Paul Mattick 1971

Divisione del lavoro e coscienza di classe


 

 

3. Lavoro e scienza

Comunque sia, la discussione che ci e servita come avvio va riferita non alla distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo quale la intendeva Marx, ma alla particolare evoluzione verificatasi in questi ultimi anni, nel corso della quale si è visto, da una parte, aumentare il settore del lavoro improduttivo a detrimento di quello produttivo, e dall'altra la scienza interferire nella produzione in una misura ben più grande che nel passato. Perciò, come si ama sottolineare, il lavoro produttivo non sarebbe ormai proprio, dei soli operai dell'industria; anzi esso includerebbe anche le attività scientifiche oggettivate nelle condizioni materiali del lavoro. Per questo sarebbe venuto il momento di riesaminare i rapporti della scienza con i lavoratori e la società.

Anzitutto sì tratta di due fenomeni che, pur essendo collegati, non sono per ciò stesso meno contraddittori: la crescita del lavoro improduttivo e l'applicazione intensiva della scienza alla produzione. Se quest'ultima ha l'effetto di accrescere il plusvalore, la prima ha in compenso l'effetto di ridurlo e quindi stroncare l'accumulazione del capitale. Contemporaneamente all'allargamento della produzione, la parte del lavoro improduttivo aumenta più in fretta di quella del lavoro produttivo, il che rende tanto più difficile la valorizzazione del capitale totale. Al fine di mantenere il ritmo dell'accumulazione, mentre la parte del lavoro improduttivo è in aumento, occorre innalzare la produttività del lavoro, e ciò è possibile solo intensificando l'applicazione della scienza alla produzione.

Di conseguenza, se e vero che un certo numero di investigatori scientifici assumeranno il ruolo di lavoratori produttivi, un numero ben maggiore di altri lavoratori sarà ridotto alla disoccupazione, perché la messa in opera di tecniche scientifiche fa risparmiare forza-lavoro, mentre aumenta la produzione. Ma le realtà soggiacenti alla produzione sociale ostacolano questi sforzi di tutti i singoli capitali, che devono imperniarsi sul mercato, a causa del mutamento subìto, all'interno di questo processo, dal rapporto tra valore totale del capitale e plusvalore sociale globale. Infatti, poiché la quantità di tempo del lavoro sociale, e quindi anche quella del lavoro sociale non retribuito, deve diminuire in rapporto al capitale globale, ed essendo il plusvalore tempo di lavoro non pagato, la valorizzazione del capitale decresce. Di qui l'esigenza che tutti i capitali particolari hanno di aumentare di nuovo la loro produttività e quindi di aggravare ancora tale contraddizione inerente al processo di accumulazione capitalistico.

La parte che hanno le applicazioni scientifiche nei progressi della produttività fa tutt'uno con l'aumento generale della produttività del lavoro all'interno dell'accumulazione capitalistica. Del resto queste applicazioni si urtano con i limiti imposti all'incremento della produttività in generale, cioè con i limiti imposti alla valorizzazione del capitale. Poiché è l'accumulazione a determinare il ricorso alle tecniche scientifiche, quando non danno più profitto, esse non sono più utilizzate. Infatti, l'andamento del mercato segnala se queste non sono più redditizie, il che assume l'aspetto non di una rottura di proporzione tra valore e plusvalore, ma di una mancanza di domanda, la quale toglie ogni senso, dal punto di vista capitalistico, a un nuovo aumento della produzione. I limiti della produzione - e quelli della tecnica in quanto contribuisce ad accrescere il plusvalore - possono servire in seguito come base per una fase di espansione, nella misura in cui trasformazioni strutturali dell'economia globale permettano di rinnovare il plusvalore conformemente alle esigenze della valorizzazione del capitale.

In quest'ultimo caso, il tasso di accumulazione fa un balzo in avanti e così il numero di lavoratori effettivamente occupati, benché gli investimenti in capitale costante aumentino più in fretta di quelli in capitale variabile. Se questo incremento ha luogo solo in debole misura, il tasso di accumulazione ristagna o si abbassa e la disoccupazione aumenta. Non ci sono state molte occasioni di constatare questo fenomeno dopo l'ultima guerra mondiale, poiché il movimento ciclico dell'economia è stato in parte deviato dal suo corso da interventi politici indiretti ad esso esterni. L'espansione della produzione improduttiva indotta dallo Stato e da esso finanziata con il deficit del bilancio, cioè con massicce iniezioni di credito nell'economia, ha mantenuto l'impiego a un livello che, lungi dal corrispondere al tasso di accumulazione indispensabile, è legato all'aumento costante del debito pubblico, della pressione fiscale e dell'inflazione. Allo stesso tempo, cresce regolarmente la parte del lavoro improduttivo nei confronti del lavoro sociale globale.

L'accumulazione del capitale e l'allargamento dei mercati hanno come conseguenza l'aumento delle spese di circolazione. Se la produzione aumenta rapidamente sotto l'effetto di un'accresciuta produttività del lavoro, il lavoro improduttivo speso nella sfera della circolazione viene a gravare con il suo costo la massa delle merci gettate sul mercato. Per esempio, l'estrazione petrolifera assorbe una somma di lavoro molto ridotta, grazie a un'automazione progressiva, ma la distribuzione dei prodotti petroliferi mobilita un numero di lavoratori che non cessa di aumentare. Benché il principio dell'economia di manodopera sia sovrano nella sfera della circolazione come in quella della produzione, quest'ultima si presta molto di più alla sua realizzazione. In genere, l'accresciuta produttività del lavoro ha l'effetto di modificare i rapporti esistenti tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo a vantaggio di quest'ultimo, sebbene nei paesi industriali avanzati i lavoratori produttivi costituiscano ormai una minoranza. Inoltre si può osservare un'analoga trasformazione del rapporto esistente nell'ambito della produzione tra il numero degli operai occupati nell'industria e quello della manodopera avente una formazione scientifica. Così, negli Stati Uniti, il numero di tecnici e di ricercatori è passato, in rapporto al quantitativo totale della manodopera attiva, dall'1,50% nel 1940 al 5% circa nel 1970, mentre il numero complessivo degli operai occupati nell'industria restava immutato e la produzione raddoppiava. E' a questo ricorso intensivo alla scienza e alla tecnica che si attribuisce l'aumento della produttività del lavoro. Di qui il concetto di "capitale umano" ritenuto adatto a definire un fattore di produzione di particolare importanza e sempre crescente, insieme al capitale e al lavoro.

Si considera redditizio investire la scienza e la tecnica in quanto tali nei mezzi di produzione addizionali, la cui messa in opera ha l'effetto di accrescere le economie di manodopera e il rendimento del capitale. Benché il fatto sia incontestabile, non bisogna dimenticare che in un sistema capitalistico tutto ciò che riguarda il rendimento è solo una questione di creazione di plusvalore, che deve misurarsi al capitale totale. Se l'economia di manodopera, dovuta a un'accresciuta produttività grazie alle applicazioni della scienza, permette una riduzione proporzionalmente ancora più alta del lavoro umano in generale, le economie di capitale realizzate in tal modo non modificano per nulla la tendenza alla discesa del tasso di profitto che va di pari passo con l'accumulazione, e, perché questa tendenza resti allo stato latente, bisogna che il tasso d'accumulazione continui ad aumentare sempre più in fretta. Perché, malgrado queste economie, la valorizzazione del capitale rimane un imperativo categorico: oggi come ieri, la produzione deve permettere di trasformare un capitale qualsiasi in un capitale più grande.


4. L'abbondanza capitalistica
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