza come denaro, ancora e sempre. Denaro che si dovrà trasformare in capitale attraverso processi determinati." [101]

Dunque, è ancora una volta un fatto quello che Marx ha constatato. Incapace di contestarlo, Dühring lo deforma: il capitale nascerebbe dal denaro!

Marx indaga ora ulteriormente i processi per cui il denaro si trasforma in capitale e trova innanzitutto che la forma nella quale il denaro circola come capitale è il rovesciamento di quella forma nella quale circola come equivalente generale della merce. Il semplice possessore di merci vende per comprare; vende ciò di cui non ha bisogno e compra col denaro ricavato ciò di cui ha bisogno. Ai suoi inizi il capitalista comincia col comprare ciò di cui non ha bisogno egli stesso; compra per vendere e precisamente per vender più caro, per ricevere di ritorno il denaro che originariamente aveva investito nella compera, accresciuto di un incremento in denaro, e questo incremento Marx chiama plusvalore.

Da dove si origina questo plusvalore? Non può originarsi né dal fatto che il compratore abbia comprato le merci al di sotto del loro valore, né dal fatto che il venditore le venda al di sopra del loro valore. Infatti in entrambi i casi i guadagni e le perdite di ciascuno si compensano vicendevolmente perché ciascuno è alternativamente compratore e venditore. Non può neanche originarsi da truffa; infatti la truffa può certo arricchire l'uno alle spese dell'altro, ma non può aumentare in modo generale la somma totale posseduta da entrambi e quindi neppure la somma dei valori circolanti in genere. "L'insieme della classe dei capitalisti di un paese non può sfruttare se stessa" [102].

Eppure noi troviamo che l'insieme della classe dei capitalisti di ogni paese si arricchisce continuamente sotto i nostri occhi, vendendo più caro di quanto ha comprato e appropriandosi plusvalore. Siamo dunque al punto di partenza: da dove si origina questo plusvalore? La questione, che deve risolversi, e precisamente su un piano puramente economico, escludendo ogni truffa e ogni intromissione di qualsiasi violenza, è questa: come è possibile vendere costantemente più caro di quanto si è comprato, presupponendo pure che valori eguali vengano costantemente scambiati con valori eguali?

La soluzione di questa questione costituisce il merito più grande dell'opera di Marx. Essa diffonde chiara luce solare su quel campo dell'economia in cui i socialisti del passato, non meno degli economisti borghesi, brancolavano nella più profonda oscurità. Da essa prende inizio, in essa ha il suo centro il socialismo scientifico.

Ecco questa soluzione. L'incremento di valore del denaro che deve trasformarsi in capitale non può avere luogo in questo stesso denaro, né provenire dall'atto della compera poiché questo denaro costituisce qui solo il prezzo della merce e questo prezzo, dato il nostro presupposto che si scambiano valori eguali, non differisce dal valore della merce. Ma per la stessa ragione l'incremento di valore non può provenire neppure dalla vendita della merce. Il cambiamento quindi deve aver luogo nella merce che viene comprata, non però nel suo valore, poiché essa viene comprata e venduta secondo il suo valore, ma nel suo valore d'uso come tale; cioè il cambiamento di valore deve sorgere dall'uso della merce.

"Per estrarre valore dal consumo di una merce, il nostro possessore di denaro dovrebbe esser tanto fortunato da scoprire (...) sul mercato, una merce il cui valore d'uso stesso possedesse la peculiare qualità d'essere fonte di valore; tale dunque che il suo consumo reale fosse, esso stesso, oggettivazione di lavoro, e quindi creazione di valore. Il possessore di denaro trova sul mercato tale merce specifica: è la capacità di lavoro, ossia la forza-lavoro." [103].

Se, come abbiamo visto, il lavoro come tale non può avere un valore, non avviene affatto così per la forza-lavoro. Questa acquista un valore non appena diventa merce, quale in realtà è oggi, e questo valore, "come quello di ogni altra merce, è determinato dal tempo di lavoro necessario alla produzione e quindi anche alla riproduzione di questo articolo specifico" [104], cioè è determinato dal tempo di lavoro che è necessario per la produzione dei mezzi di sussistenza di cui abbisogna il lavoratore per mantenersi in condizione di essere capace di lavorare e per riprodurre la propria specie. Supponiamo che questi mezzi di sussistenza rappresentino giornalmente un lavoro di sei ore. Agli inizi, il nostro capitalista, che per condurre la sua impresa compra forza-lavoro, cioè prende in affitto un operaio, paga dunque a questo operaio il pieno valore giornaliero della sua forza-lavoro se gli corrisponde una somma di denaro che rappresenta del pari sei ore di lavoro. L'operaio dunque, allorché ha lavorato sei ore al servizio del futuro capitalista, ha restituito a costui il suo esborso per il suo valore giornaliero della forza-lavoro che gli viene pagata. Ma in questo modo il denaro non si sarebbe trasformato in capitale, non avrebbe prodotto alcun plusvalore. Il compratore della forza-lavoro ha perciò una maniera di vedere completamente diversa sulla natura dell'affare che ha concluso. Il fatto che siano necessarie sei ore di lavoro per mantenere in vita l'operaio ventiquattr'ore, non impedisce che egli lavori dodici ore su ventiquattro. Il valore della forza-lavoro e la sua utilizzazione nel processo lavorativo sono due grandezze diverse. Il possessore di denaro ha pagato il valore di un giorno della forza-lavoro, a lui appartiene quindi anche il suo uso durante il giorno intero, il lavoro della durata di un giorno. Che il valore creato dal suo uso durante il giorno sia doppio del suo proprio valore di un giorno, questo fatto costituisce una particolare fortuna per il compratore, ma secondo le leggi dello scambio delle merci non è affatto un torto fatto al venditore. L'operaio dunque, secondo la nostra ipotesi, costa al possessore di denaro il valore prodotto da sei ore di lavoro, ma gli fornisce giornalmente il valore prodotto da dodici ore di lavoro. Differenza a profitto del possessore di denaro: sei ore di pluslavoro non pagato, plusprodotto non pagato in cui è incorporato il lavoro di sei ore. Il giuoco è fatto. È stato prodotto il plusvalore, il denaro si è trasformato in capitale.

Col mostrare in questo modo come nasce il plusvalore, e come solo sotto il dominio delle leggi che regolano lo scambio delle merci il plusvalore possa nascere, Marx ha messo a nudo il meccanismo dell'attuale modo di produzione capitalistico e del modo di produzione che su di esso è basato, e ha svelato il nucleo intorno al quale si è cristallizzato tutto l'odierno ordinamento della società.

Questa produzione di capitale ha tuttavia una condizione preliminare essenziale:

"Per trasformare il denaro in capitale il possessore di denaro deve trovare sul mercato delle merci il lavoratore libero; libero nel duplice senso che disponga della propria forza lavorativa come propria merce, nella sua qualità di libera persona, e che, d'altra parte, non abbia da vendere altre merci, che sia privo ed esente, libero di tutte le cose necessarie per la realizzazione della sua forza-lavoro" [105].

Ma questo rapporto tra possessori di denaro o di merci da una parte e possessori di null'altro che la propria forza-lavoro dall'altra, non è un rapporto conforme ad alcuna legge di natura, né comune a tutti i periodi storici,

"esso stesso è evidentemente il risultato di uno svolgimento storico precedente, il prodotto (...) del tramonto di tutta una serie di formazioni più antiche della produzione sociale" [106].

E precisamente questo lavoratore libero ci si presenta in massa per la prima volta nella storia intorno alla fine del XV e al principio del XVI secolo, in seguito alla dissoluzione del modo di produzione feudale. Ma con questo fatto e con la creazione del commercio mondiale e del mercato mondiale, che risalgono alla stessa epoca, furono poste le basi sulle quali la massa della ricchezza mobiliare esistente si doveva sempre più trasformare in capitale e il modo di produzione capitalistico indirizzato alla produzione di plusvalore doveva sempre più diventare il modo esclusivamente dominante.

Sin qui noi abbiamo seguito le "concezioni confuse" di Marx, questi "prodotti bastardi di fantasie storiche e logiche" nelle quali "il potere di distinzione dell'intelletto naufraga insieme con ogni retto uso dei concetti". È tempo ora di opporre a queste "facilonerie" le "verità logiche profonde" e il "procedimento definitivo e rigorosamente scientifico nel senso in cui è inteso dalle scienze esatte", quali ci sono offerti da Dühring.

Quindi, riguardo al capitale, Marx non accetta "il concetto universalmente corrente in economia, secondo il quale il capitale è un mezzo di produzione prodotto esso stesso"; e dice invece che una somma di valori si trasforma in capitale solo se la si valorizza formando un plusvalore. e che cosa dice Dühring?

"Il capitale è una sorgente di mezzi economici di potere per la continuazione della produzione e per la formazione di partecipazioni ai frutti della forza-lavoro generale."

Per quanto oracolarmente e sciattamente tutto questo ancora una volta sia espresso, una cosa è sicura: la sorgente di mezzi economici di potere ha un bel continuare la produzione per l'eternità, ma, secondo le precise parole di Dühring, non diventerà mai capitale sino a quando non formerà "partecipazioni ai frutti della forza-lavoro generale", cioè sino a quando non forma un plusvalore o almeno un plusprodotto. La colpa dunque che Dühring rimprovera a Marx, di non accettare il concetto di capitale universalmente corrente in economia, non solo la commette egli stesso, ma commette inoltre un maldestro plagio di Marx, "malamente celato" da un linguaggio roboante.

A p. 262 questo concetto viene ulteriormente sviluppato:

"Il capitale in senso sociale" (e un capitale in senso non sociale Dühring ha ancora da scoprirlo) "è cioè specificatamente diverso dal puro mezzo di produzione; infatti, mentre quest'ultimo ha solo un carattere tecnico e in ogni circostanza è necessario, quello è caratterizzato dalla sua forza sociale di appropriazione e di partecipazione. Il capitale sociale in gran parte non è altro certamente che il mezzo di produzione tecnico nella sua funzione sociale; ma questa funzione è anche precisamente quella che... deve sparire".

Se riflettiamo che è stato proprio Marx colui che per primo ha messo in rilievo la "funzione sociale" per mezzo della quale, soltanto, una somma di valore diventa capitale, dovrà certamente "ogni attento osservatore del fatto aver la certezza che con la caratterizzazione data da Marx al concetto di capitale si creerà soltanto della confusione"... ma non , come pensa Dühring, nella rigorosa dottrina economica, ma come mostra il sillogismo, unicamente e solamente nella testa dello stesso Dühring, che nella "storia critica" ha già dimenticato in che gran misura abbia usato nel "Corso" il suddetto concetto di capitale.

Tuttavia Dühring non è pago di prendere in prestito da Marx, sia pure in forma "purgata", la sua definizione di capitale. E deve seguirlo anche "nel giuoco delle metamorfosi dei concetti e della storia" e ciò malgrado la sua migliore convinzione che da tutto questo non possono risultare altro che "concezioni confuse", "facilonerie", "fragilità delle basi", ecc. Da dove si origina questa "funzione sociale" del capitale, che lo rende atto ad appropriarsi dei frutti del lavoro altrui e per cui solamente si distingue dal semplice mezzo di produzione? Essa non è fondata, dice Dühring, "sulla natura dei mezzi di produzione e sulla loro indispensabilità tecnica". È dunque sorta storicamente, e Dühring ci ripete a p. 252 solo ciò che avevamo già udito dieci volte, quando egli spiega l'origine del capitale mediante la vecchia storiella dei due uomini, dei quali, agli inizi della storia, l'uno trasforma il suo mezzo di produzione in capitale facendo violenza sull'altro. Ma, non contento di attribuire un'origine storica alla funzione sociale mediante la quale soltanto una somma di valore si trasforma in capitale, Dühring ne profetizza anche una fine storica. Questa funzione "è anche precisamente quella che deve sparire". Un fenomeno che è sorto storicamente e a sua volta storicamente scompare, di solito, parlando in linguaggio comune, viene chiamato "una fase storica". Quindi il capitale è una fase storica non solo per Marx, ma anche per Dühring e siamo perciò costretti a concludere che qui ci troviamo tra i gesuiti. Se due uomini fanno la stessa cosa, questa cosa non è la stessa. Se Marx dice che il capitale è una fase storica, questa è una concezione confusa, un prodotto bastardo di fantasie storiche e logiche nelle quali il potere di distinzione naufraga insieme con ogni corretto uso dei concetti. Se Dühring dice del pari che il capitale rappresenta una fase storica, questa è una prova dell'acutezza dell'analisi economica e del procedimento definitivo e rigorosamente scientifico nel senso in cui è inteso dalle scienza esatte.

In che cosa l'idea del capitale di Dühring si distingue da quella di Marx?

"Il capitale" dice Marx, "non ha inventato il pluslavoro. Ovunque una parte della società possegga il monopolio dei mezzi di produzione, il lavoratore, libero o schiavo, deve aggiungere al tempo di lavoro necessario al suo sostentamento tempo di lavoro eccedente per produrre i mezzi di sostentamento per il possessore dei mezzi di produzione" (Marx, "Capitale", I, seconda edizione, pag. 227) [107].

Pluslavoro, lavoro eccedente il tempo necessario per il mantenimento dell'operaio, e appropriazione da parte di altri del prodotto di questo pluslavoro, sfruttamento del lavoro, è dunque fenomeno comune a tutte le forme di società esistite sinora, nella misura in cui queste si sono mosse sul piano degli antagonismi di classe. Ma solo allorché il prodotto di questo pluslavoro assume la forma del plusvalore, allorché il proprietario dei mezzi di produzione trova di fronte a sé come oggetto dello sfruttamento il lavoratore libero, libero da vincoli sociali e libero da un possesso proprio, e lo sfrutta ai fini della produzione di merci, solo allora, secondo Marx, il mezzo di produzione assume il carattere specifico di capitale. E questo è accaduto in misura rilevante solo dalla fine del XV e dal principio del XVI secolo.

Dühring, per contro, dichiara capitale ogni sorta di mezzi di produzione che "forma partecipazioni ai frutti della forza-lavoro generale" e che quindi ha per risultato pluslavoro in una forma qualsiasi. In altri termini Dühring si appropria il pluslavoro scoperto da Marx per uccidere con esso il plusvalore, egualmente scoperto da Marx, ma che per il momento non gli conviene. Per Dühring, dunque, non solo la ricchezza mobiliare e immobiliare dei cittadini corinzi e ateniesi, con la loro economia fondata sulla schiavitù, ma anche quella dei grandi proprietari terrieri romani del periodo imperiale e non meno quella dei baroni feudali nel medioevo, nella misura in cui servivano in una maniera qualsiasi alla produzione, tutte, senza distinzione, sarebbero capitale.

Dühring stesso accetta dunque "riguardo al capitale, non il concetto comunemente corrente secondo il quale esso sarebbe un mezzo di produzione prodotto a sua volta", ma invece un concetto completamente opposto che include perfino i mezzi di produzione che non sono stati prodotti come la terra e le sue risorse naturali. Ma l'idea secondo cui il capitale sarebbe semplicemente un "mezzo di produzione prodotto a sua volta", è un'idea comunemente corrente nell'economia volgare. Al di fuori di questa economia volgare tanto cara a Dühring, il "mezzo di produzione prodotto a sua volta", o in generale una somma di valore, diventa capitale solo per il fatto che produce profitto o interesse, cioè si appropria del plusprodotto di lavoro non pagato nella forma di plusvalore, e precisamente se lo appropria in queste due determinate sottospecie di plusvalore. Resta così assolutamente irrilevante il fatto che tutta l'economia borghese sia prigioniera dell'idea che la proprietà di produrre profitto o interesse sia per se stessa inerente ad ogni somma di valore che in condizioni normali venga impiegata nella produzione o nello scambio. Capitale e profitto o capitale e interesse sono nell'economia classica altrettanto indivisibili, stanno nello stesso rapporto tra loro come causa ed effetto, padre e figlio, ieri e oggi. Ma la parola capitale si incontra nel suo moderno significato economico per la prima volta nell'epoca in cui la cosa stessa fa la sua comparsa, nell'epoca in cui la ricchezza mobiliare acquista sempre più la funzione di capitale, sfruttando il pluslavoro di liberi lavoratori per produrre merci, e precisamente questa parola viene introdotta dalla prima nazione capitalistica della storia: l'Italia del XV e XVI secolo. E se Marx per la prima volta ha analizzato sino alle fondamenta il modo di appropriazione peculiare del capitale moderno, se ha messo d'accordo il concetto di capitale coi fatti dai quali in ultima istanza era stato dedotto e ai quali deve la sua esistenza, se con ciò Marx ha liberato questo concetto economico da tutte le idee oscure e incerte che vi erano rimaste attaccate ancora nell'economia classica borghese e tra i socialisti sino ad ora, è stato dunque precisamente Marx che ha applicato quel "procedimento scientifico definitivo e rigoroso" che Dühring ha sempre sulle labbra e di cui con tanto dolore sentiamo in lui la mancanza.

In effetti le cose vanno per Dühring in modo completamente diverso. Costui non è contento di aver prima inveito contro la rappresentazione di capitale come fase storica definendolo un "prodotto bastardo di fantasie storiche e logiche", e di averla poi egli stesso presentata come un fase storica. Dichiara anche che sono, in blocco, capitale anche tutti i mezzi economici di potere e tutti i mezzi di produzione che si appropriano "partecipazioni ai frutti della forza-lavoro generale", inclusa quindi anche la proprietà fondiaria esistente in tutte le società classiste; la qual cosa però non gli impedisce affatto di distinguere, nel corso ulteriore dell'indagine, proprietà terriera e rendita fondiaria nella maniera in cui tradizionalmente si distinguono capitale e profitto e di caratterizzare come capitale solo quei mezzi di produzione che producono profitto o interesse, come più diffusamente si può vedere a p. 156 e sgg. del "Corso". Con lo stesso diritto Dühring potrebbe includere immediatamente sotto il nome di locomotiva anche cavalli, buoi, asini e cani perché anche con questi mezzi di trasporto si potrebbe far muovere un veicolo e potrebbe rimproverare agli ingegneri moderni che, limitando il nome di locomotiva alle moderne vetture a vapore, ne hanno fatto una fase storica, che hanno usato concezioni confuse, prodotti bastardi di fantasie storiche e logiche, ecc., e dichiarare infine che cavalli, asini, buoi e cani sono pure da escludere dalla denominazione di locomotiva e che questa denominazione vale solo per le vetture a vapore. E allora siamo costretti a dire ancora una volta che precisamente la concezione dühringiana del capitale è quella nella quale va perduto ogni rigore dell'analisi economica e naufraga il potere di distinzione insieme con ogni retto uso dei concetti e che le concezioni confuse, il disorientamento, le facilonerie, che vengono spacciate per profonde verità logiche, e la fragilità delle basi sono in piena fioritura precisamente in Dühring.

Ma tutto questo non ha importanza. A Dühring con ciò resta pure la gloria di avere scoperto il centro di gravità intorno al quale si muove sinora tutta l'economia, tutta la politica e tutta la giurisprudenza, in una parola tutta la storia che si è svolta sinora. Eccolo:

"Forza e lavoro sono i due fattori principali che entrano in giuoco nella formazione dei rapporti sociali".

In questa unica frase è racchiusa tutta la costituzione del mondo economico sinora esistente. Essa è straordinariamente breve e così suona:

Articolo primo: il lavoro produce.

Articolo secondo: la forza distribuisce.

E con ciò "parlando da uomini e francamente" tutta la sapienza economica di Dühring è esaurita.

 


 

VIII. Capitale e plusvalore (conclusione)

 

 

"Secondo il modo di vedere di Marx il salario rappresenta solo il pagamento di quel tempo di lavoro in cui l'operaio è effettivamente attivo per rendere possibile la propria esistenza. Ora per questo è sufficiente un numero di ore alquanto piccolo; tutto il resto della giornata lavorativa, spesso molto prolungata, costituisce un'eccedenza nella quale è contenuto quello che dal nostro autore è chiamato "plusvalore" o, detto nella lingua comunemente corrente, l'utile del capitale. Prescindendo dal tempo di lavoro che in ogni grado della produzione è già contenuto nei mezzi di lavoro e nelle relative materie prime, quell'eccedenza della giornata lavorativa rappresenta la parte dell'imprenditore capitalista. Il prolungamento della giornata lavorativa costituisce perciò un guadagno di puro sfruttamento a beneficio del capitalista."

Secondo Dühring, quindi, il plusvalore di Marx non sarebbe altro che ciò che in linguaggio comunemente corrente si chiama utile del capitale o profitto. Ascoltiamo Marx stesso. A p. 195 del "Capitale" il plusvalore viene spiegato dalle parole che seguono questo termine in parentesi : "Interesse, profitto, rendita" [108]. A p. 210 Marx dà un esempio in cui una somma di plusvalore di 71 scellini appare nelle sue diverse forme distributive: decime, imposte statali e locali 21 scellini, rendita fondiaria 28 scellini, profitto e interesse del fittavolo 22 scellini, totale del plusvalore 71 scellini [109]. A p. 542 Marx dichiara che una delle più gravi lacune di Ricardo è il fatto che neppure lui "ha mai indagato il plusvalore come tale, ossia indipendentemente dalle sue forme particolari quali il profitto, la rendita fondiaria, ecc." [110], e che perciò confonde immediatamente le leggi del saggio sul plusvalore con le leggi sul saggio del profitto; per contro Marx annuncia:

"Dimostrerò più avanti, nel libro terzo, che, date determinate circostanze, uno stesso saggio del plusvalore può esprimersi in differentissimi saggi del profitto e che differenti saggi del plusvalore possono esprimersi in uno stesso saggio del profitto" [111].

A p. 587 si legge:

"Il capitalista che produce il plusvalore, cioè estrae direttamente dagli operai il lavoro non retribuito e lo fissa in merci, è si il primo ad appropriarsi questo plusvalore, ma non è affatto l'ultimo suo proprietario. Deve in un secondo tempo spartirlo con capitalisti che compiono altre funzioni nel complesso generale della produzione sociale, con i proprietari fondiari, ecc. Quindi il plusvalore si scinde in parti differenti. I suoi frammenti toccano a differenti categorie di persone e vengono ad avere forme differenti, autonome tra loro, come profitto, interesse, guadagno commerciale, rendita fondiaria, ecc. Queste forme trasmutate del plusvalore potranno essere trattate solo nel libro terzo" [112].

E parimenti in molti altri passi.

Non ci si può esprimere più chiaramente. In ogni occasione Marx richiama l'attenzione sul fatto che il suo plusvalore non deve affatto essere scambiato col profitto o utile del capitale e che quest'ultimo è invece una forma subordinata e molto spesso perfino solo un frammento del plusvalore. Se Dühring afferma tuttavia che il plusvalore di Marx "è detto nel linguaggio comunemente corrente, l'utile del capitale" e se è un fatto che tutto il libro di Marx si aggira intorno al plusvalore, solo due casi sono possibili: o non ne sa di più, e in questo caso deve avere una spudoratezza senza pari per attaccare un libro di cui ignora il contenuto essenziale. O ne sa di più, e allora commette una falsificazione intenzionale.

Proseguendo:

"L'odio velenoso che Marx nutre per questo modo di intendere lo sfruttamento è fin troppo comprensibile. Ma è possibile una collera più violenta e un riconoscimento ancora più pieno del carattere di sfruttamento che ha la forma economica fondata sul lavoro salariato, senza accettare per questo quella posizione teorica che si esprime nella teoria marxiana di un plusvalore".

L'espressione teorica di Marx, ricca di buone intenzioni, ma errata, gli è causa di un odio velenoso contro lo sfruttamento; la passione, in sé morale, riveste un'espressione immorale in conseguenza della "posizione teorica falsa" e si manifesta in ignobile odio e in bassa velenosità, mentre il procedimento scientifico definitivo e rigorosissimo di Dühring si estrinseca in una passione morale di natura adeguatamente nobile, in una collera che, anche nella sua collera, è moralmente e inoltre quantitativamente superiore all'odio velenoso, in una collera violenta. Mentre Dühring è intento a compiacersi di se stesso, vediamo da che cosa ha origine questa collera più violenta.

"Sorge in effetti", ci dice in seguito, "la questione del come gli imprenditori in concorrenza siano in condizione di realizzare durevolmente il pieno prodotto del lavoro, e con esso il plusprodotto, ad un valore che supera i costi naturali di produzione nella misura indicata nella proporzione dell'eccedenza delle ore di lavoro, cui abbiamo accennato. Una risposta a questa questione non si può trovare nella dottrina di Marx e precisamente per la semplice ragione che in questa dottrina non c'è neppure il posto dove porre la questione. Il carattere di lusso della produzione fondata sul lavoro assoldato non è affatto affrontato con serietà e l'ordinamento sociale, con le sue posizioni di spoliazione, non è stato riconosciuto in nessun modo come la ragione ultima della schiavitù bianca. Al contrario l'elemento politico-sociale ha sempre dovuto essere spiegato partendo dall'elemento economico."

Ma dai passi citati sopra abbiamo visto che Marx non afferma in nessun modo che il plusprodotto sia venduto in ogni circostanza e in media secondo il suo pieno valore dal capitalista industriale che è il primo ad appropriarselo, come qui suppone Dühring. Marx dice espressamente che anche l'utile commerciale costituisce una parte del plusvalore e questo, dati i presenti presupposti, è possibile solo nel caso il fabbricante venda al commerciante il suo prodotto al di sotto del suo valore e gli ceda così una parte del bottino. La questione come viene qui impostata non potrebbe invero trovar posto in Marx. Imposta razionalmente essa suona così: Come il plusvalore si trasforma nelle sue forme subordinate: profitto, interesse, utile commerciale, rendita fondiaria, ecc.? E questa questione invero Marx promette di risolverla nel terzo libro. Ma se Dühring non può aspettare che sia pubblicato il secondo volume del "Capitale" [59], dovrebbe frattanto cercare un po' più attentamente nel primo volume. Potrebbe allora, oltre ai passi già citati, leggere per es. a p. 323 che, secondo Marx, le leggi immanenti della produzione capitalistica agiscono nel movimento esterno dei capitali come leggi coercitive della concorrenza e che in questa forma si presentano alla coscienza del singolo capitalista come motivi determinanti; e che quindi un'analisi scientifica della concorrenza è possibile solo allorché si colga la natura interna del capitale, precisamente come il movimento apparente dei corpi celesti è intelligibile solo a colui che conosce il loro movimento reale, ma non percettibile sensibilmente; quindi Marx mostra con un esempio come una legge determinata, la legge del valore, si manifesti ed eserciti la sua forza motrice, in un caso determinato, nella concorrenza [113]. Dühring poteva già desumere da questo esempio che la concorrenza esercita una funzione capitale nella distribuzione del plusvalore, e con un po' di riflessione queste indicazioni, date nel primo volume, sono in realtà sufficienti per far conoscere, almeno nelle sue linee generali, la trasformazione del plusvalore nelle sue forme subordinate.

Per Dühring è invece proprio la concorrenza l'ostacolo assoluto alla comprensione di questo fenomeno. Egli non può comprendere come gli imprenditori in concorrenza possano realizzare durevolmente il pieno prodotto del lavoro, e con esso il plusprodotto, ad un valore tanto superiore ai costi naturali di produzione. Ci si esprime qui con quel naturale "rigore" che in effetti è trascuratezza. Per Marx, invero, il plusprodotto come tale non ha assolutamente nessun costo di produzione, è quella parte del prodotto che al capitalista non costa nulla. Se dunque gli imprenditori in concorrenza volessero realizzare il plusprodotto al valore dei costi naturali di produzione, dovrebbero regalarlo. Ma non fermiamoci a tali "particolarità micrologiche". In realtà gli imprenditori in concorrenza non realizzano giornalmente il prodotto del lavoro ad un valore superiore ai costi naturali di produzione? Per Dühring i costi naturali di produzione consistono "in erogazione di lavoro, ossia di forza, la quale erogazione a sua volta, nelle sue basi ultime, può essere misurata dalle spese alimentari"; quindi, nella società attuale, questi costi consistono in spese effettivamente erogate in materia prima, mezzi di lavoro e salario, a differenza del "tributo", del profitto, dell'aggiunta estorta con la spada in pugno. Ora è noto a tutti che nella società in cui viviamo gli imprenditori in concorrenza non realizzano le lo merci al valore dei loro costi naturali di produzione, ma vi caricano la pretesa aggiunta, il profitto, e di regola la ricevono anche. La questione che, come credeva Dühring, bastava porre per rovesciare con un soffio tutto l'edificio di Marx, come la buon'anima di Giosuè [113b] rovesciò le mura di Gerico, questa questione esiste dunque anche per la teoria economica di Dühring. Vediamo la sua risposta.

"La proprietà capitalistica", egli dice, "non ha alcun significato pratico se non si può realizzarne il valore e non si include in essa, ad un tempo, il potere indiretto sul materiale umano. Il prodotto di questa forza è il profitto del capitale e la grandezza di quest'ultimo dipenderà perciò dall'ambito e dall'intensità dell'esercizio di questo dominio (...) Il profitto del capitale è un'istituzione politica e sociale che agisce con più forza della concorrenza. Gli imprenditori sotto questo rapporto agiscono come ceto e ognuno singolarmente mantiene la propria posizione. Una certa misura di profitto del capitale è una necessità per il genere di economia dominante."

Purtroppo continuiamo ancora a non sapere in che modo gli imprenditori in concorrenza siano in condizione di valorizzare durevolmente il prodotto del lavoro al di sopra dei costi naturali di produzione. È impossibile che Dühring abbia una così bassa opinione del suo pubblico da pascerlo della frase che il profitto sia al di sopra della concorrenza come al suo tempo il re di Prussia era al di sopra della legge. Gli espedienti con cui il re di Prussia raggiunse la sua posizione al di sopra della legge ci sono noti; gli espedienti con cui il profitto del capitale arriva ad essere più forte della concorrenza, ecco precisamente ciò che Dühring ci deve spiegare e che ostinatamente si rifiuta di spiegarci. Neanche può avere qui nessuna importanza il fatto che, come egli dice, gli imprenditori agiscano sotto questo rapporto come ceto e che così ognuno singolarmente mantenga la propria posizione. Dobbiamo forse credergli sulla parola che sia sufficiente che un certo numero di persone agiscano come ceto, perché ognuno singolarmente mantenga la propria posizione? I membri delle corporazioni medievali, i nobili francesi del 1789, è noto, agivano molto decisamente come ceto, eppure andarono in rovine. Pure l'esercito prussiano a Jena [29] agiva come ceto, ma, invece di mantenere la sua posizione, dovette prendere la fuga e poi, perfino, capitolare a pezzi. Egualmente non può bastarci l'assicurazione che una certa misura di profitto del capitale sia una necessità per il genere di economia dominante: infatti si tratta precisamente di mostrare il perché di questo fatto. Non ci avviciniamo alla meta neanche di un passo allorché Dühring ci informa:

"Il dominio del capitale si è sviluppato in connessione col dominio del suolo. Una parte dei lavoratori agricoli servi si è trasformata nelle città in lavoratori dell'industria e finalmente in materiale di fabbrica. Dopo la rendita fondiaria si è formata, come una seconda forma della rendita del possesso, il profitto del capitale".

Anche prescindendo dall'insensatezza storica di quest'affermazione, essa rimane sempre una semplice affermazione e si limita ad asserire ripetutamente ciò che precisamente dovrebbe spiegare e dimostrare. Non possiamo quindi venire ad altra conclusione se non che Dühring è incapace di rispondere alla sua propria domanda: come gli imprenditori concorrenti siano in condizione di valorizzare durevolmente il prodotto del lavoro al di sopra dei costi naturali di produzione; cioè egli è incapace di spiegare l'origine del profitto. Altro non gli resta che decretare senza tante storie: il profitto del capitale è il prodotto della forza, il che certamente si accorda con l'art. 2 della costituzione dühringiana della società: la forza distribuisce. Certo tutto questo è detto molto bene, ma ora "sorge la questione": la forza distribuisce... che cosa? Deve esserci qualche cosa da distribuire, altrimenti anche la forza più onnipotente con la più grande buona volontà non potrebbe distribuire niente. Il profitto che gli imprenditori concorrenti si mettono in tasca è qualche cosa di molto tangibile e di molto concreto, la forza lo può prendere, ma non lo può produrre. E se Dühring si rifiuta ostinatamente di spiegarci in che modo la forza prende il profitto dell'imprenditore, ci offre solo un silenzio di tomba come risposta alla domanda da dove lo prende. Dove non c'è niente, l'imperatore, come ogni altro potere, perde il suo diritto. Da niente non nasce niente e specialmente non nasce profitto. Se la proprietà capitalistica non ha nessun significato pratico e non si può valorizzare sino a quando non vi sia egualmente incluso il potere indiretto sul materiale umano, immediatamente risorge la questione: in primo luogo come la ricchezza capitalistica abbia raggiunto questo potere, questione che non è affatto risolta con le poche asserzioni citate sopra; in secondo luogo come questo potere si trasformi in valorizzazione del capitale, del profitto; e in terzo luogo da dove essa prenda questo profitto.

Da qualunque parte prendiamo l'economia dühringiana non faremo un passo avanti. Per tutte le cose spiacevoli, profitto, rendita fondiaria, salari di fame, asservimento del lavoratore, essa ha una sola parola di spiegazione: la forza e sempre di nuovo la forza, e la "collera violenta" di Dühring si risolve egualmente in collera contro la forza. Abbiamo visto in primo luogo che questo appello alla forza è un vano sotterfugio, un rinvio dal campo dell'economia a quello della politica, che non è in grado di spiegare nessun singolo fatto economico; e in secondo luogo che lascia senza spiegazione l'origine della forza stessa, e ciò prudentemente perché altrimenti dovrebbe arrivare al risultato che ogni forza sociale e ogni potere politico hanno la loro origine in condizioni economiche preliminari, nei modi di produzione e di scambio, dati dalla storia della società in ogni periodo.

Vediamo tuttavia se ci sarà possibile strappare all'inesorabile "profondissimo fondatore" dell'economia qualche altra ulteriore delucidazione sul profitto. Forse ci riuscirà se affronteremo la sua trattazione del salario. A p. 158 ci si dice:

"Il salario è la paga per il mantenimento della forza-lavoro e deve esser considerato esclusivamente come base della rendita fondiaria e del profitto del capitale. Per intendere con assoluta chiarezza i rapporti esistenti in questo campo, si immagini la rendita fondiaria e ulteriormente anche il profitto del capitale nella loro prima apparizione nella storia, senza salario, quindi sulla base della schiavitù e della servitù (...) Che debba essere mantenuto lo schiavo o il servo o il lavoratore salariato, ciò determina una differenza solo nel modo e nella maniera in cui grava sui costi di produzione. In ogni caso l'utile netto ottenuto mediante l'utilizzazione della forza-lavoro, costituisce il reddito del datore di lavoro (...) Si vede dunque che (...) specificamente la contrapposizione fondamentale mediante la quale da una parte sta una specie qualsiasi di rendita del possesso e dall'altra il lavoro assoldato e privo di possesso non può cogliersi esclusivamente in uno dei membri di questa contrapposizione, ma in ogni caso solo e sempre in entrambi ad un tempo".

Ma rendita del possesso è, come apprendiamo a p. 188, una espressione comune per rendita fondiaria e profitto del capitale. Inoltre a p. 174 ci si dice:

"Il carattere del profitto del capitale è un'appropriazione della parte principale dell'utile della forza-lavoro. Il profitto del capitale è impensabile senza il correlativo del lavoro assoggettato direttamente o indirettamente in una forma qualsiasi".

E a p. 183:

Il salario "è in ogni caso null'altro che una paga per mezzo della quale devono essere assicurati in generale il mantenimento e la possibilità di riproduzione dell'operaio".

E finalmente a p. 195:

"La porzione spettante alla rendita fondiaria è necessariamente perduta per il salario e viceversa la porzione del generale rendimento (!) che tocca al lavoro deve essere sottratta ai redditi del possesso".

Dühring ci fa passare di sorpresa in sorpresa. Nella teoria del valore e nei capitoli seguenti sino alla dottrina della concorrenza inclusa, quindi da p. 1 a p. 155, i prezzi delle merci o valori si dividevano in primo luogo nei costi naturali di produzione o valore di produzione, cioè spese in materie prime, mezzi di lavoro e salario e, in secondo luogo, nell'aggiunta o valore di distribuzione, i tributi estorti con la spada in pugno a vantaggio della classe dei monopolisti; aggiunta che, come abbiamo visto, in realtà non poteva cambiare niente nella distribuzione della ricchezza, poiché doveva restituire con una mano quello che prendeva con l'altra e che inoltre, date le informazioni che Dühring ci fornisce sulla sua origine e sul suo contenuto, sorgeva dal nulla e perciò in nulla consisteva. Nei due capitoli seguenti che trattano delle specie del reddito, quindi da p. 156 a p. 217, non si parla più di aggiunta. Invece, il valore di ogni prodotto del lavoro, e quindi di ogni merce, si divide nelle seguenti parti: in primo luogo, in costi di produzione, in cui è compreso anche il salario pagato e, in secondo luogo, in "utile netto ottenuto mediante l'utilizzazione della forza-lavoro" e che costituisce il reddito del datore di lavoro. E questo utile netto ha una fisionomia assolutamente nota che nessun tatuaggio e nessuna verniciatura può nascondere. "Per intendere con assoluta chiarezza i rapporti esistenti in questo campo" il lettore immagini che i passi di Dühring or ora citati siano stampati di fronte a quelli precedentemente citati di Marx, riguardanti il pluslavoro, il plusprodotto, il plusvalore: trovate allora che alla sua maniera qui Dühring ha completamente copiato il "Capitale".

Il pluslavoro in qualsiasi forma, sia esso schiavitù, servitù o lavoro salariato, viene riconosciuto da Dühring come fonte di reddito di tutte le classi sinora dominanti: questo concetto è preso dal passo del "Capitale", p. 227, più volte riportato: il capitale non ha inventato il pluslavoro, ecc. [114]. E l'"utile netto", che costituisce "il reddito del datore di lavoro", che cosa è se non l'eccedenza del prodotto del lavoro sul salario, il quale ultimo, anche per Dühring, malgrado il suo superfluo travestimento in paga, deve assicurare in generale il mantenimento e la possibilità di riproduzione dell'operaio? Come può avvenire l'"appropriazione della parte principale dell'utile della forza-lavoro", se non per il fatto che il capitalista, come per Marx, spreme dall'operaio più lavoro di quello che è necessario per la riproduzione dei mezzi di sussistenza consumati da quest'ultimo, cioè per il fatto che il capitalista fa lavorare l'operaio più tempo di quanto non sia necessario per sostituire il valore del salario pagato all'operaio? Quindi prolungamento della giornata lavorativa al di là del tempo necessario per la riproduzione della sussistenza dell'operaio: il pluslavoro di Marx; questo e nient'altro è ciò che si cela dietro l'"utilizzazione della forza-lavoro" di Dühring. E il suo "utile netto", del datore di lavoro, in che cos'altro può essere rappresentato se non nel plusprodotto e nel plusvalore di Marx? E che cos'altro se non la sua inesatta formulazione distingue la rendita del possesso di Dühring dal plusvalore di Marx? Del resto il nome "rendita del possesso" Dühring lo ha preso a prestito da Rodbertus, il quale, nella sola espressione rendita, già aveva riunito la rendita fondiaria e la rendita del capitale o profitto del capitale, di guisa che Dühring non ha avuto che da aggiungere la parola: "possesso" [*6]. E perché non rimanga nessun dubbio sul plagio, Dühring riassume alla sua maniera le leggi sulle variazioni di grandezza del prezzo della forza-lavoro e del plusvalore, esposte da Marx nel XV capitolo (p. 539 e sgg. Del "Capitale") [115], dicendo che la porzione che tocca alla rendita del possesso va perduta per il salario e viceversa e riduce così ad una vuota tautologia le leggi singole, così ricche di contenuto, formulate da Marx; infatti è evidente per se stesso che se una grandezza data si divide in due parti, l'una di queste parti non può crescere senza che l'altra diminuisca. E così è riuscito a Dühring di appropriarsi le idee di Marx in una maniera in cui va completamente perduto il "procedimento scientifico definitivo e rigoroso nel senso in cui è inteso dalle scienze esatte" che si trova certamente nell'esposizione di Marx.

Non possiamo quindi fare a meno di ammettere che il terribile baccano che Dühring fa nella "Storia critica" a proposito del "Capitale", e specialmente la polvere che solleva con la famosa questione a cui il plusvalore dà origine e che meglio avrebbe fatto a non porre, dato che egli stesso non sa rispondere; che tutte queste cose sono solo astuzie di guerra, abili espedienti per nascondere il plagio grossolano che delle idee di Marx egli commette nel suo "Corso". Dühring aveva in effetti tutte le ragioni di mettere in guardia i suoi lettori dall'occuparsi "di quel groviglio che Marx chiama capitale", di metterli in guardia contro i prodotti bastardi di fantasie storiche e logiche, contro le confuse, nebulose idee e le fandonie hegeliane, ecc. La Venere contro cui questo fedele Eckart mette in guardia la gioventù tedesca, era andato egli stesso a prenderla dalle riserve di Marx e l'aveva silenziosamente portata al sicuro per proprio uso e consumo. Congratuliamoci con lui per questo utile netto ottenuto mediante l'utilizzazione della forza-lavoro di Marx e per la luce particolare che la sua appropriazione del plusvalore di Marx sotto il nome di rendita del possesso getta sui motivi della sua falsa affermazione, ostinata perché ripetuta in due edizioni, che Marx intenda per plusvalore solo il profitto o utile del capitale.

"Secondo il modo di vedere di" Dühring "il salario rappresenta solamente il pagamento di quel tempo di lavoro in cui l'operaio è effettivamente attivo per rendere possibile la propria esistenza. Ora per questo è sufficiente un numero di ore alquanto piccolo; tutto il resto della giornata lavorativa, spesso molto prolungata, fornisce spesso un'eccedenza nella quale è contenuta quella che dal nostro autore viene chiamata" rendita del possesso. " Prescindendo dal tempo di lavoro che in ogni grado della produzione è già contenuto nei mezzi di lavoro e nelle relative materie prime, quell'eccedenza della giornata lavorativa rappresenta la parte dell'imprenditore capitalista. Il prolungamento della giornata lavorativa costituisce perciò un guadagno di puro sfruttamento a beneficio del capitalista. L'odio velenoso che" Dühring "nutre per questo modo di intendere lo sfruttamento è fin troppo comprensibile...".

Meno comprensibile è invece come egli possa ora arrivare alla sua "collera più violenta".

 


 

IX. Leggi naturali dell'economia. Rendita fondiaria

 

 

Sinora con tutta la buona volontà non abbiamo potuto scoprire se Dühring arrivi "a presentarsi" nel campo dell'economia "pretendendo di avere apportato un nuovo sistema non solo adeguato all'epoca, ma di valore decisivo per l'epoca". Ma ciò che non siamo riusciti a vedere né nella teoria della violenza né a proposito del valore e del capitale, forse ci salterà agli occhi con solare evidenza quando considereremo le "leggi naturali dell'economia" stabilite da Dühring. Infatti, esprimendosi con quell'originalità e quell'accuratezza che gli sono abituali, egli dice che

"il trionfo dei più elevati procedimenti scientifici consiste nel sorpassare le semplici descrizioni e suddivisioni della materia per così dire in quiete e arrivare alle conoscenze vive che illuminano la genesi delle cose. La conoscenza delle leggi è perciò la più perfetta, perché ci mostra come un fenomeno sia condizione dello svolgersi di un altro".

Subito, la prima legge naturale di tutta l'economia è stata scoperta proprio da Dühring.

Adam Smith "stranamente non solo non ha assegnato una funzione preminente al fattore più importante di ogni sviluppo economico, ma ha anche del tutto trascurato di darne una formulazione particolare, abbassando così involontariamente ad una funzione di secondo piano quella forza che aveva impresso la sua impronta sul moderno sviluppo dell'Europa".

Questa "legge fondamentale che deve avere una funzione preminente è quella dell'equipaggiamento tecnico, anzi si potrebbe dire dell'armamento della forza economica naturale dell'uomo". Questa "legge fondamentale" scoperta da Dühring è così formulata:

Legge n° 1: "La produttività dei mezzi economici, delle risorse della natura e della forza dell'uomo, viene accresciuta da invenzioni e scoperte."

Siamo sbalorditi. Dühring ci tratta come in Molière quel celebre capo ameno tratta il neoblasonato cui annunzia la novità che costui aveva per tutta la vita parlato in prosa senza saperlo [72]. Che invenzioni e scoperte accrescano in molti casi la forza produttiva del lavoro (in molti casi però non lo accrescono affatto, come prova la gran quantità di carta straccia negli uffici di tutti gli uffici brevetti del mondo) lo sappiamo da un pezzo; ma che questa vecchissima banalità sia la legge fondamentale di tutta l'economia, questa luminosa spiegazione la dobbiamo a Dühring. Se "il trionfo dei più elevati procedimenti scientifici", nell'economia come nella filosofia, consiste solo nel dare un nome roboante al primo luogo comune che capita e strombazzarlo come legge di natura o addirittura legge fondamentale, allora il "fondare su basi profonde" e rivoluzionarie la scienza sarà possibile a chiunque, anche alla redazione della "Volks-Zeitung" di Berlino [116]. Saremmo allora costretti "con ogni rigore" ad applicare allo stesso Dühring il giudizio di Dühring su Platone: "Se questa ha da essere scienza economica, l'autore delle" fondazioni critiche [117] "la condivide con ogni persona che in genere abbia occasione di pensare" o anche solo di dire qualcosa "su ciò che gli capita tra le mani". Se per es. diciamo che gli animali mangiano, nella nostra innocenza pronunciamo con tutta calma una grande parola; infatti basta che diciamo che il mangiare è una legge fondamentale di tutta la vita animale, e abbiamo rivoluzionato tutta la zoologia.

Legge n° 2. Divisione del lavoro: "La separazione dei rami professionali e la divisione delle attività eleva la produttività del lavoro". Nella misura in cui è esatto, questo principio dopo Adam Smith è ugualmente un luogo comune. La misura in cui è esatto sarà mostrata nella terza sezione.

Legge n° 3: "Distanza e trasporto sono le cause principali che ostacolano o favoriscono la cooperazione delle forze produttive."

Legge n° 4: "Lo Stato industriale ha una capacità di popolazione incomparabilmente maggiore dello Stato agricolo."

Legge n° 5: "Nell'economia niente accade senza un interesse materiale."

Ecco le "leggi naturali" sulle quali Dühring fonda la sua nuova economia. Egli resta fedele al suo metodo già esposto nella filosofia. Pochi trismi, della più sconsolata banalità, spesso anche malamente esposti, formano anche nell'economia gli assiomi che non abbisognano di alcuna dimostrazione, i principi fondamentali, le leggi naturali. Col pretesto di sviluppare il contenuto di queste leggi che non hanno nessun contenuto viene qui sfruttata l'occasione per una lunga chiacchierata di economia sui diversi temi, i cui nomi appaiono in queste pretese leggi, quindi su invenzioni, divisione del lavoro, mezzi di trasporto, popolazione, interesse, concorrenza, ecc., chiacchierata la cui piatta trivialità è solo condita da una magniloquenza degna di un oracolo e qua e là da un'errata interpretazione o da un pretenzioso sofisticare su sottigliezze casistiche di tutti i generi. Dopo, arriviamo finalmente alla rendita fondiaria, al profitto del capitale e al salario, e poiché in ciò che precede abbiamo considerato solo queste due ultime forme di appropriazione, vogliamo ora, a conclusione, indagare brevemente anche la concezione dühringiana della rendita fondiaria.

Lasceremo da parte tutti quei punti nei quali Dühring non fa che trascrivere il suo predecessore Carey; non dobbiamo qui occuparci di Carey, né difendere la concezione ricardiana della rendita fondiaria dalle distorsioni e dalle stoltezze di Carey. A noi interessa solo Dühring, e costui definisce la rendita fondiaria come "quel reddito che il proprietario come tale trae dal fondo". Dühring senz'altro traduce il concetto di rendita fondiaria, che egli deve sottoporre a indagine, dal linguaggio giuridico e in questo modo ne sappiamo quanto prima. Il nostro profondo fondatore, bene o male, deve degnarsi di darci perciò ulteriori schiarimenti. Egli confronta l'affitto di un fondo rustico ad un fittavolo col prestito di un capitale ad un imprenditore, ma presto trova che questo paragone, come parecchi altri, zoppica. Infatti, egli dice,

"se si volesse andare oltre nell'analogia, l'utile che resta al fittavolo, dopo il pagamento della rendita fondiaria, dovrebbe corrispondere a quel residuo di utile del capitale che tocca all'imprenditore che usa il capitale, dopo la corresponsione degli interessi. Ma non si ha l'abitudine di considerare gli utili dei fittavoli come il reddito principale e la rendita fondiaria come un residuo (...) Una prova della diversità della concezione che se ne ha è il fatto che nella dottrina della rendita fondiaria il caso della conduzione in proprio non è contrassegnato particolarmente e che non ha un peso speciale la differenza quantitativa tra la rendita che si produce nella forma di conduzione ad affittanza e una rendita che viene prodotta nella forma della conduzione in proprio. Per lo meno non si è trovato un motivo per pensare che la rendita prodotta dalla conduzione in proprio sia divisa in modo tale che, per così dire, un elemento rappresenti l'interesse dell'apprezzamento della terra e l'altro il profitto supplementare dell'impresa. Prescindendo dal capitale proprio che il fittavolo apporta sembra che il suo utile specifico si debba considerare per lo più come una forma di salario. Pure è pericoloso voler affermare qualche cosa su questo argomento, perché la questione non è stata affatto posta con questa precisione. Dovunque si tratta di aziende piuttosto grandi si potrà vedere con facilità che non è possibile considerare come salario l'utile specifico del fittavolo. Questo utile, cioè, è basato esso stesso sull'antagonismo con la forza-lavoro agricola, il cui sfruttamento soltanto rende possibile questa forma di provento. È evidentemente una porzione di rendita quella che rimane nelle mani del fittavolo e che decurta la rendita integrale che si sarebbe ottenuta con la conduzione in proprio".

La teoria della rendita fondiaria è una parte dell'economia specificamente inglese e non potrebbe non esserlo perché solo in Inghilterra è esistito il modo di produzione nel quale la rendita si è separata anche effettivamente dal profitto e dall'interesse. È noto che in Inghilterra domina la grande proprietà e la grande coltivazione agricola. I proprietari terrieri affittano le loro terre in grandi e spesso grandissimi appezzamenti ad affittuari che sono provvisti di capitale sufficiente per la loro conduzione e che non lavorano essi stessi come i nostri contadini, ma, come veri e propri imprenditori capitalistici, impiegano il lavoro di servi della fattoria e di giornalieri. Qui abbiamo dunque le tre classi della società borghese e il reddito peculiare di ciascuna di esse: il proprietario terriero che percepisce la rendita fondiaria, il capitalista che percepisce il profitto e l'operaio che percepisce il salario. Non è mai accaduto ad un economista inglese di ritenere che, come sembra a Dühring, l'utile del fittavolo sia una forma di salario; e tanto meno ancora poteva essere pericoloso per questo economista affermare che il profitto del fittavolo sia ciò che irrefutabilmente, evidentemente e concretamente esso è, cioè profitto del capitale. È addirittura ridicolo il dire qui che la questione sul che cosa propriamente sia l'utile del fittavolo non sia mai stata posta con questa precisione. In Inghilterra non c'è neanche bisogno di porsi questa questione: la questione così come la sua soluzione esistono già nella realtà da lungo tempo e dopo Adam Smith non è mai sorto alcun dubbio in proposito.

Il caso della conduzione in proprio, come dice Dühring, o piuttosto della conduzione effettuata da amministratori per conto del proprietario terriero, come in realtà accade in molte parti della Germania, non modifica affatto la cosa. Se il proprietario terriero fornisce anche il capitale e fa coltivare per suo conto, intasca, oltre alla rendita fondiaria, anche il profitto del capitale, come è ovvio e non può affatto essere diversamente, dato il modo di produzione odierno. E se Dühring afferma che sinora non si è trovato il motivo di pensare di dividere in due parti la rendita proveniente dalla conduzione in proprio (si dovrebbe dire reddito), questa affermazione è semplicemente falsa e nel migliore dei casi dimostra ancora una volta solo la sua ignoranza. Per esempio:

"Il reddito che si ricava dal lavoro si chiama salario, quello che ricava chi impiega capitale si chiama profitto (...) il reddito che proviene esclusivamente dal suolo si chiama rendita e appartiene al proprietario terriero (...) Se queste diverse forme di reddito toccano a persone diverse, è facile distinguerle, se invece toccano alla stessa persona, vengono spesso, almeno nel linguaggio comune, confuse l'una con l'altra. Un proprietario terriero che conduca in proprio una parte del suo terreno, sottratte le spese di produzione, dovrebbe ricevere sia la rendita del proprietario terriero che il profitto del fittavolo. Invece egli, almeno nel linguaggio comune, è portato a chiamare profitto tutto il suo utile, e così a confondere la rendita con il profitto. La maggior parte dei nostri piantatori dell'America del nord e dell'India occidentale sono in questa condizione; i più coltivano i propri possedimenti e così accade che raramente sentiamo parlare della rendita di una piantagione, e frequentemente invece del profitto che essa rende (...) Un giardiniere che coltivi con le sue mani il proprio giardino, è in una sola persona proprietario terriero, fittavolo e giornaliero. Il suo prodotto deve pagargli perciò la rendita del primo, il profitto del secondo e il salario del terzo. Il tutto però passa abitualmente per il guadagno del suo lavoro. Rendita e profitto, in questo caso, vengono confusi col salario".

Questo passo si trova nel capitolo sesto del primo libro di Adam Smith [118]. Il caso della conduzione in proprio è stato indagato quindi già da cento anni e i pericoli e le incertezze che qui suscitano tante preoccupazioni in Dühring sorgono unicamente dalla sua propria ignoranza.

In ultimo con un colpo ardito si tira fuori dall'impaccio: l'utile del fittavolo è basato sullo sfruttamento della "forza-lavoro agricola", ed è perciò evidentemente una "porzione di rendita" della quale "viene decurtata" la "rendita integrale" che precisamente doveva fluire nelle tasche del proprietario terriero. Con ciò veniamo a sapere due cose. In primo luogo che il fittavolo "decurta" la sua rendita del proprietario terriero, cosicché per Dühring non è il fittavolo che come si è pensato sinora, paga la rendita al proprietario terriero, ma è il proprietario terriero che la paga al fittavolo... certo un'"idea originale dalle fondamenta". E in secondo luogo veniamo a sapere finalmente che cosa secondo Dühring sia la rendita fondiaria; ossia il plusprodotto totale dell'agricoltura ottenuto mediante lo sfruttamento del lavoro agricolo. Ma, poiché sinora questo plusprodotto nell'economia, tranne che in taluni economisti volgari, si divide in rendita fondiaria e profitto del capitale, dobbiamo constatare che neanche per la rendita fondiaria Dühring "accetta il concetto comunemente corrente".

Quindi, rendita fondiaria e profitto del capitale si distinguono per Dühring solo per il fatto che la prima si realizza nell'agricoltura e l'altro nell'industria o nel commercio. Ad una tale concezione acritica e confusa Dühring arriva necessariamente. Abbiamo visto che egli è partito da quella "concezione veramente storica" per la quale il dominio sul suolo si costituisce solo mediante il dominio sull'uomo. Quindi, appena il suolo viene coltivato per mezzo di una qualche forma di lavoro servile, sorge un'eccedenza per il proprietario terriero, e questa eccedenza è precisamene la rendita, come nell'industria l'eccedenza del prodotto del lavoro sull'utile del lavoro è il profitto del capitale.

"in primo luogo è chiaro che la rendita fondiaria esiste in notevole misura sempre e dovunque l'agricoltura sia condotta mediante una delle forme di assoggettamento del lavoro."

Con questa rappresentazione della rendita come il complesso dell'intero plusprodotto ottenuto nell'agricoltura, Dühring urta da una parte contro il profitto del fittavolo inglese e, dall'altra, contro il concetto tratto da questo, accettato dall'economia classica, della divisione di quel plusprodotto in rendita fondiaria e profitto del fittavolo, e quindi contro alla pura e precisa concezione della rendita. Che cosa fa Dühring? Si comporta come se non sapesse una sola parola della divisione del plusprodotto agricolo in profitto del fittavolo e in rendita fondiaria e quindi tutta la teoria della rendita dell'economia classica, come se in tutta l'economia la questione di che cosa puramente sia il profitto del fittavolo non fosse mai stata posta "con questa precisione", come se si trattasse di un argomento assolutamente inesplorato di cui non si conoscono che parvenze e punti oscuri. E fugge dalla fastidiosa Inghilterra dove il plusprodotto dell'agricoltura, assolutamente senza l'intervento di qualsiasi scuola teorica, viene così spietatamente diviso nei suoi elementi costitutivi: rendita fondiaria e profitto del capitale; fugge verso le contrade care al suo cuore, nelle quali vige il Landrecht prussiano, nelle quali la conduzione in proprio è nella sua piena fioritura patriarcale, dove "il proprietario terriero intende per rendita gli introiti dei suoi terreni" e dove l'opinione che i signori Junker hanno della rendita pretende ancora di essere decisiva per la scienza, dove quindi Dühring può ancora sperare di farsi largo con le sue idee confuse sulla rendita e il profitto e perfino di trovar credito per la sua recentissima scoperta che la rendita fondiaria non viene pagata dal fittavolo al proprietario terriero, ma dal proprietario terriero al fittavolo.

 

Note

101. K. Marx, "Il Capitale", I, trad. it. cit., pp. 179-80.

102. Ibid., p. 196.

103. Ibid., pp. 199-200.

104. Ibid., p. 203

105. Ibid., p. 201.

106. Ibid., p. 202.

107. Ibid., p. 269.

108. Ibid., p. 239, nota 22.

109. Ibid., p. 253.

110. Ibid., p. 572.

111. Ibid.

112. Ibid., pp. 621-622.

59. Nella prefazione (25 luglio 1867) alla prima edizione del "Capitale" Marx scrisse: "Il secondo volume di questo scritto tratterà il processo di circolazione del capitale (libro II), e le formazioni del processo complessivo (libro III); il volume terzo, conclusivo (libro IV) tratterà la storia della teoria". Dopo la morte di Marx, Engels pubblicò i libri II e III come secondo e terzo volume. Egli non arrivò a pubblicare l'ultimo libro, il IV ("Teorie sul plusvalore").

113. Ibid., pp. 355-356

113b. Giosuè (cui la Bibbia dedica un intero libro) fu successore di Mosè nella reggenza di Israele attorno al XIII secolo a.C. Guidò la conquista della Palestina. "Miracolosa" la sua vittoria a Gerico.

29. Ad Austerlitz, il 2 dicembre 1805, truppe russe e austriache si scontrarono con le truppe francesi di Napoleone, che riportò la vittoria. La battaglia di Jena, combattuta il 14 ottobre 1806 tra l'esercito francese di Napoleone e le truppe prussiane, si concluse con la disfatta di queste ultime e portò alla capitolazione della Prussia. La battaglia di Königgrätz, il 3 luglio 1866, decise la vittoria della Prussia nella guerra austro-prussiana; à ricordata anche come battaglia di Sedowa. Nella battaglia di Sedan il 1° e il 2 settembre 1870, scontro decisivo della guerra franco-tedesca del 1870-71, le truppe tedesche sconfissero l'esercito francese di Mac-Mahon e lo costrinsero alla capitolazione.

114. K. Marx, "Il Capitale", I, trad. it. cit., p. 269.

*6. E neanche questo. Rodbertus dice ("Lettere sociali", 2a lettera, p.59): "Secondo questa" (sua) "teoria è rendita ogni reddito che viene percepito senza lavoro proprio, unicamente in base ad un possesso".

115. K. Marx, "Il Capitale", I, trad. it. cit., pp. 567 e sgg.

72. Vedi la commedia di Molière "Il borghese gentiluomo", atto II, scena 4.

116. La "Volks-Zeitung", quotidiano democratico, uscì a Berlino a partire dal 1853. Nella sua lettera a Marx del 15 settembre 1860 Engels scrive dei "noiosi pettegolezzi" e della "idiota seccanteria" di questo giornale.

117. Allusione alla "Kritische Grundelgung der Wolkswirthschaftslehre" di Dühring, il quale si riferisce a questo suo scritto nell'introduzione alla seconda edizione della qui citata "Kritische Geschichte...".

118. Adam Smith, "An inquiry...", volume 1, pp. 63-65, I corsivi sono di Engels.

 


Ultima modifica 16.10.2002