Conversazioni con Nahuel Moreno[1]

Daniel Costa, Marcos Trogo e Raul Tuny (1986)


Tradotto dallo spagnolo da Marco Spedicato, agosto 2018


Indice

Presentazione

Capitolo 1 Le prospettive della rivoluzione mondiale

Capitolo 2 Il partito rivoluzionario

Capitolo 3 Il partito mondiale

Capitolo 4 Gli Stati operai esistenti

Capitolo 5 Lo Stato operaio rivoluzionario

Capitolo 6 Militanza e vita quotidiana

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Presentazione

I principali destinatari di quest'opera sono i numerosi lavoratori e studenti che durante gli ultimi anni si sono aggregati alle file del trotskismo e le migliaia di uomini e donne che simpatizzano per la causa socialista rivoluzionaria. Li unisce tutti la consapevolezza che "qualcosa non va" in una società e in un mondo in cui, nonostante le altisonanti promesse e i piani dei governi, la miseria aumenta costantemente, le giornate lavorative si allungano e i salari diminuiscono, la qualità della vita scende vertiginosamente e la vita stessa trascorre sotto la nera ombra delle "guerre stellari" e dell'olocausto nucleare. Questi nuovi militanti e simpatizzanti, nella stragrande maggioranza, cominciano a muovere i primi passi nel socialismo rivoluzionario con un brulichio di domande nella testa. È possibile migliorare la società capitalista per vivere meglio, o forse il "qualcosa" che non va è la società stessa e allora va cambiata? E, se è così, perché questo non è ancora successo? Hanno gli sfruttati la forza sufficiente per trasformare la società, tenuto conto della potenza militare della borghesia e dell'imperialismo? Oppure: il governo imperialista degli Stati Uniti premerà il "pulsante" della guerra nucleare? Chi può impedirlo, e come? Altri, infine, si interrogano sulle peculiarità della vita dei militanti rivoluzionari: non è alienante la militanza? O, prendendo un altro aspetto, perché i partiti trotskisti insistono tanto sulla necessità di costruire un'organizzazione internazionale? Tutte queste domande, e altre ugualmente importanti, formano il programma di questo libro. Il primo capitolo tratta della situazione mondiale e della grande alternativa della nostra epoca: o gli operai di tutto il mondo sconfiggono il sistema capitalista-imperialista, oppure questo getterà l'umanità in abissi di miseria e abbrutimento come non se ne sono conosciuti in tutta la storia e forse provocherà addirittura la distruzione della vita sulla Terra. Nei capitoli secondo e terzo si sviluppano i problemi dell'organizzazione rivoluzionaria degli operai, nei loro paesi e a livello internazionale, con la tesi che il partito rivoluzionario è lo strumento indispensabile dei lavoratori per sconfiggere il capitalismo. I capitoli quarto e quinto si riferiscono agli Stati operai: non solo il socialismo "reale", come dice una frase giornalistica di moda negli ultimi anni, ma anche quello che vogliamo noi trotskisti. Un socialismo con democrazia operaia, in cui tutti i problemi della politica, dell'economia, dell'educazione, eccetera, siano risolti dai lavoratori organizzati. Infine, nel sesto capitolo, si sviluppano aspetti della vita quotidiana del militante rivoluzionario, in altre parole il partito come "gruppo umano". Si può dire che quest'opera ha due autori. Uno, collettivo, sono i militanti e simpatizzanti ai quali è rivolta, quelli che hanno formulato le domande. Il compito dei curatori è consistito nell'ordinarle e raggrupparle per argomento. L'altro autore è Nahuel Moreno, dirigente della Liga Internacional de los Trabajadores (Cuarta Internacional) e del suo partito argentino, il Movimiento al Socialismo. Per rispondere a queste domande nessuno è più qualificato di Moreno, col suo percorso di quasi quattro decenni nella direzione del movimento trotskista mondiale e conoscitore per esperienza diretta del movimento operaio di molti paesi. Le domande sono state formulate a mo' di articolo giornalistico, registratore a portata di mano. Successivamente Moreno ha rivisto le sue risposte e, senza modificarle nella sostanza, ha aggiunto alcuni paragrafi dove l'ha ritenuto necessario per dare maggiore chiarezza e rigore alla sua esposizione. A loro volta i curatori hanno aggiunto alcune note fuori testo al fine di spiegare certi fatti e personaggi storici. Inutile dire che le note sono di esclusiva responsabilità di El Socialista e non compromettono il defunto[2] Nahuel Moreno. Non ci resta che esprimere la speranza che questo libro serva ai suoi destinatari da stimolo e guida in questi anni decisivi della rivoluzione nicaraguense e mondiale, adesso che si uniscono a questa causa rivoluzionaria alla quale si dedicò Nahuel Moreno dall'inizio della sua vita politica: la lotta per una società senza sfruttamento né alienazione, la lotta per una società socialista.

I curatori

Managua, febbraio 1986


Capitolo 1. Le prospettive della rivoluzione mondiale

Moreno, iniziamo con una domanda, o meglio si potrebbe dire una riflessione, che si fanno molti militanti marxisti e che i sostenitori del capitalismo, specialmente i suoi propagandisti e giornalisti, tendono a usare per attaccare il marxismo. I socialisti rivoluzionari annunciano da decenni la crisi definitiva e il crollo del capitalismo. Però non crolla.

Sì, è vero che il capitalismo non è crollato, ed è ugualmente vero che annunciamo la sua crisi definitiva da molto tempo. Credo che questo sia dovuto a una concezione catastrofistica: alla fine del secolo scorso e agli inizi di questo, Rosa Luxemburg, Kautsky1 e i marxisti rivoluzionari in generale sostenevano che il capitalismo era diretto verso la catastrofe, cioè una crisi senza via d’uscita, trascinato dalle proprie leggi intrinseche. Tutti noi abbiamo condiviso questa concezione, fino al punto di cadere in un criterio millenaristico. Così come secoli fa si pensava che nell’anno Mille si sarebbe verificato il crollo della civiltà e la seconda venuta di Cristo, noi marxisti rivoluzionari dicevamo che nel nostro anno Mille, che era un anno X degli inizi di questo secolo, sarebbe crollato il capitalismo per fare posto a una società socialista. Questa concezione è rimasta valida fino a poco tempo fa nei circoli marxisti e fra di noi. I marxisti rivoluzionari avevano ragione nell’affermare che il sistema capitalista-imperialista sarebbe entrato in una crisi ogni volta più acuta, che avrebbe affondato le masse lavoratrici nella miseria crescente e avrebbe originato guerre e rivoluzioni senza soluzione di continuità. Il tempo ci ha dimostrato che non esiste una legge scientifica per la quale si arrivi inesorabilmente alla catastrofe finale del capitalismo e all’inizio del socialismo. Il problema è molto più complesso, poiché entrano in gioco i soggetti storici, che sono le classi, con i loro settori, gruppi e dirigenti. La crisi definitiva di una società è intimamente legata alle lotte e agli accordi per la lotta fra di essi.

A suo parere, potrebbe esserci capitalismo per altri trecento, quattrocento o cinquecento anni?

Be’, può essere che il capitalismo cambi e raggiunga una nuova forma di sfruttamento. La scuola Economica semimarxista di Wallerstein2 segnala questa possibilità, che, a mio parere, storicamente non è da escludere.

Cioè il capitalismo starebbe crollando, ma senza che arrivi il socialismo…

Sì, ecco perché parliamo della barbarie. La nostra espressione, ‘socialismo o barbarie’, sembra una parola d’ordine, ma in realtà è un concetto teorico molto profondo. Significa che la crisi del capitalismo non conduce inesorabilmente al socialismo, bensì può portare a una nuova società di classe molto peggiore del capitalismo, basata su forme di lavoro semischiavistiche. In questo senso è appassionante lo studio del nazismo. Il fenomeno di Hitler non è stato studiato a fondo dai marxisti. Nel razzismo hitleriano abbiamo l’embrione di una nuova società schiavista, con i campi di sterminio e di lavoro dove Hitler mandava gli ebrei, i polacchi e anche le persone di sinistra. È l’inizio di un nuovo rapporto di produzione, con nuove forme di schiavitù.

Hitler sottopose a queste forme di schiavitù popoli che considerava nemici, conquistati durante una guerra. Questo era già successo prima nella storia.

In primo luogo, Hitler sottopose a questo principio di schiavitù gli ebrei e i tedeschi di sinistra prima della guerra. Poi lo estese ai popoli conquistati, principalmente agli slavi. Inoltre nella storia moderna non si era visto niente di simile alla barbarie nazi. Nella Prima Guerra Mondiale non esistevano campi di concentramento in cui si impiegasse manodopera schiavizzata. Gli unici precedenti risalgono alla nascita del capitalismo, e alla conquista dell’America da parte degli spagnoli e dei portoghesi, soprattutto i primi. Fu un vero genocidio della popolazione aborigena, in cui furono massacrati fra i sessanta e gli ottanta milioni di indigeni. A questo processo seguì la schiavitù, che non fu tanto barbara quanto la prima fase della conquista. Credo che sia evidente il parallelismo fra il genocidio degli indigeni da parte degli spagnoli, agli inizi del capitalismo, e quello degli ebrei e degli slavi da parte di Hitler, ormai all’epoca della decadenza del sistema. Ma Hitler riprende anche un altro elemento della fase inaugurale del capitalismo: la tendenza dei paesi più sviluppati a trasformare il mondo in loro colonie. Hitler converte questa tendenza nella politica cosciente di trasformare in colonie le nazioni, le nazionalità e i popoli europei. Il nazismo, come fenomeno del XX secolo, riprende le tendenze più antiche del capitalismo e le proietta verso il futuro. Se sopravvive il capitalismo, Hitler sarà superato.

Cioè ci sarà una generalizzazione dei campi di lavoro, con le loro guardie e i loro fili spinati?

Esattamente.

Una specie di apartheid esteso a tutta la Terra?

Innanzi tutto voglio chiarire che l’apartheid non è esclusivo appannaggio della minoranza bianca sudafricana in relazione ai neri: questa stessa politica la applica lo Stato di Israele nei confronti degli arabi e dei palestinesi. Passando alla sua domanda, il nazismo è più brutale dell’apartheid o del sionismo, il che la dice lunga. Per di più aspira a imporsi nel mondo, non limitarsi a un solo paese o regione, come l’apartheid in Sudafrica e il sionismo in Palestina. Né lo Stato boero né lo Stato sionista aspirano per il momento a estendere il loro regime di sfruttamento e genocidio razziale al di là delle loro attuali zone di influenza, a causa della debolezza della classe capitalista di entrambi. Sono convinto che uno o due secoli di hitlerismo avrebbero avuto un’influenza perfino biologica sugli ebrei e le persone di sinistra nella Germania nazi, e su ebrei, polacchi, slavi e praticamente l’insieme dell’Europa non tedesca. Lo stesso succederà con i neri del sud dell’Africa soggetti allo Stato boero, e con gli arabi e i palestinesi sotto lo Stato sionista, se permangono questi regimi razzisti.

Che significa “un’influenza biologica”?

Be’, ultimamente i giornali hanno pubblicato denunce di medici brasiliani, che dicono che i brasiliani del Nordest stanno diventando una razza di nani, di veri pigmei, come conseguenza di uno o due secoli di fame cronica. Io credo che il sistema di schiavitù e genocidio, di brutale supersfruttamento dei lavoratori e delle razze considerate “inferiori” avrebbe nel corso di uno o due secoli lo stesso effetto della fame cronica nel Nordest del Brasile, cioè di una vera involuzione fisica e intellettuale degli esseri umani soggetti ad esso. Il nazismo riprende questi metodi impiegati dal capitalismo nella sua prima fase e poi abbandonati al suo apogeo: è la tendenza più profonda del capitalismo nella sua decadenza. Hitler rappresenta il primo balbettio di quello che verrà se permane il sistema capitalista: lo sfruttamento schiavistico dei lavoratori sarà accompagnato da un’oppressione genocida delle razze considerate “inferiori”, applicata con tutta la forza dell’apparato statale, come fece Hitler con la sua Gestapo e le sue SS. E che questa sia una tendenza del capitalismo lo dimostra l’esempio che ho appena fornito, degli effetti della fame in Brasile, dove non esiste uno Stato totalitario come quello nazi. Si dice che lo stesso valga per l’India, che si vanta sempre di essere la democrazia più popolosa del mondo.

Lei traccia un parallelismo fra il nazismo, l’apartheid e il sionismo. È stato mai accusato di antisemitismo per questo?

Sì, la sinistra sionista mi accusa di essere antisemita, soprattutto perché sostengo che è necessaria la distruzione dello Stato sionista. Come marxista, parto dal presupposto che il proletariato di una nazione che ne sfrutta e opprime un’altra, come fa Israele con gli arabi e i palestinesi, non può liberarsi. La classe operaia ebraica è erede di una gloriosa tradizione nella lotta di classe: il cammino del proletariato occidentale, compreso quello argentino, è disseminato di una moltitudine di eroici combattenti ebrei. Ma questo proletariato non potrà andare fino in fondo, né rinverdire e superare la sua gloriosa tradizione, finché non si metterà dalla parte dei palestinesi e degli arabi, che sono repressi, perseguitati, e schiavizzati dallo Stato di Israele. Il genocidio è una costante del sionismo, dai primi anni fino alla recente invasione del Libano e al massacro dei campi di Sabra e Chatila. Chiamarci antisemiti è una trappola per sprovveduti. È come dire che un tedesco che voleva la sconfitta della Germania nazi era antitedesco; o che chi vuole spazzare via la repubblica boera perché è antinera è un razzista perché è contro i contadini boeri. La domanda a cui rispondere riguardo alle relazioni fra popoli, razze, nazioni e classi è molto semplice, io direi troppo semplice: chi opprime, chi è l’oppresso? Per un marxista rivoluzionario, la risposta è tanto semplice quanto la domanda: siamo contro gli oppressori e a favore degli oppressi. Difendiamo alla morte questi ultimi, senza rinunciare a segnalare, quando è necessario, gli errori della loro direzione. Il terrorismo arabo è una tattica aberrante, totalmente sbagliata, e perciò lo diciamo. Ma noi restiamo al fianco dei palestinesi e degli arabi, difendendo questi combattenti sebbene impieghino tattiche aberranti e mostruose, che vanno contro gli interessi dei loro popoli. L’essenziale per noi è che questo terrorismo è il prodotto della disperazione dei giovani palestinesi che vivono in condizioni simili a quelle dei campi di concentramento nazi. Guardi le foto degli abitanti di questi campi: hanno la pelle attaccata alle ossa. Mostrano la stessa condizione dei sopravvissuti dei campi di Buchenwald e Auschwitz, quando furono liberati alla fine della guerra. Il colpevole è lo Stato di Israele, appoggiato, disgraziatamente, dal suo popolo; così come lo Stato nazi, durante i suoi primi anni, ha avuto l’appoggio della maggioranza del popolo tedesco. Non ha importanza che questi campi si trovino dentro o fuori dei confini di Israele: la loro esistenza è dovuta all’espulsione dei palestinesi dalla loro patria. La somiglianza con lo Stato boero e il nazismo salta agli occhi. Il nazismo non solo perseguita la sinistra ma impiega i metodi più selvaggi di guerra civile contro le altre razze, principalmente contro gli ebrei. Noi abbiamo sempre lottato in prima fila contro le manifestazioni di nazismo, e difenderemo incondizionatamente gli ebrei. Quando uno appartiene a una razza o nazione sfruttatrice in lotta contro una nazione o nazionalità oppressa, se è un marxista rivoluzionario conseguente, è per il disfattismo rivoluzionario. Il male minore è la sconfitta del proprio paese o nazionalità. Lenin era a favore della sconfitta russa nella guerra russo-giapponese e nella Prima Guerra Mondiale, e quindi lo chiamarono traditore, antirusso, razzista, spia tedesca. E i nostri compagni ebrei che combattono il sionismo li chiamano traditori, rinnegati, antisemiti, perché si oppongono all’oppressione e al genocidio degli arabi e dei palestinesi da parte dello Stato di Israele. L’oppressione razziale in Israele e Sudafrica è una manifestazione moderna della barbarie nazi, dimostra ancora una volta che dove c’è capitalismo il nazismo è dietro l’angolo se non è fermato dal movimento di massa. E anche senza arrivare agli estremi mostruosi del nazismo e dei suoi fratelli minori, il sionismo e l’apartheid, lo sviluppo economico stesso del capitalismo porta ai casi del Nordest brasiliano e dell’India: nanismo, abbrutimento progressivo e cumulativo. Questo è ? tornando a quello che dicevo all’inizio ? il significato dell’alternativa ‘socialismo o barbarie’.

‘Socialismo o barbarie’ significa lo stesso che ‘socialismo o olocausto’? Perché lei, nei suoi ultimi scritti, usa questa espressione.

È la stessa antinomia, ma a un livello qualitativamente superiore, perché significa che l’alternativa al socialismo non è, come prima, un regresso alla barbarie, con la devastazione di paesi e civiltà ? come avvenne nelle due guerre mondiali ? ma la distruzione pura e semplice dell’umanità, la scomparsa della vita animale e vegetale dalla Terra. Abbiamo parlato un attimo fa di come il capitalismo distrugge l’uomo. Però l’uomo non è l’unica vittima. Il capitalismo, nella sua attuale faccia imperialista, non è affatto “democratico” con la natura: la distruzione della flora e della fauna, l’inquinamento atmosferico e dell’acqua e di tutto l’ambiente per i rifiuti industriali e soprattutto nucleari avanzano a un ritmo vertiginoso. La depredazione della fauna, sia per la caccia sportiva sia per la produzione capitalistica, è un fatto riconosciuto da tutto il mondo, compresa Brigitte Bardot…

Ma il capitalismo rimpiazza anche, per così dire, le risorse naturali. Mi riferisco, per esempio, alle sementi ibride che hanno prodotto la cosiddetta rivoluzione verde.

Esattamente a questo stavo per riferirmi, perché gli ibridi sono un esempio di come anche le grandi scoperte della scienza si ritorcano contro la natura quando le utilizza il capitalismo. Al capitalismo interessano solo gli ibridi ad alto rendimento economico. Allora si preparano grandi estensioni di terreno per seminarle con queste sementi, il che significa che la flora naturale, di scarso rendimento economico, viene distrutta. Così scompaiono decine di piante e semi, semplicemente perché non rendono come gli ibridi. Scompaiono anche specie animali la cui caccia dà profitti ai borghesi o soddisfazione personale al cacciatore…

Però, per rapida che sia la scomparsa delle specie e la distruzione dell’ambiente, il termine ‘olocausto’ suggerisce qualcosa di brutale e repentino.

Effettivamente, il vero olocausto è la possibilità reale di una terza guerra mondiale che eliminerebbe ogni forma di vita dal nostro pianeta. L’amministrazione Reagan parla della terza guerra e si prepara intensamente ad essa, senza nemmeno provare a nasconderlo. Condivide la filosofia e i dogmi religiosi di un’importante setta ultrareazionaria degli Stati Uniti. Un po’ di tempo fa ho letto su Le Monde Diplomatique che questa setta sostiene, in un’interpretazione del libro biblico dell’Apocalisse, che sono prossimi i tempi di una guerra mondiale che sfocerebbe nell’Armageddon, termine ebreo che designa il luogo in cui si combatterebbe la “battaglia definitiva del bene contro il male”. In questa guerra finale gli ebrei e i non credenti saranno sterminati e per i credenti “verranno un nuovo paradiso e una nuova Terra”. Che Reagan sia un devoto credente di questa filosofia con vesti bibliche non è mia invenzione: nella sua prima campagna elettorale disse, in un discorso, “forse noi apparteniamo alla generazione che vedrà l’Armageddon”. E più recentemente ha insistito: “Quando consulto i profeti dell’Antico Testamento ed esamino i segni che preannunciano un Armageddon, mi domando se non apparteniamo alla generazione che lo vivrà”. Durante l’ultima campagna elettorale, eminenti responsabili delle comunità ebraica e cristiana, come anche evangelici e protestanti, hanno attaccato Reagan senza pietà. Hanno detto che una nuova ideologia religiosa era entrata nel paese, l’ideologia dell’apocalisse nucleare. E, per finire con questo tema, guardi questa citazione, è di Caspar Weinberger, il ministro della Difesa di Reagan e uno degli uomini a lui più vicini: “Ho letto il libro dell’Apocalisse e penso che il mondo si incammini verso la sua fine, spero per la volontà di Dio. Ogni giorno mi dico che ci resta poco tempo”. Alla luce di queste citazioni categoriche, qual è l’obiettivo di questo tremendo dispositivo di armi nucleari che sta mettendo su Reagan e che i giornalisti hanno chiamato “guerre stellari”? Secondo me, non può essere altro che accelerare i preparativi della guerra definitiva contro il Male, cioè, in termini di politica internazionale terrestre, la terza guerra mondiale contro l’Unione Sovietica e tutta l’umanità. Ora, non è casuale che una coppia di pazzi e irresponsabili come Reagan e Weinberger governino il paese più potente della Terra. Al contrario, questo è dovuto al fatto che la borghesia diventa sempre più irrazionale davanti all’avanzata della rivoluzione mondiale e, come Hitler, ogni giorno più pericolosa. Mi sono diffuso tanto in queste citazioni e commenti su questo tema fondamentale per chiarire bene che il governo dell’imperialismo yankee non solo si prepara in fretta a iniziare la terza guerra mondiale, ma che ha già messo su un’ideologia religiosa per giustificarla. Questo significa che la scomparsa dell’umanità è un pericolo concreto, immediato, se i lavoratori di tutto il mondo, principalmente i nordamericani, non sconfiggono i padroni imperialisti che li governano. In altre parole, socialismo o olocausto.

Passando a un altro aspetto della questione, il capitalismo non si sta rafforzando? Per esempio, Alfonsín ha detto in un discorso3 che c’è stato un miglioramento nella situazione economica di paesi come Germania e Giappone. Ha citato anche paesi non imperialisti, come Corea, Singapore e Taiwan.

Non è così, in nessun modo. Dal punto di vista di ciò che si chiama la qualità della vita, come anche della capacità di alimentazione e altre necessità vitali, non c’è stato miglioramento in nessuno di questi paesi negli ultimi anni…

Però, per esempio, Neustadt4 ha un argomento convincente: dice che la Germania alla fine della guerra stava molto peggio dell’Argentina al giorno d’oggi, era un paese in rovina. Adesso sta molto meglio, e ci è riuscita grazie al sistema capitalista.

In questo ha assolutamente ragione. Il boom capitalistico del dopoguerra giovò ai paesi imperialisti, e anche agli Stati operai, che migliorarono enormemente il loro tenore di vita. L’URSS migliorò anche la sua capacità di alimentazione e il risparmio di denaro. Questa è un’amara verità. Il problema è che ogni analisi, oltre che statistica, dev’essere storica, dinamica. Bisogna esaminare i processi nel loro complesso e nella loro dinamica, rispondere alla domanda: “da dove viene, dove va?”. Non è sufficiente esaminare la situazione di un settore del sistema capitalista in un determinato momento e basta. È indiscutibile che a partire dall’anno 1950 ? dal ’40 negli Stati Uniti ? cominci un miglioramento nel tenore di vita, un avanzamento colossale nell’economia dei paesi capitalisti, principalmente quelli imperialisti, che si prolunga fino alla fine degli anni Sessanta. A cosa fu dovuto questo boom? A mio parere, a un insieme di circostanze molto speciali. Una di esse è che Hitler era riuscito a ridurre il tenore di vita degli operai tedeschi a un terzo del loro livello d’anteguerra. Lo stesso avvenne negli Stati Uniti, durante la crisi del 1923-’39. Un’altra è che i partiti comunisti che dirigevano la classe operaia, invece di lottare per il rovesciamento del capitalismo e la creazione di Stati operai in Europa e Asia, cosa che si sarebbe potuta ottenere, entrarono nei governi borghesi per convincere i lavoratori che dovevano sforzarsi nella produzione per arricchire i capitalisti, il che avrebbe giovato a tutta la società. Per fare un solo esempio fra molti, alla fine della Seconda Guerra Mondiale la borghesia francese si trovava in stato comatoso. Al contrario, il movimento operaio non solo era in ascesa per la disfatta del nazismo, essendo stato il fulcro della Resistenza, ma avrebbe anche potuto armarsi e far entrare in uno stato di crisi totale l’esercito e la polizia che erano stati collaborazionisti e si ritrovavano moralmente distrutti. Il PC godeva di grande prestigio e influenza per la sua partecipazione alla Resistenza. E li usò per disarmare la classe: il suo capo Maurice Thorez5 accettò un posto di ministro nel governo di De Gaulle e chiamò i lavoratori a deporre le armi per lavorare per la ricostruzione del paese, cioè la sua ricostruzione capitalista. Bene, il boom c’è stato, questo è innegabile, così come il miglioramento nel tenore di vita delle masse. La questione è se la situazione continui a migliorare o, quanto meno, si mantenga il tenore di vita raggiunto. La realtà mostra tutto il contrario: dal ’68, approssimativamente, si osserva una curva discendente, molto più ripida nei paesi arretrati che in quelli industrializzati, ma la tendenza è la stessa in tutto il mondo. Proprio come in Argentina, la miseria aumenta in tutti i paesi del mondo, assolutamente tutti, compreso il Giappone. Non c’è un solo paese capitalista al mondo in cui migliori il tenore di vita delle masse lavoratrici. La Legge assoluta è che negli ultimi vent’anni, approssimativamente, aumentano la fame e la miseria e diminuiscono i salari. I paesi che noi chiamiamo imperialisti ereditano una grande ricchezza dal passato: là il calo non è molto marcato. Nei paesi dipendenti, come l’Argentina, la caduta è direttamente a picco. Ci saranno nel mondo un centinaio di paesi come l’Argentina, contro venti paesi come la Germania e altri che ci si citano a esempio. In quanto ai quattro dell’Asia ? Corea del Sud, Singapore, Hong Kong e Taiwan ?, è vero che hanno un elevato volume di esportazioni, ma al costo di una miseria e uno sfruttamento terribili. Non esiste la giornata di otto ore e i salari sono bassissimi. E che succede negli Stati Uniti? Ho appunto qui sulla mia scrivania questo supplemento domenicale del New York Times, con un servizio speciale sulla povertà negli Stati Uniti6. Dice che il numero di persone il cui reddito è al di sotto di quella che chiamano la “soglia di povertà” è aumentato di dieci milioni dal 1978 ad oggi. E guardi queste cifre: il 22,2% dei bambini sono poveri, e se si prendono solamente i bambini neri la cifra è del 46,7%. E c’è di più: una commissione di medici dell’Università di Harvard dice che ci sono venti milioni di nordamericani denutriti, e chiama ciò una “epidemia di povertà”. Inoltre le statistiche europee dicono che in Europa occidentale c’è l’11,5% di disoccupati, cioè più di venti milioni di operai senza lavoro. Il primato spetta all’Inghilterra, con tre milioni7. Se Neustadt e quelli che la pensano come lui hanno ragione, se la situazione dei paesi industrializzati migliora giorno dopo giorno, che significano queste statistiche?

Benissimo, partiamo dal presupposto che il capitalismo è in profondo declino ma che, d’altra parte, non si può arrivare al socialismo mediante un processo naturale di evoluzione sociale. È per questo che i marxisti sostengono che solo la classe operaia può risolvere questa crisi, giusto?

La classe operaia organizzata, e con una direzione che sia all’altezza del grande compito che ci è posto, che è la conquista del potere per distruggere il sistema capitalista e riorganizzare l’economia su nuove basi. La nostra non è una religione, non abbiamo fede religiosa nella classe operaia. Se questa, coi suoi partiti e direzioni, non riuscirà a rovesciare il capitalismo, la situazione peggiorerà sempre. Ora, affermiamo senza dubbio che esiste una lotta sistematica, eroica, dei lavoratori di tutto il mondo contro il sistema capitalista e imperialista. Come in ogni lotta, non si può dire in anticipo chi la vincerà. Ciò che è innegabile è che questa lotta esiste: in Brasile, in Argentina, in Inghilterra con lo sciopero dei minatori, eccetera, eccetera. La questione è sapere se la classe operaia saprà dotarsi della direzione adeguata. Alcune scuole moderne di ricerca storica come quella di Wallerstein e altre ? io non condivido i loro principi fondamentali, ma dal punto di vista empirico sono molto serie ? sostengono che nel XIV secolo iniziò un grande processo rivoluzionario di contadini e artigiani contro i signori feudali, che durò un secolo e mezzo, approssimativamente. Si susseguirono guerre tremende, fino a quando i contadini e gli artigiani furono sconfitti. Tuttavia i proprietari terrieri compresero la necessità di cambiare il sistema feudale, si trasformarono in possidenti capitalisti e imposero governi assolutisti, gli Stati moderni. Così si verificarono le rivoluzioni borghesi che diedero origine al moderno sistema capitalista. Perry Anderson8 sostiene il contrario, che le monarchie assolute erano feudali, non capitaliste: erano una forma di resistenza feudale all’avanzata del capitalismo e all’ascesa del movimento di massa. Qualcosa di simile al totalitarismo reazionario moderno, che è difensivo in relazione al movimento operaio e popolare. Non so chi abbia ragione, ma entrambi hanno un metodo serio per studiare e interpretare la storia, perché prendono come fulcro la lotta di classe. Secondo Wallerstein, è ozioso speculare su che tipo di società avrebbero creato i contadini e gli artigiani in caso di successo; ciò che importa segnalare è che ebbero la possibilità di cambiare la società, e lottarono ferocemente per un secolo e mezzo. Questo esempio è valido per l’oggi, sebbene ci troviamo a un livello molto superiore, poiché la classe operaia è molto più capace degli artigiani e dei contadini medievali. Disgraziatamente, lo stesso avviene con il capitalismo, che possiede molto più talento proprio ? o affittato ? dei proprietari terrieri feudali.

Parliamo, allora, delle prospettive della rivoluzione.

Se la guardiamo dal punto di vista della direzione, per ora la prospettiva non è molto rosea. Non esiste una grande direzione internazionale, con influenza di massa, che si ponga nell’ottica di sconfiggere l’imperialismo, principalmente quello yankee, appoggiandosi al proletariato dei paesi più progrediti del mondo, compreso quello russo. Ora, sebbene questo aspetto sia molto importante, quello decisivo è la grande lotta che stanno conducendo le masse contro il capitalismo e l’imperialismo a livello mondiale. La madre di tutto è se le masse lottano, il che porta anche a testare direzioni e ad essere molto ottimisti. Cioè finché c’è lotta possono emergere e mettersi alla prova nuove direzioni. È il processo che io guardo; vecchie direzioni in crisi, giovani dirigenti che emergono e possono sperimentarsi in lotte incessanti.

Lei parla di essere ottimisti. Non abbiamo superato un po’ il limite nel valutare le lotte in America Latina?

Ammetto che una cosa è essere ottimista e un’altra è esagerare i successi. Detto questo, io sono dell’avviso che qui siamo in lotta contro l’imperialismo, e che le nostre analisi siano state obiettive. Un paio di anni fa tutti i paesi del Cono Sud erano dominati da feroci dittature, adesso restano solo quelle di Cile e Paraguay. Per me, questo è un trionfo della lotta e della resistenza dei lavoratori, un trionfo spettacolare. Chi sostiene che non c’è un processo rivoluzionario in corso in America Latina e che le masse lavoratrici e la classe operaia non stanno lottando dice inconsciamente che i governi di Bignone, Álvarez, García Meza e Figuereido sono stati progressisti, poiché ad essi dobbiamo le libertà democratiche di cui stiamo godendo attualmente. Io sono convinto, al contrario, che questi dittatori sanguinari siano stati rovesciati dalla lotta delle masse, non per gentile concessione dei militari e dell’imperialismo.

In questo caso, lei direbbe che gli Stati Uniti avrebbero preferito che continuassero le dittature?

Forse no. L’imperialismo deve anche adattarsi all’ascesa rivoluzionaria delle masse. Per esempio Rockefeller ha elogiato l’attuale regime angolano… che gli ha dato concessioni petrolifere. Per me, la più grande virtù del capitalismo su scala mondiale e storica è la sua capacità di adattamento, che è legata al commercio. Non c’è capitalismo senza commercio, e commercio significa scambio fra disuguali. Quindi negozia, è assimilato, si combina con diversi regimi. Lo scambio gli infonde un dinamismo tremendo. Questo ha il suo riflesso sul piano politico: reprime o tratta in conformità alle sue necessità. La sola cosa su cui non si metterà mai a negoziare è la rivoluzione mondiale, perché significa la propria fine. Ma oggi vediamo come un settore della borghesia mondiale tratti con il Nicaragua per vedere se riesce a paralizzare la rivoluzione, come in precedenza hanno paralizzato la rivoluzione portoghese, ed evitare in questo modo nuovi successi rivoluzionari. Ora, io credo che la logica oggettiva di questi successi è che continueranno a progredire. Vediamo un’analogia. Gli storici argentini discutono se il Giorno dell’Indipendenza sia il 25 maggio o il 9 luglio. La dichiarazione di indipendenza fu firmata il 9 luglio 1816; tuttavia non è un caso che si festeggi il 25 maggio 1810, quando fu rovesciato il viceré spagnolo e fu creato il primo governo argentino, perché entrambi i fatti sono intimamente uniti, uno è la continuazione dell’altro. Bene, quando la rivoluzione nicaraguense procederà all’espropriazione della borghesia, il popolo avrà due date da festeggiare: la caduta di Somoza sarà il suo “25 maggio”, l’espropriazione della borghesia il suo “9 luglio”.

Lei direbbe che la nascita di ogni rivoluzione sia più difficile della precedente? Forse l’imperialismo ha guadagnato in esperienza dopo la Rivoluzione Cubana.

È vero che al giorno d’oggi non succede niente di simile al periodo fra il 1945 e il 1951, quando il movimento di massa espropriò la borghesia in un terzo del mondo. Sembrerebbe che si sia indebolita la spinta rivoluzionaria e a ciò si aggiunge il fatto che lo stalinismo mondiale cerca attivamente di evitare che si espropri la borghesia. Tuttavia credo che dopo Cuba e il Vietnam stia diventando sempre più facile fare la rivoluzione. Il problema è che, per noi, rivoluzione non è solamente l’espropriazione della borghesia. I processi nel Cono Sud, America Centrale, compreso il Perù, la liberazione di Angola e Mozambico, la caduta dello Scià di Persia, la lotta dei neri contro l’apartheid in Sudafrica, dimostrano che c’è una colossale ascesa rivoluzionaria. A questo si sommano le grandi conquiste delle masse nei paesi dell’Europa orientale.

Dopo faremo riferimento a questo specificamente.

D’accordo, però lo segnalo qui perché è parte del processo generale mondiale. Nell’Europa orientale si sono ottenute alcune conquiste democratiche.

Ma dov’è il fulcro della rivoluzione mondiale? Mi riferisco alla rivoluzione che espropria la borghesia. Se le masse lottano in tutto il mondo, dov’è l’avanguardia di questa lotta? Come vede lei la carta geografica rivoluzionaria del mondo?

Per me, il nostro continente è l’avanguardia, non si discute. Mi riferisco all’America Latina nel suo insieme. In un’altra fase si potrebbe differenziare il Cono Sud dall’America Centrale. Al giorno d’oggi, l’unico paese che sembra estraneo a questo processo è il Messico. È molto importante, perché il proletariato latino-americano si collega con il processo del proletariato europeo e nordamericano. Congiunturalmente, credo, fu avanguardia il proletariato inglese. Lo è stata anche, verso la fine degli anni Settanta, la classe operaia polacca e così quella iraniana. Attualmente ci sono processi rivoluzionari in tutto il mondo. In Nordamerica c’è un processo molto serio di solidarietà col Sudafrica. Tutto questo si produce in uno scenario di crisi senza via d’uscita a breve termine.

Recentemente lei diceva che il futuro della rivoluzione si giocava in El Salvador.

Mi riferivo alla rivoluzione centroamericana, che in quel momento era il centro indiscutibile del processo prerivoluzionario mondiale. Quello che dicevamo un anno fa o due relativamente alla rivoluzione centroamericana si è esteso a livello mondiale. Il processo della lotta delle masse e la crisi dell’imperialismo si sono intensificati. Le lotte nel resto del Sudamerica hanno pareggiato la situazione con El Salvador.

Diceva anche che una vittoria della rivoluzione salvadoregna avrebbe avuto ripercussioni all’interno degli Stati Uniti.

Questo continua a essere valido. La vittoria della rivoluzione in El Salvador avrebbe ripercussioni enormi in America Centrale, Messico e Stati Uniti. In Nordamerica, l’immigrazione latino-americana ha una caratteristica particolare, è l’unica che non ha adottato la lingua inglese, bensì conserva e coltiva lo spagnolo. Non è come la comunità italiana, per esempio, che ha abbandonato l’italiano o lo parla solo in famiglia. Questo preoccupa molto l’imperialismo, perché una parte degli Stati Uniti comincia a diventare una società bilingue. Ho letto degli articoli giornalistici in cui si dice che il governo yankee è molto preoccupato per la tendenza dello spagnolo a trasformarsi in lingua dominante in alcune zone.

In alcuni Stati hanno dovuto introdurre il bilinguismo nella pubblica amministrazione.

Sì, in California, Texas o Florida uno ascolta un giudice o qualsiasi altro funzionario, e parla correttamente lo spagnolo. L’altro giorno ho visto in un notiziario televisivo un commissario di polizia della Florida, il tizio parlava spagnolo senza accento da gringo. Dunque, tornando a quello che dicevamo prima, credo che un successo in El Salvador avrebbe un impatto tremendo negli Stati Uniti. Lo stesso accadrebbe con un successo in Colombia, sebbene non ci siano molti colombiani in Nordamerica.

Mi piacerebbe conoscere la sua opinione sul Medio Oriente, sia pure sinteticamente.

Ho l’impressione che il Libano abbia rimpiazzato l’Iran come centro regionale della rivoluzione. Guardi la batosta che sta ricevendo lì l’imperialismo. I giornali dicono che il Libano è diventato una terra di nessuno. Come descrizione non è male, ma come caratterizzazione è un errore: la verità è che l’imperialismo e Israele sono scappati a gambe levate, e questo è un trionfo delle masse.

Dei palestinesi?

No, no, delle masse arabe. È qualcosa di molto più ampio di un successo dell’OLP. Questa da sola non potrebbe sconfiggere l’imperialismo e Israele. Sono state le masse arabe con la loro lotta. Questo avrà un tremendo effetto di rimbalzo su Israele, nell’esercito e fra i lavoratori. Con la rissa per la morte dei soldati israeliani, la guerra contro il Libano ha cominciato a trasformarsi di fatto in guerra contro il governo israeliano. È un processo interessantissimo, quasi di trasformazione della guerra imperialista in guerra civile. Se l’esercito israeliano fosse rimasto più a lungo in Libano, credo che tutto sarebbe saltato in aria. Inoltre, se il proletariato israeliano esce a combattere, la lotta acquisirà un’unità che al giorno d’oggi non ha. È un proletariato moderno, molto capace. L’imperialismo è consapevole del problema, ecco perché manda montagne di dollari a Israele. Se l’imperialismo abbandona Israele e il proletariato si gira[3], salta tutto il Medio Oriente, che diventerebbe irrecuperabile per gli yankee.

Torniamo un po’ sul tema delle prospettive generali. Gunder Frank9 sostiene che è impossibile trionfare contro forze così poderose come l’imperialismo e la burocrazia con le loro armi nucleari.

Per me questo è un punto di vista esterno ai processi della lotta di classe. Se Gunder Frank si riferiva alla necessità di guadagnare il proletariato e le masse dei paesi avanzati, fondamentalmente gli Stati Uniti, per sconfiggere definitivamente l’imperialismo e fare la rivoluzione, sono d’accordo con lui. Finché ciò non accadrà il governo yankee avrà sempre la possibilità di lanciare una bomba atomica su qualsiasi paese in cui il proletariato prenda il potere; questo non si può negare. Gunder Frank è un magnifico intellettuale rivoluzionario, non ho dubbi. Però sostengo che il suo pessimismo parte da un punto di vista esterno, superficiale, perché egli crede che solo le masse dei paesi dipendenti combattano l’imperialismo. Dimentica, per esempio, il ruolo del movimento nordamericano contro la guerra nel successo della rivoluzione vietnamita. Fu un fattore molto potente, anche se il proletariato non partecipò massicciamente. Ritengo che la classe operaia nordamericana diventerà una forza irresistibile quando si metterà in marcia, e che prima o poi lo farà.

La questione è quando lo farà. Nei paesi dipendenti la fame è tanta. Il proletariato bianco degli Stati Uniti per adesso non soffre la fame. Fra venti o trent’anni, forse…

No, no. Io vedo un aumento colossale della povertà. Quindi insisto, contro quello che dice Neustadt, nel dire che c’è un aumento quantitativo della povertà negli Stati Uniti.

Ma ogni operaio nordamericano ha l’auto. Se passa dall’avere due auto a una sola, o da una grande a una piccola, per questo ci vogliono tipo dieci anni, come minimo.

È qui che non sono d’accordo. Un uomo abituato a un’auto grande si difende con le unghie e con i denti se lo obbligano ad accontentarsi di un’auto piccola.

Accontentarsi di un’auto piccola quando si era abituati a una grande non è lo stesso che accettare di mangiare poco quando si mangiava bene.

Non credo in questa graduazione. Non credo che il processo rivoluzionario inizi solo quando si finisce in completa miseria.

Intendo dire che uno non affronterà tutto un sistema per il fatto che gli tolgono un’auto grande per dargli un’auto piccola, ma in fondo un’auto.

Nessun operaio la pensa in questo modo. Nessuna classe sociale è disposta a cedere con piacere quello che possiede, e questo vale tanto per gli sfruttatori quanto per gli sfruttati; è una legge della storia. La borghesia difende il suo sistema e non cede assolutamente niente, a meno che non la obblighi la lotta di classe. Dissento completamente dall’idea che un operaio ceda volentieri una conquista, che sia il cambio di un’auto grande con una più piccola, o che si accontenti di un paio di scarpe se ne aveva due. È qui che inizia la lotta di classe. In Europa ci sono state battaglie colossali per un due per cento di aumento. In Belgio l’auto è stata un’arma di lotta colossale, ci sono stati scioperi propagati da migliaia di operai nelle loro auto. Quindi, quando la borghesia vuole togliergli qualcosa, l’operaio non lo accetta, e la lotta di classe accelera. Non esiste collaborazione di classe per cui una classe regali qualcosa all’altra, che sia la borghesia al proletariato o viceversa. C’è sempre lotta. Adesso discutiamo di che tipo di lotta. Supponiamo che la lotta sia condannata all’insuccesso perché la borghesia non può concedere niente. Quest’anno l’operaio deve cambiare l’auto grande con una piccola e l’anno prossimo rimane senza auto. Allora lotta, all’inizio non contro il sistema ma contro il suo padrone, che gli ha abbassato il salario e non gli permette di mantenere l’auto grande. L’anno seguente lotta perché gli tolgono l’auto piccola, e l’altro perché gli tolgono il pane. Sto parlando della dinamica del processo, che può essere più o meno rapida. L’operaio vede che lo stanno picchiando, forse all’inizio con colpi lievi, non colpi di maglio, e poi vede che succede lo stesso all’operaio di un altro ramo d’industria. Così, dalla pratica della sua vita, inizia a trarre la conclusione che è il sistema che non va. Questo processo, che per me è inevitabile, ha un grande inconveniente. Le direzioni dicono al movimento operaio che deve accettare dei sacrifici ? l’auto piccola invece della grande ? perché fra quattro o cinque anni la situazione migliorerà. In realtà, la situazione peggiora continuamente.

Stando così le cose, come spiega che le grandi battaglie di classe, le lotte per il potere, si verifichino in El Salvador, in Medio Oriente, in Bolivia?

Noi abbiamo un modo di dire, secondo cui nei paesi sviluppati c’è molto grasso. In altre parole, in questi paesi c’è molta ricchezza accumulata, quindi il calo del tenore di vita e l’aumento del grado di sfruttamento dei lavoratori non è così brusco come nei paesi che lei ha menzionato. In questi la quantità si è trasformata in qualità: al proletariato viene tolto tutto, gli si abbassa il tenore di vita da trent’anni o più. Al contrario, i paesi avanzati hanno attraversato un grande boom economico, e il grasso accumulato permette di concedere pensioni agli operai disoccupati. Questi paesi iniziano a dimagrire, però a partire da una grande obesità: la perdita di un paio di chili non li rende famelici.

È per questo, a suo avviso, che il proletariato europeo e nordamericano non mette ancora in discussione il sistema, non va più in là, per esempio, del cercare la sostituzione del governo Thatcher con un governo laburista?

Questa è una delle ragioni. Il proletariato occidentale non si convincerà che il sistema non va più finché il sistema non cadrà in uno stato canceroso, cancrenoso. In altre parole, non si può convincere nessuno che un organismo si trovi in stato di collasso se non si trova in stato di collasso. È semplice. I paesi capitalisti-imperialisti, come gli Stati Uniti, non sono arrivati a questo stato di disgregazione e cancrena. A questo fattore, che io chiamo oggettivo, se ne aggiunge un altro, tragico, che è quello della direzione. Mi riferisco soprattutto al ruolo che svolgono i partiti comunisti e l’URSS. Il proletariato d’Europa e degli Stati Uniti, anche quello canadese e quello australiano, è l’erede delle maggiori conquiste dell’umanità anteriori alla Rivoluzione d’Ottobre: le libertà democratiche. Gli operai nordamericani si sentono molto orgogliosi delle loro grandi conquiste democratiche, ottenute mediante due rivoluzioni, l’Indipendenza e la Guerra di Secessione. È giusto che sia così, ma adesso si tratta di superarle, ottenere conquiste molto più grandi in una società progressista, in cui esista la libertà creativa, l’indipendenza artistica, scientifica, giornalistica e di ogni tipo. Questa società può essere soltanto il socialismo. Ma quando guardano il panorama del supposto “socialismo” esistente, in cosa si imbattono? Nell’URSS, uno Stato totalitario in cui non c’è, per esempio, la libertà di criticare il governo o il regime né di formare un partito politico. Questo non significa che il proletariato dell’URSS non goda di libertà: le ha, e molto più grandi rispetto agli operai occidentali, però sono di un altro tipo. L’operaio russo ha il lavoro assicurato, non corre il pericolo della disoccupazione e della miseria, non è sottoposto a ritmi di lavoro infernali. Ci sono tre aspetti, in termini generali, in cui il proletariato degli Stati operai supera ampiamente i suoi fratelli di classe occidentali: condizioni di lavoro, medicina sociale e educazione. Da qui la solidità del regime dell’URSS. Tutto questo produce una lacerazione nella coscienza dei lavoratori di tutto il mondo. Il movimento operaio mondiale difende libertà diverse invece di prenderle nel loro insieme e lottare per una società nella quale regnino tanto le conquiste economiche e sociali degli operai russi quanto le conquiste democratiche degli operai nordamericani, ampliate ed estese. Le direzioni opportuniste, burocratiche e controrivoluzionarie del movimento operaio svolgono un ruolo fondamentale nel mantenere e approfondire questa dicotomia. Il burocrate sindacale yankee dice agli operai: “Bisogna appoggiare il partito democratico, che garantisce le libertà democratiche. È vero che c’è disoccupazione e che si abbassa il tenore di vita, ma qui possiamo criticare il governo, dire quello che vogliamo, nessuno va in prigione per aver detto quello che pensa, come nell’URSS”. Nell’URSS, la burocrazia al governo dice agli operai: “Guardate l’Europa occidentale, guardate gli Stati Uniti: là c’è disoccupazione, povertà, la medicina in molti di questi paesi è carissima. Volete un sistema come quello, in cui si può rimanere senza lavoro in qualsiasi momento?”. Le due burocrazie ritardano la consapevolezza della classe operaia, la tengono ammanettata. Le fanno credere che possa aspirare solo a un tipo di libertà, non a tutte.

Vale a dire che con questi metodi tanto l’imperialismo quanto la burocrazia sovietica cercano di mantenere il loro dominio.

Esattamente.

Lei direbbe che, eventualmente, sia l’uno che l’altra sarebbero disposti a “premere il pulsante” e scatenare la guerra atomica?

L’imperialismo sì, senza dubbio. Per quanto riguarda la burocrazia sovietica, non credo che prenderebbe l’iniziativa di premere il pulsante. Ciò è dovuto a ragioni economiche e sociali. La burocrazia, a differenza dell’imperialismo, non ha bisogno di dominare altri paesi. La “premitura del pulsante” obbedisce a leggi immanenti potentissime. Perché un pazzo prema il pulsante, sapendo che anche lui può morire, perché si verifichi simile irrazionalità, devono operare leggi del processo storico altrettanto irrazionali. La burocrazia fa una pessima gestione dell’economia dei paesi che domina, ma non obbedisce a una poderosa legge irrazionale come quella del capitalismo, che lo obbliga a dominare altri paesi e aumentare continuamente lo sfruttamento dell’operaio. Il capitalismo è il sistema di produzione che si vede obbligato inesorabilmente ad estendere il suo dominio, quindi vive in uno squilibrio permanente. Non ci può essere punto di equilibrio quando il sistema stesso obbliga le imprese e i paesi a cercare di dominarsi a vicenda. L’URSS con il suo governo, invece, non ha bisogno di sfruttare nessuno al di là dei suoi confini. Gli basta opprimere il suo proletariato; in questo senso è uguale alla burocrazia sindacale. Il carattere aggressivo[4], guerresco, è proprio del capitalismo, che non può evitare di sfruttare sempre di più il mondo intero. Al giorno d’oggi si parla della corsa agli armamenti e della grande produzione di armamenti, come se il capitalismo fosse mai stato diverso. C’è sempre stata una grande produzione di armamenti, grandi flotte ed eserciti mercenari, sotto il capitalismo; l’unica differenza è che oggi esiste la bomba atomica. Da quando è nato, il capitalismo è stato aggressivo, guerresco, ha speso tonnellate di soldi in armamenti. La premitura del pulsante è legata a questa tendenza profonda del capitalismo ad ampliare il suo dominio, schiacciare la classe operaia e i paesi arretrati per dominarli e sfruttarli. È la sua legge. E lo è molto di più al giorno d’oggi, quando affronta la rivoluzione mondiale che minaccia di liquidarlo. Torniamo all’esempio di Hitler, che anche in questo campo rappresenta la tendenza estrema del capitalismo. Non ho il benché minimo dubbio che Hitler avrebbe iniziato ad agitare bombe atomiche in tutte le direzioni. Meno male che non le aveva.

Se la burocrazia sovietica non ha la necessità di dominare altri paesi, perché invase la Cecoslovacchia nel 1968?

Avrei dovuto dire che non ha la necessità di dominarli economicamente…

Ma non li sfrutta?

Aspetti, mi lasci rispondere alla domanda precedente. L’invasione della Cecoslovacchia fu dovuta a ragioni politiche, non economiche. C’è una differenza. Lo stalinismo non può permettere l’esistenza di una democrazia operaia in nessun paese al mondo, men che meno in un paese di frontiera. Ecco perché ha invaso la Cecoslovacchia, ecco perché ha appoggiato il colpo di Stato di Jaruzelski in Polonia, e tornerà a farlo con tutta la durezza che le circostanze richiedano. Lo stesso fa la burocrazia sindacale quando emerge una direzione democratica in qualche sindacato o fabbrica.

In merito al fatto che li sfrutti o no, le cifre dimostrano che gli scambi commerciali fra l’URSS e gli altri Stati operai è molto contraddittorio, poiché avvantaggia vari Stati operai e non l’URSS. C’è uno studio molto serio, realizzato da una grande specialista in materia di URSS, Marie Lavigne, che non è simpatizzante del sistema sovietico. Lei tenta di dimostrare che l’URSS perde milioni di dollari nel commercio con gli altri paesi operai. Non mi risulta che sia così, però sottolineo che l’autrice è una specialista molto seria. Mentre l’imperialismo yankee saccheggia i paesi dell’America Latina, l’URSS compra zucchero da Cuba a prezzi superiori a quelli del mercato mondiale e gli vende petrolio a prezzi inferiori. Si potrebbe quasi dire che l’URSS sovvenziona Cuba. Che mi spieghino, altrimenti, com’è possibile che un paese piccolo e povero come Cuba abbia potuto fare meraviglie in materia di educazione e sanità pubblica. In questo ha superato quasi tutti i paesi del Terzo Mondo, compresa l’Argentina e il Brasile. Allo stesso tempo, il regime cubano è totalitario e molto simile a quello dell’URSS, è per questo che parlo di dominio politico, di oppressione, piuttosto che di sfruttamento.

L’invasione dell’Afghanistan non è stato un atto di aggressione imperialista?

Insisto sul mio criterio, l’URSS non estrae plusvalore dal lavoro delle masse afghane. Non ha invaso per garantire il funzionamento di “imprese sovietiche” che sfruttano operai afghani. In primo luogo, c’era un regime borghese in profonda crisi, sul punto di crollare, come in Bolivia qualche mese fa. Inoltre l’Afghanistan appartiene alla zona di sicurezza dell’URSS, e questo lo riconosce l’imperialismo stesso. Ma la cosa fondamentale è che, dopo la rivoluzione iraniana, la burocrazia non poteva permettere un nuovo processo rivoluzionario vicino al suo confine, avente per protagoniste le stesse etnie che vivono all’interno dell’URSS. Questo è un problema molto grave per la burocrazia, perché la comunità musulmana è quella in più rapida crescita demografica all’interno dell’Unione Sovietica. All’inizio i soldati della forza di occupazione erano musulmani, ma dovettero richiamarli e rimpiazzarli con truppe russe perché iniziavano a simpatizzare per la guerriglia afghana. Il motivo dell’invasione fu, specificamente, di impedire una rivoluzione simile a quella iraniana, che potrebbe destabilizzare i regimi burocratici delle repubbliche sovietiche musulmane del sud.

Lei simpatizza per la guerriglia afghana?

No, per niente. È una forza finanziata e armata dalla CIA; una forza totalmente ostile all’URSS. Però sostengo che la burocrazia fa il gioco dell’imperialismo, non solo perché viola il diritto all’autodeterminazione degli afghani, ma anche perché l’Armata Rossa agisce come una forza oppressiva che mantiene il sistema sociale esistente, senza creare uno Stato operaio. È il contrario di quello che fece dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando l’Armata Rossa cacciò i nazi dall’Europa orientale e fu un fattore fondamentale nell’espropriazione della borghesia e nella creazione degli Stati operai. Quest’ultima cosa, è necessario chiarire, fu parte della politica complessivamente controrivoluzionaria della burocrazia sovietica, poiché aiutò il capitalismo europeo occidentale a riprendersi dalle sue crisi, e all’Est espropriò politicamente la classe operaia del controllo del potere e dell’economia.

Alcuni ritengono che l’imperialismo possa “regalare”, diciamo, alcune zone del mondo al socialismo, come nel caso di Cuba.

Questo può essere solo temporaneo, è una situazione contraria alla legge del capitalismo. E se parliamo di un grande paese capitalista come la Francia, non lo può permettere neanche congiunturalmente, perché sarebbe un disastro. Là si verificherebbe quello che in sociologia si chiama effetto dimostrativo. Una Francia in cui si espropriasse la borghesia e si instaurasse il socialismo con democrazia operaia avrebbe un tremendo effetto dimostrativo, le masse occidentali vedrebbero la nascita di una civiltà superiore. Il pericolo di guerra mondiale e che si lanci la bomba esisterà finché esiste l’imperialismo. I pessimisti che dicono che la rivoluzione non può trionfare partono da alcuni fatti veri, ma ritengo che le loro conclusioni siano totalmente erronee. Un fatto vero è la possibilità storica della guerra atomica, che sarà iniziata, se si verifica, dall’imperialismo, non dall’URSS. È ugualmente vero che non si può accerchiare militarmente il Nordamerica. Si sbagliano quelli che credono che si possa prendere il potere in America Latina, costruire un potente esercito e unirci tutti per attaccare gli Stati Uniti, perché allora l’America Latina riceverebbe alquante bombe atomiche che lascerebbero grandi buchi dov’erano i centri di potere rivoluzionari.

Significa allora che la rivoluzione latino-americana deve aspettare ancora? Questo è ciò che ha detto Fidel Castro ultimamente.

No, precisamente il contrario. La rivoluzione nei nostri paesi accelererebbe enormemente la crisi dell’imperialismo, oltre a iniziare a risolvere i problemi più acuti dei nostri lavoratori. E, il che è fondamentale, farebbe colpo sui lavoratori degli Stati Uniti e di tutte le grandi potenze. Loro non li si può annientare con la bomba atomica.

Perché?

Per una ragione molto semplice: a New York, a pochi isolati dai quartieri nero e portoricano, ci sono lussuosi caseggiati di appartamenti della borghesia, con tappeto alla porta e portiere in livrea. Una bomba che cadesse su questi edifici miserabili dove vivono i portoricani distruggerebbe anche l’appartamento del borghese. Là la guerra fra le classi può essere solo la più primitiva, corpo a corpo, con il coltello in bocca, dentro e fuori dalle forze armate.

Da tutto quello di cui abbiamo parlato finora segue che le prospettive della rivoluzione dipendono da quello che succede nel centro del sistema capitalista-imperialista, cioè negli Stati Uniti. Di conseguenza, il compito fondamentale dei marxisti rivoluzionari consiste nel guadagnare alla rivoluzione il proletariato degli Stati Uniti.

È così, e sono contento che sia stato così chiaro come lei lo riassume. Sono sempre più convinto dell’importanza di questo compito.

La domanda è: come si collegano le lotte in America Latina con quelle dei lavoratori nordamericani?

Il collegamento diretto si avrà con la conquista del potere. Questo sarà il grande salto di qualità, e spero di poter vivere abbastanza per vederlo. Se arrivo a vedere la rivoluzione negli Stati Uniti, tanto meglio, ma io so che una vittoria in uno dei nostri paesi significherebbe la conquista del potere nel mondo intero, nel giro di pochi anni. Si tratta di ripetere quello che è successo in Russia sotto Lenin e Trotsky: una grande democrazia che sviluppi la scienza e l’arte, che accolga artisti e scienziati che vogliano andarci, e tutti quelli che si sentano perseguitati nei loro paesi. Perché un’artista come Isadora Duncan andò nell’URSS? Nessuno mi convince che fosse marxista. Andò là perché era il paese della libertà. Un fatto come lo sciopero minerario britannico, per importante che sia, non può fare colpo sulla classe operaia nordamericana. Al massimo può provocare un movimento di solidarietà con la lotta, o gli operai nordamericani potrebbero arrivare alla conclusione, per via empirica, che devono fare scioperi come quello inglese per ottenere aumenti del salario. Però, per dimostrargli che sotto l’economia pianificata può esserci un miglior tenore di vita e maggiori libertà che negli Stati Uniti, è necessario dargli una martellata nella coscienza che solo la presa del potere può dare. La classe operaia nordamericana è empirica. Quindi un grande successo rivoluzionario e la creazione di uno Stato operaio con democrazia faciliteranno enormemente il compito di guadagnarla alla rivoluzione.

Se una guerra civile costringesse lo Stato operaio a ridurre le libertà democratiche, non si indebolirebbe l’effetto dimostrativo?

Sì, ma riduzione non significa annullamento delle libertà. Di nuovo, l’esempio l’ha dato il regime sovietico dei primi anni. Nel mezzo della guerra civile che seguì la presa del potere, un gruppo simpatizzante della Seconda Internazionale attentò alla vita di Lenin e quasi lo uccise. Malgrado le circostanze, i terroristi furono sottoposti a pubblico processo e i bolscevichi invitarono Émile Vandervelde, che era segretario generale della Seconda Internazionale, ad agire con pieni diritti nel processo. Per quanto la propaganda imperialista confonda alcuni settori, non c’è modo di contraddire i fatti. In una situazione simile potremmo invitare dirigenti del movimento operaio nordamericano che fossero nostri avversari ? basta che fossero gente onesta, non burocrati ? a fare da difensori e perfino da giudici, e questo avrebbe un impatto enorme. L’operaio nordamericano potrebbe confrontare la situazione dei suoi fratelli di classe in uno Stato operaio con libertà democratiche e un tenore di vita in costante miglioramento con la situazione del suo paese, dove aumenta la disoccupazione e scendono i salari. Così inizierebbe una nuova fase nella storia dell’umanità. Lo stesso potrebbe succedere se si liberasse il proletariato dell’URSS, attraverso organizzazioni come Solidarnosc.

Lei è, allora, ottimista per quanto riguarda le prospettive della classe operaia nordamericana.

Sono marxista, mi baso su un’analisi scientifica. Se mi dimostrassero che le masse lavoratrici degli Stati Uniti avranno un miglioramento del loro tenore di vita, sarei un pessimista. Ma le leggi del capitalismo sono inesorabili, portano la borghesia yankee a sfruttare sempre di più i suoi stessi lavoratori, non solo quelli dei paesi dipendenti. Quindi non vedo alcun motivo per essere pessimista, o dire che le masse dei paesi avanzati non lotteranno. E quando lo faranno cambierà tutta la situazione, perché le masse nordamericane, ogni volta che sono entrate in lotta, sono state le più combattive del mondo. E, tornando ancora una volta a quello che dicevo prima, se non lottano magari neppure ci sarà bisogno di “premere il pulsante”, ma l’imperialismo continuerà a sfruttare l’umanità per un altro paio di secoli sotto nuove forme di barbarie e schiavitù. Ad ogni modo, insisto, la prospettiva più probabile che vedo è quella opposta.


Capitolo 2. Il partito rivoluzionario

Tutti i marxisti rivoluzionari hanno sottolineato l’importanza dell’organizzazione politica della classe operaia. Lei, Moreno, non è un’eccezione. Perché attribuisce tanta importanza alla costruzione del partito rivoluzionario?

Questo ha a che fare con un fenomeno storico e con la definizione marxista della storia. Iniziamo con quest’ultima cosa, per ampliare alcuni concetti che ho menzionato in precedenza di passata. Marx dice che la storia la fanno le classi, definizione che a me sembra corretta, ma un po’ sommaria. Nel definire la storia dell’umanità come storia della lotta di classe, parla di padroni e schiavi, signori feudali e servi, borghesi e proletari10. Io credo che la questione sia più complessa, poiché nel processo storico interviene anche lo Stato, settori e gruppi di classi e le loro direzioni e organizzazioni. Quindi è vero che la lotta di classe è il fulcro del processo storico, però in questa lotta intervengono settori, con proprie organizzazioni e direzioni, che si uniscono e si dividono. In altre parole, la storia è un prodotto non solo della lotta fra due classi antagonistiche ma di un processo molto più complesso, con lotte ? e unioni per lottare ? fra vari settori di due o più classi. Marx non ci ha lasciato definizioni teoriche precise per quanto riguarda i settori sociali, ma li analizzò nei suoi lavori storici specifici, che sono di una ricchezza enorme. Lì parla di molti settori, non solo di due o tre classi. Per esempio, in Le lotte di classe in Francia non menziona solamente borghesi e proletari, ma descrive un tessuto, una trama di gruppi sociali ? borghesi di diverse frazioni, proprietari terrieri, operai, contadini, piccoli borghesi e sottoproletari ?, e le loro rispettive organizzazioni e dirigenti. Per esempio, mostra come Napoleone III, che chiama una caricatura del vero Napoleone, si appoggiasse per le sue campagne politiche al sottoproletariato di Parigi11. Allora, quel che è geniale in Marx è la definizione secondo cui la storia la fanno le classi, non gli individui. Su questa base, dobbiamo rilevare che il processo è molto più complicato della definizione data nel Manifesto; Marx si avvicina a una definizione più corretta nei lavori storici.

Questi settori di classe svolgono ruoli diversi nella lotta di classe e nella società?

È così. Per esempio, nella Rivoluzione Russa non tutto il proletariato appoggiò la presa del potere. Ci fu un settore degli operai ferroviari, diretto dai menscevichi, che appoggiò direttamente la controrivoluzione. E, sebbene la classe media russa in generale stesse con la borghesia, un settore di essa, diretto dai socialrivoluzionari di sinistra, seguì i bolscevichi e partecipò perfino al primo governo sovietico. Come si vede, la trama sociale è complessa, non si riduce al confronto fra borghesi e proletari. Secondo l’etnologo francese Meillassoux la base sociale della produzione borghese nei paesi arretrati non è il proletariato ma il semiproletariato agricolo, perché la borghesia può pagargli salari molto bassi: questo operaio non dipende dal suo salario ma dalla sua famiglia agricola per il suo alloggio e il cibo, quindi il capitalista può pagarlo molto meno dell’operaio urbano. Qui abbiamo tutto un settore chiaramente capitalistico che non è operaio bensì una combinazione, semiproletario e semicontadino12.

Può soffermarsi un po’ di più sul ruolo dei dirigenti?

Ci stavo arrivando, appunto. Così come esistono classi e settori di classe, ognuno di questi possiede la sua direzione. A volte emerge un individuo che svolge un ruolo sociale, per esempio uno Spartaco. Nelle tribù ci sono dei capi. Cioè dove c’è un gruppo umano c’è qualcuno che dirige, una sovrastruttura. Con la Rivoluzione Francese nascono delle istituzioni nuove, inedite, preparate da tutto lo sviluppo precedente della borghesia, che sono i partiti politici. Allora, se non può esserci lotta senza direzione, possiamo ampliare la definizione precedente e dire che la storia dell’umanità è la storia della lotta di classe con i suoi settori e direzioni. E dopo la Rivoluzione Francese si sa che il modo migliore di organizzare queste direzioni consiste nel costruire partiti politici. Cos’è un partito? È un raggruppamento volontario che dirige o tenta di dirigere una classe o un determinato settore di classe ? perfino, in molte occasioni, un’alleanza di classi o settori ?, e assume caratteristiche permanenti in quanto a struttura, metodi operativi e programma. Passiamo adesso a un problema teorico molto importante. Marx ha sostenuto a suo tempo che alla classe operaia corrispondeva un solo partito. Poi è risultato evidente che nel proletariato c’erano diversi settori, coi loro corrispondenti partiti. Non si può negare che questi partiti dispongano di basi sociali molto solide: per esempio la socialdemocrazia, i partiti della Seconda Internazionale, si basano sull’aristocrazia operaia. Noi trotskisti pensiamo che il proletariato necessita di una direzione rivoluzionaria a livello mondiale, che al giorno d’oggi non ha. Per questo è necessario costruire il partito. È l’espressione moderna della direzione di una classe o un settore di classe.

Significa che l’ipotesi di Marx, “una classe operaia, un partito”, si è rivelata sbagliata?

Era giusta all’epoca e per qualche anno ancora, quando nacque e si formò il proletariato moderno. Nel secolo scorso, quando già esistevano molti partiti borghesi, i marxisti sostenevano che nel proletariato c’era una forte tendenza di tipo centripeto che favoriva l’esistenza di un solo partito, dato che la classe operaia è molto più omogenea della classe degli sfruttatori. In questo secolo la situazione è diventata molto più complessa, soprattutto a partire dall’ascesa dell’imperialismo. Abbiamo formazioni strutturali e storiche differenti, ci sono immigrati, ci sono mestieri o professioni diverse. È sorta la moderna classe media, che per me è un settore della classe operaia perché vive del suo stipendio. I diversi partiti operai rispecchiano settori diversi della classe, come avviene con la borghesia, sebbene il proletariato sia meno sparpagliato e non abbia mai avuto tanti partiti come quella. In Argentina dal 1930 abbiamo avuto il Partido Conservador, indiscutibilmente il rappresentante della classe dei proprietari terrieri. Ci fu il caso del generale Agustín P. Justo, che come presidente governò per conto dei conservatori, anche se lui stesso non lo era. Egli rispecchiava i settori radicali più legati all’imperialismo, avvocati di grandi imprese straniere, settori della classe media urbana aristocratizzati dalla colonizzazione imperialistica, insomma i settori anti-yrigoyenisti del partito radicale. Conservatore era Roca, il suo vicepresidente. I conservatori e i radicali “antipersonalisti” erano filoimperialisti, ma formavano due partiti perché questi rappresentavano la classe media benestante legata al porto, alle ferrovie, mentre i conservatori erano grandi caudillos agrari come le famiglie Patrón Costas, Saravia, Menéndez Behety, Anchorena, i grandi proprietari di ranch della provincia di Buenos Aires. L’arguzia popolare aveva ribattezzato i conservatori “bovini” e i radicali “pecorai”, perché il padrone delle vacche è più ricco del padrone delle pecore. Oltre ai due partiti borghesi ufficiali, c’erano radicali oppositori del governo Yrigoyen. Nella provincia di Santa Fe c’era il Partido Demócrata Progresista. Poi nacque un altro partito borghese molto complicato, il peronismo, che si appoggiava alla classe operaia. Per quanto riguarda i partiti operai, esistevano solo quello socialista e quello comunista, che sparirono dalla scena davanti all’esplosione del peronismo. Negli anni Quaranta c’era un colossale partito operaio, quello laburista, che fu liquidato da Perón nonostante avesse ricevuto il suo appoggio. Come si vede, sono pochissimi partiti operai. Generalmente in tutti i paesi ci sono uno o due partiti operai forti, o direttamente nessuno.

Esistono settori privilegiati della classe operaia?

Certo che sì. Nei paesi imperialisti ci sono settori operai che vivono delle briciole dello sfruttamento dei paesi dipendenti. Ma ce ne sono anche nei nostri paesi. Quando io ero giovane i lavoratori del giornale La Prensa erano molto privilegiati, difesero l’azienda a colpi di pistola contro il peronismo. Altro esempio simile è quello della tipografia Caravajal, di Cali, Colombia, dal punto di vista tecnico la più avanzata dell’America Latina: i suoi lavoratori guadagnano salari relativamente più alti di tutti gli altri e difendono l’azienda, come se non bastasse le direzioni delle grandi organizzazioni operaie, sindacati e partiti[5], hanno una vita privilegiata, molto simile a quella dei marginali benestanti che lavorano per il nemico di classe.

Quali settori rappresentano i partiti che si dicono di sinistra in Argentina?

Bene, iniziamo dal Partido Intransigente. Per me rappresenta settori di classe media, impiegati, però con una strana mescolanza perché ci sono anche settori radicali, caudillos radicali di paese, quello che chiamano il vecchio tronco radicale da cui si sono staccati. Ha anche la sua ala sinistra, ma come settore sociale è la classe media. Il peronismo raggruppa la classe operaia moderna, non immigrata ma nazionale. I tempi d’oro del peronismo coincidono con la prima grande migrazione interna argentina, dalla campagna alla città. I partiti operai possono anche riflettere diverse tradizioni. Il partito comunista argentino, per esempio, fu fondato da operai immigrati italiani. Questo aveva a che vedere col fatto che il Partito Socialista Italiano si oppose alla partecipazione dell’Italia alla Prima Guerra Mondiale. La borghesia italiana dipendeva sia dall’Inghilterra che dalla Germania e quindi non sapeva bene da che parte intervenire. Il PSI, allora, prese una posizione neutralista, non direttamente antimperialista e di trasformazione della guerra imperialista in guerra civile, com’era la posizione di Lenin e dei bolscevichi. In Argentina, la direzione del PS, di Juan B. Justo, Repetto e compagnia, era filoimperialista e sostenitrice dell’intervento nella guerra dalla parte degli alleati. L’ala degli operai italiani iniziò una polemica nel 1916 a favore delle posizioni dei suoi compagni del PS italiano e della neutralità dell’Argentina nella guerra. Quest’ala ruppe nel ’18 per formare il Partido Socialista Internacionalista, che nel 1920, sotto l’influenza della Rivoluzione Russa, aderì alla Terza Internazionale e prese il suo nome attuale, di Partido Comunista. Per quanto riguarda l’altra ala del socialismo, in questo periodo inizia a legarsi alla grande oligarchia argentina. Il vecchio Dickmann, membro di questa direzione, era medico, proprio come Juan B. Justo, e laureato con medaglia d’oro. Nell’Argentina degli inizi del secolo essere medico e professore universitario significava appartenere alle classi alte. Le racconto un aneddoto. Un giorno, da giovanissimo, mi trovo a casa di Dickmann, conversando con lui, quando suona il telefono. Risponde, conversa molto amichevolmente con qualcuno e chiude. E mi dice: “Era il mio grande amico Benito de Miguel, che piacere, da quanto tempo non parlavo con lui”. Be’, io ero sbalordito, perché il dottor Benito de Miguel era l’incarnazione politica della grande oligarchia dell’epoca. Lo stesso che essere amico di Martínez de Hoz al giorno d’oggi13. Le due ali del PS che rompono nel 1918 rappresentano settori di classe differenti: gli uni erano operai immigrati italiani, gli altri erano figli di immigrati, ma con valori borghesi, che si erano elevati socialmente. Se vogliamo sapere quale settore rappresenti un partito, non basta fare un taglio trasversale della classe, bisogna fare anche l’analisi storica, conoscere l’origine e le tradizioni di questo partito e il suo settore.

Da tutto questo sembrerebbe seguire che l’unità organica della sinistra sia impossibile.

Unità in un solo partito non ci può essere. Per ora no. Forse può verificarsi dopo la presa del potere, quando tutta la classe raggiungerà un uguale tenore di vita. Ecco perché insisto nel dire che per una fase storica c’è stata sì questa unità, ma la comparsa dell’imperialismo e del proletariato dei paesi arretrati ci porta a scartare l’ipotesi di Marx per il nostro tempo e a riconoscere nuove leggi, generate dallo sviluppo del capitalismo mondiale.

Quale settore di classe rappresenta il trotskismo?

Io sono convinto che il trotskismo rispecchi politicamente il settore più sfruttato del proletariato, ma cerca sempre di mobilitare l’insieme dei lavoratori, anche i loro settori più arretrati o quelli più aristocratici. Quindi diciamo che il trotskismo è la consapevolezza delle necessità storiche della classe operaia nel suo insieme, non di questo o quel settore.

Però è un fatto che il movimento trotskista è pieno di studenti e intellettuali.

Questo è vero nella fase propagandistica del partito, quando non si è ancora assemblato con la classe operaia. Tutti i partiti attraversano questa fase, che siano operai o borghesi. Per esempio, si diceva che inizialmente tutti i marxisti russi entrassero in un divano, perché erano tre: Plechanov, Aksel’rod e Vera Zasulic. La borghesia, prima di creare i suoi partiti, ebbe i suoi grandi teorici come Voltaire e Rousseau. Il movimento indipendentista latino-americano ebbe Miranda. Questi teorici ai loro tempi non li seguiva nessuno, rappresentavano soltanto l’idea, il programma. Questo fenomeno è generale, nella fase di elaborazione dei loro programmi i partiti hanno solo ideologi o intellettuali. Il trotskismo è riuscito a penetrare con forza nel movimento operaio e acquistare un’influenza di massa nelle fasi rivoluzionarie, quando i lavoratori con le loro mobilitazioni si avvicinano al suo programma. In circostanze favorevoli il trotskismo si è fatto strada perché le sue parole d’ordine sono raccolte dai settori più sfruttati del movimento di massa. La Bolivia è un esempio in questo senso: là non c’era il trotskismo, i compagni si sono formati in Argentina. Andarono là con posizioni rivoluzionarie come la nazionalizzazione dello stagno e guadagnarono rapidamente la direzione della Federación Sindical Minera, proprio perché era il settore più dinamico e combattivo del proletariato boliviano.

Il trotskismo è stato per molti anni un fenomeno marginale. In una certa misura lo è ancora.

Qui passiamo a un altro problema. Se vogliamo sapere perché siamo marginali, il primo passo è accettare il fatto. Ci sono trotskisti che lo negano, ma la verità è che, dei cinque miliardi di esseri umani che ci sono sulla Terra, la schiacciante maggioranza non sa nemmeno che esistiamo. E ci sono trotskisti così marginali che non sanno nemmeno di essere marginali. Come mai siamo marginali? Per varie ragioni. Una, molto importante, è che la classe operaia dei paesi avanzati di questo dopoguerra cessa di essere la principale protagonista storica, ruolo che aveva svolto approssimativamente dagli anni Settanta o Ottanta del secolo scorso fino alla Seconda Guerra Mondiale. In quei settanta-ottant’anni il proletariato ha condotto lotte colossali e ha ottenuto conquiste enormi: la giornata di otto ore, i sindacati, il suffragio universale e la più grande di tutte, la Rivoluzione Russa. Questo cambia a partire dal 1949-’50, o forse un po’ prima, e alcuni teorici trotskisti ritengono che da allora in poi il movimento operaio sia stato praticamente cancellato dalla scena. Io non sono d’accordo, trovo che il movimento operaio abbia combattuto grandi battaglie nel dopoguerra. La differenza con il periodo 1870-1950 ? queste date sono, naturalmente, approssimative ? è che sono state lotte sporadiche, senza continuità. Le battaglie sistematiche, continue, le hanno sviluppate settori minoritari del movimento operaio come quelli del Cono Sud latino-americano, del Giappone per circa dieci anni, il proletariato basco, quello inglese negli ultimi vent’anni. Le grandi protagoniste del dopoguerra sono state le masse contadine o semiproletarie, come in Cina, Jugoslavia, la guerriglia greca, le guerriglie africane; anche la guerriglia colombiana, che ha lottato dal ’48 fino a oggi. Dunque, il fatto sociopolitico è che nel dopoguerra il centro della scena è occupato da settori contadini e semiproletari, mentre la classe operaia, tranne forse quella del Cono Sud, passa in secondo piano. A causa di questo fenomeno, il trotskismo non ha base sociale cui appoggiarsi. Il programma del trotskismo è quello della classe operaia mobilitata. Se non c’è mobilitazione operaia il trotskismo non ha modo di prendere piede. Questa è una ragione, ma ce n’è un’altra. All’inizio del dopoguerra il trotskismo aveva una direzione molto giovane, senza esperienza nel movimento di massa. I dirigenti storici formatisi nella rivoluzione, soprattutto Trotsky, ma anche altri come Rakovskij e Chen Duxiu14, erano morti all’inizio della guerra. Questa direzione cercò in qualche modo di rafforzare, sviluppare il trotskismo in una fase, a partire dal 1947, in cui gli operai non lottavano sistematicamente, ma la sua stessa inesperienza e la mancanza di chiarezza politica la portarono a cercare scorciatoie nel compito di costruire il partito. Così commise un errore che io considero catastrofico: la linea di entrare nelle organizzazioni che dirigevano le masse, principalmente i partiti comunisti. Erano partiti piccolo-borghesi, burocratizzati, e la condizione per entrarci era smettere di criticarli. Con questo si persero i riflessi trotskisti, di democrazia operaia e mobilitazione permanente per fare la rivoluzione socialista, cioè la ragion d’essere del trotskismo. Questa linea si basava sulla seguente argomentazione: la guerra mondiale dell’imperialismo yankee contro l’URSS è inevitabile a breve termine; i partiti comunisti faranno la rivoluzione per difendere lo Stato operaio; noi trotskisti, per non emarginarci dal processo, dobbiamo abbandonare la nostra propaganda nelle fabbriche per la democrazia operaia e la mobilitazione permanente, ammainare per il momento le nostre bandiere, per entrare nei partiti comunisti e fare la rivoluzione insieme ad essi. Questo era, in forma molto semplificata, quello che dicevano i trotskisti europei diretti da Pablo e Mandel15, che erano alla testa della Quarta Internazionale. Qualcosa di simile dicevano di tutte le organizzazioni di massa, che, spinte dalla situazione, sarebbero andate verso posizioni rivoluzionarie. E non solo lo dicevano: la verità è che applicavano questa politica conseguentemente. I compagni di Lutte Ouvrière ci hanno raccontato che, quando appoggiarono la mobilitazione antiburocratica degli operai di Berlino Est nel 1953, e fecero propaganda per loro alla Renault francese, il giornale di Mandel e Pablo li denunciò. Non credo che Mandel e Pablo fossero favorevoli a perseguitare i compagni e impedirgli di distribuire i loro volantini. Ma per loro la cosa più importante era restare all’interno del PC, perché avrebbe diretto la rivoluzione. Questo meccanismo fatale ha portato di fatto alla scomparsa pubblica del trotskismo europeo per molti anni.

La sua scomparsa non è stata causata anche dalla mancanza di spazio politico?

Questo ha la sua importanza, si somma ad altre ragioni che già le ho dato, ma non è la causa fondamentale. Il fatto che le rivoluzioni del dopoguerra siano state dirette dagli stalinisti, combinato con l’indebolimento delle lotte del proletariato europeo, ha innalzato la forza e il prestigio dello stalinismo al suo massimo livello. Ciò ha lasciato a noi trotskisti un margine di azione ristretto, ma reale. Mandel e Pablo, con la loro tattica, non hanno potuto sfruttarlo. E, quel che è peggio, non hanno preparato la Quarta a sfruttare gli ampi margini che si aprirono alla fine degli anni Sessanta, quando comincia l’irresistibile crollo dello stalinismo nel movimento operaio.

La burocratizzazione e la mancanza di libertà nell’URSS erano così chiare allora come adesso? Perché al giorno d’oggi i trotskisti dispongono di uno spazio politico molto concreto, in quanto gli unici che rivendichino la combinazione di socialismo e democrazia operaia.

Certo, questo è il nuovo grande compito storico, che solo noi ci prefiggiamo. È una delle principali ragioni per cui il trotskismo non scompare, poiché risponde, fra le altre, a questa necessità storica: la democrazia operaia negli Stati che si dicono socialisti.

Ci sono stati processi della lotta di classe nel dopoguerra nei quali il trotskismo ha giocato un ruolo importante, perfino di direzione.

Stavo proprio per parlare di questo. Errori a parte, l’altra faccia di questo fenomeno è la facilità con cui il trotskismo penetra nel movimento di massa quando c’è mobilitazione. Per esempio sembra che il grande sciopero della Renault nel ’47 l’abbiano diretto i trotskisti. Erano quattordici o quindici militanti in una fabbrica di quarantacinquemila operai, e poterono dirigerlo per la loro fiducia nella classe, nel fatto che la classe operaia risorgerà. Sono gli stessi che sostengono che il proletariato è stato cancellato dalla scena, ma allo stesso tempo hanno fiducia nel fatto che tornerà a lottare.

Qualcosa di simile è successo alla Leyland, la fabbrica inglese di motrici.

Esatto, mentre la Leyland si mobilitò, i trotskisti svolsero un ruolo di direzione. Quando i lavoratori smisero di mobilitarsi, non rimase un solo dirigente trotskista nella fabbrica. È un processo quasi matematico. Lo stesso successe in Bolivia nel ’52 e sta avvenendo di nuovo adesso. Il nostro partito fratello boliviano, il PST, è molto piccolo, ma sta penetrando nelle miniere. In un’assemblea generale mineraria si sono congratulati col partito per essere stato l’unico che si è giocato tutto nella mobilitazione dei minatori a La Paz16. Quando c’è mobilitazione, il trotskismo è parte della vita operaia. Quando non ce n’è, gli stessi operai ci guardano con aria strana. Io credo che il trotskismo, con una politica corretta, sarebbe potuto penetrare facilmente in Ungheria durante la rivoluzione antiburocratica del ’56. Sospetto che si rafforzerà sempre di più in Polonia. Il trotskismo si collega con il proletariato, e solo con esso. Non potrebbe guidare direttamente i contadini, perché il suo programma è essenzialmente operaio. È il programma che la classe operaia deve attuare per guidare tutti gli sfruttati del mondo. Quindi il trotskismo accompagna il proletariato come l’ombra il corpo.

Questo spiega il fatto che non abbia diretto nessuna rivoluzione dopo quella boliviana del ’52?

Certo, perché la mobilitazione del proletariato boliviano non è stata uguagliata in nessun paese al mondo. Il futuro dell’umanità dipende dal proletariato, e qui il trotskismo ha un ruolo decisivo da svolgere. Non si tratta di essere pessimista né ottimista, ma di fare previsioni scientifiche. Io sostengo che, se il proletariato non entra in lotta, arriverà la sconfitta della rivoluzione mondiale. Se gli operai di tutto il mondo cominciano a muoversi come in Bolivia, il trotskismo diventerà una potenza.

Lei ha appena detto che il trotskismo non può dirigere i contadini. Tuttavia in un’occasione è stato alla testa di una guerriglia contadina, con Hugo Blanco17 in Perù, negli anni Sessanta…

Quella non era una guerriglia: il processo che diresse Hugo Blanco fu di creazione di milizie contadine. I contadini si armarono per espropriare i proprietari terrieri, spartire le terre e difendere queste conquiste. Non abbandonarono le terre per fare la guerra dalla montagna, come avrebbe fatto una guerriglia.

Però fu una mobilitazione contadina.

Questo sì.

Non fu settario il trotskismo ad aggrapparsi al suo programma operaio? Non fu più abile lo stalinismo a dedicarsi ai contadini, se la rivoluzione succedeva in campagna?

Al contrario, io ritengo che questo sia un nostro grande successo. Innanzi tutto, voglio dire che Hugo Blanco non voleva partecipare alla mobilitazione contadina; fummo noi che lo convincemmo, in una riunione clandestina nel Cuzco. A questo punto della mia vita sono convinto che il nostro “settarismo”, nel senso di restare accanto al movimento operaio, è del tutto corretto. Non c’è modo di ingannare il processo storico e di classe. Se io guido il movimento contadino alla conquista del potere, non posso costruire una democrazia operaia. È impossibile arrivare a un socialismo con democrazia basandosi sui contadini, è qualcosa che va contro le leggi scoperte dal marxismo e confermate dalla storia. La sovrastruttura politica che sorgerà sarà conforme alla classe che prenderà il potere. Vediamo l’esempio dell’URSS. Trotsky, che era il creatore e il capo indiscusso dell’Armata Rossa, avrebbe potuto fare un colpo di Stato contro Stalin per tenere il potere. Perché non lo fece? Per considerazioni sociopolitiche. Il proletariato subì varie sconfitte, arretrò e Trotsky lo accompagnò perché non cercava il potere per il potere. Stalin considerava il potere un obiettivo fine a sé stesso, quindi fece manovre di ogni tipo e si appoggiò a forze esterne al proletariato. Dobbiamo metterci in testa che la nostra politica è rivolta a convincere la classe operaia che deve autodeterminarsi, essere democratica e prendere il potere tramite la rivoluzione delle masse lavoratrici, guidate da essa. In caso contrario non arriveremo alla società alla quale aspiriamo. Allora, come gli uomini di scienza che siamo, dovremo dire che abbiamo fallito, perché la classe alla quale ci appoggiamo si è dimostrata storicamente incapace di prendere nelle sue mani il destino dell’umanità, incapace di autodeterminarsi, mobilitarsi e imporre il governo della democrazia operaia.

E qual è il ruolo del trotskismo nei paesi in cui la classe operaia non è preponderante?

Questo è un problema secondario. La classe operaia può dirigere il processo anche se è del tutto minoritaria. Io non condivido queste analisi sociologiche oggettiviste che ho letto ultimamente, secondo le quali la classe operaia non può dirigere il processo storico mondiale in quanto minoritaria o perché in diminuzione. Il proletariato russo era una piccola minoranza della popolazione, eppure diresse la Rivoluzione d’Ottobre. Io mi riferisco al carattere di classe. Noi cerchiamo di dirigere il proletariato, non ci allontaniamo mai da esso. Questa non è declamazione, è una politica internazionale di classe che segue da un’analisi teorica profonda. Non c’è stratagemma politico che valga. Non serve a niente mentire, dire ai contadini che siamo contadini, con l’obiettivo di fare una rivoluzione operaia. Se la classe operaia non ci segue, non andiamo da nessuna parte. Ci burocratizziamo, capitoliamo ai contadini. È inconcepibile fare la rivoluzione proletaria senza il proletariato. Nel corso della mia vita politica, dopo, per esempio, aver guardato con simpatia al regime che scaturì dalla Rivoluzione Cubana, sono arrivato alla conclusione che sia necessario continuare con la politica rivoluzionaria di classe, sebbene ritardi l’arrivo al potere per noi di venti o trent’anni, o quel che è. La nostra aspirazione è che sia la classe operaia ad arrivare veramente al potere, ecco perché vogliamo guidarla. Ovvio che possono esserci varianti tattiche e politiche. Difendiamo il regime di Fidel Castro contro l’imperialismo perché ha creato uno Stato operaio. Ma non abbandoniamo il criterio di classe, il carattere democratico e di autodeterminazione che vogliamo per la classe operaia. Il trotskismo deve esistere, fra l’altro, per cambiare il sistema politico di tutti gli Stati operai. Difendiamo lo Stato operaio cubano, ma allo stesso tempo critichiamo il regime di Castro, che non si fonda sulla democrazia e l’autodeterminazione della classe operaia. Lottiamo a Cuba per un regime di democrazia operaia, per il diritto della classe a organizzarsi in partiti distinti e contrapposti, per la libertà di stampa e, come sosteneva Lenin contro Trotsky, per l’indipendenza dei sindacati nei confronti dello Stato.

Di conseguenza, il compito dei trotskisti è di penetrare gradualmente nel movimento operaio e costruire il loro partito…

Per me nessuna costruzione è graduale, in natura o in qualunque cosa. Ci sono, sì, determinate fasi nella costruzione del partito. Una è quella teorica, di elaborazione del programma e di analisi della realtà. È molto complessa perché senza un’analisi e un’organizzazione mondiale non possono esserci analisi nazionali corrette. C’è anche una fase di penetrazione nel movimento operaio. Possono esserci mediazioni: per esempio, per un periodo il partito milita nel movimento studentesco al fine di guadagnare settori di sinistra alle posizioni trotskiste. Ma l’obiettivo a breve termine ? due, tre, quattro anni ? è andare al proletariato. Un’organizzazione trotskista che non sia piena di militanti operai vive in crisi permanente, sebbene sia costituita da compagni molto intelligenti e capaci. È il caso di alcuni dei nostri partiti, in cui ci sono compagni perfino brillanti, ma giovani e senza formazione nella lotta di classe. All’università, se uno commette un errore tattico o ha la peggio in una discussione, non fa niente, può tornare il giorno dopo e vedere come capovolgere la situazione. Ma nel movimento operaio un errore tattico può essere fatale, si perde tutto. Quindi il militante diventa serio, responsabile, apprende le manovre della lotta di classe. Si rende conto che è una guerra. Lo vede nella realtà, non nei libri. Ecco perché i dirigenti rivoluzionari possono formarsi solo nella vita della classe operaia e nelle sue lotte.

Significa che il partito cresce mediante l’accumulazione di quadri?

Sì, ma la realtà oggettiva, nella misura in cui si produce un’ascesa rivoluzionaria, fa emergere tendenze, provoca rotture nei partiti, genera crisi. Il partito rivoluzionario può acquisire influenza di massa o diventare forte nell’avanguardia solo se si dirige verso queste tendenze positive, dinamiche, di centrosinistra come le chiamiamo noi, per attrarle, guadagnarle alle nostre posizioni. Il vecchio Cannon, della direzione del Socialist Workers Party degli Stati Uniti, che era un dirigente molto capace, diceva che non si deve consentire l’esistenza di una corrente centrista di sinistra ? cioè che oscilla fra posizioni riformiste e rivoluzionarie ? per molto tempo, perché arriva il momento in cui si cristallizza e diventa molto più difficile raggiungere posizioni comuni con essa. La sua direzione si difende, non vuole sparire, e benché esistano basi programmatiche comuni l’unità si fa difficile, perché è esistita per molto tempo come organizzazione separata.

Sarebbe il caso del Partido Obrero in Argentina?

Effettivamente, il PO è un’organizzazione centrista vecchia, ormai cristallizzata. Con loro non abbiamo potuto raggiungere l’unità, nonostante i nostri sforzi. Per menzionare un esempio contrario, in Colombia c’era il Bloque Socialista, un’organizzazione centrista molto progressista: noi stabilimmo relazioni con loro e dopo un processo 89 si unirono al trotskismo. Il nocciolo della questione è essere onesti, principisti[6], non cadere in manovre né farsi prendere da simpatie o antipatie. Così si ottengono cose incredibili. Il grande partito comunista tedesco dell’epoca della Terza Internazionale, il più importante dell’Occidente, fu un prodotto dell’unificazione dei luxemburghisti con socialisti indipendenti. Io credo che questo sia il futuro del trotskismo. Ci saranno molte unificazioni, quando finora la sua storia si era contraddistinta per le divisioni.

Come mai ci sono state tante divisioni?

Questo è un altro prodotto della marginalità del trotskismo. L’emarginazione genera estraniazione, alienazione in termini filosofici. Uno degli esempi più chiari di ciò l’ho visto in Argentina: era il gruppo degli ebrei trotskisti. Si erano divisi e neanche si parlavano, ricorrevano a noi perché facessimo da intermediari. Questi erano marginali nell’ambito dei marginali, esiliati dall’Europa, estranei al paese. Ricordo che a Zárate c’era un gruppo di trotskisti tedeschi, operai, che non erano assolutamente toccati dalla realtà. Era un gruppetto molto ben organizzato, si dicevano trotskisti, non so bene perché, però vivevano totalmente isolati dalla realtà. L’estraniazione produce un fenomeno psicologico, questa gente fa un culto della marginalità, vuole essere marginale. La clandestinità produce un effetto simile, come si è visto nel PST argentino. Nel ’72, quando il partito stava per passare alla legalità, ci fu un problema serio, perché la maggioranza dei compagni voleva restare in clandestinità. Li appassionava questa cosa di sembrare cospiratori, fare riunioni di pochi compagni, insomma la mentalità del “siamo pochi, ma buoni”. All’inizio noi che volevamo passare alla legalità eravamo una minoranza nel partito. La marginalità è solo uno dei motivi delle divisioni nel trotskismo. Un altro, drammatico, fu la crisi di direzione dell’Internazionale. Quando io ero giovane, la Quarta era un punto di riferimento obbligato per tutti noi, quasi come una questione religiosa. Ancora si sentiva l’influenza di Trotsky. Negli anni dal ’51 al ’53, quando si spacca la Quarta, si perde questo contesto politico, ideologico, perfino morale. La Quarta si divide come prodotto di una crisi programmatica, teorica e di direzione>[7]. I partiti più forti rompono e, invece di cercare di ricostruire l’organizzazione, adottano un atteggiamento difensivo. È il caso del Socialist Workers Party, a quei tempi il centro del trotskismo mondiale: adotta una politica nazionalista, nel senso di rafforzare il partito stesso, non l’Internazionale. Loro si giustificano dicendo che il maccartismo gli impediva di uscire dal loro paese per prendere parte alle organizzazioni internazionali. Io ho i miei dubbi. Sostengo che ebbero il grande merito di resistere al pablismo, ma li critico per non aver creato una corrente antipablista organizzata nella Quarta.

In vari suoi scritti lei menziona la morte di Trotsky come un fatto fondamentale nella storia della Quarta Internazionale.

Effettivamente, abbiamo sempre detto che la morte di Trotsky è un elemento oggettivo, non soggettivo, nella crisi di direzione della Quarta. Questa analisi è propria della nostra tendenza. Fu un fatto qualitativo: non è che la Quarta fosse diretta peggio che prima della sua morte, ma che restò molto semplicemente senza direzione. Sono convinto che, se Trotsky fosse vissuto qualche anno in più, la Quarta sarebbe progredita nel suo programma, nella sua analisi e nei suoi numeri. Un altro aspetto del vuoto di direzione è l’esperienza nel movimento operaio, che per me è decisiva. Senza una lunga esperienza nel movimento operaio non può esserci una grande direzione. Gli unici che l’avevano, a parte Trotsky, erano alcuni dirigenti del Socialist Workers Party. Trotsky aveva preso parte alla direzione delle tre rivoluzioni russe18. Aveva formato parte della direzione rivoluzionaria più grande che l’umanità abbia conosciuto, quella della Terza Internazionale nei suoi primi cinque anni. Fra il ’05 e il ’17, in esilio, aveva militato nel movimento socialista di vari paesi d’Europa, principalmente in Francia e Germania. Questa esperienza colossale, insostituibile, andò perduta in un colpo solo con il suo assassinio.

Mi piacerebbe approfondire un po’ di più il problema della direzione trotskista del dopoguerra.

La domanda mi obbliga a ripetermi, poiché ho toccato il tema altrove. Come ho detto prima, questa direzione è composta da giovani intellettuali come Pablo e Mandel, che all’inizio sono molto settari e applicano gli scritti di Trotsky alla lettera. A partire dal 1948, quando avvengono la Rivoluzione Cinese e le rivoluzioni che espropriano la borghesia nell’Europa orientale, nessuno di loro vede questa nuova realtà. Dopo una lunga polemica trionfa l’ala del trotskismo che sostiene che questi paesi sono diventati Stati operai a causa dell’espropriazione della borghesia da parte dell’URSS nell’Europa orientale e da parte delle masse in Cina e Jugoslavia. A partire dalla fine del '49, anche Pablo riconosce l'esistenza di questi Stati operai, usando però un metodo di analisi totalmente al di fuori del marxismo. La sua tesi era che la Jugoslavia - per prendere un caso - era uno Stato operaio perché il novanta per cento della borghesia era stato espropriato. Con questo criterio - gli si rispose - si potrebbe dire che l'Italia fascista alla fine della guerra era uno Stato operaio, perché Mussolini espropriò un importante settore della borghesia italiana. Il metodo marxista va alla dinamica di classe dei fatti. In Italia la borghesia fu espropriata da Mussolini al servizio dello sforzo bellico nazi[8]; in Jugoslavia al contrario fu espropriata dal movimento di massa, e nell'Europa orientale[9] dall'Armata Rossa, la forza armata dello Stato operaio sovietico. L’importanza di questa polemica teorica e metodologica si rivelò negli anni seguenti. Pablo aveva ragione sulla caratterizzazione dei nuovi Stati operai, ma il suo metodo, che noi all’epoca definimmo aprioristico ed empirico, lo portò a commettere errori catastrofici. Aprioristico, per aver detto che se una determinata percentuale della borghesia era espropriata - non importa da quale classe e a che scopo - esisteva già uno Stato operaio. Empirico per aver sostenuto, sulla base di quanto precede, che Jugoslavia, Cina, eccetera, erano per questo solo fatto Stati operai. Nell’analizzare la situazione politica mondiale dei primi anni Cinquanta con questo metodo, arrivò a due conclusioni: che stava venendo la Terza Guerra Mondiale e che lo stalinismo si sarebbe visto costretto a fare la rivoluzione mondiale. Di conseguenza, si doveva entrare nei partiti stalinisti, che stavano per fare la rivoluzione e prendere il potere. Questo schema impressionistico portò a diciotto anni di entrismo. La direzione pablista dovette modificare le sue tesi perché la Terza Guerra Mondiale non si verificò; l’entrismo si trasformò in un fenomeno in sé, che veniva giustificato ogni due o tre anni con argomentazioni diverse. Da tutto ciò nacque una corrente che capitolò successivamente a tutte le direzioni delle grandi lotte del dopoguerra: il maoismo, il castrismo, Tito e perfino direzioni non staliniste come il Front de Libération Nationale algerino. E continuano a farlo: dopo lo sciopero del carbone in Inghilterra dicono che Scargill, il capo del sindacato dei minatori, è il più grande che ci sia nel movimento operaio. E Scargill si iscrisse al sindacato internazionale stalinista, lo stesso che consentì che la Polonia mandasse carbone all’Inghilterra durante lo sciopero. È una mania che hanno: basta che ci sia una lotta per farli smettere di fare analisi politiche e farli capitolare alla sua direzione. Furono anche introdotti metodi organizzativi orribili all’interno della Quarta: intervenire sui partiti nazionali per nominarne le direzioni, espellere, condurre campagne diffamatorie contro dirigenti che si opponevano alle loro posizioni. Ovviamente questi metodi furono applicati da Pablo, non da Mandel. Lui è un dirigente serio e leale. Noi dissentiamo dai suoi metodi impressionistici per fare analisi ed elaborare politiche, che lo portano a capitolare, ma i suoi metodi organizzativi non hanno niente a che vedere con quelli di Pablo.

Una delle critiche che si fanno al trotskismo è che, mentre le parole d’ordine staliniste sono “ragionevoli”, quelle trotskiste sono sempre impossibili. Si dice che questa sia una delle barriere che gli impediscono di penetrare nel movimento di massa.

La verità è che ci sono partiti trotskisti settari che hanno approcci incredibili. Per esempio, Guillermo Lora, in Bolivia, non sa agitare altra parola d’ordine che quella della dittatura del proletariato. Qui in Argentina, non mi ricordo esattamente l’anno, la CGT agitò la parola d’ordine del venti per cento di aumento dei salari. Noi dicemmo, “d’accordo, facciamo assemblee per fabbrica e formiamo picchetti di mobilitazione per ottenere quest’aumento, ma non un peso di meno”. Política Obrera e i posadisti di Voz Proletaria agitarono parole d’ordine per aumenti molto più consistenti, credevano che, quanto più chiedevano, più rivoluzionari fossero. In quel periodo l’inflazione era fra il quindici e il venti per cento annuo, quindi si immagini cosa significava chiedere un tale aumento. Però loro si consideravano più rivoluzionari della CGT per aver chiesto di più. Quando noi pretendiamo dalla CGT che lotti per il “suo” aumento, senza indietreggiare di un solo peso, e che faccia assemblee e picchetti, facciamo la vera politica trotskista; la posizione infantile, ridicola, di posadisti e PO è la sua negazione. L’arte della politica trotskista consiste nell’agitare parole d’ordine che seguano dalle necessità delle masse e rispecchino il loro vero livello di coscienza. Trotsky ci ha lasciato esempi straordinari. Per esempio, disse che, se la classe media tedesca avesse rotto con Hitler, la cosa giusta era proporre che si convocasse il parlamento, lo stesso che l’aveva eletto cancelliere, affinché lo destituisse. Per quanto riguarda l’Austria prima dell’invasione nazi, disse che era un crimine che il PC opponesse al nazismo la parola d’ordine della dittatura del proletariato, quando la socialdemocrazia e le masse austriache erano disposte a lottare solo per la democrazia borghese. La parola d’ordine del PC sarebbe dovuta essere quella di lottare tutti insieme per la democrazia, pretendendo dal PS che fosse coerente in questa lotta e mobilitasse le masse. Con questo si sarebbe potuto sconfiggere il fascismo austriaco. Un’altra parola d’ordine colossale di Trotsky fu quella che diede per gli Stati Uniti: poiché la classe operaia confida in Roosevelt, mobilitiamoci per pretendere da lui un piano di opere pubbliche che metta fine alla disoccupazione. La politica trotskista ? l’autentica politica trotskista, non i deliri provocati dall’emarginazione ? cerca sempre la parola d’ordine più facile, più comprensibile affinché la classe operaia e le masse si mobilitino e lottino. Gli scritti di Trotsky sono una cattedra su come cercare queste parole d’ordine. Per noi, una parola d’ordine è “ragionevole”, per usare i termini della sua domanda, se è “facile”, se risulta comprensibile per il movimento operaio e di massa e serve a mobilitarlo.

Come definisce le parole d’ordine del PC, secondo questo criterio?

Sono tutto il contrario. Al PC molte volte non interessa mobilitare ma direttamente far fallire una mobilitazione. Le racconterò un aneddoto. Da giovane io ero molto amico di Sergio Satanovsky, lo sceneggiatore che lavora con il celebre regista Lucas Demare. Suo fratello maggiore era un alto dirigente del PC e dirigeva gli intellettuali stalinisti che intervenivano negli spettacoli di teatro polemico che si facevano un paio di volte alla settimana al Teatro del Pueblo. Quello era il teatro municipale di allora, come il San Martín adesso, e il suo direttore era Leónidas Barletta. In queste riunioni c’era molta libertà di espressione, e noi trotskisti, che eravamo un gruppo molto piccolo, eravamo soliti partecipare. Avevamo molti amici e conoscenti fra gli intellettuali, specialmente quelli che scrivevano sul giornale El Mundo come Ledesma, Rivas Rooney e Roberto Arlt. Il grande argomento di discussione era quasi sempre la lotta contro il nazismo. Chiunque denunciasse i campi di concentramento, la persecuzione degli ebrei, eccetera, era applaudito da tutto il pubblico, fosse anarchico, trotskista, socialista, quel che era. C’erano molti operai e intellettuali ebrei nel PC e nella sinistra in generale. Erano perfino la maggioranza in alcuni sindacati, come l’abbigliamento e il legname. Dunque, una sera, essendo le otto o le nove, ci arrivò la notizia, portata dai nostri amici del giornale El Mundo, che era stato appena firmato il patto Hitler-Stalin. Io presi la parola immediatamente per denunciare il fatto e Satanovsky, che stava in un palco alla destra del palcoscenico, si ritirò. Il resto degli stalinisti rimase, ascoltandomi in silenzio. Erano la metà del pubblico, e a loro volta erano quasi per la maggior parte ebrei. Verso mezzanotte tornò Satanovsky, che evidentemente era andato a consultare il Comitato Centrale del partito per sapere se la notizia era vera. E allora accadde qualcosa che ebbe su di me un impatto tremendo, ancora oggi non riesco a dimenticarlo. Prese la parola e disse più o meno quanto segue: “Ripudiamo la canaglia imperialista che si traveste da democrazia per attaccare il popolo tedesco e il suo grande governo! È una menzogna che Hitler perseguiti gli ebrei, è una menzogna che perseguiti il PC, non ci sono campi di concentramento in Germania! Sono tutte menzogne dell’imperialismo”. E per concludere… lo applaudirono tutti gli stalinisti! Non riuscimmo a guadagnare alle nostre posizioni un solo ebreo del PC! Nemmeno uno! Tutti lo applaudirono. Be’, rimasi devastato, e la sensazione mi dura fino ad oggi. Lì mi convinsi che lo stalinismo è come una chiesa medievale, nessuno dubita di niente, tutti accettano quello che dice la direzione. Io non credevo ai miei occhi, sebbene i compagni anarchici mi avessero già prevenuto. Allora, però, a parte questo, qui si dimostra la differenza con il trotskismo. La grande preoccupazione del PC non sono gli interessi del movimento operaio e la maniera di mobilitarlo, ma gli interessi della burocrazia del Cremlino. E, d’altra parte, nei partiti stalinisti non si dubita né si discute: si applica la politica secondo gli ordini “dall’alto”, cioè di Mosca o L’Avana.

C’è chi difende questa maniera di agire dello stalinismo con la tesi del “non mettere in allerta il nemico”. Per esempio, Fidel Castro dice ai sandinisti di appoggiare Contadora19, tenere elezioni borghesi, non espropriare la borghesia, in modo che l’imperialismo non invada il Nicaragua e che in questa maniera abbiano il tempo di armarsi per difendere la rivoluzione. Un altro esempio: Castro chiama i paesi latino-americani a non pagare il loro debito estero, al contempo dice a Reagan che gli converrebbe allentare la pressione per il pagamento e dichiarare una moratoria affinché non ci sia una rivoluzione. Lo scopo di tutto questo sarebbe, secondo i suoi sostenitori, facilitare[10] la rivoluzione, renderla meno cruenta, per così dire.

Rispondo in primo luogo dal punto di vista della borghesia, la classe che dopo vari secoli di dominio ha più o meno un’idea di come maneggiare la politica, e inoltre possiede un tremendo apparato di spionaggio. Chi può credere che sia così facile ingannarla? Dico questo supponendo per un istante che, effettivamente, Castro e i sandinisti vogliano ingannare l’imperialismo e che finora ci siano riusciti. Se è così, dovremmo aggiungere che la socialdemocrazia, l’imperialismo, il Papa, il governo messicano, quello venezuelano, quello colombiano, eccetera, eccetera, sono tutti dei ritardati. La miglior risposta l’ha data il ministro degli Esteri del Messico: quando l’inviato di Le Monde Diplomatique gli fece una domanda simile, egli rispose, indignato, che il suo governo non era idiota. Aggiunse ? a modo suo e col suo linguaggio ? che avrebbe potuto comprovare infinità di volte, in pratica, che Castro faceva tutto il possibile per frenare qualunque tipo di mobilitazione contro il governo messicano. Lo stesso succede con Belisario Betancur, il presidente della Colombia. Castro ha attaccato i guerriglieri colombiani, inviò lettere di solidarietà a Betancur quando la guerriglia sequestrò suo fratello, quindi il presidente ha tutto il diritto del mondo di pensare e dire pubblicamente che Castro è suo amico. Se qualcuno dicesse che Betancur si lascia ingannare, lui potrebbe rispondere, proprio come il ministro messicano: “Io non sono idiota, e inoltre Castro mi ha dato prove categoriche della sua amicizia”. La cosa migliore che potremmo dire a favore di Castro è che ha un comportamento doppio, contraddittorio. Parlare è un comportamento. Se Castro ripete costantemente per due anni che è necessario appoggiare Contadora, milioni di latino-americani appoggeranno Contadora. Altrimenti, che i castristi spieghino il meccanismo per il quale pensano di convincere duecento milioni di latino-americani di dover combattere Contadora, mentre Castro ripete fino allo sfinimento “viva Contadora”, “appoggiamo Contadora”.

Lui può sostenere che è a favore di Contadora per guadagnare tempo, evitare la zampata imperialista mentre la rivoluzione nicaraguense si rafforza e si arma.

Torniamo al problema della coscienza del movimento di massa. Quando Castro dice a Reagan di accettare una moratoria dei pagamenti del debito estero per evitare una rivoluzione socialista in America Latina, è perché non vuole veramente che ci sia una rivoluzione…

Perché?

Perché allo stesso tempo appoggia Siles Zuazo e dice al proletariato boliviano di non fare lo sciopero generale. Questo è categorico: Fidel Castro, con le sue dichiarazioni, è stato il grande crumiro dello sciopero generale boliviano. Lo stesso in Colombia: dopo le sue dichiarazioni, il PC e le FARC appoggiano il governo Betancur. In Spagna ha appoggiato di fatto Felipe González e la monarchia contro lo sciopero marittimo. Tutti questi fatti categorici corrispondono perfettamente a quello che dice, e dimostrano che non vuole la rivoluzione. Proprio come gli stalinisti, sostiene la teoria del socialismo in un paese solo e la coesistenza pacifica con l’imperialismo. In Angola si verifica una situazione quasi surreale. La guerriglia controrivoluzionaria dell’UNITA lotta per attaccare i pozzi petroliferi di Rockefeller, mentre le truppe cubane li difendono insieme a quelle governative. Praticamente ovunque Fidel Castro appoggia i governi reazionari contro il movimento di massa. Le sue dichiarazioni sono avvalorate dai fatti. Qualcosa di simile succede con il Fronte sandinista. Si ricordi, per esempio, che il Nicaragua ha mandato il ministro della Cultura Ernesto Cardenal ad appoggiare pubblicamente la politica di Alfonsín rispetto al Beagle.

Prima di passare al tema del partito mondiale, dica in due parole come vede le prospettive della costruzione del Movimiento al Socialismo.

Credo che le prospettive in Argentina siano buone. Il nostro partito è solido, cresce, in una situazione di crisi senza via d’uscita, per lo meno per diversi anni. Vedo una classe non sconfitta, un partito serio, con molti quadri. Ora, nessuno pensi che tutto marcia su dei binari. Abbiamo alcune gravi carenze. Per esempio, sotto la dittatura, molti dei nostri quadri militanti dovettero lasciare il loro lavoro nelle fabbriche e nelle aziende, e questo creò problemi difficili da superare. È un solo esempio fra molti. Ad ogni modo è un fatto oggettivo che siamo ben collocati nell’avanguardia, abbiamo una presenza pubblica nazionale riconosciuta da tutti i settori e siamo inseriti in un processo molto dinamico della lotta di classe. Abbiamo una comprensione abbastanza corretta della situazione attuale: la realtà ha confermato le nostre analisi. Mi riferisco agli aspetti generali, poiché l’analisi non viene mai confermata nella sua totalità o in tutte le sfumature. Il nostro partito è stato costruito nel seno della classe operaia argentina ed ha esperienza e tradizioni. Quindi ci sono ragioni per essere ottimisti per quanto riguarda il suo futuro.


Capitolo 3. Il partito mondiale

Nel corso della sua vita politica lei ha dedicato enormi sforzi alla costruzione di un’organizzazione rivoluzionaria mondiale…

Io direi piuttosto che la maggior parte della mia militanza politica è stata, continua ad essere, dedicata al partito mondiale, alla costruzione della Quarta Internazionale. Il partito mondiale è la priorità numero uno del movimento operaio, perché esistono un’economia e una politica mondiali, alle quali sono subordinate le realtà nazionali. L’imperialismo applica una sola politica, tramite il FMI, a tutti i paesi, avanzati o arretrati, che abbiano debiti con la banca internazionale. E quanto diciamo in merito al debito estero è vero in tutti i settori della politica e dell’economia. L’esistenza di una politica mondiale è caratteristica del capitalismo e, dato che si tratta di rovesciare questo, ci vuole uno strumento conforme a questa realtà e a questo compito. Il movimento di massa mondiale richiede strumenti diversi per ciascuno dei problemi che pone la lotta di classe. Per lottare in campo economico la classe operaia creò i sindacati. Non è casuale che le prime organizzazioni sindacali siano nate in Inghilterra, la culla della rivoluzione industriale.

Però dalla necessità di elaborare una politica mondiale non deriva necessariamente la necessità di un’organizzazione mondiale.

Io voglio appunto dimostrare il contrario. Continuiamo con l’esempio precedente. Gli operai hanno bisogno di sindacati per lottare per i loro salari, stabilità lavorativa, eccetera, contro i loro sfruttatori nazionali. Hanno bisogno di partiti politici per difendere i loro interessi di classe. In campo internazionale hanno bisogno di un movimento sindacale unito. Disgraziatamente, queste organizzazioni sono andate perdute, a causa della divisione del movimento operaio internazionale in tendenze filoccidentali e filosovietiche. L’economia mondiale esige lo sviluppo di grandi organizzazioni sindacali internazionali. La loro assenza significa un grande ritardo per il movimento di massa. Perché si è perso il grande sciopero del carbone in Inghilterra? Precisamente a causa della mancanza di solidarietà internazionale. Una grande organizzazione sindacale mondiale rivoluzionaria avrebbe creato un movimento di solidarietà coi minatori inglesi che sarebbe stato inarrestabile.

Da quanto ha appena detto, sembra che queste organizzazioni sindacali internazionali una volta esistessero.

Infatti, e avevano molta forza. È esistita un’Internazionale sindacale gialla e parallelamente ad essa l’Internazionale sindacale rossa20, creata dalla Terza Internazionale, che era molto forte, molto ben organizzata. Immagini un’organizzazione di questo tipo, forte e centralizzata, che decida, per esempio, di non far partire un aereo né una nave per il Cile, e di non scaricare una sola nave cilena in un porto straniero, finché non se ne vada Pinochet. Quanto tempo durerebbe questa dittatura? Molto poco, mi pare. Lo stesso per quanto riguarda lo sciopero del carbone: se ci fosse stata un’organizzazione capace di impedire l’invio di petrolio e carbone all’Inghilterra, lo sciopero avrebbe vinto rapidamente.

Io ho avuto l’opportunità di conversare con dirigenti del Partido Nacionalista Gallego. Loro concordano sulla necessità di fare analisi internazionali e sul fatto che la solidarietà è imprescindibile, ma sostengono che i partiti possono essere solo nazionali, a causa del peso delle specificità nazionali.

E chi organizza la solidarietà, o elabora l’analisi internazionale? Ogni compito richiede un’organizzazione specifica, non credo nella spontaneità in questo campo. Quale organismo ha obbligato il movimento operaio mondiale ad essere solidale coi minatori inglesi? Nessuno, e quindi non c’è stata solidarietà.

Che mi dice della Spagna e delle Brigate internazionali, che andarono a combattere per la Repubblica contro Franco?

Appunto, all’epoca esisteva la Terza Internazionale, che diede impulso alla solidarietà con la Repubblica e alla formazione delle Brigate. Anche i trotskisti incoraggiarono questo processo, così come gli anarchici. Altrimenti non ci sarebbero state Brigate internazionali in Spagna.

La mancanza di solidarietà con l’Inghilterra non è stata causata dal basso livello di coscienza del movimento operaio internazionale, più che dalla sua mancanza di organizzazione?

I due fattori sono intimamente legati. Se prendiamo le categorie di Hegel21 di spirito oggettivo e spirito soggettivo possiamo dire che lo spirito soggettivo, il livello di coscienza, si deve oggettivare. Come? In un’organizzazione. Sono due aspetti di uno stesso problema. Se l’operaio è consapevole del fatto che lo sfruttano, crea un’organizzazione per lottare contro lo sfruttamento. È la trasformazione dello spirito soggettivo in oggettivo: del pensiero in azione e poi organizzazione.

Tornando un po’ alla posizione dei nazionalisti galiziani ? e non sono gli unici che la pensano in questo modo ?, loro sostengono che il peso delle specificità nazionali obbliga i partiti nazionali a mantenere un’indipendenza di giudizio politico, non a sottomettersi a un’organizzazione internazionale.

Io non nego l’importanza delle specificità nazionali, né che i partiti debbano mantenere la loro indipendenza di giudizio. Ora, si tratta di determinare qual è l’elemento decisivo. Se il mondo è una somma di specificità nazionali, dove l’Argentina è diametralmente opposta all’Uruguay, l’Uruguay al Brasile, questo al Messico e così via, cioè non esistono caratteristiche comuni e i paesi non sono parte di una totalità mondiale, allora l’Internazionale non può né deve esistere. Qual è la realtà? Esagerando un po’, possiamo paragonare il mondo e i paesi a un paese e le sue province. Quando analizziamo la realtà argentina la consideriamo una totalità, non una somma di situazioni provinciali. L’Argentina è dominata da uno Stato nazionale, non da Stati provinciali. La situazione mondiale non è esattamente questa, poiché gli Stati nazionali esistono e hanno profonde differenze. Ma l’elemento caratteristico del dominio capitalistico è l’esistenza del sistema mondiale. Tanto che si parla di cicli economici e politici mondiali. Per esempio, quando il capitalismo aveva bisogno di un’elevata produzione di zucchero, i paesi dei Caraibi e anche il nord del Brasile si dedicarono alla produzione di zucchero, comparvero grandi zuccherifici. La rivoluzione europea del 1848 fu un unico processo che abbracciò tutto il continente. Un altro esempio: prima del capitalismo non ci sono state guerre mondiali. Per i marxisti, il fatto scientifico primo e decisivo è l’esistenza del sistema economico, politico e sociale capitalistico mondiale, al quale sono subordinate le specificità nazionali. In altre parole, il nazionale è un’espressione specifica del sistema mondiale. L’internazionalismo proletario nacque in risposta a un problema oggettivo, non è qualcosa di inventato da Marx alla sua scrivania. Il Manifesto comunista pubblicato nel 1848 è un documento di operai emigrati, le leghe operaie europee, che si trovavano immerse in un processo di effervescenza rivoluzionaria. Erano tedeschi, francesi, belgi, inglesi, italiani… Nel 1863[11] nasce la Prima Internazionale, fondata da dirigenti sindacali di diversi paesi, che chiamano Marx a collaborare. In Inghilterra c’erano molti operai immigrati, fra cui i tedeschi, che ricevevano salari molto bassi. Questo creava problemi agli operai inglesi, che rimanevano senza lavoro a causa di questa manodopera conveniente. In Francia c’erano problemi simili. I dirigenti operai di questi paesi si riunirono, scoprirono di avere problemi comuni che richiedevano un’organizzazione internazionale. Cioè il problema in Inghilterra non si sarebbe risolto con lo scontro fra operai inglesi e tedeschi ma con l’unità di entrambi i proletariati e quelli di tutto il mondo contro il comune nemico di classe. Per noi, il più grande crimine, il più grande tradimento della burocrazia stalinista è stato lo scioglimento della Terza Internazionale, preteso dai suoi alleati Churchill e Roosevelt. Questo è ciò che spiega perché l’imperialismo non sia stato ancora sconfitto. La Seconda Internazionale esiste, ma non è una vera Internazionale bensì una federazione di partiti socialdemocratici, sostenitori del sistema capitalista. La Terza Internazionale e l’Internazionale sindacale rossa furono ufficialmente sciolte dallo stalinismo. In questo modo si cancellò la necessità dell’Internazionale dalla coscienza delle masse. Al giorno d’oggi noi internazionalisti siamo un’infima minoranza nel movimento di massa mondiale. Noi trotskisti siamo gli unici a rivendicare l’indispensabile necessità di disporre di un’organizzazione sindacale e un’organizzazione politica internazionali, un partito mondiale centralizzato. Settanta o ottant’anni fa tutti gli operai d’avanguardia rivendicavano l’Internazionale. Nella Prima c’erano gli anarchici, i marxisti, i proudhoniani22, i tradunionisti inglesi. Quando fu fondata la Seconda, tutte le correnti del movimento operaio tranne gli anarchici vi presero parte. Non è che gli anarchici avessero smesso di essere internazionalisti, semplicemente restarono nella “Prima”. Lo stalinismo ruppe questa tradizione elaborando al contempo la teoria del socialismo in un paese solo23. Secondo loro, l’URSS avrebbe sconfitto l’imperialismo nella competizione economica; pertanto non serviva un partito mondiale per elaborare il programma e le tattiche del movimento operaio. Krusciov diceva che in vent’anni la potenza dell’URSS avrebbe superato quella degli Stati Uniti. Questa ideologia provocò un salto indietro nella coscienza del movimento operaio, che regredì di colpo al periodo precedente alla rivoluzione del 1848 e all’apparizione del Manifesto comunista. In pedagogia si chiama analfabeta funzionale la persona che ha imparato a leggere e scrivere alla scuola primaria e poi ha perso queste cognizioni perché non si è esercitato. Possiamo dire che il movimento operaio mondiale soffre di analfabetismo funzionale nel campo dell’internazionalismo proletario a causa dello stalinismo. Il partito mondiale, l’unico strumento politico che può sconfiggere l’imperialismo, appare davanti all’avanguardia operaia come un’idea utopistica, peregrina, l’espressione di un desiderio. La principale base d’appoggio della teoria del socialismo in un paese solo si è rivelata falsa, dato che gli Stati operai non sono riusciti a raggiungere l’imperialismo nel campo dello sviluppo tecnologico e della produzione. Per questa via, fra le altre, si conferma ancora una volta che lo strumento indispensabile per liquidare il capitalismo non è la concorrenza tecnologica ed economica degli Stati operai con l’imperialismo ma il partito mondiale, l’Internazionale, che affronti politicamente l’imperialismo, mobilitando i lavoratori di tutto il mondo. Meglio, occorrono due Internazionali intimamente legate: una sindacale e l’altra politica. Ora, si dovrebbe aggiungere che questo non nega le specificità nazionali. Ci opponiamo al fatto che la direzione internazionale ordini ai partiti nazionali come debbano agire, che politica debbano applicare…

Che è quello che fa lo stalinismo, vero?

Lo stalinismo è il contrario di un’Internazionale. L’URSS, come grande potenza, mantiene e finanzia in tutti i paesi del mondo partiti che servono i suoi interessi e applicano la politica che essa gli detta. Un’Internazionale agisce come un partito: tiene congressi in cui i delegati dei partiti nazionali discutono e votano un orientamento politico. Veda il caso del PC argentino, che appoggiò esplicitamente il colpo di Stato del marzo del ’76 e il governo Videla24. Io non posso credere che tutti i membri del PC argentino e i milioni di attivisti operai che simpatizzano per l’URSS a livello mondiale fossero d’accordo con questa politica, di appoggiare la dittatura che ha torturato e ucciso migliaia di militanti, anche dello stesso PC. L’ha fatto perché è un partito che dipende da uno Stato burocratico e fa quello che gli ordinano. L’URSS ha mantenuto per tutto il tempo eccellenti relazioni diplomatiche e commerciali con la dittatura.

Eppure, per molti, l’internazionalismo è questo, uno Stato detta la sua volontà ai partiti che simpatizzano per esso. Per esempio, poco tempo fa c’è stata una riunione di partiti comunisti latino-americani a L’Avana. Non è questo una specie di Internazionale? È solo una facciata?

Non è né l’uno né l’altro: è una riunione di ambasciatori, simile a quello che fa Reagan quando va in Europa e si riunisce coi suoi ambasciatori e i capi dei partiti filoyankee. La riunione dei PC non è un’Internazionale: se le questioni si risolvono all’unanimità, non è un partito operaio. C’è stata qualche risoluzione che sia stata approvata a maggioranza, non all’unanimità? Ha letto in qualche giornale che ci siano state forti discussioni? No, è stata semplicemente una riunione di agenti del Ministero degli Esteri dell’URSS, in cui questo ha spiegato e poi dettato la sua posizione a tutti gli assistenti. L’Internazionale, come la concepiamo noi, è caratterizzata dall’esistenza di profonde differenze, proprio perché è mondiale. Non può essere altrimenti, in una riunione di delegati di paesi diversi, che riflettono diverse culture, tradizioni, perfino idiomi. L’unanimità in queste circostanze è impossibile.

Lo sviluppo della rivoluzione è ineguale da paese a paese, vero? Questo provoca uno sviluppo ineguale dei partiti nazionali, sezioni dell’Internazionale.

È così.

Supponiamo che in un paese, per esempio la Bolivia, siamo nelle condizioni di procedere alla presa del potere, proprio quando non c’è un’Internazionale forte…

La domanda è se prendiamo il potere o no?

La domanda è se la presa del potere in un paese dipende dalla costruzione di un’Internazionale molto forte.

Io direi che la costruzione dei partiti nazionali e dell’Internazionale è un processo combinato. Innanzi tutto, per intervenire nella lotta di classe è indispensabile partire da un’analisi corretta della situazione nazionale. Il compito di fare quest’analisi ed elaborare la politica e quello che chiamiamo la “linea” del partito ? cioè la combinazione di compiti e parole d’ordine che proponiamo per mobilitare le masse e costruire il partito ? è compito in primo luogo del partito nazionale. Ma quest’analisi può essere completa solo nel contesto di una valutazione corretta della situazione internazionale: come comprendere la situazione argentina senza tenere conto della situazione di tutto il continente latino-americano e della politica dell’imperialismo yankee? Non è casuale che nei nostri congressi di partito la discussione della situazione mondiale preceda il punto nazionale all’ordine del giorno. Ebbene, è qui che l’organizzazione internazionale, anche se è piccola e debole come la LIT25, svolge un ruolo indispensabile nel raccogliere le esperienze e le opinioni di militanti e dirigenti di molti paesi. L’analisi sarà sempre più ampia, più ricca, di quella che può elaborare un partito nazionale, per brillanti che siano i suoi dirigenti. Ora, l’altro aspetto della combinazione che menzionavo all’inizio è che l’Internazionale può compiere un salto qualitativo nel suo rafforzamento e nella sua crescita solo a partire dalla conquista del potere da parte di qualcuno dei suoi partiti. Un successo del trotskismo in qualsiasi paese abbatterebbe una serie di pregiudizi, in primo luogo quello che sostiene che l’Internazionale è superflua. Onestamente credo che nessun partito trotskista ? e ricordiamo che stiamo parlando del partito che aspira al socialismo con democrazia operaia ? possa prendere il potere senza l’aiuto politico e teorico dell’Internazionale, per piccola e debole che sia. Così si getterebbe alle ortiche questa idea profondamente erronea, nefasta, che l’Internazionale è solo un ornamento, non l’esigenza politica più profonda del movimento operaio internazionale. D’altra parte, l’esempio di un governo trotskista avrebbe un impatto colossale, imponendo la democrazia operaia, con libertà di ogni tipo. Questo governo concederebbe libertà operaie più grandi che qualsiasi Stato, borghese o operaio burocratizzato. Questi due fatti susciterebbero un enorme entusiasmo nella classe operaia mondiale, e l’Internazionale si trasformerebbe ? finalmente! ? in un’organizzazione di milioni di lavoratori.

Lei dice, allora, che l’Internazionale svolge principalmente un ruolo di elaborazione politica. Può o deve la direzione internazionale interferire nella vita dei partiti nazionali?

Non solo di elaborazione politica ma anche di organizzazione di campagne internazionali, come la solidarietà con le grandi lotte operaie ? dalla guerriglia salvadoregna allo sciopero minerario inglese alla lotta antiburocratica del polacco Solidarnosc ? o la politica di unità delle masse dei paesi dipendenti contro il pagamento del debito estero. Per rispondere alla sua domanda, ritengo che in questa fase l’Internazionale non debba interferire con i partiti nazionali. Forse più avanti sarà diverso, quando ci sarà una grande Internazionale, con una direzione molto prestigiosa e i cui partiti detengano il potere in vari paesi. Per il momento deve intervenire, e con la massima energia, nelle discussioni politiche, ma sarebbe un errore molto pericoloso che la direzione internazionale sostituisca la direzione di un partito o imponga una politica nazionale. Il nazionale è un aspetto specifico dell’internazionale, ma conserva un grado di autonomia molto grande.


Capitolo 4. Gli Stati operai esistenti

Molta gente si domanda, vedendo quello che succede negli Stati operai, se davvero valga la pena di fare la rivoluzione socialista. Lì la vita sembra triste, cupa, non ci sono libertà democratiche. Allora, vale la pena di fare la rivoluzione?

Tutto dipende da quale angolazione si guardi. Bisogna tenere presente che tutti i paesi in cui ci sono Stati operai erano estremamente arretrati. Una corrente neomarxista sostiene che la Russia era uno dei paesi più avanzati del mondo. Io non sono d’accordo: l’industria era molto avanzata, così come alcuni settori rurali, ma in generale era un paese molto arretrato. Tutti i paesi in cui si è espropriata la borghesia, salvo la Germania Est e, forse, la Cecoslovacchia e la Polonia, venivano da un’arretratezza millenaria, come la Cina. Vista da quest’angolazione, l’espropriazione della borghesia non solo è valsa la pena ma anzi è stata un colossale progresso storico. Dal punto di vista delle libertà, ha significato per i lavoratori una serie di conquiste relative a quello che chiamiamo, seguendo Trotsky, la democrazia dei nervi e dei muscoli. Prima l’operaio lavorava sedici ore al giorno e mangiava male. Adesso lavora otto ore e mangia in abbondanza: io oserei dire che questo è un diritto democratico, forse il più importante di tutti. Grazie ad esso il lavoratore vive di più, non gli si atrofizzano i nervi e i muscoli. Tutte queste rivoluzioni hanno provocato un avanzamento colossale, in alcuni casi di secoli, nel tenore di vita delle masse. Veda il caso di Cuba. Poco più di dieci anni fa la rivista Life, che è così reazionaria, pubblicò un articolo in cui diceva che dopo la rivoluzione il popolo cubano ha ottenuto miglioramenti materiali impressionanti. Subito i redattori iniziarono a ricevere montagne di lettere, in cui gli si chiedeva cosa stesse succedendo, se fossero diventati propagandisti di Castro. Loro risposero di no, ma che neanche potevano negare i fatti.

Si dice che in Polonia il tenore di vita delle masse si stia deteriorando.

Prima di passare a questo problema le dico che tempo fa ho letto un articolo nell’Alternative26 sui successori di Brežnev. L’autore è un intellettuale ceco esule in Francia che odia il sistema totalitario. Dice che i sovietologi occidentali non comprendono l’URSS e i paesi dell’Europa orientale, hanno un’idea totalmente sbagliata. Non capiscono perché la popolazione aderisca massicciamente al regime. E la ragione, dice, è che non comprendono il tipo di libertà e conquiste sociali che esiste in quei paesi. Vedono solo un aspetto del problema, che è il totalitarismo. Noi che abbiamo vissuto il peronismo degli anni dal ’46 al ’55 troviamo alcune analogie. Il regime peronista aveva forti tendenze totalitarie, manteneva un controllo quasi monopolistico della stampa, ma sotto Perón si ottennero conquiste sociali molto importanti. Nei corsi che abbiamo fatto con i quadri del Movimiento al Socialismo l’estate scorsa ho sottolineato che non si sono potuti introdurre sistemi tayloristi o fordisti negli Stati operai27. Non riescono a far sì che si lavori intensamente. Al contrario, studiosi delle relazioni di lavoro nell’URSS hanno dimostrato che fu impossibile imporre nella fabbrica di automobili di Gor’kij, costruita nel 1937 secondo il modello dello stabilimento Ford degli Stati Uniti, gli stessi ritmi di produzione di questo. E lo stesso stachanovismo dovette essere abbandonato perché la reazione dei lavoratori fece diminuire la produzione di molte aziende28. Ora, man mano che si estende il controllo burocratico emergono con maggiore chiarezza i problemi di mancanza di libertà formali e anche di quelle sostanziali, perché l’economia smette di crescere, o cresce poco e allora si riducono perfino i diritti relativi ai nervi e ai muscoli. La burocrazia ostacola lo sviluppo dell’economia e quindi abbassa il tenore di vita.

Esclusivamente per colpa della burocrazia?

Per me, sì. C’è un grosso problema con l’alcolismo, il che causa un’alta percentuale di nascite di bambini deformi. Non so se abbiano già raggiunto le statistiche di alcune regioni della Francia, bisognerebbe studiarlo. E si dice perfino che le statistiche globali sull’alcolismo nell’URSS deformino la vera situazione, perché nelle regioni musulmane, molto popolate, praticamente non si beve a causa della religione. Vuol dire che nelle regioni non musulmane si beve molto di più di quello che indicano le statistiche per l’intero paese. Menziono questo problema dell’alcolismo perché ha molto a che vedere con la mancanza di libertà formali. Cosa può fare un uomo che lavora otto ore al giorno e può risparmiare molti soldi? I lavoratori degli Stati operai sono ricchi, per così dire, hanno soldi in banca, però non c’è niente da comprare. Questo produce una grande alienazione, che porta alla sbornia. A che serve lavorare comodamente e avere molti soldi e tempo libero se non si può scrivere un libro, o pubblicare un giornale, o dipingere un quadro, o dirigere un film o un programma televisivo? O esprimersi attraverso un partito politico o una tendenza intellettuale o scientifica? Qui iniziano i gravi problemi che conducono all’alcolismo. Ora, insisto, se guardiamo il punto di partenza, il progresso è stato colossale. In Cina ha regnato la fame per due-tremila anni, ma questo problema è sparito a partire dall’espropriazione della borghesia, dei grandi proprietari terrieri e dell’imperialismo. Visto dinamicamente, è un processo che comincia con un salto colossale e poi, a causa del controllo burocratico, inizia a rallentare e, infine, a retrocedere.

Ma non fino a tornare al punto di partenza.

Certo che no. Per questo occorrerebbe una controrivoluzione sociale che restituisse il potere e la proprietà alla borghesia e all’imperialismo.

Stando a quanto diceva poco fa, la popolazione aderisce massicciamente al regime. Ora, supponiamo che in Germania si faccia un referendum, e che i cittadini dell’est e dell’ovest possano scegliere liberamente il sistema che preferiscono. Non sceglierebbero quello della Germania Ovest?

Non so se è al corrente che i tedeschi dell’est che sono andati dall’altra parte iniziano a tornare. È un fatto piuttosto recente. È vero che la maggioranza sceglierebbe il sistema tedesco-occidentale, ma non dimentichi che la Germania Ovest è uno dei paesi che ha più beneficiato del boom economico del dopoguerra e inoltre, alla divisione del paese, rimase con la parte più industrializzata. L’est è più agricolo, aveva praticamente una sola grande industria, la celebre ottica Zeiss, di Lipsia.

Ho letto da qualche parte che la Germania Est ha il tenore di vita più alto di tutti gli Stati operai.

È possibile, ma nonostante tutto è considerevolmente più basso di quello della Germania Ovest. Però, tornando a quello che dicevo poco fa, il flusso di tedeschi orientali verso l’ovest inizia a invertirsi, alcuni tornano perché non sopportano le piaghe del mondo capitalista. In Germania Ovest ci sono più di due milioni di disoccupati e inoltre i ritmi di lavoro sono infernali. Come se non bastasse, devono competere con gli operai immigrati turchi, che sono una manodopera a buon mercato.

Parlando del ritmo di lavoro, ho visto un fenomeno interessante in un viaggio in Israele. Gli ebrei sovietici tornavano massicciamente nell’URSS proprio per questo problema. Per questo e per la disoccupazione. Ho avuto l’opportunità di parlare molto della vita in Russia con una donna nata e cresciuta là, figlia di spagnoli che emigrarono nell’URSS dopo la guerra civile. Questa signora inizialmente era abbagliata dalla Spagna. E ultimamente ho saputo che sta pensando di tornare nell’URSS per il problema del lavoro. In Spagna ci sono tre milioni di disoccupati, e lei non può correre il rischio di restare senza lavoro. In Russia non avrebbe questo problema. Il ritmo di lavoro è un’altra questione: nell’URSS non sono riusciti a imporre un sistema di tipo taylorista, malgrado i tentativi degli ultimi governi.

A quanto pare, gli emigrati russi impazziscono nei paesi occidentali. Ho visto che in Israele li trattano come semi-sottoproletari, fannulloni che non sanno cosa significhi lavorare sodo.

Hanno ragione se si misura il loro rendimento lavorativo secondo i valori occidentali. Un operaio nordamericano o israeliano della Ford vede lavorare un operaio russo e pensa questo. O un operaio argentino dell’epoca di Perón: a quel tempo l’operaio poteva cambiare lavoro quando gli conveniva, non andare in fabbrica quando era malato, eccetera. Con l’operaio russo succede lo stesso.

Allora si potrebbe dire come un complimento che, grazie all’economia pianificata, possono mangiare malgrado il ritmo di produzione inferiore a quello occidentale.

È un complimento ma anche una critica, il problema ha due aspetti. L’operaio russo che manca spesso, cambia lavoro e in generale rende poco sta protestando contro un regime che gli nega un altro tipo di libertà. L’operaio che soffre la mancanza di democrazia e gli altri mali del regime burocratico non può amare il suo lavoro. Questo ci porta di nuovo al problema del se è valsa la pena di fare la rivoluzione. Ne è valsa la pena nel senso che dicevamo prima. L’ebreo russo che è emigrato in Israele e poi vuole tornare aspira a recuperare i diritti dei suoi nervi e dei suoi muscoli. Arrivando in Occidente inizia a lavorare otto ore o molte di più ? ammesso che abbia la fortuna di non restare disoccupato ? e a un ritmo di lavoro capitalistico, che lo distrugge.

Lei direbbe che la bassa produttività del lavoro nell’URSS sia una forma di protesta contro il sistema totalitario?

Ci sono elementi di protesta contro il sistema, ma il problema è molto più complesso. Non esistendo la proprietà privata, non ci sono meccanismi economici che permettano di intensificare la produzione. Nei corsi estivi del MAS mi sono soffermato su questo. Lenin fu il primo a dire che si doveva introdurre nel socialismo il taylorismo dal volto umano. Ciò fallì perché, non esistendo il padrone, all’interno della fabbrica si verifica una situazione di potere estremamente contraddittoria. Il partito al potere è forte, il sindacato è forte, anche i direttori di fabbrica lo sono. È una situazione nella quale non domina nessuno. Per fare un esempio contrario, supponiamo che la commissione interna della Ford vada dal direttore e chieda un aumento dei salari. Il direttore chiama il consiglio di amministrazione negli Stati Uniti e dice: “la mia posizione è che non dovremmo dare l’aumento, ma aumentare le ore di lavoro”. Il consiglio di amministrazione risponde che è d’accordo ed è tutto: l’ordine della direzione aziendale è uno solo. Che riesca a imporlo o no è un’altra storia, dipenderà dalla lotta, cioè dai rapporti di forza operaio-padronali. Ora, quando l’economia è nazionalizzata, la proprietà diventa astratta, per così dire. Il direttore di fabbrica che voglia intensificare il ritmo di lavoro, cioè lo sfruttamento, deve consultare il partito. Questo consulta il sindacato e il direttore, fa da arbitro fra i due. Ma si dà il caso che la burocrazia abbia il terrore del movimento operaio. Appena si vede che c’è mobilitazione, pensa che gli operai siano più forti del direttore e subito cede. Per quanto sembri incredibile, gli Stati operai sono gli unici paesi al mondo in cui gli operai vincono quasi tutti i conflitti. Che fa il partito quando c’è mobilitazione? Fa saltare i direttori. Va la direzione locale del partito, o quella provinciale se il conflitto si è esteso, e concede tutto: aumenti o quello che si chiede. La repressione viene dopo ed è selettiva: è rivolta implacabilmente contro la direzione del conflitto. Questo meccanismo si ripete costantemente: è un fatto, poco conosciuto fuori dal paese, che nell’URSS ci sono grandi ondate di scioperi. L’informazione è molto controllata, quindi ci sono voluti anni per scoprire che, a quanto pare, l’ascesa di Krusciov fu dovuta a una grande ondata di scioperi.

Vorrei insistere sul tema della bassa produttività. A cosa è dovuta, in concreto?

A una combinazione di fattori: inettitudine burocratica; mancanza di entusiasmo del lavoratore a causa dell’assenza di democrazia; il fatto di non affrontare un padrone implacabile e dispotico, obbligato a ciò dalla necessità di accumulare, ma un partito che può manovrare e fare da arbitro fra i direttori e gli operai all’interno della fabbrica.

Non è dovuta anche alla mancanza di concorrenza? I capitalisti dicono che il grande incentivo alla produzione è la concorrenza. I capitalisti si fanno concorrenza a vicenda e quello che non ha l’efficienza necessaria soccombe. Tutti devono abbassare i costi, adottare politiche di vendita aggressive e sistemi di produzione efficienti. La mancanza di concorrenza genera inefficienza, come nelle aziende pubbliche. Allora, si può andare avanti senza concorrenza?

L’URSS è progredita moltissimo, e lì non esiste la concorrenza. Per il fatto di avere espropriato la borghesia e introdotto l’economia pianificata è passata in meno di mezzo secolo dall’essere un paese arretratissimo a una potenza di primo piano. Guardi il ramo aerospaziale: il primo satellite, lo Sputnik, lo lanciò l’URSS. Ora, i capitalisti hanno ragione a dire che non è stata raggiunta un’efficienza superiore a quella del sistema borghese. Ciò è dovuto a vari fattori. Il primo l’ho già menzionato: buona parte della produttività del lavoro nei paesi capitalisti è dovuta al supersfruttamento del lavoratore, al fatto di essere sottoposto a lunghi turni e a un ritmo di lavoro infernale. È la mancanza di democrazia dei nervi e dei muscoli o, secondo la bella espressione coniata dagli ecologisti, la diminuzione della qualità della vita. Al giorno d’oggi si sta valutando attentamente se la celebre efficienza capitalistica non abbia portato più mali che benefici: scomparsa di specie animali, lo sfruttamento più brutale di milioni di esseri umani, il che comporta il loro abbrutimento, nuove malattie come quelle mentali, cose orribili. L’efficienza e il progresso tecnologico sono importanti, ma non sono tutto: esiste un fattore qualitativo, che è la qualità della vita. Il fattore che più cospira contro l’efficienza negli Stati operai burocratizzati è la conduzione totalitaria dell’economia. C’è molta corruzione, spreco, disordine. Succedono cose ridicole, come la fabbrica che produsse una grande quantità di guanti ed erano tutti per la mano destra. Un altro esempio è quello di una fabbrica tessile che, per rispettare la quantità di metri di tessuto prescritta dal Gosplan, la commissione di pianificazione centrale, ridusse la larghezza del tessuto; allora l’amministrazione centrale gli diede un premio per aver prodotto più metri di tessuto di quelli prescritti. Queste cose deliranti, degne di un manicomio, sono dovute al controllo burocratico, che non permette alla classe operaia di esprimersi. Lei ha menzionato le aziende pubbliche capitalistiche: all’inizio furono molto efficienti, per quanto i liberisti lo neghino. Per esempio, la scuola pubblica argentina fu un’azienda pubblica straordinaria. La borghesia la creò mentre costruiva l’Argentina moderna, e quando tre abitanti su quattro erano immigrati che non avevano padronanza della lingua. Un altro esempio è la posta, e anche le ferrovie dello Stato negli anni Trenta. Funzionavano molto bene per essere statali.

Ma supponiamo che io sia un operaio sovietico: che incentivi ho che mi facciano produrre?

Nessuno. Magari c’è qualche tipo di premio alla produzione. Io sarei a favore dei premi, purché li si stabilisca democraticamente. Cioè che gli operai decidano che chi più produce più guadagna.

Questo migliorerebbe la produttività del lavoro?

A mio parere sì, ma purché sia per risoluzione democratica dei lavoratori, insisto su questo. Loro devono decidere, per esempio, se un grande medico, professore universitario, debba guadagnare più di un professionista “di base”. La cosa fondamentale è la democrazia. In una riunione democratica io sosterrei che nella prima fase dello Stato operaio devono applicarsi questi incentivi.

Potrebbe soffermarsi sulla questione della pianificazione pensando al lettore che è introdotto a questi temi per la prima volta?

Bene, iniziamo con il capitalismo. Il borghese fa i suoi piani tenendo conto del mercato e della concorrenza. Innanzi tutto, vorrei chiarire che non sempre la concorrenza fa abbassare i prezzi: dalla concorrenza sono nati i monopoli, e quando questi dominano il mercato i prezzi salgono. Ad ogni modo, anche all’epoca dei monopoli la concorrenza esiste ed è implacabile. La concorrenza capitalistica ha un elemento di controllo formidabile, che è il mercato. Se io fabbrico un prodotto che non si vende sul mercato, la mia impresa fallisce. Il mercato è una risposta economica “democratica”, per così dire, perché l’atto di comprare o non comprare un prodotto è una risposta alla qualità, all’efficienza, sebbene il più delle volte alla pubblicità, da parte dei consumatori.

C’è anche un altro fattore: l’utilità. Voglio dire, se uno zuccherificio in Argentina è inefficiente, l’impresa fallisce. A Cuba non fallirebbe, rientrerebbe nella totalità dell’inefficienza burocratica.

D’accordo, ma continuiamo con il problema del meccanismo economico. Nel mondo economico esistono finora tre meccanismi: il capitalismo, la democrazia operaia e la burocrazia. Il capitalismo è dall’alto verso il basso, dal produttore al consumatore, e riceve una risposta automatica, meccanica, dal mercato, che accetta o rifiuta il prodotto. Se questo è di cattiva qualità, non si vende. Se l’impresa è inefficiente e i suoi costi sono troppo alti, magari vende il suo prodotto, ma in perdita, perché il mercato impone i prezzi. Il secondo meccanismo, che finora è esistito solo nell’Unione Sovietica dei primi anni, sotto Lenin e Trotsky, è quello della democrazia operaia. È un processo dal basso verso l’alto nel quale l’assemblea di fabbrica determina democraticamente la quantità e qualità di quello che produrrà, questo piano passa all’assemblea distrettuale, che a sua volta lo approva o modifica e poi lo inoltra alle istituzioni della Repubblica Sovietica incaricate di elaborare il piano economico globale. In tutto il processo intervengono i lavoratori, organizzati in correnti e partiti sovietici, per pronunciarsi sul piano in tutti i suoi aspetti: che cosa e quanto si produce per il consumo interno, per l’esportazione, cosa si deve importare, eccetera. Il meccanismo di controllo non è automatico, cieco, per così dire, come il mercato, ma razionale e cosciente: i lavoratori discutono e determinano democraticamente il piano economico d’insieme e lo approvano per mezzo di una votazione libera. Il terzo meccanismo, quello burocratico, è dall’alto, dallo Stato al consumatore. Non ci sono meccanismi di controllo, né del mercato né dei lavoratori, e quindi è una totale follia. Il direttore di fabbrica elabora il suo piano cercando di dimostrare che ha bisogno di molto più denaro, materie prime e personale di quello che ci vuole in realtà. Nell’URSS gli stock delle fabbriche sono immensi, molto più grandi che nei paesi capitalisti. Il capitalista chiede quello di cui ha bisogno e quando gli si finisce chiede di più. Ma negli Stati operai, in cui comanda la burocrazia, nessuno sa se gli arriveranno le materie prime quando ne avrà bisogno. Quindi i direttori cercano di accaparrarsi manodopera, macchinari, materie prime e fondi. Soprattutto questi, perché da ciò dipende il loro status. Il direttore che maneggia milioni di rubli è più importante di quello che ne maneggia centinaia di migliaia. Sviluppandosi la pianificazione dall’alto e senza la minima opposizione, tutto si distorce. Ognuno cerca di ingannare gli altri, perché la decisione finale è nelle mani del segretario generale, esclusivamente. Ma non c’è modo di ingannare le leggi dell’economia: se si producono guanti solamente per la mano destra o tessuti di larghezza inferiore allo standard industriale, si provoca uno squilibrio brutale, e, fra le altre anomalie, un fiorente mercato nero. Un simile delirio è il prodotto inevitabile, insisto, di un’economia pianificata dall’alto senza controllo. I commentatori borghesi stanno bene attenti a non ricordare che durante gli anni Venti, quando regnava la democrazia operaia nel paese e nel partito comunista e i piani economici si discutevano e votavano liberamente, si ottenne l’unico autentico “miracolo economico” di questo secolo: l’Unione Sovietica passò, in soli due anni, da una crisi economica e una carestia senza precedenti a una situazione nella quale aumentò la produzione, migliorò il tenore di vita dei lavoratori e si ridusse notevolmente la giornata lavorativa. L’economia dello Stato operaio continuò a migliorare fino al 1928, proprio l’anno in cui lo stalinismo fece il suo colpo di Stato reazionario. A partire da allora è stata imposta la pianificazione burocratica, dittatoriale, dell’economia, che portò al disastro e alla morte milioni di lavoratori, principalmente contadini. Quando i sostenitori della libera impresa dicono che esistono solo due sistemi di controllo dell’economia ? il capitalismo liberista e il sistema stalinista ? mentono consapevolmente, perché così gli risulta più facile screditare il socialismo e la proprietà statale dei mezzi di produzione.

Passando ai problemi attuali degli Stati operai, in Cina negli ultimi anni c’è stata una svolta nell’economia, con l’introduzione di elementi dell’economia capitalista, perfino fabbriche private. Questo significa un ritorno al sistema capitalista?

Allora, precisiamo. Indubbiamente sono stati introdotti elementi di capitalismo nello Stato operaio cinese, ma ciò non significa che la Cina stia tornando al sistema capitalista solo per aver fatto alcune concessioni. Il pericolo del ritorno esiste, ma può realizzarsi solo attraverso un processo politico: una controrivoluzione che restituisca il potere alla borghesia e all’imperialismo. Per questo ci devono essere grandi lotte, tremendi fenomeni politici. L’esempio recente del Cono Sud latino-americano è molto illuminante, poiché si tratta di cambi di regime, non della sconfitta definitiva degli sfruttatori per mano dei lavoratori. Perché cadessero le dittature di Bolivia, Argentina e Brasile sono state necessarie gigantesche mobilitazioni di massa. In questi paesi il potere non è passato da una classe all’altra ma dalla dittatura borghese alla democrazia borghese. E al contrario, nel 1976, per poter imporre il piano Martínez de Hoz, la borghesia argentina dovette ricorrere a un colpo di Stato e a una dittatura che massacrasse l’avanguardia del movimento di massa. Il passaggio del potere da una classe all’altra richiede shock di questo tipo, ma su scala incomparabilmente più ampia. L’introduzione di elementi capitalistici in Cina genera una dinamica controrivoluzionaria, però la borghesia potrà tornare al potere solo mediante una controrivoluzione armata che schiacci il movimento di massa.

Il fatto di introdurre elementi di capitalismo non è un riconoscimento della maggiore efficienza del sistema capitalista?

È un riconoscimento, in primo luogo, del fatto che Mao era un politico disastroso e un economista peggiore, oltre che un burocrate. Era necessario fare marcia indietro sui suoi piani demenziali, per esempio quello di produrre acciaio su scala ridotta, nei villaggi rurali, con metodi artigianali. È un riconoscimento anche della maggiore efficienza del capitalismo nel senso che un’impresa capitalistica può imporre ai suoi operai un livello di sfruttamento impossibile per uno Stato che ha espropriato la borghesia. E infine è un riconoscimento dell’incapacità di raggiungere un grande sviluppo tecnologico con i metodi di Mao.

Potremmo equiparare l’attuale svolta cinese alla NEP29?

Sì, ma una NEP con concessioni molto più gravi e senza il controllo democratico del movimento operaio che c’era nell’Unione Sovietica sotto Lenin e Trotsky. La NEP fu una misura volta a salvare una situazione critica, e i bolscevichi avevano il piano di appoggiarsi ai contadini poveri, sviluppando le fattorie collettive, per impedire che i contadini ricchi dominassero l’economia agricola. Nel caso della Cina, è una NEP diretta da Bucharin30. Cioè dall’ala destra del partito bolscevico, che lanciò la parola d’ordine “contadini, arricchitevi!”, senza mettere in guardia dai pericoli della comparsa di un ceto agrario sempre più ricco. La burocrazia cinese non dà questo allarme né crea meccanismi politici per neutralizzarlo.

Quindi quello che cerca la burocrazia cinese è una maggiore efficienza per questa via, mancando la democrazia operaia.

Certo, l’alternativa è ferrea: democrazia operaia o ritorno al capitalismo. Il processo cinese è molto interessante perché mostra il futuro.

Possono esserci scelte intermedie? Dico questo perché casualmente ho appena letto che un’impresa italiana che produce jeans col suggestivo marchio “Jesus” ha costruito poco tempo fa uno stabilimento nell’URSS. Produrrà jeans a una contabilità per ora/persona inimmaginabile. Tutto il processo, dal taglio del tessuto all’imballaggio finale, sarà altamente computerizzato, il che vuol dire che impiegherà poca manodopera. Allora, a quanto pare, quello che l’URSS ha importato è altissima tecnologia italiana. Questo può essere interpretato come un’introduzione di elementi capitalistici nel modo di produzione socialista?

Non conosco i termini dell’accordo. Se il borghese italiano, padrone dell’impresa, controlla la fabbrica, la risposta è sì. Ora, se è un accordo per consegnare una fabbrica chiavi in mano, cioè totalmente allestita e pronta per entrare in funzione, come si è fatto con la FIAT, questo non pregiudica affatto l’economia socialista. Se gli fanno, come in Cina, la concessione di allestire la fabbrica, sfruttare manodopera russa e prendersi i profitti, è un elemento capitalistico importante.

Concretamente, può esserci restaurazione capitalista? Non soltanto può ma ci sarà, a meno che non si sconfigga il capitalismo mondiale. Socialismo con democrazia operaia o trionfo dell’imperialismo: non vedo altra alternativa. E, se avviene quest’ultimo, gli Stati operai diventeranno semicolonie dell’imperialismo.

Ci sono tendenze all’interno degli Stati operai che aspirano alla restaurazione capitalista?

Questa questione ha a che vedere con una debolezza nelle analisi trotskiste degli Stati operai burocratizzati. Noi trotskisti abbiamo sempre creduto che esistano forti tendenze interne a favore della restaurazione, del tipo dei nepman russi31. Effettivamente, queste tendenze c’erano e furono piuttosto importanti, ma ho l’impressione che la restaurazione capitalista non verrebbe per questa via bensì attraverso il radicamento di imprese, il commercio estero e gli accordi con l’imperialismo.

Con questo criterio, un dirigente sindacale sarebbe disposto a consegnare il suo sindacato al padrone, quando appunto vive del suo posto di dirigente e da questo ottiene i suoi privilegi.

Per rispondere le racconterò un fatto vero che successe in Argentina. C’era un dirigente del sindacato dei tassisti, non ricordo il suo nome, che era un grande amico di Alsogaray quando questi era ministro e creò una società con lui e con March32. Quest’uomo viveva con suo figlio in un lussuoso hotel della capitale. L’affare fu fatto a nome del sindacato dei tassisti, e l’uomo, che era segretario generale del sindacato, incassò una sostanziosa commissione. Con questo denaro creò una società con March per fondare la Pueyrredón Construcciones, una grande impresa edile che fece moltissimo denaro lavorando per i sindacati. Si fecero concedere un credito multimilionario dal Congresso e costruirono abitazioni per il Sindicato de Empleados de Comercio. Perché mai non potrebbe verificarsi questo processo con settori burocratici dello Stato operaio? In Cina è stata scoperta l’esistenza di un gruppo di giovani chiamati i “figli dei quadri superiori”, cioè figli di generali, ministri, membri del Comitato Centrale del partito, eccetera. Essi occupano posizioni di basso livello nell’apparato dello Stato, ma grazie ai loro legami familiari sono nelle condizioni di prestare i loro buoni uffici a favore dei capitalisti che vogliono investire in Cina. Il sistema è talmente consolidato che addirittura è già stabilita la tariffa e la modalità di pagamento. Il giovane intermediario riceve dal capitalista l’equivalente del due per cento dell’importo dell’affare: la metà alla firma del contratto e il resto al concretizzarsi dell’operazione33. Un altro esempio è quello del burocrate polacco Stepaszynsky, direttore dell’Istituto del cinema e della televisione, denunciato da Solidarnosc: l’uomo era diventato multimilionario, aveva proprietà di lusso in Costa Azzurra. Vale a dire che i capitalisti corrompono i funzionari burocrati, gli offrono grandi affari. Il fattore più importante della restaurazione capitalista non sono i piccoli commercianti di quartiere o di villaggio, come i nepman e i trafficanti del mercato nero, ma i settori burocratici che si trasformano in agenti diretti o indiretti dell’imperialismo, che penetra attraverso le intrusioni, i prestiti del FMI, affari che permettono di dare queste tangenti. Un’altra via possibile, che Trotsky non ha visto, è quella delle cooperative di produzione. Questo è il programma di Walesa in Polonia. In che consiste? Che ogni fabbrica si trasformi in un’impresa indipendente; che si liquidi il monopolio statale del commercio estero; che ogni impresa importi ed esporti per conto suo. Per me, questo è già capitalismo. Le fabbriche funzionerebbero come cooperative di operai, però cooperative capitalistiche. Ciò liquiderebbe la nazionalizzazione e la pianificazione dell’economia. L’imperialismo è stato molto più abile di quello che credevamo. La sua politica non è soltanto arricchire il nepman ma attaccare la burocrazia statale perché inefficiente, un intralcio alla produzione. Che ogni fabbrica con i suoi lavoratori, tecnici e capisquadra costituisca una cooperativa e negozi direttamente con l’imperialismo, che le darebbe crediti, tecnologia, tutto quello che le serve, anche un mercato per i suoi prodotti. In questo modo l’economia diventa dipendente e il paese una semicolonia. La grande parola d’ordine dell’imperialismo sarà che gli operai siano padroni delle loro fabbriche. Guardi che cosa insidiosa: colonizzare un paese in nome della proprietà operaia delle imprese. La Jugoslavia è andata molto avanti in questo senso.

Passando a un terreno più politico, vorrei parlare delle possibilità, delle prospettive della rivoluzione politica, cioè di rovesciare la burocrazia e instaurare la democrazia operaia.

Trotsky è il grande teorico marxista che pone la necessità di una rivoluzione che conservi le conquiste fondamentali dell’Ottobre e rovesci la sua principale nemica interna, la burocrazia, per tornare alla democrazia operaia. Questo è, oltre che un punto del nostro programma, un’ipotesi teorico-politica. Lei sa che il processo storico conferma alcune ipotesi e ne smentisce altre. Crediamo che questa sia stata confermata perché ci sono state rivoluzioni politiche, alcune di ampiezza straordinaria sebbene non abbiano trionfato. La rivoluzione politica è un fatto della vita politica contemporanea, come dimostrano l’Ungheria e la Polonia nel ’56, la Cecoslovacchia nel ’68 e il processo polacco iniziato nel 1970/’71 con lo sciopero dei cantieri navali, e che a mio parere è tuttora in corso dopo aver attraversato varie crescite e riflussi. Ci sono altri fatti, forse meno spettacolari, ma a mio parere rivoluzionari: l’esistenza di gruppi di opposizione semilegali in Ungheria; la libertà di Baluka in Polonia34. Queste sono conquiste delle masse contro lo Stato totalitario, prodotti di insurrezioni come quella ungherese, ceca o quella polacca. In molti di questi paesi ci sono gruppi di opposizione che si riuniscono, discutono, pubblicano samizdat35 e sono tollerati dai governi. Quindi mi sembra inevitabile che si sviluppi la mobilitazione operaia e di massa negli Stati operai burocratizzati. All’inizio magari avrà un carattere riformista, ma arriverà il momento in cui prenderà in considerazione il rovesciamento della burocrazia, la ricostruzione democratica dei sindacati e dei soviet o la fondazione di nuovi organismi come Solidarnosc in Polonia.

Non c’è il pericolo che la rivoluzione politica porti alla restaurazione capitalista? Domando questo perché, per esempio, Walesa è un uomo della Chiesa cattolica.

Serve anche la burocrazia, e si rivolge a Jaruzelski con il massimo rispetto, come quando questi era suo superiore al servizio militare. Passando direttamente alla domanda io direi di sì, è una possibilità. Ogni passo avanti presenta i suoi pericoli, ma non per questo bisogna evitare di farlo. Dopotutto l’Argentina, col diventare indipendente dalla Spagna, correva il rischio di trasformarsi in una colonia inglese. Come ogni lotta, può terminare in diversi modi: in un successo, in un pareggio, nella distruzione del paese, ci sono molte varianti. Se io dicessi che ogni processo rivoluzionario conduce inesorabilmente al trionfo delle masse tradirei le mie convinzioni metodologiche. La rivoluzione contadina in Germania fu sconfitta e praticamente distrusse il paese. La Rivoluzione Francese provocò una carestia tremenda nei primi anni, così come la Rivoluzione Russa. In astratto non si può escludere che l’imperialismo sfrutti le lotte fra il movimento operaio e la burocrazia per invadere il paese, se la situazione internazionale e la sua stessa situazione interna lo permettono. Se mi domandano se ciò sia possibile, devo rispondere di sì. Storicamente, il processo di rivoluzione politica è fatale per l’imperialismo. Immaginiamo che Solidarnosc prenda il potere in Polonia e Walesa, alla testa del processo, cerchi di restaurare il capitalismo. Questo succederebbe necessariamente nel mezzo di una mobilitazione popolare tremenda, che imporrebbe la più ampia democrazia, con libertà di formare partiti, discutere, pubblicare, eccetera. Inoltre originerebbe una mobilitazione rivoluzionaria antimperialista nel mondo intero, la cui dinamica tenderebbe verso il socialismo con democrazia. Per fare un esempio, la Rivoluzione Francese fu iniziata dal settore di Mirabeau, che voleva arrivare a una monarchia costituzionale per garantire i prestiti del re, e finì per liquidare il monarca.

Ecco perché l’imperialismo ha sostenuto Jaruzelski in Polonia, gli ha fatto dei prestiti…

Esattamente. Qual è, per l’imperialismo, l’importanza del burocrate? È l’uomo con cui può negoziare l’entrata di un prestito del FMI allo Stato operaio e obbligarlo poi a imporre un piano di austerità per pagarlo. È l’uomo con cui firma un accordo per la “pace mondiale”, che in pratica significa che Castro fa pressione sulla direzione della guerriglia salvadoregna perché negozi con la borghesia e gli yankee, e non si sogni di fare in El Salvador una “nuova Cuba”. Questo è quello che perde l’imperialismo se cade il burocrate. Perde anche il suo argomento ideologico più importante per ingannare gli operai del suo stesso paese, che è la mancanza di democrazia negli Stati operai totalitari. Qualcosa di simile succede con i sindacati nei paesi capitalisti. Per la borghesia è imprescindibile che li diriga la burocrazia, non correnti classiste o rivoluzionarie.

Ecco perché in Argentina abbiamo visto come il candidato Alfonsín denunciasse il difetto di democrazia nei sindacati, ma sia corso in aiuto dei burocrati quando è arrivato al governo.

Sì, sebbene abbia delle differenze con i burocrati, per un governo borghese non c’è niente di peggio dei sindacati democratizzati.

Rimane un punto che mi preoccupa nella nostra concezione di rivoluzione politica: io non vedo forze oggettive negli Stati operai a favore della democratizzazione. Mi sembra che manchi il fattore soggettivo, il partito, per sollevare il problema della democrazia operaia.

Il partito rivoluzionario è il fattore soggettivo necessario per dirigere la rivoluzione politica, darle una spinta dinamica, impedire che cada nelle mani dell’imperialismo: fin qui siamo d’accordo. Dissento da questa affermazione per cui non esistono forze oggettive. Per esempio, nella rivoluzione ungherese del ’56 si facevano riunioni nelle fabbriche, si pose il tema della democrazia interna nel partito comunista. Per quanto riguarda la rivoluzione cecoslovacca del ’68, Lambert ha una teoria secondo cui l’esercito russo fece l’invasione perché la burocrazia sovietica era terrorizzata dal processo di democratizzazione. Pare che il congresso del PC ceco stesse per modificare il suo statuto, a favore di regole più democratiche. L’intervento russo fu dovuto all’avanzamento della democrazia operaia, più che a qualsiasi altro fattore della mobilitazione rivoluzionaria. Non invase la Polonia perché poté controllare questo processo attraverso il PC, guidato da Gomulka. Ribadisco che è una teoria di Lambert, io non posso sostenerla né smentirla, però mi sembra ben fondata. Confesso di non aver mai attribuito grande importanza a quel congresso del PC ceco. Lambert sì, lo considera importantissimo perché si riunì nel mezzo del processo rivoluzionario. E questo è avvenuto perché ci sono poderose tendenze oggettive a favore della democrazia operaia. Se di qualcosa soffrono le masse, gli intellettuali, gli operai di questi paesi, è della mancanza di democrazia. Se l’obiettivo dei dieci milioni di membri di Solidarnosc non è la democrazia, qual è? Tendiamo a vedere solo cosa pensano alcune migliaia di dirigenti cattolici di Solidarnosc, e trascuriamo quello che pensano e manifestano nell’azione i dieci milioni. Solidarnosc è un grande movimento di tutti i lavoratori polacchi per la democrazia. E per di più è democratico: Walesa fa le sue manovre, da buon burocrate e uomo del Vaticano, ma deve imporre le sue posizioni per votazione. Io non credo nelle categorie storiche imposte dal di fuori, cioè che non emergano dalle masse. Credo nella rivoluzione politica perché è un processo oggettivo: le masse dell’URSS soffrono profondamente la mancanza di democrazia, che produce alienazione. Tutti questi paesi sono il regno dell’oppressione burocratica e dell’alienazione, sebbene sia scomparso lo sfruttamento diretto delle masse lavoratrici da parte della borghesia. Il ruolo del partito rivoluzionario è di dirigere questa mobilitazione democratica, dotarla di un programma, impedire che degeneri in democrazia borghese.


Capitolo 5. Lo Stato operaio rivoluzionario

Nella conversazione precedente abbiamo parlato degli Stati operai burocratizzati, oggi vorrei toccare il tema dello Stato operaio rivoluzionario. Supponiamo, concretamente, che il nostro partito prenda il potere: come sarebbe lo Stato? Quali sarebbero le sue principali differenze con gli Stati diretti dalla burocrazia?

La prima fra tutte è che siamo contrari a dire che il nostro partito prende il potere: è un’affermazione pericolosa. Se un esercito guerrigliero o un partito operaio opportunista dirige una rivoluzione e prende il potere, possiamo appoggiare questo processo poiché molto progressivo, ma programmaticamente siamo contrari al fatto che questo esercito o partito operaio prenda il potere come organizzazione in sé. Il nostro programma rivendica la presa del potere da parte della classe operaia attraverso le sue organizzazioni, nelle quali devono essere coinvolti tutti i partiti di classe, e in queste organizzazioni noi cercheremo di avere la maggioranza per dirigerle. Questa è la nostra prima grande differenza con la burocrazia. La seconda, che segue da essa, è che non vogliamo costruire uno Stato totalitario, assolutamente controllato dal nostro partito, ma esattamente il contrario. Vogliamo sostituire il parlamento borghese con organismi molto più democratici, come possono essere i sindacati, le commissioni di fabbrica, soviet, insomma le organizzazioni che crea la classe operaia. Inoltre incoraggeremo la creazione di organismi quali le cooperative, le organizzazioni di quartiere, eccetera, in cui regni la democrazia in modo permanente. Alcuni sostenitori degli Stati operai esistenti dicono che in essi c’è democrazia “di base” o “di massa” ? così la chiamano ?, perché esistono organizzazioni di quartiere in cui si discutono i problemi locali, come la raccolta della spazzatura o l’asfaltatura delle strade. Non prendiamoci in giro: non esiste democrazia se non regna il diritto di formare tendenze, frazioni e partiti in tutte le organizzazioni delle masse e le istituzioni dello Stato centrale per discutere e pronunciarsi su tutti i problemi, dal piano economico nazionale alla costruzione di una strada di quartiere; dalla Costituzione Nazionale a una legge di minore importanza.

Esisterebbe un parlamento?

Sì, ma un parlamento operaio.

Quale sarebbe la differenza con un parlamento borghese?

In primo luogo, che concentrerebbe i tre poteri dello Stato, non solo quello legislativo. Nella democrazia borghese i tre poteri sono separati perché questo serve gli interessi della classe dominante. Per esempio, se il parlamento approva una legge favorevole al proletariato, ci sono il potere esecutivo e la giustizia per differire la sua applicazione, ostacolarla in mille modi diversi, impedire che sia applicata. Il parlamento è suscettibile alle pressioni delle masse, gli altri due poteri sono stati creati per contrastare queste pressioni. Noi vogliamo un’istituzione agile, che permetta di applicare immediatamente le risoluzioni dei lavoratori. Quindi vogliamo che l’esecutivo e la giustizia siano braccia del potere legislativo operaio.

Significa che a capo della Repubblica Socialista Argentina, o comunque si chiami, ci sarebbe un organismo simile a un congresso di sindacati o consigli operai?

Esattamente. Il proletariato di ogni paese deciderà che tipo di organismo vuole. Questo dipende dalla realtà locale. Per esempio, quando una buona parte del trotskismo mondiale agitò la parola d’ordine di “organismi popolari” o “fronti unici di partiti” in Bolivia, noi ci siamo opposti. Le uniche organizzazioni di massa che possono prendere il potere in Bolivia per ora sono i sindacati e la centrale operaia, quindi abbiamo proposto “tutto il potere alla COB”. Siamo contro le organizzazioni fantasma, inesistenti nella realtà, esistenti solamente nell’immaginazione di dirigenti come Guillermo Lora36. Finora nessun organismo fantasma ha preso il potere. Non crediamo nei fantasmi, men che meno in politica. Il movimento operaio deve darsi le forme organizzative che vuole, e che corrispondono alle sue tradizioni e alla sua esperienza.

Come le commissioni di operai e soldati e le organizzazioni di inquilini nella rivoluzione portoghese del ’74?

Certo, o come i soviet in Germania nel 1918. Ma dopo la rivoluzione del ’18 non riemersero soviet in Germania, e comparvero comitati di fabbrica. Trotsky disse all’epoca che il PC doveva dimenticarsi dei soviet e cercare di diventare forte nelle commissioni per prendere il potere attraverso di esse. Privilegiamo sempre la forma più rappresentativa che si sia data la base stessa del movimento operaio. Tornando alle differenze con la democrazia borghese, il parlamento operaio eleggerebbe una commissione o un presidente che sarebbe responsabile davanti ai deputati e revocabile in qualsiasi momento. A loro volta i deputati sarebbero responsabili davanti ai loro elettori, che potrebbero anche revocarli all’istante. La seconda grande differenza è, allora, che i funzionari eletti non sarebbero in carica per periodi prestabiliti bensì potrebbero essere revocati nel momento in cui i lavoratori lo ritenessero necessario.

Tutti potrebbero votare? I preti, per esempio? La Rivoluzione Russa tolse il voto ai preti.

Dipende dalla situazione. In questo non ci sono leggi a priori. Possono esserci preti molto legati alla classe operaia, sostenitori del potere operaio: perché dovremmo togliergli il voto? I preti di paese giocarono un ruolo molto importante nella Rivoluzione Francese.

I preti?!

Certo. Tutti i testi di espropriazione della nobiltà furono redatti in base alle relazioni delle parrocchie. Ogni parrocchia inviava alla Convenzione il suo programma, indicando che cosa si dovesse fare, chi si dovesse espropriare. Sono documenti straordinari, come espressione della volontà popolare. Ed erano redatti molto bene dai parroci di villaggio, quei pretini morti di fame che odiavano i loro vescovi e i loro cardinali. In questo non ci sono ricette. La Rivoluzione Russa stabilì all’inizio che ogni voto operaio valesse come cinque contadini, per compensare il fatto che i contadini erano la larga maggioranza della popolazione. La democrazia operaia decide e noi ubbidiamo, anche quando quello che determina è contrario alle nostre posizioni o al nostro programma.

Tale sistema non sarebbe caotico?

Perché? È caotico il parlamento borghese?

Ma la borghesia impone l’ordine mediante l’esercito.

Le risponderò con un esempio. Quando io ero giovane ho vissuto il processo di creazione dei club di calcio di quartiere, che fu più o meno dal 1910 alla fine degli anni Cinquanta. In quegli anni furono creati migliaia di club di calcio in Argentina, fu un fenomeno enorme di organizzazione sociale. Sempre in quel periodo furono creati i sindacati e, prima dei tempi d’oro del cinema, centinaia e centinaia di teatri indipendenti nei quartieri. Quei club svolgevano un’attività molto efficace, organizzavano squadre e campionati di calcio, balli nei quartieri, di tutto. E il loro funzionamento era molto democratico. I comitati direttivi scaturivano da elezioni, c’era il diritto di formare liste, perfino i partiti politici potevano intervenire e in effetti lo facevano quando gli interessava ottenere la direzione di qualche club. Da alcuni di essi nacquero i grandi club di oggi. E questa grande democrazia non gli impedì di portare avanti le loro attività né, ad alcuni di essi, di trasformarsi in vere e proprie potenze sportive. Tornando allo Stato operaio, per me è questione di avere fiducia nella classe, nei lavoratori. Se sono stati in grado di portare lo sport a tante migliaia di giovani e di organizzare democraticamente la vita sociale e sportiva dei loro quartieri, perché non dovrebbero essere capaci di portare questa stessa democrazia allo Stato quando prenderanno nelle loro mani la pianificazione della vita politica, economica e sociale della nazione?

Nella rivoluzione portoghese del 1974 si formarono migliaia di comitati di operai, di soldati, di inquilini. Questo processo fu piuttosto caotico.

In un certo senso sì, perché distrusse tutte le forme di democrazia formale e di autoritarismo del governo. Però fu un esempio di democrazia il fatto che i comitati di inquilini distribuissero alloggi a famiglie senza casa. Il problema è che il processo non si sviluppò, ed è proprio qui che il nostro partito ha un grande compito da svolgere. Il partito marxista rivoluzionario cerca di guadagnare la maggioranza in questo comitato per sviluppare la mobilitazione, perché il processo non abortisca, come successe in Portogallo. Si dice che il regime della democrazia parlamentare, nel quale si eleggono deputati ogni due anni e un presidente ogni sei, sia superiore a qualunque dittatura. Se si confida che il popolo saprà esercitare la democrazia ogni sei anni, perché non potrebbe fare un esercizio giornaliero di questa democrazia, con elezioni di delegati e formazione di forti organizzazioni ad ogni livello? Per me non sarebbe un caos ma un ordine nel quadro di una democrazia attiva, quotidiana, attraverso sindacati, cooperative, organizzazioni di fabbrica, eccetera. In questo processo è necessario creare, inculcare nei lavoratori il riflesso della democrazia operaia.

Come sintetizzerebbe, allora, le principali differenze fra la democrazia borghese e la democrazia operaia?

Be’, la Costituzione argentina dice che il popolo governa solo attraverso i suoi rappresentanti eletti. Questi rappresentanti, per quanto tradiscano il paese o vadano contro il mandato di coloro che li hanno eletti, sono inamovibili. In alcuni paesi esercitano la loro funzione per due o quattro anni, in Argentina i senatori durano in carica nove anni. I giudici possono essere a vita e li nominano l’esecutivo e il potere legislativo, non li elegge il popolo. A tutto questo si unisce la divisione dei tre poteri, come ho segnalato prima. La democrazia operaia è l’opposto. Non solo unisce i tre poteri nel ramo legislativo, ma il popolo esercita il potere in forma diretta. Per esempio, i lavoratori di un quartiere fanno un’assemblea e quello che decidono si fa. Tutti i funzionari sono eletti, e quello che non adempie il suo mandato può essere rimosso in qualsiasi momento. Quindi non è una democrazia indiretta ma diretta.

Cosa ne pensa lei della tesi dei discepoli di Mandel, secondo la quale a Cuba c’è una grande democrazia “di base”, cioè organismi in cui si discutono liberamente i problemi locali, e burocrazia al livello dello Stato centrale?

L’autore di questa tesi è Jean-Pierre Beauvais, un discepolo francese di Mandel. Lui dice che Cuba è un fenomeno contraddittorio. Io non sono d’accordo: credo che la democrazia operaia abbia, effettivamente, le sue contraddizioni, ma non su questo piano. Può succedere, per esempio, che gli operai di una fabbrica chiedano aumenti salariali straordinari che entrano in contraddizione con il piano economico nazionale approvato democraticamente dall’organo statale corrispondente. Oppure che un determinato partito critichi implacabilmente il piano considerandolo sbagliato. Queste sarebbero contraddizioni all’interno della struttura globale della democrazia operaia. Quello che io non accetto è una maniera di definire un regime, secondo la quale una parte sarebbe democratica e l’altra totalitaria, o una parte rivoluzionaria e l’altra controrivoluzionaria. Questo metodo è inaccettabile per un marxista. Ogni fenomeno è totale e ha una definizione essenziale. Prima bisogna definire l’essenza e poi vedere quali sono le contraddizioni. Che cos’è l’essenziale a Cuba? Vediamo dunque un esempio. Nel ’68 l’URSS invase la Cecoslovacchia. Fidel Castro appoggiò l’invasione. I lavoratori cubani che si opponevano a questa invasione avevano il diritto di apparire alla televisione nazionale per condannarla? Potevano richiedere lo svolgimento di un referendum nazionale per determinare la politica cubana in questa occasione? Erano liberi di presentare la mozione “Il popolo e il governo di Cuba manifestano la loro solidarietà incondizionata con il movimento operaio cecoslovacco e ripudiano la criminale invasione sovietica”, e che i lavoratori cubani se la sbrigassero mediante il voto? Niente di tutto questo: la politica di Cuba fu quella che determinò Castro nel suo circolo di dieci o quindici amici del Politburo, di appoggio alla burocrazia dell’URSS. Ecco perché dico che non c’è contraddizione nell’ambito che affronta Beauvais: Cuba è uno Stato operaio burocratizzato, totalitario.

Supponiamo che il suo partito abbia la maggioranza nell’organo statale centrale, e che in una votazione democratica perda questa maggioranza e debba rinunciare al governo. Lo farebbe?

Io penso di sì. Ancora una volta faccio riferimento a un caso concreto. Lenin aveva promesso che il partito bolscevico al potere avrebbe rispettato l’autodeterminazione nazionale dei popoli che facevano parte dell’impero zarista. Uno dei paesi soggetti a questo impero era la Finlandia, che allo stesso tempo era un centro molto importante del proletariato e del partito bolscevico. Dopo la Rivoluzione d’Ottobre si riunì l’assemblea costituente in Finlandia e deliberò a maggioranza, contro la posizione bolscevica, che il paese sarebbe stato indipendente e non avrebbe fatto parte dell’Unione Sovietica. Lenin rispettò questa decisione democratica che non condivideva. Io non vedo nessun problema nel consegnare il governo a un partito che rispetta la costituzione. Diverso sarebbe il caso di un partito che si propone, per esempio, di fucilare tutti i trotskisti se arriva al potere. Ma se si perde un organo bisogna consegnarlo. L’importante è creare nella classe operaia il riflesso del fatto che tutto si discute e si approva per votazione.

Questa democrazia si estenderebbe a partiti non operai?

Sì, io non vedo motivi per non concedergli la legalità. Non ci sono neanche motivi per dargliela in anticipo: non sappiamo se saranno fascisti o si impegneranno in azioni controrivoluzionarie. Se non è così, ripeto, non ci sono motivi per negargli la legalità. Noi rispetteremo ogni espressione democratica dei lavoratori, anche se appoggia una corrente borghese, reazionaria.

Concretamente, in Argentina, darebbe la legalità al partito di Alsogaray?

Può essere, se ha una qualche rappresentatività popolare. Diverso è se gente come Alsogaray o Martínez de Hoz chiedono la legalità e hanno solo il sostegno dello 0,01 per cento della popolazione: qui sospetto che non la otterranno. Ma se li segue un settore della popolazione, anche se è minoritario, io voterei per dargli la legalità. La democrazia operaia deve essere più ampia della democrazia borghese.

Ma con questo non sta proponendo una democrazia illimitata come quella che postula Mandel, contro la quale lei ha polemizzato37?

Il tema di quella polemica era se questo tipo di democrazia sia possibile come prospettiva immediata. È un problema teorico, un’ipotesi. Non abbiamo discusso se il nostro obiettivo programmatico sia concedere libertà totali, soprattutto ai lavoratori. Un operaio, per il solo fatto di esserlo, potrà dire quello che vuole, criticare il regime con la massima durezza e alla televisione e sui giornali. Tutti i cittadini avranno diritto alle più ampie libertà, purché siano espressione di qualche settore del popolo. La discussione con Mandel è un’altra. Noi riteniamo che ogni paese in cui i lavoratori prendano il potere sarà attaccato immediatamente e implacabilmente dall’imperialismo; che il potere operaio, prima di affermarsi, dovrà passare per una tremenda guerra civile, probabilmente combinata con attacchi dall’esterno. La questione è se in questa fase si possano concedere libertà democratiche incondizionate a tutti. Per esempio, secondo il criterio di Mandel, il governo sandinista deve invitare i “contras” a Managua, con tutte le garanzie per aprire sedi ed esprimersi tramite la stampa. In caso di scontro armato non si potrebbe uccidere un “contra”, bensì bisognerebbe arrestarlo per processarlo, garantendo che disponga di un avvocato difensore. E in El Salvador si dovrebbero offrire le stesse garanzie al maggiore D’Aubuisson e ai suoi teppisti fascisti. Noi sosteniamo, contro Mandel, che in questa fase non ci sono le condizioni per dare queste libertà totali, e il principale “colpevole” di questo è l’imperialismo. Guardi il Nicaragua: il governo sandinista non ha convocato l’assemblea costituente né ha espropriato la borghesia, come avrebbe dovuto fare a nostro giudizio, ma ha indetto elezioni alla maniera borghese e ha lasciato intatta la proprietà borghese. Tuttavia l’imperialismo lo attacca con ogni mezzo. Gli yankee preferiscono regimi come quello salvadoregno, quello di Pinochet o quello guatemalteco, dicono che sono regimi più democratici di quello nicaraguense e gli concedono ogni genere di prestiti, al contempo armando e addestrando i “contras” nicaraguensi. Un’altra differenza con Mandel è che il suo documento, scritto in una fase così dura della lotta di classe mondiale, neanche menziona la possibilità di invasioni imperialiste, guerre civili, guerre fra Stati. Noi abbiamo predetto questi fatti e abbiamo detto che era necessario adattare il nostro obiettivo di concedere libertà democratiche alla necessità di sconfiggere la borghesia e l’imperialismo. Ci pare ottimo che il governo sandinista imponga la legge marziale nelle province attaccate dalla guerriglia filoimperialista dalle sue basi in Honduras e ordini di fucilare sul posto i “contras”. Il documento di Mandel dipinge una situazione idilliaca nella quale non esiste legge marziale né niente del genere.

Questo attacco armato da parte dell’imperialismo non condanna la rivoluzione alla burocratizzazione?

L’attacco imperialista è un fattore a favore della burocratizzazione, senza dubbio, ma non dobbiamo confondere la riduzione delle libertà con la burocratizzazione. Vediamo di nuovo l’esempio della Rivoluzione Russa. Nel primo anno della rivoluzione, prima della guerra civile, le libertà democratiche erano molto ampie. Per esempio, il partito dei Cadetti pubblicava la sua stampa e presentava le sue posizioni nei soviet, ed era un nemico mortale del potere operaio, le sue posizioni erano simili a quelle dei radicali di destra in Argentina sotto il peronismo. C’erano anche libertà artistiche e scientifiche. A Lenin non piacevano le moderne correnti letterarie e delle arti figurative, ma non parlò mai di togliergli la libertà di esprimersi e pubblicare. Di colpo, tutte quelle libertà politiche, artistiche, scientifiche furono troncate dalla guerra civile e dalle invasioni straniere. A un certo punto la rivoluzione fu ridotta a una zona piuttosto piccola intorno a Mosca, mentre il resto della Russia cadeva nelle mani degli eserciti controrivoluzionari. Fu allora che il governo bolscevico decise di limitare le libertà dei fautori della controrivoluzione. Tuttavia Lenin e Trotsky hanno sempre insistito sul carattere temporaneo di queste misure. Fu così che Martov38, un menscevico e critico implacabile del governo ? il che non gli impedì di opporsi alla controrivoluzione durante la guerra civile ?, ebbe la piena libertà di presentare le sue posizioni nei soviet, una volta che fu sconfitta la controrivoluzione. Le polemiche fra Martov e Lenin nel ’21 furono tremende. E questo successe nonostante il paese fosse sprofondato nella carestia e nella catastrofe economica, provocate dalla guerra.

Significa che quella russa è stata l’unica rivoluzione che abbia imposto la democrazia operaia…

Precisiamo: è stata l’unica fra quelle che hanno avuto successo. Nella rivoluzione spagnola regnò una grande democrazia all’inizio, incoraggiata dagli anarchici, dal POUM39, dai trotskisti, perfino dalla sinistra socialista. Tutte le organizzazioni avevano ampie libertà nella Repubblica, fino a che gli stalinisti non riuscirono a schiacciare gli anarchici a un anno dall’inizio della guerra civile e le eliminarono. Ad ogni modo la rivoluzione spagnola fu sconfitta dal franchismo, quindi è inutile speculare se si sarebbe burocratizzata o no in caso di successo. Anche le rivoluzioni tedesca e ungherese del ’18 si basarono su organismi operai democraticamente autodeterminati.

E le rivoluzioni del dopoguerra non si sono burocratizzate tutte?

Erano già burocratizzate prima della presa del potere. Alcune furono dirette da partiti stalinisti, che trasferirono i loro metodi organizzativi all’interno dello Stato. È il caso della Cina. Altre, come quella cubana, hanno avuto alla loro testa eserciti guerriglieri: in esse il comandante della guerriglia stabiliva le posizioni politiche come parte delle decisioni militari. Il risultato è stato lo stesso.

La domanda è, allora, se è vero, come dicono alcuni autori, che la rivoluzione sia condannata inesorabilmente a burocratizzarsi.

Io la formulerei in un altro modo: se il proletariato è o non è storicamente capace di prendere il potere per instaurare un regime di democrazia operaia. A quest’altezza la risposta deve essere ipotetica, non può essere assoluta. L’unica cosa che si può dire è che l’alternativa per l’umanità è socialismo con democrazia operaia o barbarie. Ora, se mi domanda quale sia per me l’ipotesi più probabile, devo dire che io vedo una classe operaia sempre più colta, di livello più alto per amministrare democraticamente lo Stato. Non c’è motivo per credere che sarà incapace di superare i livelli di democrazia e attività rivoluzionaria raggiunti dal proletariato russo, tedesco o europeo in generale. La classe operaia polacca, con Solidarnosc, ha dato un alto esempio di democrazia. Ormai sappiamo che Walesa è una specie di cavallo di Troia messo nell’organizzazione, ma l’essenziale è che le questioni importanti si risolvano per votazione, e Walesa si è visto in difficoltà perdendone alcune. Pare che a un certo punto volesse sciogliere l’organizzazione e non ci è riuscito. Un altro esempio fu la grande mobilitazione operaia e studentesca in Francia, nel ’68. Chiunque poteva esprimere le sue posizioni, da Sartre, che era neomaoista, ai trotskisti, che svolsero un ruolo di primo piano sulle barricate. In Portogallo, nostri compagni, che erano pochi e molto giovani, ottennero una grande casa in cui stabilire la loro sede. Andavano ai reggimenti, arringavano i soldati e uscivano con loro ad espropriare le case dell’aristocrazia per distribuirle fra gli abitanti dei quartieri degradati. C’era una grande democrazia operaia e popolare.

Anche in Nicaragua c’era molta democrazia nei primi tempi della rivoluzione sandinista.

È così, si fondavano sindacati dappertutto. La Brigada Simón Bolívar40 aveva la libertà di agire in qualsiasi parte del paese, fondare sindacati, avere sedi. Tutti questi esempi che abbiamo fatto, dalla Rivoluzione Russa a quella nicaraguense, sono saggi di quello che succederà in futuro. Per me è solo questione che la classe operaia riprenda le sue tradizioni. È qui che entriamo nel campo delle ipotesi. Alcuni sostengono che il Portogallo o il Nicaragua o la Polonia sono gli ultimi rantoli di un processo iniziato dalla classe operaia molti anni fa ? quello della democrazia operaia diretta ? e che è decaduto. Io sono dell’avviso contrario, che il processo tenda a svilupparsi sempre di più. Un solo successo rivoluzionario che imponga la democrazia operaia avrà un effetto dimostrativo tremendo, perché la classe operaia vedrà la possibilità di accedere a una qualità della vita infinitamente superiore a quella che ha attualmente.

Che succederà all’arte sotto il regime della democrazia operaia? Avrà maggiore libertà di esprimersi?

Faccio riferimento di nuovo all’esempio della Rivoluzione Russa. Non è un caso, per esempio, che Isadora Duncan sia vissuta e abbia lavorato nell’Unione Sovietica: la rivoluzione ha attratto all’epoca i più grandi artisti del mondo. Una delle conseguenze più tragiche dello stalinismo è stata la persecuzione delle correnti artistiche, per incoronare un’arte ufficiale. Il grande compito della classe operaia nell’autodeterminarsi democraticamente è la trasformazione della società. È un compito politico-sociale, incentrato innanzi tutto sul fattore economico, non artistico né scientifico. Per noi non esiste un’arte operaia né una scienza operaia, e nemmeno un’arte o una scienza ufficiale del partito al potere. Anzi, lo Stato operaio deve concedere piena libertà alle scuole scientifiche e artistiche, e questo comprende il fornirgli i mezzi materiali affinché possano lavorare ed esprimersi. In questo campo la libertà dev’essere illimitata.

Questo include la libertà di stampa?

Sì.

Ma non è condizionata dalla forza o rappresentatività dei partiti o correnti d’opinione?

Io mi rifiuto di fissare norme attraverso le mie risposte. Se diciamo che la classe operaia al potere deve concedere la più ampia democrazia, sarà essa che deciderà in che modo garantire la libertà di stampa. Per me, la più assoluta libertà di stampa e di espressione è un’arma formidabile in mano alla classe operaia, tanto importante quanto lo sviluppo della scienza. Per il governo della classe operaia, e il partito rivoluzionario che lo guida, è questione di vita o di morte conoscere le correnti d’opinione che ci sono e disporre di informazioni attendibili su quello che succede nel paese e nel mondo.

Che significa “informazioni attendibili”? È una domanda molto importante, perché un burocrate del governo potrebbe cercare di censurare una notizia o un’opinione che non gli piace con la scusa che “non è attendibile”. Per il movimento operaio, per un partito rivoluzionario, l’attendibilità emerge dalla contrapposizione di opinioni, e perfino dal diritto di mentire. Libertà di stampa significa che un giornale può dire quello che gli pare. Altrimenti, c’è censura. Se un giornale mente, un altro ha la possibilità di dimostrarlo e l’opinione pubblica deciderà quale dei due dice la verità. Bisogna permettere il libero gioco della concorrenza giornalistica affinché i lettori decidano qual è la pubblicazione più attendibile, agile, piacevole. Non è lo Stato quello che deve decidere.

Che succederà alla religione?

Io credo che si debba rispettare la libertà religiosa ma, ovviamente, senza che lo Stato dia un solo peso ai preti e alla Chiesa. Vale a dire che i propri parrocchiani li mantengano economicamente. Credo che quasi sicuramente sarà così. Questo lo deciderà lo Stato operaio. L’unica cosa che si può dire è che il culto sarà una faccenda privata. In questo senso, la Chiesa sarà nella stessa situazione di un club sportivo o un’associazione letteraria.

Significa che si permetterà l’esistenza di scuole di preti o di suore?

Ah, questo no, assolutamente. L’educazione è come la posta, o il commercio estero. Sono istituzioni di vitale importanza che devono essere nazionalizzate, non possono né devono stare in mani private.

Ma perché i credenti non potrebbero avere una propria scuola?

Perché tutti gli abitanti del paese devono ricevere un’educazione conforme ai piani e ai programmi che il potere operaio determini democraticamente. L’educazione è un compito che lo Stato non può condividere né delegare a nessuno, men che meno alle chiese, che per noi, che siamo atei, sono un’istituzione e un’ideologia al servizio degli sfruttatori.

E se il “parlamento operaio” stabilisse democraticamente a maggioranza che i preti possano avere una propria scuola?

Rispetteremmo questa decisione, in dissenso. In questo sta l’essenza della democrazia operaia: prendere le decisioni a maggioranza e rispettare quello che si vota.

C’è qualcosa che preoccupa moltissima gente: lo Stato operaio permetterebbe il libero ingresso e la libera uscita di persone dal paese?

Farebbe molto più di questo. Cercherebbe di firmare accordi con la maggiore quantità di paesi che fosse possibile affinché i cittadini possano viaggiare senza passaporto né visto, esibendo solo la carta d’identità. È il contrario di quello che succede al giorno d’oggi in quasi tutti i paesi del mondo. Per esempio, per uscire dall’Argentina bisogna rinnovare il passaporto ogni due anni. Un esempio contrario è la Comunità Economica Europea: ogni cittadino di uno dei paesi comunitari può andare in qualunque altro, risiedere, lavorare, studiare, esibendo solo la carta. Non c’è altra regione al mondo che offra tanta libertà in questo senso quanto la CEE: dobbiamo riconoscerlo. Qualcosa di simile succede fra l’Argentina e i suoi paesi limitrofi, ma è più limitato perché c’è solo il diritto di viaggiare, non di lavorare e risiedere in modo permanente. L’ultimo capitolo dell’autobiografia di Trotsky si intitola “Il pianeta senza visto”. Lì racconta come passò vari anni, in esilio in Turchia, cercando di ottenere un visto per risiedere in diversi paesi: Francia, Inghilterra, eccetera. La Germania gli negò perfino un visto per ricevere un trattamento medico. Noi dobbiamo eliminare questa mostruosità, affinché nessuno torni a scrivere qualcosa di simile.

Come sarà l’organizzazione militare? Ci sarà un esercito professionale?

Finché ci sarà pericolo di guerra l’esercito professionale sarà inevitabile. La guerra richiede conoscenze scientifiche, che a loro volta impongono una formazione professionale. Questo va dal più elementare ? calcolare quante ore al giorno può marciare un uomo portando un determinato carico ? al più complicato, le armi moderne, la missilistica, l’aviazione. Tanto vale domandare se ci saranno contabili al Ministero dell’Economia, o ingegneri negli impianti siderurgici.

In che cosa si differenzierebbe da un esercito borghese?

Nel fatto che regnerebbe una grande libertà politica. Gli ufficiali, i sottufficiali e i soldati potrebbero far parte di partiti politici, ci sarebbe formazione politica e dibattito nelle caserme. Le organizzazioni operaie eserciterebbero il loro controllo sulle forze armate. Anche i soldati avrebbero i loro organismi di controllo. Parlo di controllo politico, non militare. Per esempio, se un gruppo di ufficiali iniziasse a parlare di un colpo di Stato, i comitati di soldati potrebbero denunciarli e perfino arrestarli.

Ci sarebbe servizio di leva?

Probabilmente sì, ma non sarebbe un fenomeno traumatico come lo è adesso. Per quanto possibile l’addestramento militare avverrebbe sul proprio posto di lavoro, sotto il controllo operaio e popolare. Cioè si cercherebbe di non spostare il soldato dal luogo in cui vive e lavora.

Lo sapeva che in Spagna il regolamento militare obbliga il cittadino a fare il servizio di leva a più di trecento chilometri dal luogo in cui vive?

Certo, così il soldato è estraneo alla popolazione locale, non si sente legato dalle sue amicizie o dalla sua famiglia, soprattutto se gli tocca andare a reprimere una mobilitazione. Noi pensiamo che deve succedere esattamente il contrario, il soldato deve stare il più vicino possibile al luogo in cui vive e lavora.

Per concludere questo argomento, quale sarà il ruolo del partito rivoluzionario dopo la presa del potere?

Bene, ormai temevo che non me l’avrebbe domandato. Ho già risposto in parte nelle mie risposte precedenti, ma ci sono alcuni aspetti che voglio rimarcare. L’esistenza di un partito come il nostro, che rivendica la democrazia operaia, l’espropriazione della borghesia e la mobilitazione permanente della classe operaia, è una condizione necessaria per lo sviluppo del processo rivoluzionario. Se prende il potere un partito riformista, che non crede nello sviluppo della rivoluzione mondiale, che non crede che il grande compito sia sconfiggere l’imperialismo nel mondo intero e che per esso la repubblica operaia debba fare i massimi sacrifici, si verrà a creare una contraddizione acuta, una crisi. Penso che si risolverebbe rapidamente, che il potere tornerebbe rapidamente nelle mani del partito rivoluzionario, ma il fatto è che esiste la possibilità che per un periodo il potere resti nelle mani di un partito opportunista o centrista, non tanto estremista quanto il nostro, i cui occhi sono sempre puntati sulla sconfitta dell’imperialismo mondiale. Questo è l’asse centrale di tutte le risposte che ho inteso dare oggi, perché noi pensiamo che per sconfiggere l’imperialismo mondiale è necessario guadagnare gli operai dei paesi imperialisti. E per farlo dobbiamo impressionare la coscienza di questi lavoratori, convincerli che il futuro socialista sarà infinitamente superiore all’imperialismo. Dobbiamo trovare il modo di fargli superare questa coscienza arretrata, distorta dall’esempio dei paesi cosiddetti socialisti, con i loro regimi totalitari. Riprendiamo la campagna della Terza Internazionale, che fu in grado di convincere enormi settori del proletariato mondiale che l’unica via d’uscita è il socialismo e la sconfitta dell’imperialismo. Dobbiamo insistere instancabilmente sul carattere ultrademocratico e allo stesso tempo rivoluzionario del nostro programma, perché questo colpisce la coscienza del settore fondamentale dei lavoratori di tutto il mondo. Dobbiamo, in sintesi, convincere il proletariato nordamericano che ci sarà molta più democrazia se esso prende il potere, che se il potere resta ancora nelle mani dell’oligarchia democratico-repubblicana.


Capitolo 6. Militanza e vita quotidiana

Si dice che il partito leninista, con la sua struttura centralistica, la sua disciplina quasi militare, sia superato. In Europa, soprattutto, grandi settori della sinistra si oppongono a questo tipo di struttura partitica. Cosa direbbe lei a quelli che la pensano in questo modo?

Innanzi tutto, che non devono confondere il partito leninista con la caricatura che di esso ha fatto lo stalinismo. Queste correnti che lei menziona riflettono la ripugnanza che provocano i partiti stalinisti: si sono bevuta la favola che lo stalinismo è la continuazione del leninismo, quando in realtà è esattamente il contrario. È vero che conserva alcune somiglianze formali, come la strutturazione del partito in cellule, gruppi di lavoro permanenti, sebbene ultimamente i partiti stalinisti stiano perdendo questa caratteristica. La definizione del militante come persona che svolge attività di partito e appartiene a un organismo in cui discute la politica e l’attività del partito è propria del leninismo. Vorrei dire di passata, e uscendo un po’ dallo stretto contesto del tema, che questa concezione leninista originò la prima divisione del marxismo russo nelle sue ali bolscevica e menscevica, ma fu superata dopo il 1905, quando un congresso unificato del partito approvò la formulazione di Lenin. Da allora in poi persistette la divisione fra le due ali, ma relativamente alle loro divergenze nell’interpretazione della Rivoluzione Russa, che diventarono sempre più inconciliabili. Questa fu, quindi, la causa di fondo che separò le due tendenze del marxismo russo. Tornando alla domanda, bisogna rimarcare che la disciplina militare fa parte della caricatura stalinista, che concepisce il partito come un organismo nel quale i vertici decidono la politica e l’attività, mentre la base si limita a ubbidire senza discutere. È evidente che a nessun operaio o intellettuale che simpatizzi per le posizioni rivoluzionarie piace l’idea di appartenere a un partito nel quale il dovere numero uno è ubbidire. Nel partito di Lenin regnò sempre un’ampia democrazia, soprattutto negli organismi di base. Gli operai vi si sentivano a loro agio, e nella piena libertà di discutere e criticare. A nessuno passava per la testa che un militante potesse essere represso o obbligato ad autocriticarsi per le sue posizioni politiche. C’erano discussioni, a volte molto forti, ma fraterne, senza repressione.

Non ci sono mai state espulsioni dal partito?

Ci sono stati settori e correnti che hanno sostenuto posizioni profondamente in conflitto con quelle della direzione del partito. Alcuni si separarono da esso ? che non è lo stesso che essere espulso perché la pensi diversamente ?, ma la maggior parte di questi settori rimase nel partito, e i loro portavoce conservarono le loro posizioni dirigenziali. Ecco perché dico che la libertà era quasi assoluta. Nel partito bolscevico si combinava la disciplina, vale a dire che tutto il partito partecipava attivamente alla lotta di classe con la stessa politica, con un’autentica democrazia interna. La storia lo dimostra: nessuna delle grandi risoluzioni fu presa all’unanimità, e mi riferisco a decisioni tanto importanti quanto la presa del potere. Alcune discussioni si svolsero sul giornale del partito: per esempio, la discussione sull’economia sovietica, alla quale parteciparono Bucharin, Preobraženskij e altri grandi teorici e dirigenti. Questo è successo negli anni Venti, prima che Stalin controllasse completamente il partito.

È interessante l’esempio di Zinov’ev e Kamenev nella Rivoluzione d’Ottobre…

Effettivamente, entrambi si opposero alla presa del potere nel 1917. Questo era un loro diritto. Il problema fu che, quando il Comitato Centrale del partito votò l’insurrezione, loro resero pubblica questa votazione in forma indiretta, attraverso certe dichiarazioni ai giornali borghesi. Con questo non solo violavano la norma elementare secondo cui quello che si vota si rispetta bensì mettevano per di più in pericolo niente meno che il trionfo della rivoluzione. Ecco perché Lenin li chiamò traditori e crumiri e chiese la loro espulsione. Qualsiasi lavoratore comprende la giustezza di questo atteggiamento. Se un’assemblea di fabbrica vota a maggioranza di entrare in sciopero, chi non ubbidisce è un caprone. Ad ogni modo, successivamente Kamenev dimostrò una grande lealtà nei confronti del partito, si mise agli ordini del Comitato Centrale e partecipò attivamente all’insurrezione. Non così Zinov’ev, che restò in disparte. Poi Lenin li chiamò ad assumersi alcuni dei compiti più importanti della rivoluzione. Zinov’ev fu il presidente della Terza Internazionale per i primi anni ed entrambi furono membri del Politburo, il massimo organo direttivo del partito al potere. Così era il partito bolscevico: tutto si discuteva, perfino pubblicamente, sulle pagine della Pravda.

Come definirebbe il partito in quanto gruppo umano?

Anni fa, quando mi dedicai allo studio della sociologia, lessi un libro di Georges Gurvitch, che era un grande estimatore di Jacob Levi Moreno[13], l’inventore dello psicodramma come metodo di psicoterapia. Basandosi su Moreno e su altri psicologi e sociologi, Gurvitch dice che ci sono tre tipi di gruppi umani. È una classificazione puramente sociologica: come si organizza l’uomo da quando esiste sulla Terra. Alcuni gruppi sono settari, chiusi, con direzioni dispotiche. Altri sono quasi amoreggiamenti. C’è un terzo tipo di gruppo che riunisce le migliori qualità di entrambi: è molto democratico e allo stesso tempo dinamico, omogeneo. Nella sua descrizione della morfologia, chiamiamola così, dei gruppi, Gurvitch dice che c’è un settore guida, anche un soggetto al quale si dà la colpa di tutto, cose che ho potuto verificare nella realtà. Da quando ho letto Gurvitch ritengo che il partito bolscevico corrisponda perfettamente al terzo tipo: un gruppo solido, forte, dinamico, molto unito e fraterno, oltre che democratico.

Alcuni ci vedono da fuori come un blocco monolitico…

Sì, o come uomini meccanici. Mi hanno fatto notare che in una facoltà, quando arrivano nostri compagni, i militanti di altre tendenze fanno gesti come ad imitare dei robot. Questo non mi spaventa. È solo una caricatura di una nostra virtù, che è quella di aderire come un sol uomo alle parole d’ordine approvate. Vogliono dare a intendere che fra di noi, all’interno del partito, non ci siano rapporti fraterni e un grande dibattito. La fraternità, la fiducia, è un altro elemento fondamentale. È la calcina che unisce il partito. Questa fiducia fra rivoluzionari non può esistere senza democrazia; quello che ci unisce tutti è che ognuno sente che gli altri sono suoi compagni di lotta.

Perché è tanto importante il funzionamento disciplinato, in blocco?

Questo è già stato dimostrato dalla storia. La disciplina, la centralizzazione, i militanti che si danno interamente al partito, sono caratteristiche che si possono accettare o rifiutare, amare o odiare, ma non c’è stata una sola rivoluzione che non sia stata diretta da un organismo di questo tipo. Un organismo lasso, non disciplinato, non giacobino, non può prendere il potere. In questo senso possiamo dire che il partito è democratico nel dibattito e funziona come un esercito nell’azione. Mettere in discussione il centralismo è mettere in discussione l’efficienza stessa. Se un anarchico mi dice che rifiuta qualsiasi forma di centralizzazione, io rispondo che rispetto la sua opinione, ma la discussione si dà su due livelli: uno, cos’è che si vuole; l’altro, se la storia ha sentenziato a favore del centralismo o dell’anarchia in quanto a efficienza. Nessuna rivoluzione di questo secolo ha trionfato senza un elevato livello di disciplina e centralismo. È logico, perché si tratta di affrontare lo Stato con il suo esercito, la sua polizia, tutto il suo apparato.

Questa disciplina esiste anche nei partiti borghesi?

No, salvo nei partiti bonapartisti, nei movimenti nazionalisti di destra e nei gruppi fascisti che vogliono fare una controrivoluzione. I partiti tradizionali del sistema borghese non hanno questa caratteristica. Neanche ne hanno bisogno, visto che hanno tutte le istituzioni dell’apparato statale che lavorano a loro favore. Non lottano per conquistare il potere, non gli interessa cambiare il regime democratico-borghese ma difenderlo. Questo funzionamento, che permette l’esistenza di diverse ali e tendenze permanenti all’interno del partito, attira la classe media e perfino certi settori del movimento operaio che si vedono rispecchiati in esse. Ovviamente nessuno di questi partiti ha fatto una rivoluzione, né vuole una controrivoluzione di stampo nazifascista. Io non credo che i partiti democratico e repubblicano degli Stati Uniti, o quello conservatore e anche quello laburista dell’Inghilterra, vogliano dirigere una controrivoluzione fascista, per non parlare di una rivoluzione operaia. L’insurrezione operaia e la lotta armata, o un putsch controrivoluzionario, possono trionfare solo se le dirige un organismo centralizzato con una disciplina di ferro.

La disciplina di partito non produce alienazione?

Ho polemizzato su questo tema con Mandel e Novack41. Ho un debito con i compagni, quello di esporre le mie posizioni per iscritto. Ritengo che in questo mondo alienato il partito svolga un ruolo disalienante. Cioè al militante si crea una contraddizione, perché la società aliena e lui vive in questa società. Il partito ti dà tutte le possibilità per combattere l’alienazione. Ho l’impressione che molti artisti e scienziati abbiano ottenuto individualmente una vita felice. Perché in ultima analisi l’alienazione si riduce a questo: è la scienza della felicità o infelicità dell’uomo provocata da un sistema sociale. Credo che alcuni settori privilegiati, ben poco numerosi, siano riusciti a realizzarsi, a vivere felici. Se la prima condizione della disalienazione è condurre una vita piena, nella quale a uno piace quello che fa, credo che non la offra solo il partito ma anche, in alcuni casi, la scienza e l’arte. Il sistema capitalista, monopolistico, chiude questa possibilità. Supponiamo, per esempio, che un ragazzo sia appassionato di cinema e che voglia fare un film: è quasi impossibile, di ogni mille o duemila aspiranti registi cinematografici ne resta uno solo. Il sistema capitalista cospira contro lo sviluppo delle qualità dell’individuo, che siano naturali o acquisite. O le usa quando servono ai suoi profitti. L’esempio del cinema è valido anche per qualsiasi ramo dell’arte, della scienza…

E lo sport?

Anche lo sport. C’è il grande golfista argentino Roberto De Vicenzo, che viene da una famiglia umile. Il golf è uno sport da ricchi, ma lui ebbe la fortuna di lavorare come caddy in un club di golf, e lì lo scoprirono. Quante migliaia di ragazzi ci sono che sono appassionati di questo sport, o di un altro, e non hanno tanta fortuna quanto De Vicenzo? Un caso diverso è quello di Gabriela Sabatini, la tennista. A quattordici anni la staccarono dalla scuola, dalla famiglia, dagli amici, per farle frequentare il circuito professionistico. Fra l’allenamento, i viaggi e le partite non ha tempo per nient’altro. E così i manager sportivi guadagnano milioni di dollari. Anche lei guadagna molti soldi, ma si trasforma in un mostro che non conosce altra cosa nella vita che giocare a tennis. Indipendentemente da quanti successi ottenga nella sua carriera, va verso una crisi personale.

Allora, torniamo al partito…

Sì, io vedo il partito rivoluzionario, con la sua democrazia interna, il suo programma rivoluzionario di mobilitazione permanente, come il supporto più solido per combattere l’alienazione o, in altre parole, il modo più sicuro di ottenere un certo livello di felicità e di realizzazione personale. Ovviamente ho conosciuto gruppi di sinistra, perfino trotskisti, che erano alienanti. Riflettevano in qualche modo l’alienazione della società capitalista. Per esempio, proibivano alle compagne di avere figli o, al contrario, gli ordinavano di averne. A volte gli imponevano regole di vita molto rigide. Questo non succede nei partiti fortemente radicati nella classe operaia, che partecipano alla sua vita, percepiscono i loro punti forti e le loro debolezze, si adattano ad essa, cercano di dirigerla. A questi militanti si aprono tremende possibilità di sviluppo che la società capitalista gli nega. Guardi il nostro partito. Se un compagno mostra doti da oratore o da scrittore, lo incoraggia ad esserlo, a studiare e svilupparsi. La società insegna a mentire, a nascondere quello che si pensa, a non vedere i propri punti forti e deboli. Il partito è un controllo sociale che ci permette di scoprire noi stessi e svilupparci. Se un compagno dimostra di avere grandi requisiti per un determinato compito, lo spinge ad eseguirlo. Non si obbliga nessuno a svolgere compiti che non gli piacciano, salvo che li accetti volontariamente. Tutto questo crea un clima di cameratismo nella lotta.

Cosa risponderebbe lei a quelli che dicono che il militante perde la sua individualità?

Che avviene esattamente il contrario. Si sviluppa la creatività individuale, con un controllo sociale che è il partito. Anche la società borghese esercita un controllo, ma cerca l’effetto opposto: se l’individuo è un operaio, alla borghesia interessa solo che passi la vita a produrre figurine di metallo, per esempio. Per il partito bolscevico l’individuo è sacro, cerca sempre il modo di aiutarlo a svilupparsi. E a svilupparsi proprio nelle attività più nobili dell’essere umano: scrivere, parlare, organizzare, lottare. Non c’è lavoro più alienante e abbrutente di quello alla catena di montaggio o di quello nelle miniere. Il minatore lavora tutta la vita per estrarre alcune tonnellate di carbone. Ma, se questo minatore è un militante rivoluzionario, oltre ad estrarre carbone con gli altri cerca di organizzare i suoi compagni per la lotta, porta volantini, fa denunce, insomma effettua una serie di attività umane che lo rendono felice. Può essere molto triste se perde una lotta, ma ad ogni modo è allegria o tristezza umana, non i sentimenti animaleschi che produce il lavoro alienato.

C’è una concezione molto diffusa, secondo cui la vita personale, intima, del militante, è soggetta alla disciplina del partito. In altre parole, il militante non può prendere una decisione personale senza il via libera del partito.

Questo è assolutamente falso. Il partito non entra nella vita intima di nessuno. A meno che, si capisce, non si metta a repentaglio la sua sicurezza. Se qualcuno ritiene che il crumiraggio o rivelare questioni interne dell’organizzazione alla polizia siano faccende personali, il partito ha il dovere di difendersi. A nessuno si impedisce di studiare o viaggiare, il partito chiede al militante soltanto che militi disciplinatamente e mantenga gli impegni che si assume. In questo quadro, tutti noi ci rallegriamo enormemente del fatto che un compagno abbia successo nelle sue attività personali, che siano di studio, sportive o di qualunque tipo. C’è un fatto che ha richiamato l’attenzione di osservatori fraterni che assistono a riunioni del MAS e dei suoi partiti fratelli in altri paesi: il clima di risate e allegria che regna nelle nostre riunioni. Marx già parlava di questo ai suoi tempi, e una delle mie critiche a Mandel e Novack è che ignorano questa citazione e posizione di Marx. Con questo voglio dire che il militante del partito può e deve essere felice per l’attività che svolge insieme ai suoi compagni, e di conseguenza può disalienarsi fino a un certo punto, quello che impone una società mostruosa. È un rapporto dinamico e contraddittorio: la società che sfrutta e aliena, il partito che disaliena.

All’esterno del partito c’è un’immagine molto diversa. Si dice, per esempio, che il partito scoraggi i militanti che vogliono avere figli, perché questo distoglie sforzi che dovrebbero essere dedicati all’attività politica.

La prima cosa che devo dire è che nel mio partito tutti hanno figli, ci sono moltissimi ragazzi. Io stesso ho figli. Se ritarda la rivoluzione, possiamo dire che avremo un partito grande per semplice riproduzione, se facciamo sì che i ragazzi siano rivoluzionari come i loro padri. Allora, questa è la prima risposta. Ora, come ho detto prima, ho conosciuto organizzazioni che proibivano ai loro militanti di avere figli e controllavano severamente la loro vita personale. La nostra concezione è diversa. Naturalmente, ci sono certe regole oggettive, che tutti devono rispettare, ma questo è proprio di ogni raggruppamento umano, uno non può essere socio di un club sportivo, per esempio, se non paga la sua quota mensile e non osserva certe regole di condotta. Il militante rispetta le regole del partito e fa della sua vita personale quello che desidera.

Passando a un altro aspetto della vita di partito, mi piacerebbe che dicesse qualcosa sulla morale proletaria, o morale di partito.

Non sono la stessa cosa. La morale proletaria ha a che vedere con l’attività sindacale: rispettare le decisioni delle assemblee, partecipare agli scioperi, essere solidale con le lotte in altre aziende, essere un buon compagno, non essere un caprone o un ruffiano dei padroni. La morale proletaria cerca la coesione della classe nella lotta e nella vita quotidiana, cioè che la classe operaia riconosca sé stessa e sia solidale. La morale di partito risponde alle necessità del partito. È molto più rigorosa. È parte della morale operaia, ma ha esigenze più ampie e specifiche. Vediamo un esempio recente: il grande sciopero minerario inglese. Ho letto che c’è molta rabbia nei confronti dei minatori del distretto di Nottingham, che facevano i crumiri del conflitto. Allora gli attivisti dello sciopero sono andati là a cercare di convincerli a non entrare a lavorare, ci sono stati alcuni scontri e il governo ne ha approfittato per reprimere l’attivismo, dicendo che lo sciopero era “violento”. Be’, questi caproni sono venuti meno alla morale proletaria. Supponiamo che uno dei nostri compagni abbia partecipato a questo sciopero, ma senza militare attivamente in esso. Diremo di lui che ha rispettato la morale proletaria ma è venuto meno alla morale di partito, che chiede ai militanti del partito di essere i migliori attivisti, i più coraggiosi, i primi a schierarsi in prima linea quando la situazione lo richiede. Si può anche parlare di una morale razziale, fra le razze oppresse. In Sudafrica c’è una morale nera molto forte e progressista, che si manifesta, per esempio, nel fatto che nei quartieri uccidono i neri che collaborano con l’apartheid, come i poliziotti neri. Questo è un colpo molto forte per il regime bianco. In termini generali, la morale è una serie di regole necessarie per il buon funzionamento di qualunque raggruppamento umano. Nel caso del partito significa rispettare le decisioni che si prendono. Significa anche essere fraterno con i compagni, perché il partito è una fraternità di combattenti, di perseguitati. Venir meno ad essa è anche una mancanza nei confronti della morale di partito.

Lei direbbe che un dirigente del partito venga meno alla morale di partito se cerca il suo arricchimento personale?

Questo è relativo. C’è uno studio sociologico che dimostra che molti dei grandi dirigenti marxisti di questo secolo venivano dalla grande borghesia. In tutti i militanti si verifica una contraddizione molto grande: sono parte della società e allo stesso tempo la loro attività militante è diretta a cambiarla. Questo significa che, se Einstein entrasse nel nostro partito, non smetterebbe di fare la sua vita universitaria né di comprarsi tutti i libri di cui avesse bisogno né di andare ai congressi scientifici, per la qual cosa necessiterebbe di un reddito abbastanza alto. Io ritengo che un dirigente non possa essere proprietario di un’azienda capitalistica, però possono anche esserci delle eccezioni. Una di esse è celebre, si verificò agli inizi del movimento marxista: Engels era direttore della fabbrica di suo padre, ma usava buona parte del denaro che guadagnava per aiutare Marx, che era molto povero, affinché potesse dedicarsi ai suoi compiti e ai suoi studi senza preoccupazioni economiche. Insisto, sono eccezioni. La regola è che un dirigente non deve diventare ricco, men che meno sfruttando il lavoro operaio, come un capitalista.

E un militante di base?

Per i militanti di base i criteri non sono così rigidi, ma il problema è che tutti i militanti, che siano dirigenti o di base, soffrono contraddizioni per il fatto che vivono in società. Tutti sappiamo che i nostri peggiori nemici sono l’esercito e la polizia, che vivono cercando di distruggerci. Ora, supponiamo che attraverso la nostra propaganda guadagniamo alle nostre idee un ufficiale. A un certo punto possiamo chiedergli, invece di richiedere il congedo, di restare nelle forze armate per guadagnare altri ufficiali. Questo militante vive una contraddizione molto acuta. La stessa cosa può succedere se guadagniamo un prete. Negli anni Trenta c’era un pastore nordamericano, Edwin Muste, che militò con i trotskisti che più avanti avrebbero formato il SWP. Era un compagno molto disciplinato, ma non smetteva di andare al tempio a officiare i riti. Il che vuol dire che militava per l’oppio dei popoli e allo stesso tempo per il partito che voleva liquidare quest’oppio. Sono contraddizioni personali che sorgono.

Come le risolve il partito?

Innanzi tutto, il partito non è una clinica psichiatrica, ma un’organizzazione politica. Queste contraddizioni sono sottoprodotti della militanza di partito, sono l’aspetto soggettivo, psicologico, dell’attività. Il partito non ha motivo di avere una politica diretta per risolvere questo tipo di problemi. I suoi compiti sono politici. Per me, l’attività del partito provoca in generale una tendenza allo sviluppo delle qualità personali e alla disalienazione. Se confrontiamo il mio caso con quello di Muste, io da giovane ero idealista e l’attività di partito mi portò a conclusioni di tipo materialista. Muste, al contrario, abbandonò il partito e tornò alla chiesa, sebbene verso la fine della sua vita sia stato dirigente del movimento contro la guerra del Vietnam. Il che vuol dire che i casi sono individuali, ma il partito fornisce un mezzo affinché l’individuo sviluppi le sue facoltà. Questo, lo ribadisco, è un sottoprodotto dell’attività di partito, che è essenzialmente politica.

Ci sono compagni che vivono a carico del partito, vero?

Sì, sono compagni che stanno sempre a disposizione del partito, devono viaggiare, occuparsi politicamente delle varie zone, aiutarle nel loro sviluppo. Può essere un compagno di grande esperienza politica o sindacale, che il partito manda ad appoggiare una direzione regionale quando si verifica un fatto di grande importanza nella lotta di classe, un grande sciopero o un “cordobazo”[14]. Anche la stampa di partito necessita di compagni a tempo pieno. Ce ne sono altri che non sono dirigenti ma svolgono funzioni indispensabili: il partito non può farcela senza avvocato, ragioniere, compagni che svolgono lavori di segreteria, insomma quello che chiamiamo l’apparato del partito.

E di che vivono? Perché è evidente che non potrebbero lavorare otto ore al giorno…

Di quello che gli paga il partito, che generalmente equivale a un salario operaio medio. A volte può essere un po’ di più. In un paese in cui è molto basso ? per esempio, in Nicaragua credo che sia intorno ai dodici dollari al mese ? non basta a un dirigente che deve viaggiare per il paese, per occuparsi delle varie zone del partito. Allora lo si paga un po’ di più, o gli si danno indennità di trasferta. Ora, in linea di principio, tendiamo al salario operaio medio per questi compagni, che noi chiamiamo professionisti.

Da dove escono i fondi per questo?

Fondamentalmente dai contributi degli stessi militanti. Uno dei primi insegnamenti che apprende un compagno che si avvicina a noi è che il nostro è un partito operaio che si mantiene grazie a questo. Per noi è una questione morale e politica di prim’ordine, questo contributo mensile. È come la quota sindacale, tutti gli operai la pagano, solo che nel nostro caso l’importo è volontario, ci sono compagni che hanno più mezzi di altri e possono versare di più. Sarebbe il caso di uno dei nostri parlamentari? Perché in Argentina lo stipendio di un parlamentare è da otto a nove volte più alto della paga di un operaio. Un compagno che viene eletto al parlamento diventa un professionista del partito, con un compito specifico. Quindi gli si chiede di versare la maggior parte della sua indennità, e trattenere quello di cui ha bisogno per vivere. Questo fu argomento di grande discussione in Perù, dove il nostro partito fratello aveva vari parlamentari. Io ero favorevole al fatto che conservassero un importo superiore al salario operaio medio, e perfino che approfittassero delle agevolazioni per comprare auto e casa, con crediti speciali che gli concedeva lo Stato. Altri compagni erano contrari e ci furono molte discussioni. Se viene una delegazione operaia a esporre un problema a uno dei nostri parlamentari, mi sembra elementare che il compagno gli offra un caffè, e che possa farlo alla caffetteria del parlamento, sebbene sia un po’ più cara. E per questo il salario medio non basta. Ci sono altri problemi da esaminare. Per esempio, come aiutiamo un compagno che supera i quarant’anni, un’età alla quale è molto difficile trovare lavoro, e che per la sua dedizione e devozione al partito non ha potuto apprendere nessun mestiere. Oppure, se il partito ha proprio bisogno di denaro, potremmo chiedere a un compagno di famiglia borghese di occuparsi degli affari di famiglia per dare una quota molto alta. Cioè di fare quello che fece Engels per qualche tempo. Ora, anche nel risolvere questi problemi di posizione sociale dei compagni siamo democratici. La discussione in Perù fu tremenda. I compagni parlamentari erano imbarazzati al massimo, si vedevano come dei criminali antipartito perché ricevevano un po’ di più di stipendio per i loro compiti specifici. L’importante è che la discussione si fece, e tutti rispettarono quello che si decise.

E che cosa si decise?

Che i compagni guadagnassero un po’ di più del salario operaio medio. Ho menzionato tutti questi casi come esempi delle varie contraddizioni che soffre il partito.

È evidente che i vizi della società in qualche modo entrano nel partito. Per esempio, il maschilismo. Molte compagne ritengono che ci sia l’oppressione della donna all’interno del partito. Lei concorda con loro?

Per me, sì, c’è. Evidentemente, un operaio maschilista non smetterà di esserlo dalla sera alla mattina per il solo fatto di entrare nel partito. Le racconterò un aneddoto della rivoluzione portoghese. Fra i massimi dirigenti del maoismo portoghese c’era una coppia, entrambi eccellenti militanti, soprattutto lei, che era proprio brillante. In un congresso maoista, che si fece in un teatro, lei stava parlando e pare che si dilungasse troppo. Allora lui gridò dalla sua poltrona: “Be’, basta, hai già parlato abbastanza!”. E lei si interruppe, chiuse il suo intervento. Così vanno le cose. Magari qualcuno potrebbe conoscere una pillolina antimaschilismo di effetto immediato, io no. È un processo che richiede anni. In generale, vedo un grande progresso nel partito. C’è maschilismo, ma è un partito molto sano e si fanno passi avanti nella direzione del suo superamento.

La compagna Nora Ciapponi ha detto in un’intervista alla radio che il nostro è l’unico partito nel cui Comitato Centrale ci sia il trentatré per cento di donne.

E questa percentuale è ancora più alta nelle direzioni locali. In un periodo la proporzione di donne nella direzione superò il cinquanta per cento. Ecco perché dico che c’è un buon clima nel partito, anche fra i compagni uomini. Alcuni compagni soffrono per questo, ma devono accettarlo. Ora, ho anche visto il fenomeno opposto. Forse le compagne inorridiranno, ma ho osservato in determinati scaglioni del partito che le compagne dominano i loro partner. Non lo dico per criticare: è da ottomila anni che le donne subiscono l’oppressione, quindi è logico e perfino progressivo che si inverta la situazione. Ma è una realtà.

Che significa “in determinati scaglioni”?

Come problema sociale è molto complesso. I sessuologi che ho letto ritengono che l’oppressione dell’omosessuale maschio, che è sempre stata molto intensa, inizi ad allentarsi negli ultimi anni. Così come trenta o quarant’anni fa la società rifiutava una donna che aveva varie relazioni di coppia e adesso inizia ad accettarla, sembra che succeda lo stesso con gli omosessuali. Restano molti pregiudizi, ma vanno scomparendo. Alcuni sessuologi italiani rivendicano l’omosessualità femminile: dicono che nella relazione eterosessuale la donna è sottomessa, mentre nell’omosessualità diventa soggetto della relazione. C’è grande amicizia e franchezza, i componenti della coppia discutono liberamente di cosa gli piace, eccetera. Io considero l’omosessualità qualcosa di così normale che sono contrario a fare propaganda. In questo senso concordo pienamente con Daniel Guérin, il grande storico marxista francese ? e noto omosessuale ?, autore di un libro in cui rivendica l’omosessualità. Per me è il migliore che sia stato scritto al riguardo. Nella prefazione all’edizione giapponese del suo libro Guérin mette in guardia gli omosessuali contro la loro tendenza a fare della loro liberazione un fine in sé, e avverte che il grande problema che deve porsi ogni militante è la trasformazione della società. Un compagno omosessuale, dirigente del partito brasiliano, voleva fare una corrente all’interno del partito a favore dell’omosessualità. Io mi opposi, appunto perché considero l’omosessualità tanto normale quanto l’eterosessualità. Supponiamo che si crei una corrente così all’interno del partito, con diritti di frazione. Vuol dire che nelle sedi ci sarebbero salottini, ognuno col suo cartello: “Uomini con Donne”, “Uomini con Uomini”, “Donne con Donne”, e ogni frazione avrebbe il suo bollettino.

Ma gli omosessuali sono repressi, gli eterosessuali no.

Ah, no, questo è completamente diverso. All’interno della società lottiamo alla morte contro l’oppressione degli omosessuali e ogni tipo di oppressione: nazionale, razziale, eccetera. Io intendevo dire che mi oppongo a fare questo tipo di attività all’interno del partito. All’esterno combattiamo l’oppressione degli omosessuali, che per me è una collaterale dell’oppressione della donna.

Be’, andiamo all’ultima domanda di questo libro. Lei che bilancio farebbe della sua vita come militante? E non si offenda, sappiamo tutti che le restano ancora molti anni.

Lei mi chiede un bilancio personale?

Sì.

Bene, da quando Trotsky scrisse il suo bel testamento, è un luogo comune per i trotskisti dire “se tornassi a vivere, farei esattamente lo stesso, ma rettificando alcuni errori”. Io rivendico pienamente di essere stato per tutta la mia vita un militante di professione, dedito interamente al partito, e alla rivoluzione. Ora, credo che abbiamo commesso molti più errori di Trotsky e dei bolscevichi. Quando dico che il nostro è stato un trotskismo barbaro è perché lo credo davvero, non sto facendo demagogia. Noi ci siamo formati da soli, senza l’aiuto di una vera Internazionale. Quindi, nel fare il bilancio, senza pena e con pochissima gloria, vedo un’enorme quantità di errori, alcuni di essi molto gravi, perfino ridicoli. Abbiamo dovuto pagare il prezzo dell’inesistenza di un’Internazionale, così come della morte di Trotsky. Se vuole un esempio, nel ’47 il partito andò alle elezioni con il programma della Comune di Parigi, che non aveva niente a che vedere con la situazione argentina. Se non avessimo commesso infinità di errori come questo, sono convinto che oggi staremmo molto meglio di come stiamo. Un altro errore molto grave è stato l’aver avuto tanti militanti di professione nel partito. Se potessi tornare indietro, penso che si dovrebbe evitarlo, e che molti dei compagni che sono stati professionisti stipendiati dal partito sarebbero dovuti andare a lavorare e inserirsi nella società. La professionalizzazione genera tendenze a vivere rinchiusi, a emarginarsi dalla società. Ma il mio problema più grave è quello del gruppo dirigente: come prendersene cura, fare tutti i sacrifici necessari affinché i dirigenti abbiano buoni rapporti fra di loro. Per un lungo periodo non ho capito questo problema. Quando alla fine l’ho compreso, grazie alla direzione del Socialist Workers Party e a Joe Hansen42 in particolare, ormai era tardi. Alcuni compagni della vecchia guardia sostengono che la rottura del vecchio gruppo dirigente, con Bengochea, Lagar, Fucito e altri, il migliore che abbia avuto il partito in tutta la sua storia, era inevitabile a causa dell’influenza politica del castrismo. Questo fattore c’è stato, ma io credo che si siano aggiunti elementi di tipo soggettivo, apportati da me. Ho preferito discutere e far valere la verità in astratto, invece di mettere tutta la cura possibile per mantenere questo gruppo. Magari non è così, ma io morirò con questo dubbio e questa pena.


Note

Le note contrassegnate da parentesi quadre e le aggiunte fra parentesi quadre sono del traduttore, che non ha ritenuto opportuno segnalare la correzione di refusi e incongruenze evidenti e incontrovertibili, le modifiche riguardanti la grafia dei cognomi e altre correzioni minori.

[1]. La prima edizione dell’opera, la cui versione digitalizzata qui si traduce, è intitolata Conversaciones sobre trotskismo, ma nelle edizioni successive il titolo è stato modificato come indicato, tanto da rendere desueto quello originale.

[2]. In realtà all'epoca della pubblicazione, nei Cuadernos de El Socialista (rivista del partito nicaraguense PRT, Partido Revolucionario de los Trabajadores), Nahuel Moreno era ancora vivo. Morì il 25 gennaio 1987.

[3]. Nel testo: "se da vuelta". 'Darse vuelta' è un'espressione popolare argentina che significa 'cambiare idea o partito'.

[4]. Lacuna nella trascrizione. L'edizione argentina (Buenos Aires 1986), anch'essa reperibile in Internet, riporta: "El carácter agresivo, guerrero", ecc.

[5]. Nel testo, così come nell'edizione argentina: "parados" ("disoccupati"). è invece un probabile refuso per "partidos" (come già poche righe più sopra), anche alla luce della domanda successiva.

[6]. Nel testo: "principistas". 'Principista' è un termine usato specialmente in America Latina che significa 'basato sulla lealtà ai princìpi al di sopra di altre considerazioni'.

[7]. Lacuna nella trascrizione. L'edizione argentina riporta la parola mancante: "dirección".

[8]. Moreno si riferisce ai decreti del gennaio 1945 con cui la Repubblica Sociale Italiana decise la "socializzazione" di alcune importanti imprese, come ad esempio la Falck, la Montecatini e la FIAT, nel quadro della legislazione varata l'anno precedente. In realtà il D.lgs. del Duce 375/1944 tendeva sì a democratizzare in una certa misura la gestione dell'impresa e a ripartirne più equamente gli utili (ciò che era indicato appunto come "socializzazione della impresa"), ma riguardo all'espropriazione stabiliva semplicemente che "La proprietà di imprese che interessino settori chiave [...] può essere assunta dallo Stato" (Art. 31) e che "saranno di volta in volta determinate le imprese di cui lo Stato intenda assumere la proprietà" (Art. 32), procedendo peraltro alla conversione delle quote di capitale in titoli (Art. 33). Questi decreti rimasero sostanzialmente inapplicati per l'opposizione sia dei nazisti che del PCI.

[9]. Nel testo: "en el esto de Europa". L'edizione argentina corregge: "en el resto de Europa"; quasi sicuramente, però, è corretto leggere "en el este de Europa", perché, come si sa, l'Armata Rossa espropriò la borghesia solo nei paesi dell'Europa orientale, non in tutto il continente.

[10]. Nel testo, così come nell'edizione argentina: "facultar" ("autorizzare"). è un probabile refuso per "facilitar".

[11]. La fondazione ufficiale avvenne a Londra il 28 settembre 1864.

[12]. Nel testo: "camero", refuso per "carnero" (corretto nell'edizione argentina), qui e in seguito col significato gergale argentino di 'crumiro'.

[13]. Il testo, così come l'edizione argentina, riporta erroneamente il nome: "Nataniel Moreno".

[14]. Con questo nome si indica un'importante rivolta popolare scoppiata nella città di Córdoba, in Argentina, il 29 maggio 1969.

1. Karl Kautsky (1854-1938) fu un importante marxista della Seconda Internazionale. Abbandonò le sue posizioni rivoluzionarie all'inizio della Prima Guerra Mondiale e si oppose alla Rivoluzione d'Ottobre. Rosa Luxemburg (1871-1919) fu dirigente del partito socialdemocratico polacco e successivamente di quello tedesco. Ruppe con la socialdemocrazia nel 1914, per il suo appoggio al governo tedesco nella Prima Guerra Mondiale. Successivamente fu fondatrice della Lega di Spartaco, gruppo predecessore del partito comunista tedesco. Partecipò alla rivoluzione tedesca del novembre 1918, durante la quale fu arrestata e assassinata per ordine del governo socialdemocratico. Teorica marxista, scrisse varie opere importanti come L'accumulazione del capitale e Sciopero di massa, partito, sindacati.

2. Si veda Wallerstein, Immanuel, El moderno sistema mundial [Il sistema mondiale dell'economia moderna]. Madrid: Siglo XXI de España Editores, 1984.

3. Si riferisce al discorso del presidente argentino Raúl Alfonsín del 26 aprile 1985.

4. Bernardo Neustadt è un commentatore politico della radio e della televisione argentine, noto per il suo appoggio alle dittature militari.

5. Maurice Thorez (1900-1964), segretario generale del PC francese e fervente sostenitore di Stalin, fu ministro nel primo governo del generale De Gaulle dopo la Seconda Guerra Mondiale.

6. Si veda "Hunger in America", in The New York Times Magazine, 16/8/'85.

7. Dati di Le Monde, 29/5/'85.

8. Si veda Anderson, P., El Estado absolutista [Lo stato assoluto]. Madrid: Siglo XXI de España Editores, 1984.

9. Si riferisce a una conferenza tenuta da questo importante economista marxista ai militanti del Movimiento al Socialismo, dell'Argentina.

10. Si vedano i paragrafi iniziali del Manifesto comunista, di K. Marx e F. Engels.

11. Si veda Marx, C., Las luchas de clases en Francia de 1848 a 1850 [Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850]. Buenos Aires: Editorial Anteo, 1973, p. 182 ss.

12. Meillassoux, C., Mujeres, graneros y capitales [Donne, granai e capitali]. Messico: Siglo XXI Editores, 1982. Principalmente i capitoli 6 e 7.

13. José A. Martínez de Hoz. Proprietario terriero della provincia di Buenos Aires, fu il ministro dell'Economia della dittatura instaurata in Argentina dopo il colpo di Stato del 24 marzo 1976.

14. Christian Rakovskij (1873-1941), rivoluzionario bulgaro, partecipò alla Rivoluzione Russa e fu eletto al Comitato Centrale del partito bolscevico nel 1919. Insieme a Trotsky e altri dirigenti bolscevichi fondò l'Opposizione di Sinistra per combattere la burocratizzazione del partito e dello Stato operaio, e la rappresentò al Congresso del 1927 del PC sovietico, già dominato da Stalin. Nel 1928 fu espulso dal partito e deportato in Siberia. Rinnegò le sue posizioni nel 1936 e poté tornare a Mosca. Chen Duxiu (1879-1942) fu uno dei fondatori del PC cinese e suo segretario generale dal 1921 al 1927. La direzione stalinista del Comintern lo espulse dal partito per trasformarlo nel capro espiatorio della sconfitta della rivoluzione cinese nel 1927. Si unì all'Opposizione di Sinistra Internazionale nel 1930. Fu arrestato dal governo di Chiang Kai-shek nel 1932 e passò il resto della sua vita in prigione.

15. Ernest Mandel, importante economista marxista, è dirigente della Quarta Internazionale (Segretariato Unificato) e della sua sezione belga. Michel Pablo, trotskista greco e principale dirigente della Quarta Internazionale dopo la Seconda Guerra Mondiale, fu l'ideatore della tattica dell'"entrismo sui generis", vale a dire, per un periodo prolungato, nei partiti comunisti stalinisti. Successivamente ruppe col trotskismo.

16. Si riferisce allo sciopero dei minatori boliviani del marzo 1985, che durò sedici giorni.

17. Hugo Blanco fu guadagnato alla corrente trotskista capeggiata da Moreno, quando era studente in Argentina. Diresse la grande mobilitazione contadina delle valli di La Convención e Lares (Cuzco), Perù, all'inizio degli anni Sessanta. Dopo la sconfitta passò otto anni in prigione. Successivamente fu dirigente e parlamentare del trotskismo unificato.

18. Si riferisce alle rivoluzioni del 1905 ("la prova generale dell'Ottobre", secondo Lenin), del febbraio 1917 e dell'ottobre 1917.

19. Il Grupo de Contadora è un accordo firmato dai governi di Messico, Panama, Colombia e Venezuela al fine di brigare per la "stabilità" e la "pace regionale" in America Centrale. Ha ricevuto rapidamente l'appoggio di quasi tutti i governi latino-americani, del Congresso degli Stati Uniti, del Parlamento Europeo e del Vaticano. Le sue principali proposte sono contenute nei cosiddetti "21 Punti" firmati nel settembre 1983. La loro accettazione comporterebbe che il Nicaragua non dovrebbe fornire sostegno alla guerriglia salvadoregna, in armi o in basi sul suo stesso territorio, e allo stesso tempo dovrebbe riconoscere i diritti politici della guerriglia controrivoluzionaria nicaraguense (i "contras") nell'interesse della "riconciliazione nazionale".

20. La Federazione sindacale internazionale (chiamata "gialla") raggruppava i sindacati diretti dai partiti socialdemocratici europei. Scomparve durante la Seconda Guerra Mondiale. L'Internazionale sindacale rossa fu creata dalla Terza Internazionale ? e sciolta insieme ad essa ? per raggruppare i sindacati fondati dai comunisti in opposizione alla burocrazia riformista.

21. Georg Hegel (1770-1831), filosofo e logico tedesco, esercitò una profonda influenza su Marx nel campo della logica.

22. Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865) fu uno dei primi teorici dell'anarchismo. Le sue idee ebbero grande consenso fra gli operai nel XIX secolo.

23. La teoria del socialismo in un paese solo, formulata da Stalin per sostenere il suo abbandono della rivoluzione internazionale, afferma che l'URSS, a causa della sua estensione e delle sue risorse naturali, è capace da sola di "raggiungere e superare" lo sviluppo dei paesi capitalisti più avanzati e arrivare al socialismo. La teoria marxista sostiene, al contrario, che, sebbene il primo passo sia la conquista del potere e l'espropriazione della borghesia negli Stati nazionali, si arriverà al socialismo solo mediante un grande sviluppo delle forze produttive, il quale richiede la conquista del potere a livello mondiale e l'abolizione delle frontiere nazionali. In questo modo, il grande sviluppo economico, scientifico e tecnologico, oggi patrimonio di una manciata di paesi, raggiungerebbe l'intero pianeta.

24. Quando Videla assunse la presidenza, il giornale del PC argentino commentò: "Le formulazioni del generale Videla costituiscono un programma liberatore, che condividiamo. Il generale Videla chiede comprensione. L'avrà. È giusto che tutti i settori patriottici del nostro popolo, raccogliendo l'appello presidenziale, partecipino alla riorganizzazione democratica" (Tribuna Popular, 8/4/'76).

25. Il Movimiento al Socialismo è un'organizzazione simpatizzante della Liga Internacional de los Trabajadores (Cuarta Internacional), della quale Moreno è stato uno dei fondatori e dirigenti. La LIT (CI) è stata fondata nel 1982 per lottare per il superamento della crisi di direzione della Quarta Internazionale.

26. Si veda "La succession au trône et la kremlinologie", di Lubomir Sochor, L'Alternative nº 20, gennaio/febbraio 1983. L'autore fu eletto al Comitato Centrale del PC cecoslovacco nel congresso svoltosi nel bel mezzo della cosiddetta "primavera di Praga" e dovette lasciare il paese dopo l'invasione sovietica. La rivista L'Alternative, dedicata a problemi politici ed economici dei paesi dell'Europa orientale, è pubblicata a Parigi.

27. Sistemi di produzione volti a ottenere un maggiore rendimento dal lavoro dell'operaio. Il sistema di Taylor consiste in una rigorosa divisione del lavoro, nell'ambito della quale ogni lavoratore svolge un compito piccolissimo, combinata con la regolamentazione scientifica di ogni movimento che compie il lavoratore. Il sistema di Ford è la catena di lavorazione e di montaggio, o lavoro a catena.

28. Si veda Sapir, J., Travail et travailleurs en URSS. Parigi: Éditions La Découverte, 1984. Lo stachanovismo fu un modo di accrescere la produzione aumentando il ritmo di lavoro. Porta il nome del minatore Aleksej Stachanov, che in base allo sforzo fisico aumentò di sedici volte la sua produzione.

29. La NEP (Nuova politica economica) fu attuata nell'URSS nel 1921. Come misura temporanea intesa a rilanciare l'economia sconvolta dalla rivoluzione e dalla guerra civile, prevedeva un'introduzione controllata del mercato capitalistico, concessioni alla borghesia per avviare piccole imprese e ai contadini per mettere liberamente in commercio i loro prodotti.

30. Nikolaj Bucharin (1888-1938), membro del partito bolscevico e del suo Comitato Centrale durante la rivoluzione, occupò alte cariche nel partito e nella Terza Internazionale. Formò una tendenza nel partito chiamata Opposizione di Destra, che prevedeva nel suo programma l'estensione della NEP con l'abolizione del monopolio statale del commercio estero. Fu giustiziato per ordine di Stalin.

31. Nepman (uomo della NEP): nome che si dava ai commercianti arricchitisi con questa politica.

32. Álvaro Alsogaray è stato ministro dell'Economia del governo Frondizi (1959-'62) e attualmente è deputato, rappresentante della destra liberale filoimperialista. Armando March è stato segretario generale della Confederación de Empleados de Comercio e della sua sezione della capitale, uno dei sindacati più potenti dell'Argentina.

33. Si veda Correo Internacional nº 13, ottobre 1985.

34. Edmund Baluka, dirigente del grande sciopero dei cantieri navali di Danzica (1970-'71), andò in esilio dopo la sconfitta di questo movimento. Ritornò in Polonia alla ripresa degli scioperi, fu arrestato e poi rilasciato.

35. Samizdat ("pubblicazioni in proprio", in opposizione a Gosizdat, "pubblicazioni dello Stato", la casa editrice ufficiale sovietica) è il nome generico della letteratura clandestina dissidente nell'URSS.

36. Guillermo Lora è dirigente del Partido Obrero Revolucionario della Bolivia.

37. I documenti centrali di questa polemica sono Dittatura del proletariato e democrazia socialista, approvato dal Segretariato Unificato, e La dittatura rivoluzionaria del proletariato, presentato dalla Fracción Bolchevique, all'epoca corrente interna di quell'organizzazione, poi antesignana della Liga Internacional de los Trabajadores (Cuarta Internacional).

38. Julij Martov (1873-1923) fu uno dei primi dirigenti della socialdemocrazia russa e condirettore, con Lenin, del suo giornale Iskra (La Scintilla). A partire dalla divisione del partito nel congresso del 1903 fu un importante dirigente dell'ala menscevica e si oppose alla Rivoluzione d'Ottobre.

39. Il Partido Obrero de Unificación Marxista (POUM) fu il frutto dell'unificazione del cosiddetto Bloque Obrero y Campesino con una corrente che si separò dalla sezione spagnola dell'Opposizione di Sinistra Internazionale, antesignana della Quarta Internazionale. Andrés Nin (1892-1937) era uno dei dirigenti più importanti di questo partito, sebbene il vero capo fosse Joaquín Maurín, carcerato all'inizio della guerra civile; fu amico personale di Trotsky, ma questi prese politicamente le distanze da lui quando si pronunciò a favore del fronte popolare. Fu ministro della Giustizia della Generalidad de Cataluña nel 1936. Gli stalinisti lo assassinarono nel 1937.

40. La Brigada de Combatientes Internacionalistas Simón Bolívar, composta da militanti di diversi paesi latino-americani per sostenere la rivoluzione nicaraguense nel 1979, prese parte a numerosi combattimenti che hanno condotto alla caduta della dittatura di Somoza, insieme al Fronte sandinista. Sebbene il suo centro di attività fosse la zona atlantica, dove il FSLN non era arrivato, alcuni dei suoi membri erano nelle prime colonne che arrivarono a Managua e presero il bunker di Somoza. Dopo la vittoria si adoperò per promuovere la creazione di sindacati e della centrale operaia. Fu spinta politicamente dalla Fracción Bolchevique e dalla sua sezione colombiana, il Partido Socialista de los Trabajadores. Il governo sandinista la espulse dal Nicaragua quando la Brigada tentò di promuovere una politica di sviluppo della mobilitazione delle masse per l'espropriazione della borghesia e dell'imperialismo.

41. George Novack è un teorico marxista nordamericano e uno dei fondatori del movimento trotskista in quel paese. Le sue opere pubblicate in castigliano comprendono Introducción a la lógica marxista e La ley del desarrollo desigual y combinado [La legge dello sviluppo ineguale e combinato].

42. Joseph Hansen (1910-1979) fu fondatore e dirigente del partito trotskista negli Stati Uniti. Fu segretario di Trotsky durante il periodo del suo esilio in Messico, fino al suo assassinio. Prese parte per molti anni alla direzione internazionale del movimento trotskista.


Ultima modifica 2019.01.27