Archivio Paul Mattick

Paul Mattick 1935

La leggenda di Lenin


Fonte: Archivio Kurasje

Scritto: da Paul Mattick, pubblicato in International Council Correspondence Vol. 2, n. 1, dicembre 1935 e ristampato nel Western Socialist Vol. 13 n. 3, gennaio 1946. Nel 1978 fu incluso in “Anti-Bolshevik Communism” di Paul Mattick edito da Merlin Press, Londra, 1978 ISBN: 0 850 36 222 7/9. La versione elettronica di questo testo fu prodotta da Kavosh Kavoshgar per Kurasje.

Tradotto: da Francesco Sartor con la collaborazione di Gian Maria Freddi, 2010


Più gialla e più coriacea diventa la pelle mummificata di Lenin, e più alto diventa il numero determinato statisticamente di visitatori al mausoleo di Lenin, meno la gente si preoccupa del vero Lenin e della sua significatività storica. Sempre più monumenti vengono eretti alla sua memoria, sempre più pellicole vengono fuori nelle quali lui è la figura centrale, sempre più libri scritti su di lui, e i pasticceri russi modellano dolci in forme che rassomigliano alla sua figura. E ancora lo sbiadirsi delle facce dei Lenin di cioccolata è associato alla poca chiarezza e all’improbabilità delle storie che vengono raccontate su di lui. Sebbene l’Istituto Lenin di Mosca potrebbe pubblicare la raccolta dei suoi lavori, questi non hanno più nessun significato in confronto alle leggende fantastiche che si sono formate attorno al suo nome. Appena la gente incominciò a preoccuparsi dei bottoni del colletto di Lenin, cessarono anche di preoccuparsi delle sue idee. Ognuno quindi si modella il proprio Lenin, e se non alla sua stessa immagine, in ogni caso secondo i propri desideri. Quanto la leggenda di Napoleone sta alla Francia e la leggenda di Federico alla Germania, tanto la leggenda di Lenin sta alla nuova Russia. Così come la gente una volta si rifiutava assolutamente di credere alla morte di Napoleone, e così come la gente sperò nella risurrezione di Federico, così in Russia ancor oggi ci sono contadini secondo i quali il nuovo “piccolo padre Zar” non è morto ma continua a indulgere il suo insaziabile appetito richiedendo a loro addirittura nuovi tributi. Altri accendono lumini eterni sotto la foto di Lenin: per loro lui è un santo, un redentore al quale si prega per un aiuto. Milioni di occhi fissano milioni di queste foto, e vedono in Lenin l’equivalente russo di Mosé, San Giorgio, Ulisse, Ercole, Dio o il Diavolo. Il culto di Lenin è diventato una nuova religione davanti la quale anche l’ateismo comunista felicemente si genuflette: rende la vita più facile in ogni aspetto. Lenin appare a loro come il padre dell’Unione Sovietica, l’uomo che rese possibile la vittoria della rivoluzione, il grande leader senza il quale loro stessi non esisterebbero. Ma non solo in Russia e non solo nella leggenda popolare, ma anche a una larga parte dell’intellighenzia marxista in tutto il mondo, la rivoluzione russa è diventata un evento mondiale addirittura così strettamente unito al genio di Lenin che si ha l’impressione che senza di lui la rivoluzione e quindi la storia mondiale avrebbe probabilmente potuto prendere un corso essenzialmente diverso. Una genuina e obiettiva analisi della rivoluzione russa, tuttavia, rivelerà immediatamente l’insostenibilità di tale idea.

L’affermazione che la storia è fatta dai grandi uomini è da un punto di vista teorico completamente infondata.” Queste sono le parole con le quali Lenin stesso dà il via alla leggenda che insiste nel fare di lui l’unico responsabile del “successo” o del “crimine” della rivoluzione russa. Egli considerava la guerra mondiale determinante in merito alla diretta causa del suo scoppio e per il tempo del suo verificarsi. Sì; senza la guerra, dice, “la rivoluzione sarebbe stata probabilmente posticipata di decenni”. L’idea che lo scoppio e il corso della rivoluzione russa dipese in grandissima misura da Lenin necessariamente implica una completa identificazione della rivoluzione con la presa del controllo del potere da parte dei bolscevichi. Trotsky ha rimarcato l’effetto che l’intero credito per il successo della rivolta di Ottobre appartiene a Lenin; contro l’opposizione di tutti i suoi amici di partito, la risoluzione per l’insurrezione fu portata avanti da lui solo. Ma la presa del potere da parte dei bolscevichi non diede alla rivoluzione lo spirito di Lenin; al contrario, Lenin aveva talmente adattato se stesso alle necessità rivoluzionarie che praticamente egli eseguì completamente il compito della classe che lui apparentemente combatteva. Di sicuro spesso si afferma che con la presa del potere statale da parte dei bolscevichi la rivoluzione originariamente democratico-borghese fu senz’altro convertita in una socialista-proletaria. Ma è davvero possibile per chiunque credere seriamente che un singolo atto politico sia capace di rimpiazzare un intero sviluppo storico; che sei mesi – da febbraio a ottobre – siano sufficienti per formare i presupposti economici di una rivoluzione socialista in un paese che stava soltanto cercando di liberarsi dai suoi vincoli feudali e assolutisti, con lo scopo di dare più libero gioco alle forze del capitalismo moderno?

Fino alla rivoluzione, e in stragrande misura anche oggi, il ruolo decisivo nello sviluppo economico e sociale della Russia fu giocato dalla questione agraria. Su 174 milioni di abitanti prima della guerra, solo 24 milioni vivevano nelle città. Per ogni migliaia di lavoratori retribuiti, 719 erano occupati nell’agricoltura. Malgrado la loro enorme importanza economica, la maggioranza dei contadini conducevano ancora vite miserabili. La causa della loro situazione deplorabile era l’insufficienza di terra. Lo Stato, la nobiltà e i grandi proprietari terrieri assicuravano a loro stessi con brutalità asiatica un irragionevole sfruttamento della popolazione.

Dall’abolizione della servitù della gleba (1861) la scarsità di terra per le masse contadine era stata costantemente la questione attorno alla quale tutto il resto girava nella politica interna russa. Formò l’oggetto principale di tutti i tentativi di riforma, che vide in questo la forza motrice dell’imminente rivoluzione, la quale dovette essere sviata. La politica finanziaria del regime zarista, con le sue nuove imposte di tassazione indiretta, peggiorarono le condizioni dei contadini ancor di più. Le spese per l’esercito, la flotta, l’apparato statale arrivarono a proporzioni gigantesche; la porzione più grande del budget statale andò a propositi improduttivi, i quali rovinarono totalmente la fondazione economica dell’agricoltura.

Libertà e terra” era la necessaria richiesta rivoluzionaria dei contadini. Sotto questa parola d’ordine si verificarono una serie di rivolte contadine che presto, nel periodo che va dal 1902 al 1906, assunsero una portata significativa. In combinazione con i movimenti di sciopero di massa dei lavoratori che prendevano luogo allo stesso momento, esse produssero un tale violento scompiglio nel cuore dello Zarismo che quel periodo potrebbe invero essere denotato come una “prova generale” per la rivoluzione del 1917. La maniera in cui lo Zarismo reagì a queste ribellioni è illustrata nel modo migliore dall’espressione del vice governatore della provincia di Tambov Bogdanovich: “Pochi arrestati, i più sono stai passati per le armi”. E uno degli ufficiali che aveva preso parte alla soppressione dell’insurrezione scrisse: “Tutto attorno a noi, spargimenti di sangue; ogni cosa in fiamme; abbiamo sparato, abbattuto, pugnalato.” Fu in questo mare di sangue e fiamme che nacque la rivoluzione del 1917.

Nonostante le sconfitte, la pressione dei contadini crebbe di più e più minacciosa. Portò alle riforme di Stolipin, che comunque, erano solo gesti vuoti, pieni di promesse che in realtà non aggiunsero alla questione agraria un singolo passo avanti. Ma una volta dato il mignolo, si vorrà presto prendere l’intero braccio. L’ulteriore peggioramento della situazione dei contadini durante la guerra, la sconfitta dell’esercito zarista al fronte, le crescenti rivolte nelle città, la caotica politica zarista, nella quale ogni ragione fu gettata a mare, il dilemma generale per tutte le classi della società, portò alla rivoluzione di febbraio, che prima di tutto fece emergere la situazione violenta della questione agraria; la quale era stata una questione calda per mezzo secolo. Il suo carattere politico, tuttavia, non era stato inculcato a questa rivoluzione dal movimento contadino; questo movimento semplicemente gli diede il suo grande potere. Nel primo annuncio del Comitato Esecutivo Centrale del Consiglio (soviet) dei lavoratori e dei soldati di San Pietroburgo la questione agraria non fu neppure menzionata. Ma i contadini presto imposero la loro presenza all’attenzione del nuovo governo. Stanchi di aspettare il governo per agire in merito alla questione agraria, in aprile e maggio del 1917 le masse contadine deluse incominciarono ad appropriarsi della terra da sole. I soldati al fronte, timorosi di non aver modo di prendere il loro pezzo nella nuova distribuzione, abbandonarono le trincee e si precipitarono nei loro villaggi. Portandosi le armi dietro, comunque, e così non dando altra scelta al nuovo governo di reprimerli. Tutti i suoi appelli al sentimento di nazionalità e sacralità degli interessi russi non erano di alcuna utilità contro l’urgenza delle masse di ottenere alla fine i loro bisogni economici. E questi bisogni comprendevano la pace e la terra. Fu detto a quel tempo che i contadini che venivano implorati di rimanere al fronte, altrimenti i tedeschi avrebbero occupato Mosca, erano alquanto indecisi e risposero agli emissari di governo: “E che cos’è quello per noi? Che diamine, noi veniamo dal Governo di Tamboff”.

Lenin e i bolscevichi non inventarono lo slogan vincente “Terra ai contadini”; piuttosto, essi accettarono che la vera rivoluzione contadina proseguiva indipendentemente da loro. Usando a loro favore il vacillante atteggiamento del regime di Kerensky, che sperava ancora di essere in grado di accomodare la questione agraria per mezzo di una discussione pacifica, i bolscevichi vinsero il favore dei contadini e furono così in grado di scacciare il governo di Kerensky e di assumere loro stessi il controllo del potere. Ma questo fu possibile per loro solo come agenti del volere contadino, sanzionando la loro appropriazione della terra, e fu solo attraverso il loro supporto che i bolscevichi furono in grado di mantenersi al potere.

Lo slogan “terra ai contadini” non ha nulla a che vedere con i principi comunisti. La frammentazione di un grande possedimento in un vasto numero di piccole imprese agricole indipendenti era una misura direttamente opposta al socialismo, e che poteva essere giustificata solo in virtù di una necessità tattica. I successivi cambiamenti nella politica contadina di Lenin e dei bolscevichi furono vani nell’apportare qualche cambiamento nelle necessarie conseguenze della sua politica opportunistica originale. Malgrado tutta la collettivizzazione, che fino ad ora è largamente limitata a lati tecnici del processo produttivo, l’agricoltura russa è ancor oggi in pratica determinata da interessi e motivi di economia privata. E questo implica l’impossibilità, anche in campo industriale, di approdare a non più di un’economia a capitalismo di Stato. Anche se questo capitalismo di Stato punta a trasformare completamente la popolazione agricola in salariati agricoli sfruttabili, questo obiettivo non è assolutamente possibile da ottenere in vista dei nuovi scontri rivoluzionari legati a tale avventura. La presente collettivizzazione non può essere considerata il compimento del socialismo. Questo diventa chiaro quando si tiene in considerazione il fatto che osservatori della scena russa come Maurice Hindus ritengono possibile che “anche se i Soviet dovessero collassare, l’agricoltura russa rimarrebbe collettivista, con il controllo forse più nelle mani dei contadini che del governo”. Comunque, anche se la politica agricola bolscevica dovesse portare al risultato desiderato, la situazione dei lavoratori rimarrebbe comunque inalterata. E neppure tale compimento sarebbe considerato una transizione al socialismo reale, in quanto questi elementi della popolazione ora privilegiati dal capitalismo di Stato difenderebbero i loro privilegi contro tutti i cambiamenti esattamente come i proprietari privati fecero prima al tempo della rivoluzione del 1917.

I lavoratori delle industrie formavano ancora una piccola minoranza della popolazione, ed erano coerentemente incapaci di imprimere alla rivoluzione russa un carattere conforme ai propri bisogni. Gli elementi borghesi che similmente combattevano lo zarismo retrocedettero davanti alla natura dei loro stessi compiti. Non potevano accedere alla soluzione rivoluzionaria della questione agraria, in quanto a un’espropriazione generale della terra avrebbe fatto seguito troppo facilmente l’espropriazione dell’industria. Né i contadini né i lavoratori li seguirono, e il destino della borghesia era deciso dalla temporanea alleanza tra questi ultimi gruppi. Non fu la borghesia ma i lavoratori a portare la rivoluzione borghese alla sua conclusione; il posto del capitalismo fu preso dall’apparato statale bolscevico sotto lo slogan leninista: “se capitalismo in ogni caso, allora facciamolo”. Di sicuro i lavoratori nelle città avevano rovesciato il capitalismo, ma solo allo scopo ora di convertire l’apparato del partito bolscevico nei loro nuovi padroni. Nelle città industriali la lotta dei lavoratori continuò sotto richieste socialiste, in modo apparentemente indipendente dalla rivoluzione contadina in corso allo stesso tempo ma in un senso decisivo determinato da quest’ultima. Le richieste rivoluzionarie originali dei lavoratori erano oggettivamente impossibili da portare a compimento. Dobbiamo riconoscerlo, i lavoratori erano in grado, con l’aiuto dei contadini, di vincere il potere statale per il loro partito, ma questo nuovo Stato presto assunse una posizione direttamente opposta a quella degli interessi dei lavoratori. Un’opposizione che persino oggi ha assunto forme che effettivamente permettono di parlare di uno “zarismo rosso”: soppressione degli scioperi, deportazioni, esecuzioni di massa, e quindi anche la nascita di nuove organizzazioni illegali che conducono una rivolta comunista contro il presente finto socialismo. L’attuale discorso riguardo a un’estensione della democrazia in Russia, al pensiero di introdurre una sorta di parlamentarismo, alla risoluzione dell’ultimo congresso dei soviet in merito allo smantellamento della dittatura, tutto questo è meramente una manovra tattica progettata per compensare l’ultimo atto di violenza da parte del governo contro l’opposizione. Queste promesse non sono da prendere seriamente, ma sono un risultato della pratica leninista, la quale era sempre ben calcolata per funzionare in due direzioni allo stesso tempo nell’interesse della sua stessa stabilità e sicurezza. Lo zigzagare della politica leninista deriva dalla necessità di conformarsi costantemente all’avvicendamento delle forza di classe in Russia in tale maniera che il governo possa sempre rimanere padrone della situazione. E così oggi si accetta ciò che si era respinto il giorno prima, o viceversa; un non principio è stato elevato a principio, e il partito leninista si concentra solo su una cosa, cioè, l’esercizio del potere di Stato ad ogni costo.

Qui, tuttavia, noi siamo interessati solo nel chiarire che la rivoluzione russa non fu dipendente da Lenin o dai bolscevichi, ma che l’elemento decisivo fu la rivolta contadina. E, su questo argomento, Zinoviev, ancora al potere a quel tempo e dalla parte di Lenin, aveva affermato durante l’undicesimo Congresso del Partito Bolscevico (marzo-aprile 1921): “Non fu l’avanguardia proletaria dalla nostra parte, ma il passaggio dalla nostra parte dell’esercito, perché noi chiedevamo la pace, che fu il fatto decisivo della nostra vittoria. L’esercito, comunque era formato da contadini. Se noi non avessimo avuto il supporto dei milioni di contadini soldati, la nostra vittoria sulla borghesia sarebbe stata fuori questione”. Il grande interesse dei contadini sulla questione della terra da un lato, e il minimo interesse da parte del governo dall’altro, permise ai bolscevichi di condurre una lotta vittoriosa per il governo. I contadini erano abbastanza disponibili a lasciare il Cremlino ai bolscevichi, solo a patto che questi non interferissero con la loro lotta contro i grandi proprietari terrieri.

Ma anche nelle città, Lenin non fu il fattore decisivo nel conflitto tra capitale e lavoro. Al contrario, egli fu impotentemente trascinato dalla scia dei lavoratori, i quali nelle loro richieste e misure effettive andarono ben oltre i bolscevichi. Non fu Lenin che condusse la rivoluzione, ma la rivoluzione condusse Lenin. Però non prima della rivolta d’Ottobre Lenin restrinse le sue originarie e risolute richieste al controllo della produzione, e desiderava fermarsi con la socializzazione delle banche e dei trasporti; senza un’abolizione generale della proprietà privata, i lavoratori non diedero attenzione ulteriore ai suoi punti di vista e esporpriarono tutte le imprese. È interessante ricordare che il primo decreto del governo bolscevico fu diretto contro le espropriazioni selvagge e non autorizzate delle fabbriche per mezzo dei consigli dei lavoratori. Ma questi consigli (soviet) erano a quel tempo più forti dell’apparato di partito e obbligarono Lenin a emanare il decreto per la nazionalizzazione di tutte le imprese industriali. Fu solo sotto la pressione esercitata dai lavoratori che i bolscevichi acconsentirono a questo cambio nei loro piani. Gradualmente, attraverso l’estensione del potere statale, l’influenza dei consigli s’indebolì, fino ad arrivare alla situazione attuale in cui i consigli non servono altro che a scopi decorativi.

Durante i primi anni della rivoluzione, sino all’introduzione della Nuova Politica Economica (New Economic Policy, NEP) (1921), ci fu di sicuro qualche sperimentazione in Russia in senso comunista. Questo, però, non è da accreditare a Lenin, ma a quelle forze che lo resero un camaleonte politico che una volta assumeva un colore reazionario e un’altra un colore rivoluzionario. Inizialmente nuove rivolte contadine contro i bolscevichi portarono Lenin a una politica più radicale, un’enfasi più forte agli interessi degli operai e dei contadini poveri che si erano ritrovati a mani vuote dopo la prima distribuzione della terra. Ma poi questa politica si dimostra un fallimento, in quanto i contadini poveri, i cui interessi sono quindi privilegiati, si rifiutano di appoggiare i bolscevichi e Lenin “rivolge il suo sguardo ancora verso i contadini medi”. In tal caso Lenin non ha scrupoli nel rafforzare da capo gli elementi di capitale privato, e gli alleati di prima, che sono ora cresciuti in modo indesiderato, vengono abbattuti con i cannoni, com’è avvenuto a Kronstadt.

Il potere, e niente di meno che il potere: è a questo che l’intera saggezza politica di Lenin in fine si riduce. Il fatto che i modi con i quali si ottiene, i mezzi che portano al potere, determinano a loro volta la maniera in cui tale potere è applicato, era una materia che gli interessava poco. Il socialismo, per lui, era in ultima istanza semplicemente una sorta di capitalismo di Stato, seguendo il “modello del servizio postale tedesco”. E questo capitalismo di Stato colse sulla sua strada, perché in realtà non c’era null’altro da prendere. Fu semplicemente una questione di chi sarebbe stato il beneficiario del capitalismo di Stato, e qui Lenin non diede la precedenza a nessuno. E pertanto George Bernard Shaw, tornando dalla Russia, fu alquanto corretto quando, in una lezione davanti alla Società Fabiana a Londra, affermò che “il comunismo russo non è niente più che la messa in pratica del programma fabiano che noi abbiamo predicato negli ultimi quarant’anni”.

Ancora nessuno, tuttavia, ha avuto il sospetto che i fabiani costituiscano una forza rivoluzionaria mondiale. E Lenin è di sicuro prima di tutto acclamato come un rivoluzionario mondiale, nonostante il fatto che il presente governo russo con il quale il suo “patrimonio” è amministrato diffonde smentite enfatiche quando la stampa pubblica articoli di brindisi russi alla rivoluzione mondiale. La leggenda della significatività mondiale rivoluzionaria di Lenin riceve il suo nutrimento dalla sua coerente posizione internazionale durante la guerra. Fu alquanto impossibile per Lenin a quel tempo concepire che una rivoluzione russa non avrebbe avuto ulteriori ripercussioni e sarebbe stata abbandonata a se stessa. C’erano due ragioni per questo punto di vista: primo, perché tale pensiero era in contraddizione con la situazione oggettiva risultante dalla guerra mondiale; e secondo, egli sosteneva che l’attacco delle nazioni imperialiste contro i bolscevichi avrebbe rotto la schiena della rivoluzione russa se il proletariato dell’Europa occidentale non fosse venuto in suo soccorso. La chiamata di Lenin per la rivoluzione mondiale era primariamente una chiamata in supporto e per il mantenimento del potere bolscevico. La prova che non fu molto più che questo è fornita dalla sua incoerenza in questa questione: in aggiunta alle sue richieste per la rivoluzione mondiale, allo stesso tempo venne fuori con il “diritto di autodeterminazione di tutti i popoli oppressi”, per la loro liberazione nazionale. Anche questa partita doppia proviene allo stesso modo dal bisogno giacobino dei bolscevichi di mantenere il potere. Con entrambi gli slogan le forze di intervento dei paesi capitalisti negli affari russi erano indebolite, in quanto la loro attenzione veniva deviata sui loro stessi territori e colonie. Ciò permise ai bolscevichi di respirare. Al fine di renderla più lunga possibile, Lenin istituì la sua Internazionale. Essa stabilì per se stessa un doppio compito: da una parte, subordinare i lavoratori dell’Europa occidentale e dell’America alla volontà di Mosca; dall’altra, rafforzare l’influenza di Mosca sulle genti dell’Asia orientale. Il lavoro sul campo internazionale era modellato sul seguito del corso della rivoluzione russa. L’obiettivo era quello di combinare gli interessi dei lavoratori e dei contadini su scala mondiale e di controllarli attraverso i bolscevichi, per mezzo dell’Internazionale Comunista. In questo modo almeno il potere statale bolscevico in Russia riceveva supporto; e nel caso in cui la rivoluzione mondiale dovesse diffondersi veramente, il potere sul mondo sarebbe a portata di mano. Anche se il primo progetto aveva avuto successo, allo stesso tempo il secondo non era stato ultimato. La rivoluzione mondiale non fu in grado di progredire come un’imitazione allargata di quella russa, e le limitazioni nazionali della vittoria in Russia necessariamente fecero dei bolscevichi una forza contro-rivoluzionaria sul piano internazionale. Perciò anche la richiesta della “rivoluzione mondiale” fu convertita nella “teoria di costruire il socialismo in un solo paese”. E questa non è una perversione di una posizione leninista – come Trotsky, per esempio, asserisce oggi – ma la conseguenza diretta di una pseudo politica di rivoluzione mondiale perseguita da Lenin stesso.

Era chiaro a quel tempo, addirittura a molti bolscevichi, che la restrizione della rivoluzione alla Russia avrebbe fatto della rivoluzione russa stessa un fattore per il quale la rivoluzione mondiale sarebbe stata impedita. Così, per esempio, Eugene Varga scrisse nel suo libro “Problemi economici della dittatura del proletariato”, pubblicato dell’Internazionale Comunista (1921): “Esiste il pericolo che la Russia possa essere eliminata come forza motrice della rivoluzione internazionale…Ci sono comunisti in Russia che si sono stancati di aspettare la rivoluzione europea e sperano di trarre il meglio dal loro isolamento nazionale… Con una Russia che considererebbe la rivoluzione sociale degli altri paesi come una materia con la quale non avrebbe niente a che vedere, i paesi capitalisti sarebbero in ogni caso in grado di vivere pacificamente con rapporti di buon vicinato. Sono lontano dal credere che il soffocamento della rivoluzione russa sarebbe in grado di fermare il progresso della rivoluzione mondiale. Ma quel progresso sarebbe rallentato”. E con l’inasprirsi delle crisi interne in Russia intorno al quel periodo, non ci volle molto tempo prima che tutti i comunisti, incluso Varga stesso, maturassero la sensazione di cui Varga qui si lamenta. Infatti, ancora prima, addirittura nel 1920, Lenin e Trotsky si presero la briga di arginare le forze rivoluzionarie d’Europa. La pace in tutto il mondo era necessaria al fine di assicurare la costruzione del capitalismo di Stato in Russia sotto gli auspici dei bolscevichi. Era sconsigliabile avere questa pace disturbata dalla guerra o da nuove rivoluzioni, in entrambi i casi un paese come la Russia sarebbe stato tirato in ballo di sicuro. Perciò, Lenin impose, con divisioni e intrighi, un corso neoriformista al movimento dei lavoratori dell’Europa Occidentale, un corso che portò alla sua totale dissoluzione. Fu con parole argute che Trotsky, con l’approvazione di Lenin, accese la sollevazione nella Germania Centrale (1921): “Noi dobbiamo dire chiaro e tondo ai lavoratori tedeschi che consideriamo questa filosofia dell’offensiva come il più grande pericolo e nella sua applicazione pratica come il più grande crimine politico”. E in altre situazioni rivoluzionarie nel 1923, Trotsky dichiarò al corrispondente del Manchester Guardian, ancora con l’approvazione di Lenin: “Noi siamo certamente interessati alla vittoria della classe dei lavoratori, ma non è per niente nel nostro interesse che scoppi la rivoluzione in Europa, la quale è dissanguata ed esausta, e che il proletariato riceva dalle mani della borghesia nient’altro che rovine. Noi siamo interessati nel mantenimento della pace.” E dieci anni dopo, quando Hitler salì al potere, l’Internazionale Comunista non mosse un dito per prevenirlo. Trotsky non è solo in errore, ma rivela una perdita di memoria risultante senza dubbio dalla perdita della sua uniforme, quando oggi caratterizza il fallimento di Stalin nell’aiutare la Germania comunista come un tradimento dei principi del leninismo. Questo tradimento fu costantemente praticato da Lenin, e da Trotsky stesso. Ma in accordo con un detto di Trotsky, la cosa importante è certamente non cosa viene fatto, ma chi lo fa.

Stalin è, in realtà, il discepolo migliore di Lenin, per quanto riguarda il suo atteggiamento nei riguardi del fascismo tedesco. I bolscevichi non si sono neanche certamente fermati dall’entrare in alleanza con la Turchia e dal fornire supporto politico ed economico al governo di quel paese anche quando le misure più aspre erano state prese contro i comunisti – misure che frequentemente eclissarono persino le azioni di Hitler.

In visione del fatto che l’Internazionale Comunista nella misura in cui essa stessa continua a funzionare è meramente un’agenzia del settore turistico russo, in vista del collasso in tutti i paesi dei movimenti comunisti controllati da Mosca, la leggenda di Lenin il rivoluzionario mondiale è senza dubbio talmente indebolita che si potrebbe contare sulla sua scomparsa nel futuro prossimo. E di sicuro anche oggi i ruffiani dell’Internazionale Comunista non operano più con l’idea della rivoluzione mondiale, ma parlano della “Patria dei lavoratori”, dalla quale attingono il loro entusiasmo finché non sono forzati a viverci come lavoratori. Quelli che continuano ad acclamare Lenin come il rivoluzionario mondiale par excellence in realtà si entusiasmano per nulla più che i sogni politici di potere mondiale di Lenin, sogni che scemano nel nulla alla luce del giorno.

La contraddizione esistente tra la significatività storica reale di Lenin e quella che è generalmente ascritta a lui è più grande e allo stesso tempo più inscrutabile di quella di qualsiasi altro personaggio agente nella storia moderna. Abbiamo mostrato che non può essere considerato il responsabile del successo della rivoluzione russa, e anche che la sua teoria e pratica non può, come si fa spesso, essere apprezzata come d’importanza rivoluzionaria mondiale. Né, malgrado tutte le affermazioni contrarie, Lenin può essere considerato come uno che ha esteso o integrato il Marxismo. Nel lavoro di Thomas B. Brameld intitolato “Un approccio filosofico al comunismo”, recentemente pubblicato dall’Università di Chicago, il comunismo è ancora definito come “una sintesi delle dottrine di Marx, Engels e Lenin.” Non è solo in questo libro, ma anche in generale, e in particolare nella stampa del partito comunista, che Lenin è piazzato in tale relazione con Marx ed Engels. Stalin ha denotato il leninismo come il “marxismo nel periodo dell’imperialismo”. Tale posizione, tuttavia, ricava la sua unica giustificazione da un’infondata sopravalutazione di Lenin. Lenin non ha aggiunto al marxismo un singolo elemento che può essere giudicato come nuovo e indipendente. La prospettiva filosofica di Lenin è il materialismo dialettico come sviluppato da Marx, Engels e Plekhanov. È a questo che si riferisce in connessione con tutti i problemi importanti: è il suo criterio in ogni cosa e la sua corte d’appello finale. Nel suo principale lavoro filosofico, “Materialismo ed Empirocriticismo”, Lenin semplicemente ripete Engels tracciando le opposizioni dei diversi punti di vista filosofici intaccando la grande contraddizione: Materialismo vs Idealismo. Mentre per la prima posizione, la Natura è primaria e la Mente secondaria; per l’altra è vero esattamente l’opposto. Questa formulazione precedentemente nota è documentata da Lenin con materiale aggiuntivo proveniente dai vari campi di conoscenza. E così non si può pensare a un arricchimento essenziale della dialettica marxiana da parte di Lenin. Nel campo della filosofia, parlare di una scuola leninista è impossibile.

Nel campo dell’economia, inoltre, tale significatività indipendente non può essere ascritta a Lenin. Gli scritti economici di Lenin sono più marxisti di quelli di ogni altro suo contemporaneo, ma sono solo brillanti applicazioni delle dottrine economiche già esistenti associate al marxismo. Lenin non ebbe assolutamente idea di essere un teorico indipendente in materia economica; per lui, Marx aveva già detto tutto di fondamentale in questo campo. Siccome, per lui, era alquanto impossibile andare oltre Marx, si occupò solamente di provare che i postulati marxisti erano in accordo con lo sviluppo effettivo. Il suo principale lavoro in economia, “Lo sviluppo del capitalismo in Russia”, è un eloquente testimonianza di questo punto. Lenin non volle mai essere più di un discepolo di Marx, e pertanto è solo nella leggenda che si possa parlare della teoria del “leninismo”.

Lenin voleva soprattutto essere un politico pratico. I suoi lavori teorici sono quasi solo esclusivamente di natura polemica. Combattono i nemici teorici o altri nemici del Marxismo, che Lenin identifica con i suoi sforzi politici e quelli dei bolscevichi in generale. Per il Marxismo, la pratica decide sulla verità di una teoria. Come un professionista adoperandosi nell’attualizzare le dottrine di Marx, Lenin potrebbe effettivamente aver restituito al marxismo un enorme servizio. Tuttavia, ancora in riguardo al Marxismo, ogni pratica è sociale, e può essere modificata e influenzata dagli individui solo in misura davvero limitata, mai in modo decisivo. Non c’è dubbio che l’unione della teoria e della pratica, dell’obiettivo finale e delle concrete questioni del movimento, con le quali Lenin era costantemente preso, possa essere acclamata come un grande risultato. Ma il criterio per questo raggiungimento è il successo che lo attende, e quel successo, come abbiamo già detto, fu negato a Lenin. Il suo lavoro non solo fallì nel far progredire il movimento rivoluzionario mondiale; fallì anche nel formare i presupposti per una società davvero socialista in Russia. Il successo (che ebbe effettivamente) non lo portò vicino al suo obbiettivo, ma lo spinse più lontano.

Le condizioni attuali in Russia e la presente situazione dei lavoratori nel mondo devono essere sufficienti per provare a ogni osservatore comunista che la presente politica “leninista” è solo l’opposto di quella espressa dalla sua fraseologia. E alla lunga tale condizione deve senza dubbio distruggere la leggenda artificialmente costruita di Lenin, in modo che la storia stessa possa mettere Lenin nel suo appropriato posto storico.