Paul Mattick 1971

Divisione del lavoro e coscienza di classe


 

 

6. Possibili prospettive

Nella misura in cui il miglioramento della condizione operaia nei paesi capitalistici fa parlare di un imborghesimento dei lavoratori, si sente dire spesso che più s'intensificano le applicazioni della scienza alla produzione, più si proletarizzano le professioni intellettuali, i cui membri provengono dalla piccola borghesia. Ora ne l'uno ne l'altro di questi fenomeni ha un aspetto così chiaro, così netto. Infatti, il primo non ha prodotto nessun mutamento nei rapporti di produzione capitalistici: come sempre i lavoratori sono posti in una situazione di sfruttamento di fronte al capitale; come sempre la loro esistenza dipende dalle possibilità di valorizzazione che si offrono al capitale. "Imborghesiti" essi lo sono soltanto nel senso che si considerano soddisfatti (ma ciò è raro) dell'ordine vigente, a patto che il loro livello di vita migliori sempre più. Quanto poi al fatto che la produzione assorbe un numero sempre crescente di lavoratori aventi una formazione universitaria, ciò non è certo sufficiente a fare di questi ultimi dei proletari. Grazie alla divisione capitalistica del lavoro, essi raggiungono infatti degli stipendi che permettono loro di avere un tenore di vita piccolo-borghese. Essi hanno spesso la possibilità di cambiare lavoro, passando così dall'azienda all'università e viceversa; quindi, sta a loro, a loro soltanto, di fare talvolta un lavoro produttivo e tal'altra un lavoro improduttivo. Se nel primo caso la loro esistenza è sottoposta all'alea della valorizzazione del capitale, essa continua nel secondo ad essere legata a salari e redditi professionali. Così, questi due tipi di dipendenza sono strettamente imparentati.

Come il salario degli operai, così gli stipendi dei ricercatori scientifici e dei tecnici rappresentano una frazione dei costi di produzione. Fissati molto spesso in maniera arbitraria, essi sono tuttavia determinati generalmente sulla base della legge della domanda e dell'offerta. Essi non sono mai misurati in funzione della produzione degli interessati, poiché questa non si può misurare. L'industria funziona come un tutto in cui ogni fattore è strettamente collegato con gli altri; non è quindi possibile distinguere nel prodotto globale i rispettivi apporti delle due categorie di salariati. Nonostante tutto, si può parlare a ragione di una produttività specifica di ciascuno di essi, tanto più che per ogni posto di lavoro individuale le spese di riproduzione del lavoro complesso sono di gran lunga superiori a quelle del lavoro semplice. Qualcuno ha anche sostenuto che gli elevati stipendi dei ricercatori e dei tecnici "riflettono l'apporto diretto di questi ultimi al progresso tecnico, di modo che se questi emolumenti rappresentassero da soli i costi di produzione, sempre a patto che i meccanismi del mercato funzionino perfettamente, potrebbero servire come strumenti di misurazione delle trasformazioni tecniche"[18]. Comunque sia, ricercatori e tecnici non si considerano nè come gli sfruttatori di una forza-lavoro di tipo diverso, nè come agenti del capitale incaricati di accelerare l'estrazione del plusvalore, ma come elementi della produzione pagati in proporzione della loro efficienza.

Finché le cose vanno bene, finché cioè continua la situazione di benessere, non c'è motivo di lamentarsi. Favoriti dai rapporti sociali, essi sono generalmente dei conservatori e hanno tutto l'interesse a mantenere l'ordine costituito. L'ideologia neutra della scienza apre loro un campo di azione tra i più vasti: non più delle altre "irrazionalità" inerenti al sistema capitalistico, il fatto che la produzione bellica abbia delle finalità di sterminio non interrompe il corso della ricerca scientifica. Ricercatori e tecnici devono i loro elevati stipendi ai progressi compiuti non soltanto in materia di tecniche ma anche di potenziale di distruzione, che dipendono da essi e costituiscono l'altro volto dell'incremento delle "forze produttive del capitale". E, poiché i progressi indispensabili all'aumento di questi stipendi sono legati alla valorizzazione del capitale, la rimessa in moto dei meccanismi di crisi non può che portare danno alla loro florida condizione.

Proprio come la disoccupazione, in ragione della relativa diminuzione dei posti di lavoro, viene a colpire maggiormente gli operai della giovane generazione che quelli delle generazioni precedenti, così ogni calo della congiuntura tocca ben più le prospettive d'impiego degli studenti che quelle dei ricercatori e dei tecnici che hanno già un posto. E quando il ciclo economico riduce a sua volta questi ultimi alla disoccupazione, le possibilità di riuscita degli studenti sono doppiamente compromesse. L'insicurezza generale dell'esistenza, di cui sono indotti così a prendere coscienza, li spinge a reagire politicamente, poiché i problemi personali derivano dalla situazione sociale nel suo complesso. Dopo la seconda guerra mondiale, l'insicurezza collettiva non era di carattere principalmente economico; essa era originata piuttosto dalla politica delle potenze capitalistiche che faceva balenare la minaccia di un nuovo olocausto, escludendo contemporaneamente ogni "normalizzazione" della vita sociale. Il conseguente malessere all'interno di quelle categorie della popolazione che non beneficiavano direttamente di questo stato di cose, o che non erano costrette ad adattarvisi - quindi soprattutto nell'ambiente studentesco - assunse la forma di un movimento di opposizione alla guerra e di manifestazioni contro i crimini perpetrati dai dirigenti imperialisti. Questo movimento servì come base alla critica della società capitalistica e alla crescente certezza che un'esistenza degna di essere vissuta è decisamente inconcepibile sulla base di quest'ordine sociale.

Poiché questa situazione non e destinata a cambiare nel prossimo futuro, ci si può solo aspettare che le contraddizioni tipiche del capitalismo si aggravino. All'insicurezza generale - contrassegnata dalla corsa agli armamenti nucleari, dall'esacerbarsi delle lotte di liberazione nazionale e dalle conseguenti reazioni degli Stati imperialistici, dalla disgregazione interna delle grandi potenze, dal raddoppiamento della concorrenza economica, dall'entrata della Cina e dal rientro del Giappone nell'ambito delle nazioni imperialistiche, ecc. - si aggiunge ora il declino economico dei paesi capitalistici, che non mancherà di avere delle ripercussioni sull'economia mondiale nel suo insieme. Ci limiteremo ad osservare a questo punto, senza dilungarsi troppo, che questa crisi colpisce i ricercatori e i tecnici - e quindi la giovane generazione studentesca così come gli operai. In America, per esempio, la disoccupazione è anche più alta tra i primi che non tra i secondi. Ciò deriva in parte dalla riduzione dei crediti militari provocata dalla crisi, poiché il 63% circa dei quadri scientifici e tecnici lavorano direttamente o indirettamente per la macchina bellica. Ma anche nel settore privato queste categorie sono ridotte al lastrico. Contemporaneamente, viene annullato il loro tenore di vita piccolo-borghese; non soltanto si proletarizzano, ma vengono anche a fare concorrenza ai lavoratori manuali in cerca di lavoro.

Così ora si è giunti a una situazione tale per cui un numero certo limitato, ma crescente, di studenti e di persone che hanno una preparazione universitaria non trovano posti adeguati alla loro qualificazione, di qui un inizio di "proletarizzazione". Ciò non fa che rafforzare la tendenza ad un crescente sfruttamento dei lavoratori intellettuali e alla riduzione dei loro stipendi, legati al deterioramento della congiuntura. Con la recrudescenza della disoccupazione, questa tendenza si fa infatti sentire nel loro caso molto più fortemente ancora che in quello degli operai dell'industria, meglio organizzati per resistere. Nel complesso tuttavia, la forma gerarchica della divisione e del modo di remunerazione capitalistica del lavoro resta intatta; anche la condizione dei quadri scientifici e tecnici, per lo meno della grande maggioranza, non è per niente paragonabile alla condizione degli operai.

D'altro canto, rimane sospesa la minaccia della "proletarizzazione", e tutto porta a credere che la radicalizzazione degli studenti e degli operai ne sia una conseguenza. Allo stesso modo che gli studenti dei paesi sottosviluppati sono frustrati nelle loro speranze e non vedono altra possibilità di progresso, di cui non saranno gli ultimi a beneficiare, se non in una trasformazione della società, gli studenti dei paesi avanzati non ignorano che la sopravvivenza del sistema capitalistico rischia di fare di loro dei declassati. Essi immaginano quindi che in una società diversa le loro capacità riceveranno giusto riconoscimento, che le leve di comando andranno non più ai detentori del capitale, ma agli specialisti della scienza e della tecnica così come alle altre categorie d'intellettuali, e che le strutture avranno un diverso carattere, più sociale. Consciamente o inconsciamente, l'adesione alle tesi leniniste starebbe à significare niente altro desiderio che di difendere una posizione sociale a cui il capitalismo minaccia di attentare.

Se, come Marcuse sembra suggerire, è necessario "trattare con le molle le nozioni di proletariato e di dittatura del proletariato", non si dovrebbe nemmeno più parlare di potere o di dittatura degli intellettuali. E' soltanto in seguito al sequestro esercitato da un partito, il quale si confonde con lo Stato, sulla società e all'attuazione di forme nuove di oppressione che gli intellettuali possono acquisire, all'interno dell'apparato statale e del partito, un certo diritto di cogestione, diritto per altro precario, poiché questo stesso apparato è sempre in grado di toglierlo loro. Nei "paesi socialisti", il potere è l'appannaggio non degli intellettuali - in quanto tali - ma dei politici di carriera che fanno loro concorrenza e che solo in parte provengono dagli ambienti intellettuali. A somiglianza dei lavoratori manuali, i quadri scientifici e tecnici, così come altre categorie di lavoratori intellettuali, sono soggetti a una nuova classe che, disponendo dei mezzi di produzione, monopolizza contemporaneamente il potere politico. Come per il passato, essi costituiscono senza dubbio, in ragione del loro livello di vita, una classe privilegiata, ma i loro privilegi sono legati alla perpetuazione della divisione capitalistica del lavoro e non modificano per nulla la loro situazione di dipendenza.Si può capire la società capitalistica soltanto partendo dai rapporti di produzione e, reciprocamente, non si può concepire il socialismo se non come l'abolizione di tali rapporti. Esso ha dunque come punto di partenza obbligato le lotte sociali che mirano a sopprimerli e quindi s'identifica, in sostanza, con la lotta dei lavoratori contro i capitalisti che personificano il capitale. Poiché quest'ultimo ha le redini della produzione e della circolazione dei beni, i lavoratori in generale, sia nell'una che nell'altra sfera, si collocano di fronte ad esso come suoi nemici; è quindi assurdo riservare ai soli lavoratori produttivi la possibilità di avere una coscienza di classe rivoluzionaria. Proprio in quanto questo carattere "produttivo" ha senso soltanto nel contesto dei rapporti di sfruttamento capitalistici, esso non ha più nessun significato all'interno di una società socialista. Dal momento in cui non si mira più a produrre plusvalore, sparisce il problema della sua realizzazione e della sua ripartizione e, contemporaneamente, la distinzione - tipica del capitalismo - tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo.

Senza dubbio, anche quando sarà più facile passare da un lavoro ad un altro e sfuggire alla specializzazione, la divisione del lavoro sussisterà. Ma essa non avrà più niente a che vedere con questa distinzione, poiché tutti i lavori socialmente necessari sono equivalenti. Essa si distinguerà dalla divisione capitalistica del lavoro per il fatto che saranno abolite soltanto le attività inerenti ai rapporti di proprietà capitalistici o miranti a difenderli e rafforzarli. Quando la riproduzione della vita sociale sarà organizzata su basi socialiste, gli studenti e i ricercatori scientifici diverranno anch'essi dei lavoratori produttivi, e non si misurerà più la produttività particolare del loro lavoro così come non si misurerà più quella dei lavoratori manuali. Perciò scuole e università faranno parte integrante del processo della produzione sociale, come d'altra parte lascia sperare il carattere sempre più scientifico assunto oggi dalla produzione. La socializzazione generale, basata su una produzione e aziende socializzate, sarà così dotata di una base organizzativa che, grazie al diritto di tutti a disporre del prodotto del lavoro di tutti, avrà l'effetto di eliminare di colpo l'antagonismo capitalistico tra lavoratori intellettuali e lavoratori manuali, tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo.

Note

18. R. R. Netson, "Aggregate Production Functions and MediumRange Growth Projection", The Arnerican Economie Reuieto, sett. 1964, p. 591.


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