Crisi e rinnovamento dello Stato

Don Luigi Sturzo (1922)


Il discorso fu letto nella sala della Pergola a Firenze, il 18 gennaio 1922, per il triennale della fondazione del partito popolare italiano e alla vigilia della crisi ministeriale che si presentiva, e che avvenne, pochi giorni dopo per il ritiro dei giolittiani dal governo. L’analisi della crisi dello stato e dell’atteggiamento dei partiti organizzati (socialista, popolare e fascista) è fatta in vista del rinnovamento degli istituti politici nella loro organicità e funzionalità.

Trascritto per ragioni di studio (learning purposes) nel febbraio 2020


I

Oggi è tre anni, veniva lanciato l’appello ai liberi e forti in nome di un nuovo partito, il primo che all’indomani dell’armistizio dell’immane guerra si affermasse in Italia come una forza nuova di ricostruzione. Tre anni di lavoro e di battaglie, di sforzi, di adattamenti, di sviluppo, mantengono tuttora integro, granitico l’appello come una sintesi di idee, di volontà e di organicità politica, formatasi nel travaglio delle forze sociali, per indicare, nel dopo guerra, una via che fosse una vita.

Discussioni vivaci attorno a uomini e ad idee, dissensi e consensi sui vari atteggiamenti assunti nel turbinare degli avvenimenti, critiche aspre, entusiasmi vibranti di fede; il partito popolare italiano in tre anni ha polarizzato forze nuove, ha riorganizzato antichi elementi, ha conquistato spiriti liberi nel campo della cultura, larghe masse nel movimento economico, posizioni politiche anche di primo ordine, in mezzo a diffidenze o disprezzi o tolleranze, guardato quasi come un estraneo e, più ancora, un intruso, nel corpo politico della nazione.

Di tanto in tanto, nelle varie forme assunte dai partiti politici o da forze organizzate in Italia, nell’acuirsi dei problemi o nello spostarsi delle forze e degli attriti, la voce del partito popolare italiano e sembrata quella di un ammonitore, di un antiveggente, che costringe a rivalutare il presente in crisi, e che segna una via nuova. Cessa il rumore, la voce si estingue; ma i liberi e i forti persistono, aumentano, lottano, in una specie di torneo, ove torna ad echeggiare, anche tra lo scoppiettìo dei colpi di rivoltella di comunisti o fascisti, la voce dell’ammonitore, la voce dell'antiveggente.

Questa voce, unica in Italia dall’armistizio ad oggi, ha affermato una concezione politica che nega lo stato attuale, e preludia le sue sostanziali trasformazioni1.

Nel nostro appello del 1919 si legge:

«Ad uno stato accentratore tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica e individuale, vogliamo, sul terreno costituzionale, sostituire uno stato veramente popolare, che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali — la famiglia, le classi, i comuni — che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private. E perchè lo stato sia la più sincera espressione del volere popolare, domandiamo la riforma dell’istituto parlamentare sulla base della rappresentanza proporzionale, non escluso il voto alle donne, e il senato elettivo come rappresentanza diretta degli organismi nazionali accademici amministrativi e sindacali; vogliamo la riforma della burocrazia e degli ordinamenti giudiziari e la semplificazione della legislazione; invochiamo il riconoscimento giuridico delle classi, l'autonomia comunale, la riforma degli enti provinciali e il più largo decentramento nelle unità regionali».

Questa pagina è viva e balzante dopo tre anni come se fosse stata scritta oggi, è la base del nostro movimento, l'ispiratrice della nostra attività, e una delle più grandi mète dell’opera nostra.

Molti consentono sopra un pensiero generico che nelle varie espressioni potrebbe credersi identico al nostro, anzi ci fanno quasi il rimprovero di aver rilevato dagli altri partiti o meglio da altre teorie una serie di riforme, e di averle fatte proprie del partito popolare italiano; altri attenua la portata e la forza di tali riforme riducendole ad elementi di adattamento e, di svolgimento dello stesso stato nella sua concezione tradizionale, e fa della analisi scolorita, ove perde efficacia e ragione lo stesso problema come posto e non risolto; altri invece non trova che sia questo il problema centrale che affatichi la crisi odierna, e crede che tutto lo sforzo nostro d’accentrare nel problema dello stato i problemi attuali, sia uno sforzo vano, senza reale base e senza termine efficiente, un lavoro nel vuoto. Per questo, nel ricordare il terzo anno, di vita del nostro partito, più che fare una rassegna delle attività e delle lotte, le quali hanno la vita di un giorno e sono giudicate dal gioco ottico delle passioni, credo opportuno discutere, dal nostro punto di vista, il problema dello stato, come il problema centrale nella crisi di oggi e prospettare quella soluzione audace, direi rivoluzionaria, che sola può creare e alimentare le forze atte a superare la grande crisi che su di noi si abbatte, nella vita nazionale e nei nostri rapporti con l’estero.

Questo contributo allo sviluppo del nostro pensiero politico deve servire a chiarire le posizioni assunte sin oggi, le ragioni delle lotte e le mire della attività del partito; e a distinguere nettamente il nostro pensiero da quello di altri partiti, che pur collaborando con noi sul terreno pratico, partono da altri punti e tendono ad altre mète.

Il distinguersi e il contrastare non è un semplice atto di volontà, nè un istinto di dominio, nè una valutazione di opportunità; deve trovare la ragione nel fondamento ideale della vita, se non si vuole essere dalla vita stessa avulsi e confusi con le cose morte e inesistenti. E noi oggi sentiamo di essere distinti e di lottare, perchè sentiamo di partecipare alla vita. E di vita parleremo questa sera, anche nella trepida visione della crisi e nella fiduciosa speranza del rinnovamento della stato.

II.

Una nazione come l’Italia, che ha in sè una forza di primo ordine: la popolazione di quaranta milioni di uomini, con una densità eccezionale di quasi 140 per chilometro quadrato, popolazione laboriosa, versatile, adattabilissima; una posizione geografica nel Mediterraneo tale da doverne essere centro e vita; dopo raggiunta l’unità politica e la normalità e sicurezza dei suoi confini, e un’effettiva partecipazione alle intese internazionali insieme con gli stati che oggi dominano nel mondo; una nazione come l’Italia non può soggiacere alla crisi, e deve avere in sè le forze e i mezzi per superarla.

È vero: essa è povera e impoverita dalla guerra; essa è divisa internamente, e nel concerto delle nazioni ha le difficoltà di un perenne equivoco tra la figura di grande nazione e la realtà di una politica estera che tende a soffocarne l’avvenire. Ma se colpa di eventi o difetto di uomini han creato attorno alla patria nostra un cumulo di diffidenze e un’atmosfera difficile, se le interne condizioni economiche e politiche si sono aggravate, se la crisi si abbatte violenta, nessun uomo che valuti e confronti le condizioni attuali di tutti gli stati, può negare che le nostre riserve di energie morali ed economiche siano tali da poter avere e infondere negli altri una ben onesta fiducia che l’Italia presto troverà la via faticosa ma sicura del suo rinnovamento.

Questa fiducia non deve essere basata sopra sentimentalismi retorici e sopra fanatismi isterici o sopra credenze cieche; deve essere frutto di convinzione che generi l’azione e la preordini ai fini da dover raggiungere. Per questo non c’è peggiore nemico per noi dello scoraggiamento, del pessimismo, della incoltura delle classi dirigenti, le quali non possono sfuggire alle responsabilità storiche, morali e politiche della loro posizione. Una delle fasi più aspre della crisi che travaglia l’Italia nostra è quella che ha colpito proprio le classi così dette dirigenti. Merita la questione un attento esame, tanto più che oggi, e credo ancora per un pezzo, queste che per intenderci chiamiamo classi dirigenti o classi borghesi, avranno in parte o in tutto la responsabilità direttiva e fattiva della politica e della economia nazionale. Il grande pensiero animatore, l'istinto del rinnovamento, anche a mezzo delle rivoluzioni, lo spirito centrale della forza collettiva veniva dalle università, dalla cultura, dallo studio. Attraverso il pensiero tradizionale si elaborava la grande riforma, la filosofia dava i forti scorci della realtà e ne preparava gli eventi. Oggi le nostre università sono mute per la maggior parte degli studiosi; la tribuna parlamentare sciatta, piccola, pettegola e boriosa ha coperto dei suoi clamori l’esile tenue voce dello studioso; il soffio animatore dei grandi rivolgimenti non c’è o non ha trovato la sua via nelle espressioni letterarie e artistiche, nelle battaglie giornalistiche e politiche, perchè manca la elaborazione del pensiero e la forza di una convinzione che a questo pensiero si appoggi come fulcro, ragione, mèta di una vera e profonda attività di vita. E mentre il pensiero liberale ebbe dalla fine del secolo decimottavo ad oggi economisti, pensatori, poeti e artisti che crearono la base spirituale e l’ambiente naturale agli uomini politici; nella evoluzione della attività così detta democratica e nella preparazione del pensiero socialista e anche di quello cristiano sociale che rappresentano le tre forze politiche dell’oggi, noi in Italia abbiamo ben poco come studio e letteratura, che non sia semplice negazione o critica, ma che sia invece elaborazione ideale e pratica, elemento di forza, costruzione sociale, spinta di grandi movimenti nazionali e internazionali, che poggino sopra teorie e sistemi che penetrino nell’animo dei popoli.

Eppure non v’è un periodo così denso di avvenimenti come il presente, più di quel che un secolo e mezzo fa si preparava per l’Europa e per le Americhe; periodo di sconvolgimento di popoli e di stati, di economie e di istituti, nella instabilità di una pace che invano da tre anni si cerca nel'affannoso studio di conferenze e di congressi.

Non è certo incomprensione dei fenomeni storici, nè assenza dello spirito di cui vivono i popoli nella lotta sociale; è un disorientamento sostanziale, il contrasto fra le teorie da lungo tempo credute intangibili e fondamentali e la realtà diversa e contrastante: l’analisi, la critica, il particolarismo che hanno soverchiato la sintesi ricostruttiva e l’universale finalistico. La crisi di pensiero — maturata attraverso un formalismo burocratico che ha intristite le nostre università, e attraverso il proposito di materializzare ogni elevazione dello spirito, — la crisi di pensiero trova l’ambiente di cultura impreparato e direi quasi al di fuori dei larghi movimenti dell’attuale vita dei popoli; ed è impari allo sforzo per intuire un sicuro orientamento nel crepuscolo sanguigno del dopo guerra.

Libri di battaglia come quelli di Fichte, di Romagnosi, di Gioberti, di Carlo Marx non vengono oggi a segnare il cammino o a creare una corrente sociale. L’università è divenuta un laboratorio chiuso, dove si analizza e si critica, dove si impara per un diploma, ma dove più non sembra si viva la sintesi di un pensiero vitale. Per cinquant’anni si sforzò di combattere un preteso nemico della libertà e dell’Italia: la chiesa; la elaborazione del pensiero laico tentò i più belli ingegni e fu pensiero critico e demolitore, non costruttivo: il materialismo assiderò lo spirito e ne spense le energie. Oggi quell'indirizzo vive ancora nelle scuole di provincia in una ripetizione meccanica e inciprignita del pensiero già vissuto in un momento storico sorpassato.

Il più grave fenomeno della decadenza è la mancanza di pensatori, e più che la loro mancanza, la loro assenza dal tumulto della vita, l’assenza della loro voce ammonitrice e sicura. Oggi non mancano studiosi in Italia, la cultura e puù larga del passato, molti portano negli studi sincerità, probità, sicurezza; approfondiscono gli argomenti, fanno pubblicazioni interessanti: manca però la vita della realtà; ed è invano ricercata la loro espressione nell’agitarsi dei problemi della vita collettiva e sociale. Per questo la crisi di pensiero è più penosa e dannosa. La classe degli studiosi non può dirsi per ciò una vera classe dirigente; essa è anche una classe diretta, e diretta da un’altra classe, che, ad un livello inferiore e con preparazione diversa, è divenuta la vera detentrice del potere pubblico e delle forze del paese: parlo della classe burocratica.

* * *

Intendo per classe burocratica tutta quella che nella grande categoria del pubblico impiego dal più alto grado, consiglio di stato, al più piccolo ente locale, partecipa e sostanzialmente dirige la vita pubblica del paese. Mai come oggi è assunta a vera potenza nell’aumento esagerato, ipertrofico delle funzioni degli enti pubblici, nell'accumulo delle competenze e dell'intervento statale, nella più larga concezione democratica parlamentare; il ceto burocratico è divenuto il vero e reale detentore del potere e delll'amministrazione. Esso non è un potere responsabile, nè può mai essere un potere competente, quand’anche molti o pochi dirigenti siano competenti, perchè anzitutto è un potere frazionato, portato ad una analisi irrazionale, esasperante, con una moltiplicazione di interferenze, e conseguenti inevitabili complicazioni senza nome; costretto perciò a ricostruirsi organi d’intesa, forme di coordinamento, attività di relazione, sintesi provvisorie, in cui si prosegue sino all’infinito l'accumulo delle incompetenze e delle irresponsabilità. Quindi il filo conduttore di questo denso ingranaggio, difficile a esplorare a qualsiasi uomo che non ci viva dentro, non può essere altro che la formalità esteriore, nella quale la realtà, nel suo organismo sintetico e pulsante di vita, si attenua fino a scomparire, per creare quella uniformità esteriore e livellatrice, che permetta alla mente di chi vive in mezzo alle carte di cogliere la ragione del suo intervento e della sua decisione. Costretti, anche gli ingegni più aperti e più moderni dei burocratici, a questo gioco mentale, a questo esercizio formalistico, perdono il senso della realtà o almeno l'attenuano al punto da non avere più l’abito della percezione immediata e completa; a meno che un caso imprevisto, un elemento nuovo e fragoroso non disturbi la loro vita meccanizzata (sia un terremoto o un’agitazione che minacci l'ordine pubblico, o uno sciopero generale, o il fallimento di una grande banca), i discreti e normali rumori della vita non penetrano che a stento attraverso le silenziose tende e i lunghi corridoi e i fossati pieni di acque stagnanti di questo castello incantato della pubblica amministrazione burocratica.

Le statistiche e le indagini, le inchieste e gli studi che vengono fuori dai ministeri sembrano a noi, che viviamo nella vita, echi d’oltretomba; arrivano quando i fenomeni sopra i quali insistono sono sorpassati ovvero han mutato caratteristiche; e le costruzioni legali hanno un pensiero giuridico così equivoco e difforme da uno all’altro ministero, che determina una vera confusione di lingue e dà il segno di un collasso mentale, nello sforzo di afferrare la realtà che sfugge e che è più potente. E la vita che pulsa di fuori resta costretta da un accentramento statale, al quale si è talmente abituato il pensiero di tutti, da subirlo come il fato della tragedia greca. Grandi speculatori e grandi organizzazioni economiche e politiche si avvicinano al grande Moloch del dio stato, per partecipare al cumulo degli interessi che ha monopolizzato accentrato. La lotta è fra l’elemento, formalista, analitico, pedante dei ministeri e quello faccendiere, procacciante, parassitario dei trafficanti sul pubblico danaro; e non è detto che, in buona o in mala fede, vincano sempre i primi. Per questo il potere più o meno occultamente passa dagli uni agli altri, sempre irresponsabile e per giunta illegittimo, e determina sintesi occulte quali quelle della massoneria, specialmente nei ministeri della istruzione, della giustizia e della guerra; ovvero crea larghe sfere d’influenza, quali quelle del socialismo e dell’alta finanza sull’industria, commercio e lavoro.

* * *

Per trovare un pensiero centrale e sintetico dovremmo rivolgerci alla classe parlamentare, nel largo senso della parola, a quella classe che da trent’anni è detentrice del potere politico dopo il trasformismo di Depretis. Il fenomeno più importante della nostra vita parlamentare in tale periodo è stato il fatale passaggio del potere legislativo e politico dal parlamento al governo e dal governo alla burocrazia e alle forze estranee agli organismi costituzionali; il parlamento si è andato svuotando delle sue funzioni anche le più delicate, man mano che aumentavano le attività statali e premeva l'accentramento burocratico e amministrativo. È venuto meno il controllo reale effettivo sulle spese, la influenza efficace sulle direttive pratiche del governo, la compilazione costruttiva e organica delle leggi. Sono rimasti al parlamento i dibattiti di politica generale; a parte il giuoco dei voti politici, non si ricorda da parecchio tempo che simili dibattiti abbiano mutato o modificato il corso degli avvenimenti; ma, strano a rilevarsi, le stesse maggioranze sono state quelle che hanno cambiato ministeri e modificato atteggiamenti, come fenomeno del momento assai più che come prodotto di direttive sostanziali.

L’ultima lotta seria al parlamento fu dal 1890 al 1900, e segnò il definitivo trionfo della democrazia sulla reazione conservatrice, nella politica interna e nella concezione dello stato; l’ultimo atteggiamentomorale fu quello di Zanardelli nella lotta contro la chiesa e nella concezione dello stato laico; l’ultima linea politica estera fu quella di Crispi con la triplice alleanza, le colonie africane e la posizione assunta verso. la Francia. Concezione e posizione di un’Italia che all’interno e all’estero doveva consolidarsi appena dopo più di un ventennio della sua unità con Roma capitale; concezione politica e sintetica verso i primi passi delle classi lavoratrici e verso la chiesa allora ritenuta ostile non solo all’Italia ma al pensiero moderno. Frutto maturo e ultimo nel travaglio di un secolo, attraverso esperienze e dolori, vissuto nella larga concezione di statisti, giuristi, finanzieri e letterati.

Il nuovo secolo apriva problemi nuovi e maturava gli avvenimenti. L’Italia usciva dalla crisi economica ed affrontava i problemi del lavoro, dell’emigrazione, dell’industria, dell’espansione in un’atmosfera promettente. L’arte del governo e la vita parlamentare passavano in seconda linea, sicchè fu lasciata ai più audaci, ai più procaccianti; le democrazie non avevano la spinta delle grandi lotte per affinarsi nel pensiero e nella selezione degli uomini; solo ingigantiva lo stato nella perversione delle sue funzioni. La politica divenne arte senza pensiero; i grandi avvenimenti, il passaggio delle ferrovie allo stato, la conversione della rendita, la guerra libica, il suffragio universale, furono in gran parte giochi parlamentari, più o meno di azzardo, caddero come frutti maturi dall’albero della presunta felicità pubblica; e divennero realtà al di fuori della vita di una popolazione di tutt’altro preoccupata.

E nel luglio 1914 l’Italia politica fu svegliata dal lungo sonno, come Aligi, e trovò che il parlamento non c’era, che gli uomini politici non c’erano, che i partiti non c’erano; perchè la classe che dirigeva, che aveva in mano il potere, era lontana dalla coscienza generale del paese, che solo può essere avvicinata con la forza di un pensiero, con il valore di una direttiva, con la comprensione di una realtà. E questa si era maturata al di fuori del parlamento, il quale sanzionò l’intervento nella guerra senza convinzione, ne seguì le fasi militari e politiche senza conoscenza; fu sorpreso della vittoria, non ebbe direttive nello studio delle conferenze della pace; e nella valutazione delle conseguenze economiche e politiche della guerra sopportò che il governo e i suoi rappresentanti e relativi organismi agissero e assumessero responsabilità senza che il parlamento intervenisse a fissarne principî e direttive.

Gli uomini che campeggiavano in questo periodo di disfacimento della classe parlamentare della democrazia furono pochi, anzi può dirsi che uno solo abbia segnato la via: Giolitti, a cui gli anni diedero una statura maggiore della sua altezza politica. Invano si cerca in lui un pensiero costruttivo: nel suo costante semplicismo tradusse i problemi del futuro in adattamenti del presente: superò le battaglie del momento o seppe evitarle e parve un vincitore: ebbe istinti demagogici pur nell'austerità delle forme. A lui si deve il primo avvicinamento della borghesia al proletariato: avvicinamento non disinteressato nè organico, ma istintivo di colui che meglio degli altri conobbe o intuì la crisi della borghesia e tentò di salvarne il potere, facendo concessioni alla nuova forza del proletariato socialista.

Sonnino e Salandra rappresentarono le ultime resistenze; il loro pensiero rifletteva intero il passato; il primo non ebbe la stoffa dell’uomo politico; fu un tecnico e uno studioso di austero intelletto, ma il suo pensiero si infranse contro la realtà; il secondo ebbe le responsabilità dirette del primo periodo bellico, neutralità ed entrata in guerra, e la sua figura rimase sommersa nell’immenso torrente degli avvenimenti; le posizioni prese dopo la guerra non depongono a favore delle sue qualità di uomo di stato, e le sue concezioni politiche sembrano avulse dal dibattito della vita.

Oggi invano si cercano gli uomini che dopo il ‘48 seppero portare l’Italia alla sua unità avendo un’idea politica, una direttiva economica, una concezione organica; invano si domanda una visione chiara della situazione interna e dei rapporti con l’estero; la democrazia di oggi soffre del marasma che colpì gli uomini della monarchia francese prima della rivoluzione dell’ ‘89: eppure non vi fu in Italia un momento più decisivo del presente, un periodo più grave e più difficile, nel quale ai responsabili delle direttive del paese si deve poter domandare: custos, quid de nocte? e deve rispondere una voce sicura, una nota maestra, una parola risolutiva.

La guerra non fu per noi un orientamento di pensiero, e non è oggi un centro di interessi e di finalità per l’avvenire. Le idee di civiltà e di umanità, che ispirarono la campagna per la guerra e che furono elevate da Wilson a dogmi per la ricostruzione della pace, furono infrante dalla realtà degli egoismi egemonici e soverchianti, che diedero la base ai trattati; e la nostra lotta irredentista per le provincie italiane, sotto l’impero austriaco, ebbe le delusioni di Fiume, della costa dalmata e della sicurezza dell’Adriatico e le asprezze della politica slava. E se la guerra unì gli spiriti della gran maggioranza degli italiani, non fu tanto per i motivi ideali e politici, quanto per la passione della vita e della morte, della vittoria e della sconfitta, perchè quando tace la speculazione è vivo il cuore per le sorti della patria. Allora neppure i neutralisti convinti, neppure i socialisti ostili, credettero di poter prendere una posizione pratica ed efficace contro la guerra, la subirono, e maturarono la ripresa delle loro posizioni a guerra finita. Non possiamo oggi accusare gli uomini della democrazia e del liberalismo delle responsabilità politiche della guerra in Italia, non abbiamo ancora tutti gli elementi per una rielaborazione storica e morale; nessuno volle fare un torto al suo paese, però abbiamo elementi per poter dire che nessuno o quasi in Italia, del partito o dei partiti dirigenti e responsabili, ebbe una visione della realtà durante il periodo della neutralità; certo nessuno valutò la posizione politica, economica e militare dell’Italia, per prepararne sufficientemente gli avvenimenti; il patto di Londra fu la risultante del passato, non fu un patto di antiveggenza per l’avvenire. Non faccio una colpa a nessuno se gli avvenimenti giganteschi sorpresero gli uomini, tutti gli uomini e non solo gl’italiani. Solo rilevo la parte diretta pensata e voluta dai nostri dirigenti, cioè l'indirizzo politico di prima e di durante la guerra, che culminò nella politica adriatica e che determinò la crisi di tutta la nostra politica della ricostruzione e della pace. Alcuni credono colpevoli Salandra e Sonnino prima e Orlando dopo; e certo questi sono gli esponenti e i responsabili; ma invano cerco negli atti parlamentari dal 1914, al 1919 uno solo che avesse portato alla tribuna parlamentare un pensiero, una linea politica, una concezione organica da poter contrapporre al governo del tempo e da poter guidare il paese smarrito e disorientato. È vero: Giolitti il neutralista fu messo a tacere, e forse il suo silenzio fu più meritevole della sua parola; ma quando parlò, riportato per consenso generale al potere, molto era compromesso e molto egli compromise: fu più un liquidatore che un animatore.

Nitti fu accusato di avere contribuito a deprimere i valori morali della vittoria; mai si ebbe in Italia un periodo inquieto e torbido come quello che dal giugno ‘19 va al maggio del ‘20; la sconfitta di Parigi soverchiava la gloria purissima di Vittorio Veneto; era naturale che il popolo italiano, che sul Grappa e sul Piave si era unito per virtù di fede, per sentimento di estrema difesa e per valore di soldati, piegasse lo spirito nell’abbattersi della crisi economica e politica, nello smarrimento di una via risolutiva perduta nelle spire di una nuova falsa diplomazia, per la quale i tanto decantati principî di civiltà e di fratellanza dei popoli, di nuovi orientamenti di politica internazionale, portavano alla quanto mai grave crisi europea. Forse oggi, dopo tre anni, a Cannes prima e a Genova dopo, si inizia una revisione, che speriamo abbia a far tesoro della triste esperienza che accomuna nel danno popoli vincitori e popoli vinti.

III.

Questa analisi della crisi della classe dirigente sotto il triplice aspetto della influenza universitaria o della cultura, del predominio della burocrazia e del disorientamento degli uomini politici può sembrare estranea all’argomento della crisi dello stato; ma è invece intimamente connessa. L’istituto dello stato non è un ente astratto, non e un principio etico, non e una ragione sociale se non in quanto e un organismo concreto e completo; e questo organismo è e vive della stessa vita di coloro che ad esso imprimono i caratteri e l'impronta: il potere, anche nelle democrazie più progredite, dà la caratteristica alle istituzioni: così niente meraviglia che vi siano monarchie democratiche e repubbliche aristocratiche; governi oligarchici a istinto sociale, e democrazie larghissime a istinto imperialista. Noi crediamo di governarci, ma sono i pochi che governano nel gioco alterno e perenne della lotta fra elementi di conservazione ed elementi di progresso, attorno alle fasi concrete e incalzanti della vita economica e sociale dei popoli. Il decadimento delle classi dirigenti e la mancanza di un preciso obiettivo di attività e di lotta, può portare lo spostamento dei partiti e il prevalere di uomini che seguano indirizzi diversi, pur entro la cerchia di un pensiero comune: ovvero la crisi delle istituzioni stesse, quando in quelle non regge più un pensiero comune, e il decadimento investe gli stessi principî onde venne costruito l’ordinamento della società. E così nel periodo del risorgimento dal 1821 al 1871 per mezzo secolo la lotta fu attorno alla costruzione dello stato nella unità della patria; e la costruzione prese la linea di stato liberale, con la difesa e l’offesa agli elementi antiunitari ed antiliberali, comprendendo in questi, anche per forza di eventi o per errore di valutazione e per esuberanza di vitalità e di mezzi, la chiesa cattolica; e la lotta fu tra due elementi non univoci, non confondibili, diversi: i conservatori dell’antico regime che cadeva sotto lo spirito e i colpi della rivoluzione, e gli assertori del nuovo regime che sorgeva nelle speranze di un grande avvenire e nella novità del principio liberale; attorno a questo immenso fatto fu imperniata tutta la politica buona o cattiva del tempo, tutta la lotta dei partiti e la formazione degli istituti giuridici ed economici, tutta la costruzione dei servizi statali. Dal 1871 al 1914 invece la lotta dei partiti è stata intorno al consolidarsi o al cadere dei due principî, il conservatore e il democratico, non più contro o fuori dello stato ma nell’interno dello stesso stato liberale, nel suo naturale svolgimento, nel suo adattarsi allo sviluppo del paese, nel gioco dei rapporti internazionali. Il fenomeno socialista e quello cattolico, nel senso tradizionale della parola (nell'ambito dei rapporti dell'Italia con la S. Sede e nella ripercussione della lotta antireligiosa o anticlericale) restavano nell'ambito stesso dello stato, sotto l'influsso delle classi borghesi dirigenti la cultura, la politica, l’economia e restavano come forze o da assimilare, come nel tentativo dei blocchi clericali nel patto Gentiloni e nelle alleanze clerico-moderate; ovvero delle forze da eliminare, come nei vari tentativi politici di Crispi, Rudinì e Zanardelli, nel creduto predominio dell’organizzazione e della vitalità dello stato liberale.

La guerra fu una parentesi e un fermento insieme; riunì tutti i veri italiani nella difesa della patria; fece tacere gli altri che avevano una concezione extra o antinazionale, specialmente dopo Caporetto; ma nello sforzo statale politico e finanziario fece precipitare gli elementi di decomposizione, aumentò, anzi centuplicò l'inflazione dei poteri, al di là del naturale sforzo bellico, irrigidì ogni potere evolutivo dello stato liberale.

Dall'armistizio ad oggi, nel decadimento del pensiero liberale democratico, questo stato atomistico, centralizzatore, burocratico, portato oggi alla esasperazione, viene assalito da tre forze: —— il socialismo, che, fatto forte dai dolori della guerra, assunse una ideologia mitica, apocalittica, internazionale: la dittatura economica e politica del proletariato; e predicò e predisse la rivoluzione: le sue predizioni e la sua predicazione sono cadute, ma la forza negativa è ancora salda nella fiducia delle masse organizzate; — il popolarismo, che sorse e si affermò come partito di centro e di massa, saldo e vigoroso; negò la rivoluzione, ammise la costituzionalità dello stato, ma ne volle la riforma organica dal centro alla periferia, dal sindacato al senato; — il fascismo, che negò lo stato liberale e la sua autorità, creò l'organizzazione e l’azione della forza anche con le armi, più per sostituirsi allo stato borghese contro comunisti e socialisti, che come costruttore di un pensiero che fino ad oggi sembra essere orientato da forze liberali e conservatrici pur nella fase anarcoide; comunque tenda a svolgersi e a consolidarsi questa forza giovane, è anch'essa contro lo stato democratico, parlamentarista, accentratore. E tutte e tre queste forze, nelle contese e nei contatti, maturano nuovi atteggiamenti che accelerano i fenomeni della crisi dell’oggi, tendono a variare le basi dell’ordinamento statale, nella sua costruzione economica, giuridica e organica, nello sviluppo di nuove forze e di nuove idealità, nel fermento di una gioventù che si rinnova.

Analizzare questo fenomeno e nostro dovere, per approfondirlo e valutarne la portata. Tutti e tre i partiti dicono di avere l'avvenire; nessuno dei tre ha ancora completamente maturato la sua costruzione ideologica; ma ciascuno ha le radici in uno stato d’animo e in una concezione primitiva della vita e della società e perciò attingono all’anima di larghe sfere di giovani, di popolo, di ingenui, di sognatori, di entusiasti, di fedeli, di proseliti; sia la forza dell’idea di giustizia economica (il socialismo), sia quella di un equilibrio morale (il popolarismo), sia quella di una forza dominatrice (il fascismo), hanno un punto di partenza che diviene una idea-forza e crea un movimento. Il socialismo, come il più antico e il più forte partito di massa, ha una ragione storica di primo ordine, e crea un movimento ideale ben marcato. Però, come tutti i movimenti aprioristici e generali, ha trovato il contrasto della realtà ed ha dovuto sciupare enormi energie negli atteggiamenti tattici, per arrivare a trovare un proprio terreno politico e poscia anche un proprio terreno economico. Così e passato attraverso tutti gli stadi di elaborazione e di specificazione; e sul terreno politico perdette la caratteristica negativa aprioristica rivoluzionaria il giorno che entrò a Montecitorio, e il giorno che insieme con il resto della estrema sinistra radicale e repubblicana superò la reazione del ‘98 e cominciò a divenire riformista. Nè, a rifargli la verginità, valsero la posizione ostile alla guerra e il movimento semirivoluzionario del dopo guerra; anzi, dopo le fallaci esperienze del leninismo e del bolscevismo nostrano, dovette separarsi dai comunisti, rinunziare alla dittatura e tendere verso la collaborazione parlamentare. Sul terreno economico è ormai un dato fermo; il socialismo economico di stato per i democratici doveva essere la concessione limite ai socialisti per immunizzarsi dai violenti assalti dati al potere politico; e per i socialisti doveva essere la prima conquista per arrivare al potere o meglio alla dittatura politica. Si è così costituito uno stato nello stato, che ha acquistato il diritto alla intangibilità; i sindacati dei trasporti marittimi e terrestri, locali e statali, sono la rete rossa che lega lo stato e la economia pubblica e privata; il sindacato metallurgico crea il legame fra industrie parassitarie e banche sovventrici, unendo nel medesimo interesse, contro lo stato s’intende, capitale e lavoro, finanza, imprese e lavoratori; le cooperative rosse, che hanno conquistato lavori pubblici ed istituti sovventori creati e finanziati dallo stato, formano la loro economia, rivoluzionaria a parole e collaborazionista nei fatti. E qui sta il grottesco e la tragedia insieme. Alle masse han predicato l'abolizione della proprietà, il comunismo più o meno larvato, il sindacato come mezzo di lotta permanente per arrivare alla dittatura economica e politica, quale fine ultimo. Al contrario, hanno fermato le conquiste immediate sulle seconde e sulle terze trincee; l'avvento diviene lontano e bisogna fare il cammino a ritroso; bastano le cooperative fornite dallo stato, bastano i sindacati come ragione economica ed elemento permanente e organizzato della lotta di classe; basta la libertà nell’attuale ordinamento politico; bastano alcune riforme del consiglio del lavoro e a carattere semiborghese. Per questa via si arriverà un giorno alla collaborazione parlamentare che negherà trenta anni di lotta. Anche questa volta la tattica prende la mano al programma; le ideologie scompaiono nella realtà; i contrasti teorici perdono la loro violenza e la visione della ricostruzione statale non ha più la linea logica e forte del rinnovatore, del rivoluzionario, che sa aspettare perchè sa vincere.

E non potrà non avvenire così; ai socialisti di destra e a molti anche del centro è serbata la stessa strada dei democratici e dei radicali alla Cavallotti, prima, e dei riformisti alla Bissolati e alla Bonomi poi. Sono entrati attraverso tutte le preoccupazioni della borghesia spaurita e dei liberali scandalizzati, nel mare della democrazia, ed han perduto il colorito rosso per divenire grigi; come lo perderanno anche gli altri, i Treves, i Turati, i Modigliani, i Caldara o i loro continuatori e soci; la fede nella palingenesi socialista sarà attenuata dalla realtà semiborghese, in un adattamento, che continuerà e aggraverà il sistema del cosiddetto socialismo di stato. Però questo termine, che i socialisti di destra vedono come una fatale necessità, secondo me, sta per essere sorpassato: il fallimento economico dello stato borghese non permette nè i lussi dello sperpero, nè permetterà il tentativo del monopolio economico centralizzato nelle mani della vera e della falsa burocrazia in accomandita con partiti socialdemocratici; le nuove forze antisocialiste e quelle popolari, sotto diversi aspetti e con diverse finalità, non potrebbero aderirvi. Del resto, una simile prospettiva, che spingerebbe una parte della classe operaia nelle braccia del comunismo, non consoliderebbe lo stato nei suoi ordinamenti attuali, lo farebbe divenire ancora più ipertrofico, più centralizzato, più tirannico; sopprimerebbe ancora di più l'elemento vitale della libertà, e monopolizzerebbe il potere con maggiore tenacia, in nome delle masse: sarebbe la definitiva trasformazione della democrazia in demagogia2.

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Il fascismo è troppo giovane per avere una tradizione, una letteratura, un movimento culturale, una costruzione logica provata dai fatti. Vive di retorica alternata di violenza; come tutti i movimenti anarcoidi ha in sè un che di goliardico; e un prodotto della guerra, è una ribellione, è una sfida. Colpisce più la democrazia che il socialismo; nuoce più allo stato borghese e democratico con la ribellione collettiva, che al socialismo con le rappresaglie e le spedizioni punitive. E lo stato borghese è impotente: Giolitti usò il suo metodo, quello di accarezzare e avvicinare per intossicare; ne rimase prigioniero, dopo aver dato una parte dell’organismo statale in mano al fascismo. Egli sperava, trasportando il fascismo in parlamento, di trasformarlo in partito politico in campo costituzionale; e così i liberali democratici speravano di avere una balda schiera di avanguardisti; ma anche il fascismo politico si difese dalle insidie giolittiane e dagli abbracci democratici; esso va in cerca di un programma che gli permetta di avere una idea nel campo della politica interna ed estera; e cerca aiuto dai nazionalisti, che, rigidamente monarchici ed imperialisti, sono conservatori nello spirito e nelle direttive. Il sindacalismo fascista è una forma adottata, non applicata, mentre la struttura agraria dà ai fascisti un colore economico che essi rifiutano. Ma tutto ciò è forma, superficie, esteriorità: il metodo della violenza è sostanza, è anarchia, è un attentato allo stato; e dovrebbe essere un fenomeno passeggero. Se tale non sarà, se invece si estenderà, non può non rilevarsi come lo stato sia impotente, come i suoi organi funzionino male; e come una profonda causa dia alimento a questo pullulare e svolgersi di forze antistatali che tendono ad investire i valori morali e giuridici, sì da far valutare come nuova fonte del riordinamento sociale coloro che intendono ottenerlo con la violenza privata.

È questo un nuovo aspetto della crisi: la borghesia, sfiduciata dei suoi istituti e degli uomini che la rappresentano, fa l'estremo sforzo di difesa, e dove non han più valore gli ordinamenti politici fa ricorso alle armi. È un prodotto dell'istinto di conservazione contro la propaganda bolscevica, che aveva morfinizzato la democrazia e i suoi istituti; e non può che sboccare verso una nuova forma di liberalismo conservatore, antisocialista, antidemocratico.

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La crisi dello stato fu aggravata dal sorgere del partito popolare italiano. Questo non ebbe atteggiamenti apocalittici, come il socialismo del dopo guerra; non inneggiò alla violenza come il fascismo. Interprete nel campo politico del pensiero cristiano sociale, che in Italia ebbe i suoi fulgidi albori con la enciclica Rerum Novarum del 15 maggio 1891, sgombro il terreno della pregiudiziale antinazionale, che aveva tenuto fuori della vita nazionale i cattolici italiani; sua prima afiermazione fondamentale fu la riforma dello stato. Il popolarismo ha scelto come terreno il campo costituzionale, come mezzo le leggi dello stato, come anima la elevazione dei valori etici della vita; ma vuole la grande riforma, la trasformazione degli istituti statali sulla base di due termini: «organicità e libertà nella coesione, non sovrapposizione delle classi, con la più larga e reale rappresentanza dei loro interessi».

Il socialismo crede di avere concretizzato il suo programma antitetico, e sciupa le sue forze nella tattica (intransigenza e collaborazione); il fascismo per ora ha un programma negativo, e si polarizza nel metodo (la violenza): il termine immediato, concreto, positivo del regime della struttura statale, è pur esso fuori della realtà, superato; per l’uno e per l’altro c’è semplicemente il predominio, la forza bruta, la dittatura.

Per i popolari il metodo e la tattica sono elementi puramente esteriori, secondari, inerenti al rapporto di contingenza e di immediatezza: il termine è la sostanza perchè è la realtà: e il termine è dato da questo grande concetto di riforma antitetica dell’attuale regime statale, pure nel limite di una ragionevole adesione dell’idea al fatto, della concezione alla realtà. E la realtà centrale anche oggi, come ieri, è la vita dello stato nella sua ragione storica, cioè nel complesso dei suoi istituti rispondenti ai fini morali, economici e politici della nazione; e questa oggi è caratterizzata dalla più larga adesione al popolo, non in forma inorganica, che crea il socialismo di stato, che è decadenza, involuzione, pervertimento dello stato, ma in forma organica che ne è sviluppo, evoluzione, rinnovamento.

Non si può parlare dell’organicità dello stato, e del rinnovamento dei suoi istituti, senza darne le linee sommarie, almeno come indicazione; e non possono tali riforme proporsi, senza trovare il substrato economico e psicologico che le imponga. Per questo se oggi l'enunciazione nostra ad alcuni sembra superficiale ed esteriore, se altri crede che non abbiamo un vero riferimento economico, tutto ciò avviene perchè il terreno dei contrasti è spostato nell’attrito dei partiti e nel prevalere delle fazioni. Ma solo che si consideri la imponenza del fenomeno sindacale, lo sconvolgimento portato dalla rappresentanza proporzionale, la profondità dei contrasti fra economia libera e burocrazia statale e l’assalto immane, colossale, di tutti gli appetiti burocratici o travettisti contro la finanza statale, si vedrà che le linee costruttive del partito popolare italiano sono semplici, ma toccano le radici del male e tendono ad una profonda trasformazione istituzionale.

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Faccio un breve cenno della riforma dello stato da noi propugnata. La rappresentanza politica, amministrativa e sindacale, su base proporzionale, deve tendere a dare a tutto il popolo la maggiore partecipazione possibile. alla vita organica del paese; e mentre il sistema maggioritario rappresentativo liberale era a base di suffragio limitato, come espressione della classe borghese dominatrice nelle alterne vicende dei conservatori e dei progressisti, nella pura espressione individualista, il sistema della proporzionale corregge il suffragio universale conquistato dalla democrazia e fa il primo passo verso l’organicità parlamentare. Il suffragio femminile ne dovrà essere legittima conseguenza. Però riconosciamo che tale rappresentanza popolare dovrà essere corretta da un’altra camera, il senato, che non sia, come e oggi, attraverso il potere regio, un’emanazione arbitraria del potere esecutivo, ma una legittima e diretta rappresentanza organica dei corpi accademici, degli organismi statali (magistratura, università, consiglio di stato, e corpi diplomatico e militare), dei corpi amministrativi (regioni, provincie, comuni), dei corpi sindacali (datori di lavoro ed operai); con elezione di secondo grado e sopra liste limitate di eleggibili.

Ma ciò non basta; le camere oggi danno (o debbono dare) le direttive legislative e politiche, e debbono costituire il controllo permanente del potere esecutivo; ma non possono essere l’unico organo legislativo, che discuta e approvi tutta la congerie esasperante di leggi e leggine, che va dal codice civile fino all’autorizzazione della spesa per le uniformi dei soldati o per i berretti dei carcerieri.

Se non vogliamo il sistema dei decreti-legge, a fianco del parlamento politico, occorrono i consigli superiori, eletti dalle rappresentanze organiche del paese, non più come corpi consultivi a tipo burocratico o burocratizzato, ma a tipo rappresentativo; questi consigli debbono poter dare leggi particolari e speciali, le leggi di esecuzione, i regolamenti, con potere delegato e controllabile dal parlamento. Questi consigli superiori dovrebbero presiedere l'amministrazione civile, la sanità e la beneficenza, l’istruzione, i lavori pubblici, l’economia, il lavoro e la finanza. Oggi vi sono molti consigli superiori, e si tende a crearne altri; ma sono organi burocratici centrali, paravento delle responsabilità esecutive, ai quali si demandano i pareri su atti amministrativi; a ciò deve bastare il consiglio di stato dal punto di vista giuridico e i dirigenti tecnici amministrativi dei vari ministeri, per il giudizio pratico della convenienza e della opportunità.

Cadrebbero così una infinità di commissioni, conquiste di funzionari, e si creerebbero corpi elettivi, responsabili, da rinnovarsi a periodi determinati, e tali da creare un’esperienza amministrativa extra-burocratica, di notevole importanza.

Questa è la forma; la sostanza è nel fondamento regionale nel decentramento: lo stato deve essere sostanzialmente organo politico, non amministrativo; per esso l'amministrazione è coordinamento, integrazione, sintesi. Il comune, la provincia, la regione sono enti pubblici di amministrazione, dei lavori pubblici, della scuola, dei trasporti, dell’economia pubblica, nel triplice suo ramo di agricoltura, industria e commercio e nelle sfere sociali e sindacali del lavoro. Lo stato coordina, normalizza, integra questi enti e le loro iniziative, sorveglia e tutela nei rapporti con i privati e nella erogazione del pubblico danaro; lo stato deve amministrare solo quello che è nazionalmente indivisibile o inscindibile nella sua struttura economica o nella sua ragione politica, come sono le grandi linee di comunicazione, le linee strategiche, gli empori portuali, i demanii nazionali.

Mentre ciò risponde ad un criterio di libertà razionale e di autonomia locale, toglie allo stato una ragione di decadenza politica, di soverchiamento burocratico, e di sterilità morale; e crea lo spirito di studio e di emulazione locale, contribuisce alla formazione dei caratteri nella vita pubblica, che è frutto principalmente di indipendenza morale e di coscienza della propria forza; toglie la necessaria uniformità legale ed amministrativa là dove è varietà regionale e diversità economica, specialmente in agricoltura, e non opprime, non attenua, ma eleva i valori delle singole regioni.

Questa organizzazione politica ed amministrativa deve essere basata sulla organizzazione sindacale di classe; non è la vecchia corporazione che risorge, prodotto della economia locale, quando il grande comune era anche stato, ma è una nuova formazione di interessi collettivi di classe, che esigono tutela e che debbono coordinarsi agli interessi generali della nazione. E questo non può essere lasciato al puro gioco delle libere forze, con il semplice intervento statale, prima solamente di polizia, poi legislativo e oggi anche amministrativo, che non può essere che saltuario, occasionale e, se si vuole, anche partigiano o reputato tale: si ricordino l'intervento politico nella lotta fra contadini rossi e agrari nel bolognese, sotto il ministero Giolitti e Pintervento politico nella lotta del cremonese fra contadini bianchi e agrari sotto il presente ministero Bonomi, e il decreto per l’occupazione delle terre sotto il ministero Nitti. Sono esempi che possono moltiplicarsi e che danno la caratteristica dell’attuale fase della evoluzione sindacale nei suoi rapporti politici; e solo il parlamento italiano può non avere la sensibilità della necessaria ricostruzione sindacale del paese; solo la democrazia burocratizzata può credere ancora nelle commissioni consultive miste, negli istituti autonomi, ove esiste ancora per fictio juris la responsabilità diretta del potere centrale, ma nel fatto esistono i poteri collaterali irresponsabili di quanti arrivano a prendere posizione nel gioco delle alterne vicende politiche ed economiche del paese.

Questa costruzione organica della vita nazionale, deve essere animata dal principio di libertà che oggi, come cento anni addietro, viene elevato e bandito come conquista del vivere civile, quella libertà morale, economica e organica che è negata in nome dello stato panteista, amministratore e accentratore. Questo principio di libertà è l'anima, il fulcro, la ragione della riforma, il fondamento e lo spirito animatore del partito popolare italiano.

Strano ricorso storico: cento anni fa i nostri padri iniziavano la lotta per le libertà politiche; libertà che oggi, o sono assimilate dal corpo sociale, e perciò mentre ne sono vita, non ne sono più sentimento; ovvero sono ridotte a formalismo politico, nell'irrigidimento ipertrofico dello stato, e perciò si sente la necessità di rianimarle con la novità degli organismi; però le libertà morali organiche ed economiche oggi negate (nel rapporto dei problemi contingenti) formano la mèta delle nuove conquiste.

IV.

Non è per noi una novità quella che ho esposto nel duplice aspetto della organicità delle riforme statali e dello spirito animatore, la libertà; gli altri si meravigliano che noi parliamo in nome della libertà, negano che il nostro sia un programma specifico del pensiero popolare; trovano anzi che tutto ciò può rispondere alle linee democratiche o essere accetto anche a socialisti; e che, per giunta, non risolve la crisi dello stato. Anzitutto non nego che le idee della proporzionale, del voto alle donne, del senato elettivo, dei consigli centrali tecnici, del decentramento amministrativo, dell’autonomia locale, della costituzione della regione, del riconoscimento giuridico delle classi, siano patrimonio di studiosi e di uomini politici fuori del campo popolare, e possano essere oggetto di riforme legislative propugnate da vari partiti; quello che però manca in molti è la comprensione organica di tali riforme, la ragione finalistica della loro coesistenza e ampiezza e lo spirito animatore del criterio di libertà morale, organica ed economica, che vi si deve portare. E questo è il merito per noi e la missione del partito popolare italiano; è lo slancio di fede che vi mette per le grandi sorti e l'avvenire della patria, il metodo costante, sicuro di realizzazione e di conquista.

È vero: anche uomini studiosi e di parte approvano e sostengono la tesi delle libertà morali, specialmente della scuola; delle libertà organiche, specialmente dei comuni; delle libertà economiche, specialmente dei commerci; ma pochi o quasi nessuno coordina tutte queste conquiste con la riforma dello stato; e molti credono che con l'ordinamento presente possa ciò ottenersi attraverso piccole riforme legislative o variando gli uomini al potere. Noi coordiniamo insieme la riforma dello stato e la conquista delle libertà, come un tutto sintetico e dinamico. Perciò noi partiamo da una negazione forte, imponente: noi neghiamo lo stato moderno democratico, accentratore, fornito di un potere assoluto; noi neghiamo il socialismo di stato, come ultimo termine economico e politico di questa ragione panteista; noi neghiamo le direttive etiche a questo potere di accentramento. Così la nostra posizione ideale, logica, ci fa arrivare ad una costruzione di riforma non accidentale e di temperamento, non esteriore e di formalità, non transattiva e di evoluzione, ma ad una riforma antitetica e sostanziale.

* * *

Noi però non neghiamo le classi, neppure quella oggi dirigente; per noi è crisi morale (di orientamento e di volontà) quella che ha colpito la classe dirigente, ed è crisi organica (di mezzi adatti all’azione) quella che ha colpito il normale ordinamento statale. Prova tipica ne sono due fatti di notevole importanza: l'impotenza del parlamento, del governo e dei partiti a risolvere il problema agrario e il problema della burocrazia. Noto questi due come i più salienti e visibili; ne potrei citare altri. Per il primo, sono già passati tre anni dall’armistizio e, nonostante tutte le affermazioni dei partiti di ogni colore, tutte le promesse dei vari governi che si sono succeduti, tutti gli sforzi di elaborazione di progetti sulle camere di agricoltura, sul latifondo e la colonizzazione interna, sui patti agrari, il parlamento è fermo, impassibile, impotente nella paralisi legislativa che lo ha colpito. L’altra riforma, deliberata come una legge di pieni poteri, è stata limitata ad una riforma di organici; l’elefantiasi burocratica resta, perchè restano tutte le mansioni statali; la riforma si risolverà in un lieve ritocco formale, forse in un coordinamento meno irragionevole di funzioni e di organi; mancherà la linea di una riforma sostanziale. Che meraviglia se noi vogliamo arrivare alla radice e trasformare l'organismo statale?

Ci si obietta: oggi la crisi che travaglia l'Italia è una crisi economica, grave, terribile; governi e partiti devono con ogni sforzo tendere a superarla; sia portando il bilancio dello stato al pareggio, sia aumentando la produzione e la potenzialità del traffico e lo sviluppo dei commerci. Qui sta la riforma e qui dobbiamo fermarci.

L’obiezione è grave e merita un esame ponderato e sicuro, tale da sgombrare l'impressione che il partito popolare italiano non abbia l'intiera visione di un così immenso problema. La ricostruzione economica dell’Italia è insieme un problema di politica interna e di politica estera, quanto mai oggi connesso e inscindibile. Non è possibile riaprire all’estero le larghe correnti di fiducia sul terreno economico, senza la tranquillità interna; gli scioperi generali del luglio 1919 e del gennaio 1920, le occupazioni delle fabbriche e delle terre nel settembre-ottobre 1920; le violenze comuniste e le spedizioni punitive fasciste del 1921 sono stati elementi di forte arresto alla ripresa economica del paese. La crisi si è aggravata con le leggi finanziarie e politiche demagogiche e non utili all’erario dello stato, quali le leggi giolittiane sulla nominatività dei titoli e per l’inchiesta sulla guerra, che è divenuta campo di lotta dei capitalisti e degli industriali, senza che l’erario dello stato venga a beneficiarne. La caduta dell’Ilva, dell’Ansaldo, della Banca di Sconto, e di altri minori nuclei industriali e capitalistici sono non una: conseguenza di questi fatti, ma indici di una politica economica turbata e alterata dalla politica interna, che soverchia e sconvolge la nostra economia e il nostro credito.

Per avere un’economia occorre avere una politica; ebbene, mentre i socialisti hanno la loro, i popolari la loro, i liberali di destra nazionalisti e agrari la loro, (non so se i fascisti l’abbiano) i democratici, che hanno la responsabilità del potere, non hanno una politica. Essi ieri tendevano ad una alleanza con i socialisti; poi fecero la lotta e nelle elezioni generali si unirono ad agrari, fascisti e liberali di destra; perfino Salandra divenne giolittiano, o viceversa; e fecero i blocchi. L’indomani delle elezioni politiche gli stessi democratici e i loro giornali ripresero il motivo della collaborazione con i socialisti; poi di nuovo sostennero i fascisti e gli agrari; ora si riprende largamente la discussione sulla collaborazione con i socialisti; e altri sostiene il cosidetto blocco nazionale. E purtroppo da Nitti ad oggi le lamentele democratiche sono per la invadenza dei popolari, verso i quali per il fato elettorale sono costretti ad unirsi, matrimonio di convenienza con qualche elemento di ripugnanza! Ebbene, dove è l'indirizzo economico in questa altalena tendenziale?

Le tariffe doganali Alessio hanno ribadito la protezione siderurgica e metallurgica, esasperandola, a danno dell'agricoltura; e ciò contemporaneamente alla caduta dell’llva e poco prima della crisi Ansaldo, e a sei mesi dalla moratoria della Banca di Sconto. Si deve avere una politica favorevole alla siderurgia in Italia? Il parlamento tace, mentre Alessio decreta, e mentre l’alta finanza impegna miliardi dopo la guerra in un indirizzo industriale siderurgico, che poi costringe lo stato a intervenire con danno della economia generale. Sembra che maestranze metallurgiche ed alta banca abbiano lo stesso interesse ad imprigionare lo stato. Oggi, dopo la caduta della Banca di Sconto, il monopolio finanziario e in azione; lo stato va divenendo via via ancora più prigioniero: il socialismo procacciante ne è pronubo e parte, mentre grida allo scandalo dei pescicani. Con quale prezzo della vita economica del paese sarà pagata la collaborazione dei socialisti con i democratici? È un problema che si deve porre, ed un problema di politica interna e di politica economica insieme. Quanto costerà alla nazione un più preciso esperimento di socialismo di stato? Forse pagherà per tutti l'agricoltura, nei trattati di commercio e negli esperimenti di collettivismo e di socializzazione della terra? Forse pagherà più degli altri il mezzogiorno i cui risparmi, pompati dallo stato sotto forma di tasse, di prestiti e di buoni del tesoro, ovvero dalle grandi banche sotto forma di depositi, vanno poi ad alimentare grandi imprese statali e semistatali e grandi industrie dell’altra parte d’Italia, per continuare l'impoverimento e lo sfruttamento economico e politico della mia bella e cara terra meridionale e insulare?

Sono domande alle quali la realtà risponde: la realtà della tariffa Alessio, la realtà delle navi di stato Belotti, la realtà delle crisi siderurgiche e bancarie, la realtà del porto di Genova, la realtà della nominatività dei titoli, la realtà del disavanzo di circa due miliardi delle ferrovie di stato, la realtà della mancata legge agraria; perchè la politica interna, che è politica e non è economia, sacrifica l’economia alla politica del caso per caso, senza una direttiva concreta, alla mercè delle grandi e occulte forze interne ed estere.

Sì, perchè è anche politica estera l'economia: grave questione e per gli italiani ancora poco valutata. Non è questa solo politica estera del dopo guerra: è stata, ed è oggi più che mai, politica estera.

È anzitutto politica di emigrazione; ancora la valorizzazione del nostro emigrato deve entrare nelle linee di una vera politica: il commissariato di emigrazione (che tende a divenire nello stato un organo autonomo ed irresponsabile) ha reso utili servizi per quanto riguarda le leggi di tutela, ma come indirizzo politico è stato ed è asservito ai socialisti, e quanto alla valorizzazione economica e morale non ne ha nè la competenza nè i mezzi. Il ministero degli esteri è assente; eppure la nostra forza di espansione emigratoria e unica, si può paragonare a quella dell’Irlanda, ma con quale diversa portata e carattere!

La politica mediterranea è la base della nostra attività commerciale, ed è fatta di forza e rispetto nazionale e di espansione culturale e religiosa: solo così si può penetrare in oriente; ma il governo della democrazia, per le varie fasi della politica interna, non ha saputo farsi rispettare all’estero, perchè sarebbe stato accusato dai demagoghi e dai socialisti di imperialismo; ed ha avuto paura di proteggere le missioni per non essere accusato di clericalismo; così inventò le scuole laiche in oriente e fece sempre una politica debole di fronte alla Francia, alla Grecia, e alla Turchia. Perdette Tunisi ove i siciliani hanno fatto meraviglie di colonizzazione e cercò la Libia, ove importò la massoneria per gl’italiani, la debolezza e l’equivoco per gli arabi, secondo il vento infido della politica interna.

Dopo la guerra, nelle conferenze della pace, il governo accettò Versaglia per fare una politica incerta nell’Adriatico imposta dai nazionalisti; abbandonò Vallona perchè i socialisti minacciarono lo sciopero; non sostenne per l’Alta Slesia la soluzione più rispondente anche agli interessi italiani per timore di passare davanti ai liberali come germanofilo; e tentenna a ripigliare i rapporti con la Russia sotto la pressione dei partiti di destra.

Noi diamo la colpa di molte delle cattive sorti; dell’Italia, un po’ all’America, un po’ alla Francia, un po’ all’Inghilterra; e certo nessuno nega che ciascuno di questi stati abbia dei veri torti verso l’Italia, i cui sacrifici militari e finanziari non sono stati valutati a dovere; però è mancata la linea politica, la sicurezza di questa linea e la rispondenza all’indirizzo di politica interna.

Così la nostra politica economica, che è insieme politica estera e politica interna, non ha avuto, specialmente nell’ultimo triennio, e non ha ancora il suo indirizzo.

* * *

Qualcuno mi domanderà a questo punto quale azione abbia avuto il partito popolare italiano nel campo economico in un anno e mezzo di partecipazione, sia pure limitata, al governo (dal giugno 1920): lo dirò subito in poche parole.

Per ragioni della situazione politica, cedette a Giolitti sulla nominatività dei titoli (pur contro il mio parere personale); però non cedette sul controllo delle fabbriche e sostenne invece la tesi della partecipazione e dell’azionariato; accettò come situazione creata dal decreto Visocchi l'occupazione delle terre e ne regolò l’uso col decreto Micheli; tentò un primo regolamento dei contratti agrari (legge Micheli), e impose lo studio delle leggi sul latifondo (finalmente davanti alla camera) e sulle camere regionali di agricoltura (davanti alla commissione parlamentare); sostenne la revisione del decreto Alessio sulle tariffe doganali e ne affrettò l’esame; ha combattuto il disegno Belotti sulle navi di stato, ed è merito suo se ancora questo non è legge; ottenne la libertà di commercio dei cereali e la liquidazione dei consorzi granari; lotta per la trasformazione del salariato anche nelle regioni a grande coltura intensiva (lodo Bianchi di Cremona); fa sospendere la nominatività dei titoli; lotta contro le industrie parassitarie e per la libertà delle organizzazioni dei sindacati e la riforma del consiglio superiore del lavoro; sostiene la libertà di organizzazione nei porti, specialmente per l'emporio italiano che è Genova. E potrei continuare ancora ma andrei molto alle lunghe; solo debbo dire che sono sforzi titanici, nella incertezza di una linea sicura nel campo della politica interna ed estera, che a ben poco approderanno se non si affronti il problema centrale: la riforma organica dello stato, la delenda Carthago del partito popolare italiano.

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Intendiamoci bene: non voglio passare per illogico o per amante di una idea fissa a cui tutto si subordina. Io non attribuisco forza taumaturgica agli istituti e agli organismi come enti per sè stanti; non credo che i regolamenti valgano più degli uomini, e per giunta credo che ancora per un pezzo gli uomini della democrazia avranno in gran parte la direttiva del potere, perchè in gran parte hanno la direttiva della cultura, della burocrazia, della finanza e dell’industria; e perchè purtroppo, l'agricoltura e il lavoro debbono ancora fare un cammino non indifferente per arrivare a divenire forze direttive e progressive del paese, superando, per quanto riguarda il lavoro, il periodo della irresponsabilità, e per l’agricoltura il periodo conservatore ed anarcoide insieme contemporaneamente assunto.

Il mio punto di vista è un altro, ed è semplice e perciò chiaro: quando l’istituto è invecchiato deve trasformarsi, altrimenti non si ha più il mezzo adatto per svolgere l'attività o per attuare le direttive delle grandi correnti ideali. Gli uomini, anche genii, hanno bisogno dell’ambiente; Cavour senza la monarchia costituzionale, posto in regime assoluto, non avrebbe potuto formare l’Italia; Bismarck in regime parlamentare non avrebbe costituito l'impero itedesco; Napoleone, senza la rivoluzione francese non avrebbe dominato l’Europa. È la teoria delle piccole e delle grandi cause, è l’adesione dell’idea alla realtà, è la legge forte dell’ambiente. Oggi lamentiamo che ci mancano uomini del risorgimento: o non furono i piccoli stati e la vita locale, forte ed ingenua, che ci diede uomini di carattere prima che uomini di pensiero ed azione? E questo ceppo neppure oggi è inaridito.

Non basta; un’altra legge regola i popoli: l'equilibrio delle forze. Uno studioso americano degli stati del nord, giorni fa, parlando con me, osservava che in Italia ci sono troppi partiti politici (infatti nel 1921 ne sono sorti tre nuovi: il comunismo, il fascismo e il pan); negli Stati Uniti d’America ce ne sono due: il repubblicano e il democratico; uno comanda l'altro nell’alterna vicenda dei conservatori e dei progressisti. E difatti, per quanto siano frazionati i partiti, la risultante deve essere questa, la vicenda degli uni e degli altri; altrimenti non vi e nè progresso nè ordine: è la legge dell’equilibrio delle forze. In Italia si va in cerca di questo equilibrio: Giolitti che un tempo aveva rotto definitivamente nel campo parlamentare l’equilibrio della destra e sinistra, assimilando e superando Depretis, ed aveva tentato di riottenerlo tanto con i clericali (patto Gentiloni) come con i radical-socialisti (blocchi popolari); Giolitti, con le ultime elezioni politiche del maggio scorso, tentò il colpo di un ritorno indietro per ottenere un equilibrio liberale-democratico riducendo in minoranza socialisti e popolari. Gli si attribuiva anzi il recondito pensiero di abolire la proporzionale o almeno ridurla all’impotenza. Si accorse che socialisti e popolari non sono forze sopprimibili e riducibili. Ora pensa che potrebbe essere lui, ancora destinato dagli dèi, a trovare l’equilibrio nella collaborazione dei socialisti coi popolari attraverso la democrazia; e questo stesso pensiero ha Nitti e forse lo avrà anche De Nicola.

Io credo che l'equilibrio delle forze alterne di conservazione e di progresso, anche frazionate in vari partiti, debba avvenire per il bene dell’Italia; ma non sarà possibile senza un orientamento concreto, su basi economiche e politiche, con organismo nuovo, ove vecchie e nuove energie traggano forza e valore da nuova sorgente di autorità e di rappresentanza e ove l'equilibrio venga generato dall’orientamento sociale e dai criteri di libertà, base di ogni nuovo atteggiamento di vita collettiva.

Con i nuovi istituti verrà lo spostamento dei partiti e più che altro la semplicizzazione dello stato e l'attenuazione dei suoi poteri amministrativi, il che sposta dal centro alla periferia molti interessi, aumenta i valori politici dello stato determina le competenze e le attività personali su più larga sfera, e realizza le forze veramente direttive degli uomini politici. Bisogna formare l'ambiente anche ai grandi uomini e noi auguriamo che l’Italia ne abbia molti, e che sorgano dalle rovine del passato con la fiducia dell’avvenire.

* * *

Questo e un programma vasto, si dice: ci vuole del tempo; bisogna vincere delle difficoltà notevoli, pochi lo comprendono; e intanto?

Rispondiamo subito noi per conto nostro: eccoci al nostro posto; oggi collaboriamo, e purtroppo non sempre con guadagno per il nostro partito e per le nostre idee; domani ripiglieremo la nostra libertà, se ciò reputiamo possa giovare ancora di più all’idea. Nel collaborare e nel combattere teniamo ferme le nostre direttive come punto di partenza all’azione e come mèta insieme. La prima volta che in Italia un partito pose pubblicamente i suoi postulati pratici, immediati, concreti e l’elaborazione parziale del proprio programma in rispondenza ai fatti, e ad essi subordinò la collaborazione, è stato con i ben noti nove punti del marzo 1920 durante la crisi del primo ministero Nitti; così si fece con Giolitti, così con Bonomi.

Questo metodo di realizzazioni lente, sul terreno costituzionale (che ci ha fatto essere contrari nel 1919 alla propaganda per la costituente, che i socialisti volevano e che alcuni democratici ritenevano fatale); questa fiducia nel lavoro di penetrazione e di trasformazione (che ci fa sicuri della nostra concezione e del nostro metodo) non sembra a molti rispondente e proporzionata al programma di lotta contro lo stato accentratore e alla visione che noi abbiamo della crisi e della paralisi statale. O la visione è inesatta, essi dicono, e i termini sono ingigantiti; ovvero occorre il metodo chirurgico della rivoluzione.

Questa è l’ultima forte obiezione alla tesi popolare. Non ho mai creduto alle rivoluzioni a freddo: la storia non ce le insegna: e i movimenti e le trasformazioni generali debbono essere preceduti da grandi correnti ideali. Queste oggi non sono nè mature nè efficienti. Gli avvenimenti e la propaganda ci diranno se la nostra sarà una direttiva realizzabile ovvero se si infrangerà contro gli ostacoli di uomini e di fatti più forti ancora di noi; il nostro tentativo di costruirci una teoria, di tendere ad una soluzione pratica, di orientarvi le nostre forze, di portarvi il nostro lavoro e il nostro entusiasmo, dànno la prova di una consistenza politica che fino a ieri ci era negata.

Noi preferiamo il metodo costituzionale e ricostruttivo, il metodo giobertiano della persuasione e della propaganda, animato da una grande idea: il metodo della resistenza legale e della valorizzazione delle correnti spirituali; non solo perchè crediamo questa l’unica via possibile per noi, ma anche perchè risponde alle nostre convinzioni etiche e alla nostra visione religiosa. Non abbiamo mai confusa la religione con nessuno istituto civile, politico ed economico; nè abbiamo attribuito alla chiesa, come organismo cattolico, una ristretta partecipazione allo svolgersi e mutare degli istituti politici e al divenire dei partiti; ma non possiamo nè dobbiamo sfuggire al problema etico della vita, alle sue ragioni sociali, alla sua forza morale. E questo problema è posto in tutte le nazioni civili, come un elemento e una conquista della civiltà, che dopo il paganesimo classico, è per noi civiltà cristiana. E neppure la rivoluzione francese e il laicismo liberale, anche nelle loro transitorie aberrazioni o nelle lotte sul terreno politico dell’influenza civile della chiesa, poterono sopprimerla o variarla; come non potrebbe neppure il socialismo (se domani trionfasse, non dico nel suo trasformismo collaborazionista, ma nel suo primitivo aspetto materialista, edonista e dittatoriale), sopprimere l'impronta, la forza della civiltà cristiana, della sua etica, dei suoi istituti e della sua espansione.

Per la concezione morale del cristianesimo, trasportata come norma di attività nel campo politico ed economico, i popolari hanno una direttiva che esclude l’esercizio non legittimo della violenza individuale e collettiva; ed hanno nel loro programma una concezione di giustizia sociale e di elevazione dei valori morali del popolo, che arriva alle nostre più profonde tradizioni bimillenarie. E noi abbiamo la maggiore considerazione, anche politica, dei valori morali, che debbono essere diretti a dare anche nella vita pubblica una forza di carattere che oggi invano si cerca. È questo un lato trascurato dagli altri partiti legati ad una preponderante preoccupazione materialistica, ma è invece il mezzo precipuo, più profondo del risorgimento del nostro popolo, che ha ancora le riserve morali immense della famiglia e della religione come la forza di espansione e di vita nel lavoro e nel risparmio.

L’avvenire di questa umile Italia dei lavoratori e dei risparmiatori, dei fedeli al focolare domestico e all’altare di Dio che li benedice, non può mancare. Ma grave sarà la responsabilità degli uomini politici e dei partiti se il lavoro e la fede di questo popolo non dovessero trovare l’ordine là dove e violenza, la libertà là dove è predominio, la giustizia là dove è egoismo, e se gli sforzi per una utile ripresa economica del nostro paese, fatta di lavoro e di risparmio, dovessero subire lo sperpero pubblico o la barriera estera. Perciò s’invoca e si lavora perchè lo stato oggi in crisi trovi la via del suo rinnovamento.

In questo grande sforzo, nel quale l'importanza dell’impresa obbliga alla generosità dei sacrifici, il partito popolare italiano tende ad avere un posto non indegno per slancio di fede, per amore alla patria, per lo sforzo di lavoro e per contributo ideale.

Questi propositi oggi rinnoviamo dopo tre anni di lotta e di preparazione politica, con la medesima fede e il medesimo ardore; perchè nessuno nell’interesse del proprio paese deve abbandonare il suo posto di combattimento, tanto più se questo paese si chiama Italia.


Note

1. La frase «nega lo stato attuale» fu rilevata da liberali e anche da fascisti (ormai in intesa elettorale, auspice Giolitti), come un’affermazione anarchica; ma non si tenne conto della citazione, che seguiva, dell’appello del 1919, dove è detto che la sostituzione che si propone dell’attuale stato centralizzatore con uno stato veramente popolare verrebbe fatta «sul terreno costituzionale». Niente rivoluzione, niente anarchia. (N. d. A.)

2. Qualche cosa del presente, come la ideata e discussa apertura a sinistra, dal 1933 ad oggi, fu previsto nel gennaio 1922. (N. d. A.)


Un discorso di Don Sturzo

Vilfredo Pareto (1922)


Pubblicato in: La vita italiana, 15 aprile 1922, pp. 281-295.

Trascritto per ragioni di studio (learning purposes) nel febbraio 2020.


I.

Lo studio che mi propongo di fare del discorso letto il 18 gennaio di quest’anno, a Firenze, è esclusivamente oggettivo ed analitico; non ha il menomo intento di polemica e neppure si spinge sino alla sintesi, per approvare ο disapprovare. Questa sintesi, lascio che altri la facciano, ma, se vorranno andare d’accordo coll’esperienza, dovranno tenere conto di studi analoghi al presente, che perciò può non essere del tutto inutile.

Ogni discorso politico contiene due elementi, cioè un elemento sperimentale e un elemento di sentimento. Il primo descrive fatti e li pone in relazione, il secondo tende a metterli nella luce dei sentimenti di chi discorre e di coloro a cui si rivolge. Il primo è utile per dare un fondamento reale al ragionamento, poiché, tolti pochi sognatori metafisici che «creano la realtà», gli uomini non vogliono, non possono chiudere gli occhi all’esperienza; il secondo, molto più efficace per la persuasione, giova ad ottenere il consenso, cioè propriamente a raggiungere lo scopo del discorso. I due elementi sono congiunti con una logica speciale, che è la logica del sentimento, diversa dalla logica della ragione; e si tenta in ogni modo di confonderli insieme, perché il secondo riceva dal primo il senso della realtà, e viceversa questo da quello acquisti forza di persuasione. Vi sono generalmente molte più premesse implicite che premesse esplicite, e ciò perché le prime, lasciate nelle nubi, meglio si accordano col sentimento, e perché altresì, non dando ad esse forme precise, se ne può dissimulare la vanità.

Senza andare fuori della materia che trattiamo, ecco un esempio, tolto da una lettera scritta dal senatore Tamassia al «Giornale d’Italia».

Lo scritto è quasi interamente soggettivo, e forse dovrebbesi togliere il quasi. Don Sturzo è un prete, il prete, secondo il diritto canonico, non è libero; dunque le sue proposte sono pessime. Muovono lo sdegno del senatore Tamassia, che scrive:

«quando mi viene in mente che tanta brava gente e dabbene, in cose politiche, si lascia guidare da un prete, mi pare proprio di sognare».

Principiamo col notare un caso particolare di un fatto generalissimo. L’elemento sperimentale, affidato qui al diritto canonico, è monco. Meniamo buono al Tamassia quanto egli dice in proposito, ma egli dimostra una cosa, e per la sua tesi, avrebbe bisogno di dimostrarne un’altra. Egli afferma che il prete cattolico non è libero, ma, per conoscere come può operare sulla società, sarebbe necessario sapere se è più ο meno libero di altri con i quali si trova a contrasto; per esempio se è meno libero del fedele che aspetta gli ordini di Mosca, del socialista tesserato, ed in generale di chi appartiene ad una setta in cui viva è la fede, salda la compagine. Mancando non solo ogni prova, ma sino anche una semplice affermazione in proposito, la dimostrazione perde ogni efficacia.

Supponete un meccanico che voglia conoscere l’effetto di un gruppo di forze. La logica della ragione gli impone di valutarle tutte, e di procurare di conoscerne la risultante. Invece la logica del sentimento è paga di valutarne una sola e conclude ignorando le altre. È tanta poi la sua forza persuasiva che «pare di sognare» se c’è alcuno che non accoglie sì bello ragionamento.

Proseguiamo, poiché questa parte negativa del nostro dire prepara la positiva.

Scrive il senatore Tamassia:

«Don Sturzo vuole la libertà: 1) per la scuola — 2) per le regioni — 3) per la Santa Sede. Con la prima libertà, si dovrebbe tornare ai programmi scolastici di san Carlo Borromeo; con la seconda, al regionalismo, alle diete regionali, cioè all’ottimo avviamento dell’Italia in pillole; con la terza, alla definizione nazionale dei diritti imprescrittibili della Santa Sede di fronte allo Stato italiano. E si capisce il resto».

È tutto. Di queste asserzioni mancano le prove, e ciò che è peggio, manca ogni dimostrazione che le ponga in relazione con l’utilità presente della società.

Dei programmi scolastici di san Carlo Borromeo, nulla posso dirne… perché non li conosco. Se dovessi occuparmene, il metodo sperimentale m’imporrebbe; prima, di procurarmeli e di studiarli, possibilmente su documenti originali, poi di paragonarli ad altri programmi, anteriori e posteriori, sino ai presenti. Tutto ciò, pur troppo, non sono in grado di fare; onde, per lo migliore, mi taccio.

Potrebbe darsi che l’accenno a san Carlo Borromeo fosse semplicemente un modo poco felice di esprimere che la libertà della scuola condurrebbe a trascurare il progresso delle scienze moderne; ed in tal caso, è opinione che si può sostenere; ma ove si ponga mente che è oppugnata con argomenti di gran peso da valentuomini, tra i quali c’è nientemeno che Benedetto Croce, certo non divoto di san Carlo Borromeo, parrà subito che occorre confortarla con buone ragioni, e che è troppo spiccio cavarsela con un motto sdegnoso.

Sulle regioni, ho gran copia di documenti, ed ho studiato e studio, vado dunque meno ritenuto nel discorrerne. Parmi che il regionalismo sia, al momento presente, un fenomeno alquanto generale, che si osserva perfino in Francia, che è uno dei paesi dove più salda è l’unità. Ho sentito a discorrere di una certa Irlanda, di un certo Ulster, di un certo Impero britannico che al regionalismo affida la sua salvezza e pare che ignori il ridicolo della riduzione in pillole. In Italia poi, non il solo Don Sturzo ed i suoi seguaci, ma molti sindacalisti e i repubblicani sono favorevoli al regionalismo. Tutta questa brava gente avrà torto, su ciò non contendo, e sono pronto a persuadermi se mi si danno buone ragioni logico-sperimentali; ma veramente l’opporre ai molti ed importanti studi fatti in proposito uno scherzo, neppure originale, sulle pillole mi pare poco. Non pare alla logica del sentimento, perché essa si rivolge a chi è preventivamente persuaso e che cerca solo ciò che può lusingare la sua persuasione.

Del problema gravissimo della Santa Sede, tralascio di discorrere, per non andare troppo per le lunghe, ma ben posso dire che, come tutti gli altri problemi sociali e politici, dovrebbe esser trattato con argomenti logico-sperimentali, i quali invano si cercano nello scritto del senatore Tamassia.

Ed ora, chiusa la parentesi, torniamo al discorso di Don Sturzo.

Nel ragionarne vuoisi tenere conto di tre fatti, cioè da prima che in un breve discorso non trovano luogo sviluppi che starebbero in un trattato, poscia che l’autore, ponendo mente specialmente all’Italia, non ha da curarsi della generalità dei fatti, infine che il capo di un partito deve necessariamente dimostrare la sua preferenza per questo. Ma, nell’esame che vogliamo fare, procureremo invece di accennare almeno i necessari sviluppi, che anche a noi, ragioni di spazio vietano di dare interamente, di porre fatti particolari nella loro serie generale, di non dimostrare la menoma preferenza per alcuno partito.

II

L’elemento sperimentale non manca nel discorso di Don Sturzo ed ha parti assai buone. Facciamone una breve rassegna, ponendo i fatti particolari nella propria serie generale.

1) Nella Sociologia, compendiando infiniti fatti sperimentali, siamo giunti alla conclusione che i fenomeni sociali sono principalmente determinati dai sentimenti e dagli interessi. In questa serie generale trovano posto le seguenti osservazioni particolari di Don Sturzo.

Discorrendo dei presenti mali dell’Italia, egli dice:

«E mentre il pensiero liberale ebbe dalla fine del secolo decimo ottavo ad oggi economisti, pensatori, poeti e artisti che crearono la base spirituale e l’ambiente naturale agli uomini politici [invece fu l’ambiente che li creò]3; nella evoluzione così detta democratica, e nella preparazione del pensiero socialista e anche di quello cristiano sociale che rappresentano le tre forze politiche dell’oggi [ce ne sono pure altre], noi in Italia abbiamo ben poco come studio e come letteratura, che non sia semplice negazione ο critica4, ma che sia invece elaborazione idealistica e pratica, elemento di forza, costruzione sociale, spinta di grandi movimenti nazionali ed internazionali, che poggino sopra teorie e sistemi che penetrino nell’animo dei popoli».

Giustissima è l’osservazione che non si possa proporre riforme «senza trovare il sottostrato economico e psicologico che le imponga». Essa deve poi estendersi a tutti i fenomeni sociali, ed allora appare che, contrariamente all’opinione generale, non sono tanto i pensatori che foggiano le condizioni sociali, quanto queste che fanno nascere, e meglio ancora, pongono in luce quelli. Don Sturzo ha torto di dare ai difetti delle Università la colpa dei mali sociali; dia piuttosto a questi la colpa di quelli. Se gli Italiani fossero un popolo di credenti, le Università sarebbero interamente diverse da ciò che sono. Potrebbe essere, anche in parte, un male, poiché la scienza sperimentale, quindi scettica, ha pure parte notevole nel progresso sociale; ma parte non vuol dire tutto.

Tanta è la forza della realtà che essa s’impone anche a chi cederebbe a teorie dissenzienti, onde lo stesso Don Sturzo scrive:

«Gli uomini, anche genii, hanno bisogno dell’ambiente: Cavour senza la monarchia costituzionale, posto in regime assoluto non avrebbe potuto formare l’Italia; Bismarck in regime parlamentare non avrebbe costituito l’Impero tedesco; Napoleone senza la rivoluzione francese non avrebbe dominato l’Europa».

Facciasi generale l’osservazione, si estenda agli «economisti, ai pensatori, ai poeti ed agli artisti» di cui poco anzi discorreva Don Sturzo, e si avrà una buona descrizione della realtà.

Nello stesso senso, ottima è l’osservazione seguente:

«L’istituto dello Stato non è un ente astratto, non è un principio etico, non è una ragione sociale, se non in quanto è un organismo concreto e completo; e quest’organismo è e vive della stessa vita di coloro che adesso imprimono le direttive e la impronta».

2) Come è impossibile di avere un chiaro concetto del movimento di un galleggiante in un fiume se non si tiene conto della corrente, non si possono intendere bene gli avvenimenti sociali, se non si pone mente al ciclo in cui si svolgono. Su ciò lungamente scrissi altrove, mi basti qui rammentare che, al presente, le nostre società percorrono un ciclo della plutocrazia demagogica, simile in alcune parti a quello che si osservò sul finire della Repubblica romana5. In tal serie generale di fatti, vanno collocati ì casi particolari seguenti.

Scrive Don Sturzo:

«Si deve avere una politica favorevole alla siderurgia in Italia? Il parlamento tace, mentre Alessio, e mentre l’alta finanza impegna miliardi dopo la guerra in un indirizzo industriale siderurgico che poi costringe lo Stato ad intervenire con danno della economia generale. Sembra che maestranze metallurgiche e alta banca abbiano lo stesso interesse ad imprigionare lo Stato».

Altro che sembrare! È così. Altro che siderurgia ο metallurgia! Il fenomeno è generale. E dicono persino che certe banche se l’intendono coi contadini moventi alla conquista delle terre; altre se l’intendono certamente con le cooperative politiche di cui sì rigogliosa fioritura ha ora in Italia.

«Oggi dopo la caduta della Banca Sconto, il monopolio finanziario è in azione; lo Stato va diventando via via ancor più prigioniero; il socialismo procacciante ne è pronubo e parte, mentre grida allo scandolo dei pescicani».

E domani, sarà lo stesso partito di Don Sturzo che dovrà battere una via analoga, se vorrà avere favorevoli i poteri sociali, fra i quali non ultima la stampa, se vorrà conquistare benefici ai suoi seguaci; mentre, d’altra parte, man mano che andrà fortificandosi, cresceranno lusinghe ed offerte dei plutocrati e dei nascituri pescicani, per assicurarsene il concorso. Sinché non muta il ciclo, non può essere diverso l’andamento generale.

Parrebbe che Don sturzo intenda ciò quando scrive:

«Quando l’istituto è invecchiato deve trasformarsi, altrimenti non si ha più il mezzo adatto per svolgere l’attività e per attirare le direttive delle grandi correnti ideali».

Ma parmi che egli s’illuda, come s’ingannarono i cittadini romani, di cui è tipo Cicerone, i quali speravano di potere salvare la Repubblica mediante ritocchi alla sua costituzione, mentre poi effettivamente, per mutare il verso della corrente, ci vollero la spada di Cesare ed i tremendi colpi dei Triumviri.

3) Per molti motivi sui quali qui non abbiamo da discorrere, non nella sola Italia, ma in quasi tutti i paesi civili, va sgretolandosi la podestà centrale. Anche in tale materia, Don Sturzo reca fatti particolari, che vanno posti nella loro serie generale.

Il paragone da lui fatto tra l’Italia, in cui, dice, ci sono troppi partiti e l’America del Nord in cui ce ne sono due soli, potrebbe trarre in inganno nascondendo la generalità del fenomeno. Esso è generale, e per esempio l’Inghilterra che, tempo fa, aveva pure essa due soli partiti, ne ha ora parecchi, ed è solo un ricordo storico l’ordinamento parlamentare nel quale un partito stava al governo, l’altro all’opposizione, pronto ad assumere il governo, tostoché un voto dei Comuni avesse posto il ministero in minoranza6. Un ordinamento simile c’era nel parlamento subalpino, mutò più presto in Italia, meno presto in Inghilterra, ma il senso del movimento è lo stesso, ed appare quindi come manifestazione di profonde cagioni.

Altre manifestazioni si hanno nei fatti seguenti, notati da Don Sturzo come peculiari ai partiti.

«Il socialismo economico di Stato, per i democratici, doveva essere la concessione limite ai socialisti per immunizzarsi dai violenti assalti al potere politico [fenomeno generale: panem et circenses]; e per i socialisti doveva essere la prima conquista per arrivare al potere ο meglio alla dittatura politica. Si è così costituito uno Stato nello Stato, che ha acquistato il diritto di intangibilità; i sindacati dei trasporti marittimi e terrestri, locali e statali sono la rete rossa che lega lo Stato, e la economia pubblica e privata; il sindacato metallurgico crea il legame fra industrie parassitarie e banche sovventrici, unendo nel medesimo interesse contro lo Stato capitale e lavoro, finanza, imprese e lavoratori; le cooperative rosse che hanno conquistato lavori pubblici ed istituti sovventori creati e finanziati dallo Stato, formano la loro economia rivoluzionaria a parole e collaborazionista nei fatti».

Don Sturzo dimentica le cooperative bianche, le leghe del Soresinese ed altre molte. Di ciò non è da muovergli troppo aspro rimprovero, poiché giova ricordarsi che egli non è solo giudice, ma anche avvocato, e non si può chiedere ad un avvocato di manifestare le male fatte dei suoi clienti.

Analoga osservazione devesi fare circa ai decreti-legge, in cui pur troppo i Popolari hanno avuto e seguitano ad avere parte. I governi forti hanno ordinamenti stabili, che mutano solo dopo ponderato e maturo esame, i governi deboli, di cui sono tipi nel passato il governo della decadenza dell’Impero romano e quello di Bisanzio, hanno leggi tanto numerose quanto mutevoli, fatte in mira di casi particolari, mutate e rimutate secondoché volgono gli eventi. Così appare ora l’opera del governo italiano, ed a guardarla nel complesso, parrebbe proprio che, ogni mattina, svegliandosi, un nostro ministro si ponga il quesito: «Che decreti-leggi promulgherò oggi?»; senza darsi il menomo pensiero dei princìpi generali della legislazione. Recano per scusa che così impone la necessità, ma che sia scusa fallace è provata dal fatto che governi più forti, ο se vuoisi meno deboli, come lo inglese ed il francese, se la cavano senza decreti-leggi. Il caso della Βangue Industrielle de Chine è compagno a quello della Banca Italiana di Sconto, ed è trattato in Francia senza il menomo decreto-legge, mentre quello della banca italiana ha dato origine ad un numero grandissimo di decreti-legge.

Dice bene Don Sturzo:

«Il fenomeno più importante della nostra vita parlamentare in tale periodo è stato il fatale passaggio del potere legislativo e politico dal parlamento al governo e dal governo alla burocrazia e alle forze estranee agli organismi costituzionali; il parlamento si è andato su svuotando delle sue funzioni anche le più delicate man mano che aumentavano le funzioni statali e premeva l’accentramento burocratico e amministrativo».

Il parlamento dovrebbe approvare i bilanci, e non se ne cura; dovrebbe fare le leggi e si è scaricato di tal peso sul governo, che provvede con i decreti-legge, dovrebbe indicare alla Corona il governo che desidera, e neppure ciò sa fare; rovescia i ministeri e poi non sa come sostituirli; è diventato un’accademia malefica, un mercato di favori dei partiti. Lo sgretolamento dello Stato è imponente.

Di ciò occorre tenere conto per intendere bene l’indole del fascismo, del quale Don Sturzo non pare di avere un concetto che combaci perfettamente coll’esperienza.

Quando nella società operano forze dissolventi, sorgono a contrastarle altre forze. Come ogni corpo vivo, il corpo sociale reagisce, ed alla malattia oppone le forze di conservazione della vita. Quando lo Stato più non adempie all’ufficio di assicurare il rispetto della legge, supplisce l’opera violenta ed extralegale dei privati; quando lascia estendersi l’anarchia, prepara la dittatura, che da Silla passa a Cesare, poi ad Augusto, e che ora, da quella blanda dei governi raccoglienti l’eredità di parlamenti impotetenti, passa alla feroce di Lenin. Queste, fra molte altre cause, sono le principali che spiegano il fascismo e l’invadere della burocrazia: quando, nell’antica Roma, tacquero i comizi, governò la burocrazia imperiale.

4) Secondo Don Sturzo, lo stato democratico è ora assalito da tre forze, cioè dal socialismo, dal popolarismo, dal fascismo. L’enumerazione può stare per lo scopo dell’autore, che è di politica pratica, non è compiuta per uno studio teorico. Invero quei tre partiti sono forse i più numerosi, ma sotto l’aspetto teorico, vuoisi guardare non solo al numero dei seguaci, bensì anche all'importanza dei sentimenti, ed allora conviene di tenere conto almeno di due altri partiti, cioè del nazionalista e del comunista, né vuoisi dimenticare il repubblicano, che, in Italia, ben può dirsi animato dal più puro ed onesto idealismo. A questi e ad altri partiti si ha da porre mente non tanto per ragioni intrinseche della forza loro, quanto, estrinsecamente, per le tendenze che manifestano. Queste sono eterne, pongono a contrasto due aggregati di fatti, e secondo il modo col quale si guardano, si possono dire: tendenza spirituale, religiosa, ascetica, e tendenza materialista, atea, di godimenti materiali. Esse, se si accostano agli estremi, avviano alla rovina le società umane; se contenute in certi limiti, molto più estesi per la prima che per la seconda, ne assicurano la prosperità7.

Un caso, in certe parti analogo, è quello del prospero successo della Chiesa cattolica, il quale, discorrendo esclusivamente dal punto di vista sperimentale, terrestre, lasciando stare ogni considerazione ultra-sperimentale, ultra-terrestre, è dovuto in gran parte al modo sapiente col quale la romana Chiesa seppe temperare l’esaltazione religiosa, l’ascetismo, con le necessità pratiche della vita materiale. Si aggiunga, si parva licet componere magnis, che tale causa non è certo estranea alla forza acquistata ora dal Partito popolare, che, non dell’intelletto solo si cura, ma che, specialmente con le leghe bianche, si dà pensiero, e gran pensiero dei bisogni corporali. Per dire il vero, non diversamente operò il Partito socialista, e molti altri partiti che stanno nella vita reale.

Oggi, la religione8 che principalmente domina è il patriottismo ο il nazionalismo, e la tendenza contraria si manifesta con maggior forza nel comunismo. Tutti i partiti inter medi, e sono i più, poiché così vuole il carattere delle società umane, rifuggiente dagli estremi, partecipano un poco dell’una e dell’altra.

Il giudizio di Don Sturzo sul partito liberale, è troppo severo, se si guarda al passato, molto più giusto, se si pone mente al presente, in cui questo partito, serbando il nome, si è vuotato della sostanza liberale. Ma ciò ci trae ad un genere diverso di considerazioni, che ora passiamo ad esporre.

III

L’elemento sentimento non manca nel discorso di Don Sturzo, e sarebbe difetto grande se ne fosse assente, poiché verrebbe meno ogni forza di persuasione, e quindi sarebbe fallito interamente lo scopo di un discorso politico; ma è degno di nota che tale elemento ha molto meno parte nei ragionamenti del nostro autore che in quelli di tanti altri che pure la pretendono a scienziati.

Lasciamo da parte l’intervento principalmente formale del sentimento quando quest’intervento non muta gran che la sostanza; sarebbe da pedanti e proprio inutile il darsene qui pensiero; tiriamo via anche su casi in cui un poco di sostanza c’è, e fermiamoci alquanto ad esaminare un caso tipico.

L’uso del sentimento attrae, perché fa semplici i problemi che il metodo sperimentale vede estremamente intricati: porta semplici affermazioni dove l’esperienza pone infiniti dubbi e ricerche. Don Sturzo si è lasciato sedurre dalla facilità grande che recava al suo ragionamento l’uso del termine libertà.

«Veramente il caso seguito al termine libertà è assai comico. In molti casi esso significa ora precisamente il contrario di ciò che significava cinquant’anni fa, ma i sentimenti che fa nascere rimangono gli stessi, cioè indica uno stato di cose favorevole a chi ascolta. Se Tizio vincola Caio, questi chiama libertà il sottrarsi a tale vincolo; ma se poi, a sua volta, Caio vincola Tizio, egli chiama libertà il rafforzare tali vincoli; in entrambi i casi, il termine libertà suggerisce a Caio sentimenti gradevoli».

Così, per Don Sturzo, è libertà il togliere i vincoli che avvingono la scuola allo Stato, ma è pure libertà il porre i vincoli che le leghe bianche impongono ai proprietari.

Notisi che i due casi così contrastanti si possono approvare egualmente, ma è perciò necessario di suffragarli con motivi logico-sperimentali, e di non farli dipendere dall’uso del termine libertà. Ma con ciò, ad un ragionamento semplicissimo, persuasivo si viene a sostituire un’indagine lunga, faticosa, che pochi vorranno seguire, e perciò poco persuasiva.

Dice Don Sturzo che la

«costruzione organica della vita nazionale deve essere animata dal principio di libertà che oggi, come cento anni addietro, viene elevato e bandito come conquista del vivere civile, quella libertà morale, economica e organica che è negata in nome dello Stato panteista, amministratore. Questo principio di libertà è l’anima, il fulcro, la ragione della riforma, il fondamento e lo spirito animatore del partito popolare italiano».

Ottimamente. Ma poco dopo, tra i meriti del partito popolare pone che

«accettò come situazione creata dal decreto Visocchi la occupazione delle terre e ne regolò l’uso col decreto Micheli; tentò un primo regolamento dei contratti agrari (legge Micheli); e impose lo studio delle leggi sul latifondo…».

L’occupazione delle terre avrà molti meriti, è difficile aggiungervi quello della tutela del diritto di proprietà. Ma fu solo accettata come situazione creata da un decreto, e quindi «regolata». Ed allora perché, in nome della libertà, il partito popolare rifiuta di accettare la presente condizione della scuola, creata, meglio che da arbitrari decreti, da buone leggi, e non si contenta di «regolarla»?

Il partito popolare

«lotta per la trasformazione del salariato anche nelle regioni a grande coltura intensiva (lodo Bianchi di Cremona)…».

Sarà buona e santa cosa questa «lotta», ma non è certo in favore della libertà dei contratti. Rimane poi da sapere come un solo e medesimo principio di libertà impone che siano vincolati i contratti agrari e non quelli che le cooperative rosse vogliono in proprio vantaggio, nei porti ed altrove.

Don Sturzo ci dà l’espressione di tre generi di «libertà» da lui voluti. Essi sarebbero quelli

«delle libertà morali, specialmente della scuola; delle libertà organiche, specialmente dei Comuni; delle libertà economiche, specialmente dei commerci».

Sotto il solo aspetto della logica formale, possono stare tutte e tre queste espressioni, col senso primitivo del termine libertà, in quanto che si mira a togliere vincoli. Ma non ci possiamo fermare lì, poiché, in realtà si vede che altri vincoli sono poi introdotti ο saranno da introdursi. Per il primo genere, questa considerazione non è di gran peso, per gli altri due invece è fondamentale, e perciò è necessario ο di mutare il senso del termine libertà, oppure di farne a meno, e di abbandonare quindi la facile dimostrazione che se ne traeva della convenienza dei proposti provvedimenti.

IV

Con ciò, dal campo della logica formale, passiamo in quello dei ragionamenti sperimentali, e veramente imponente è il lavoro che rimane da compiere per indagare l’indole e gli effetti di quei provvedimenti: si può dire che è uno studio dell'intero ordine sociale. Non è evidentemente da ricercarsi in un discorso né in un articolo di rivista. Ci limiteremo qui ad accennare brevemente ai quesiti principali che appaiono tostoché si vuole fare un esame di tal genere.

Diciamo subito che non si può sperare di giungere ad una soluzione che semplicemente accolga, ο respinga la «libertà». Una società senza vincoli non può esistere, il quesito è dunque solo del più ο del meno: vi è un certo punto che dà il massimo di utilità per la società, ed è a tal punto che preme di avvicinarci alla meglio.

Ciò appare molto bene nel quesito della «libertà morale» in genere, ed in quello della libertà della scuola in particolare. In realtà nessuno ha la menoma intenzione di togliere ogni e qualsivoglia vincolo; si contende solo sui vincoli da togliere e su quelli da imporre. Studiando bene la materia, può parere che, nel momento presente, in Italia, ci avviciniamo al puntotesté notato, scemando i vincoli dell’istruzione; e se veramente è cosi, i provvedimenti richiesti dai Popolari sarebbero giovevoli, si può ripetere la stessa cosa per la «libertà economica», purché s’intenda nel complesso e non si riduca alla sola libertà doganale, ο degeneri in una contesa tra popolazioni agricole e popolazioni industriali, ο tra abitanti di diverse regioni.

Più arduo assai è il problema delle «libertà organiche», come le dice Don Sturzo; e su di esse nuove considerazioni si impongono. Quando, nelle società, si osserva un movimento generale per un certo verso, può parere, ed è veramente in certi casi, vano il contrastarlo. Ora il movimento che spinge verso il sindacalismo appare irresistibile. Quindi, astrazione fatta dal sapere se, alla lunga, recherà buone ο cattive conseguenze, si può chiedere se non è meglio regolarlo efficacemente che opporvisi inutilmente. Se è così, le proposte del discorso appaiono utili, e l’opera dei Popolari può essere giovevole.

Ma le difficoltà da risolvere sono grandissime. A due sole accenneremo.

Da prima si noti che sin ora non c’è esempio nella storia di corporazioni ο sindacati dei risparmiatori, quindi non si vede come alla loro tutela si provvederà in un ordinamento essenzialmente sindacalista. I risparmiatori costituiscono la materia prima dell’evoluzione sociale, che, senza di essi, non si può compiere. Oggi sono stremati dagli ingenti prelevamenti fatti per le guerre, ο guerreggiate ο preparate, e per le innumerevoli «opere sociali»; gravandoli ancora, c’è il caso che si finisca per uccidere la gallina dalle uova d’oro? Dice Don Sturzo:

«il fallimento economico dello stato borghese non permette i lussi dello sperpero, né permette il tentativo del monopolio centralizzato nelle mani della vera e della falsa democrazia in accomandita coi partiti social-democratici».

Ottimamente. Ma permette lo sperpero dell’ordinamento dei monopoli sindacalisti, e quello delle spese per comperare la «collaborazione» socialista? Pongo il problema, non lo risolvo.

Ci sono socialisti disposti a concedere la «libertà» della scuola, contro adeguati compensi economici. Ciò facendo, comprerebbero il presente col futuro, il certo coll’incerto. Rimane da sapere se tale spesa può essere sopportata dal risparmio e dalla produzione.

Poscia, sinora, tutti gli ordinamenti simili al sindacalismo sono venuti a naufragare su gli scogli dei monopoli e dei danni cagionati da questi. Senza risalire sino alla decadenza dell’Impero romano, basta rammentare come la fine del secolo XIII vide il termine delle corporazioni e, ad un tempo, il principio della grandissima prosperità moderna. A ciò si oppone che non si vogliono risuscitare le antiche corporazioni9. Sta benissimo; nessuno si figura ciò: la storia non si ripete mai. Ma dimostra molte analogie; ed il problema che abbiamo da risolvere non è dell’identità degli ordinamenti bensì della somiglianza degli effetti. Come si farà perché il nuovo ordinamento non ne abbia di simili a quelli che sempre, costantemente, si osservarono nei passati ordinamenti, e di cui alcuni già principiano a fare capolino nei presenti, offendendo gravemente la produzione, come, per esempio, i guai recati da certe associazioni d’indole sindacalista e da certe «cooperative», imponentesi ai privati ed allo Stato; oggi ancora alleate, per l’opera comune svolgentesi ai danni del risparmio e della produzione, ma che domani potranno contendere fra loro, come ognora finirono col contendere analoghe associazioni che le precedettero?

Certo a nessuno si può chiedere di risolvere ora compiutamente sì poderoso problema, ma non per ciò è da trascurarsi e l’averne un qualche concetto non solo è indispensabile per conoscere la mèta a cui ci avviamo, ma altresì è utile per sapere se, battendo la via che vi reca, ci avviciniamo, ο ci allontaniamo dal punto di massima utilità presente. Giova agli stessi fedeli del sindacalismo di non porre in tacere tale argomento e di procurare di acquistarne una qualche conoscenza.

Meno generale, ma non per ciò trascurabile, è il movimento che spinge molti popoli civili verso il regionalismo. Il considerarlo dà origine a problemi analoghi a quelli or ora accennati, ed è dalla soluzione loro che dipenderà l’avvenire del regionalismo. Oggi, in Italia, lo allentarsi dei vincoli di tutela dei comuni ha avuto, per prima conseguenza, di spingerne parecchi verso il fallimento e la rovina; ma possono gli effetti seguenti essere diversi; ed i presenti non tolgono che ci possa essere un qualche modo di scansarne di simili nel futuro, mediante convenienti ordinamenti.

Note

3. Poniamo tra parentesi alcune restrizioni sul modo di esprimere i fenomeni.

4. Adoperando la terminologia della Sociologia, diremo che, sui residui della persistenza degli aggregati, prevalgono quelli dell’istinto delle combinazioni, con le solite conseguenze ognora osservate nella storia.

5. Guglielmo Ferrerò ha posto bene in luce altre analogie tra quel tempo e il nostro.

6. Il 7 marzo, sir Arthur Balfour, recitò, al Carlton Club, una orazione funebre dei «due partiti». Egli disse:

«L’ordinamento di governo, con uno dei due grandi partiti, che ha prevalso tanto tempo, è ottimamente adatto alle condizioni normali, ma la guerra non avrebbe potuto essere fatta e meno che mai vinta con esso»,

conclude che ora ci vuole un governo di «coalizione». Proprio come in Italia; per altro con, in meno, i guai della proporzionale.

7. In generale i problemi delle società umane sono essenzialmente quantitativi. Su ciò lungamente scrissi nella Sociologia.

8. Questo termine deve essere qui inteso in senso molto lato; sta ad indicare ciò che nella Sociologia si dice persistenza degli aggregati.

9. Dice Don Sturzo che «la nuova organizzazione politica ed amministrativa» deve avere per fondamento l’«organizzazione sindacale»: aggiungendo tosto che «non è la vecchia corporazione che risorge».



Ultima modifica 2020.02.19