Arte e vita sociale (1)

Georgij Valentinovič Plechanov

 


Georgij Valentinovič Plechanov, Novembre 1912


 

La questione del rapporto tra l’arte e la vita sociale ha svolto sempre un ruolo di notevole importanza in tutte le letterature che abbiano raggiunto un certo grado di sviluppo. Perlopiù questo problema è stato risolto — e viene tuttora risolto — in due modi completamente opposti. Alcuni hanno detto in passato e dicono tuttora: non l’uomo è fatto per il sabato, bensì il sabato per l’uomo; non la società è fatta per l’artista, bensì l’artista per la società. L’arte deve contribuire allo sviluppo della coscienza umana, al miglioramento dell’organizzazione sociale.

Altri respingono risolutamente un tal modo di vedere. Secondo loro l’arte è un fine per se stessa; trasformarla in un mezzo per il raggiungimento di un qualche altro fine estraneo, fosse anche il più nobile, significherebbe avvilire la dignità dell’opera d’arte.
La prima di queste due opinioni ha trovato chiara espressione nella nostra letteratura progressista degli anni sessanta. Per non parlare di Pisarev, il quale nella sua estrema unilateralità ha portato una tale opinione addirittura alla caricatura, si possono ricordare Černyševskij e Dobroljubov come i più notevoli difensori di un tal modo di vedere nella critica di allora. In uno dei suoi primi articoli critici Černyševskij scriveva:

«L’arte per l’arte» è un’idea così strana nel nostro tempo come «la ricchezza per la ricchezza», «la scienza per la scienza» e così via. Tutte le attività umane devono riuscire utili all’uomo se non vogliono essere un’occupazione vuota e oziosa; la ricchezza esiste affinché l’uomo possa servirsene, la scienza esiste per essere la guida dell’uomo e così anche l’arte deve procurare all’uomo una qualche sostanziale utilità, e non limitarsi allo sterile godimento.

Secondo Černyševskij l’importanza delle arti — e in particolare della «più seria di esse», la poesia — è definita dalla massa delle conoscenze che esse diffondono nella società; Černyševskij dice:


L’arte, o per meglio dire la poesia (solo la poesia, in quanto le altre arti sotto questo rapporto fanno ben poco), diffonde nella massa dei lettori un’imponente quantità di conoscenze, nonché cosa ancora più importante — la cognizione di concetti elaborati dalla scienza; in ciò appunto consiste il grande significato della poesia per la vita.

La stessa idea viene espressa nella sua famosa dissertazione Rapporti estetici tra l’arte e la realtà. Secondo la diciassettesima tesi di tale opera, l’arte non soltanto riproduce la vita, ma anche la spiega; molto spesso le opere d’arte «hanno il valore di un giudizio sui fenomeni della vita».


Agli occhi di Černyševskij e del suo discepolo Dobroljubov il significato essenziale dell’arte consisteva nel riprodurre la vita e nell’esprimere un giudizio sui fenomeni della vita stessa(2). Una tale considerazione dell’arte non è stata fatta propria esclusivamente da critici letterari e da teorici di estetica. Non per nulla Nekrasov chiamava la sua musa «musa della vendetta e del dolore». In una delle sue poesie, il cittadino, rivolgendosi al poeta, dice:

Ma tu, poeta, eletto del cielo,
banditore d’eterne verità!
Non credere che chi non ha pane
non sia degno delle tue corde fatidiche!
Non credere che gli uomini sian completamente decaduti:
non è morto Iddio nell’anima umana,
e il grido che erompe da cuori credenti
le sarà sempre accessibile!
Sii cittadino! Servendo l’arte,
vivi per il bene del prossimo,
e sottometti il tuo genio al sentimento
dell’Amore che tutto abbraccia.

Con queste parole il cittadino Nekrasov ha espresso la propria concezione del compito dell’arte. Proprio allo stesso modo concepivano a quell’epoca il compito dell’arte anche i più notevoli esponenti nel campo delle arti figurative, per esempio della pittura. Perov e Kramskoj — come Nekrasov — si sforzarono di essere «cittadini»; anch’essi, come il poeta, con le loro opere espressero «un giudizio sui fenomeni della vita(3)».


La concezione opposta sui compiti della creazione artistica ha trovato un autorevole difensore nel Puškin dell’epoca di Nicola I. Tutti naturalmente conoscono certe sue poesie come Plebaglia e Al poeta. Il popolo, che chiedeva al poeta di contribuire con i suoi canti al miglioramento dei costumi sociali, riceve da Puškin una risposta sprezzante, anzi addirittura brutale:

Lungi da me! Che ha mai a che fare
con voialtri l’amabile poeta?
Impietrite pure nella depravazione:
non vi ridesterà il suono della lira!
Siete all’anima ostili come tombe;
per la vostra ira stolida e bestiale
nient’altro fino ad oggi avete avuto
che la sferza, il carcere e la scure,
e ciò deve bastarvi, folli schiavi!


Puškin espresse la propria concezione del compito che spetta al poeta in queste parole così spesso ripetute:

Non per gli affanni della vita,
né per il lucro o le battaglie,
bensì siam nati per l’ispirazione,
i dolci suoni e le preghiere!

Qui noi ci troviamo di fronte alla cosiddetta teoria dell’arte per l’arte nella sua più chiara formulazione. Non senza fondamento gli avversari del movimento letterario degli anni sessanta si richiamavano così spesso e volentieri a Puškin.

Quale di queste due concezioni nettamente opposte fra loro del compito dell’arte può venir riconosciuta come giusta?

Accingendoci a risolvere una tale questione, dobbiamo anzitutto osservare che essa è mal formulata. Una tale questione — non ché tutte le altre ad essa affini — non possono venir considerate dal punto di vista del «dovere». Se gli artisti di un determinato paese, in un’epoca determinata, si sentono estranei agli «affanni della vita e alle lotte», mentre in un’epoca diversa, al contrario, aspirano ansiosamente alla lotta e agli affanni che ad essa sono necessariamente connessi, ciò non avviene per il fatto che un estraneo abbia loro imposto obblighi diversi («dovete») nelle diverse epoche, bensì per il fatto che in una determinata congiuntura sociale essi sono pervasi da un determinato stato d’animo, mentre in una diversa congiuntura sociale anche il loro stato d’animo è diverso. Dunque, una giusta considerazione dell’argomento esige che noi vediamo le cose non dal punto di vista di ciò che avrebbe dovuto essere, bensì di ciò ch’è stato ed è. In considerazione di ciò, noi porremo la questione nel modo seguente:


Quali sono le più notevoli caratteristiche della situazione sociale in cui presso gli artisti e presso le persone che s’interessano attivamente all’opera d’arte vediamo insorgere e consolidarsi la tendenza all’arte per l’arte?


Quando ci saremo avvicinati alla soluzione di un tale problema, non ci sarà ormai difficile risolverne anche un altro, strettamente collegato con il primo e non meno interessante:


Quali sono le più notevoli caratteristiche della situazione sociale in cui presso gli artisti e presso le persone che s’interessano attivamente all’opera d’arte vediamo insorgere e consolidarsi la cosiddetta concezione utilitaristica dell’arte, e cioè la tendenza ad attribuire alle opere d’arte il «significato di un giudizio sui fenomeni della vita»?


Il primo di questi due problemi ci obbliga nuovamente a citare Puškin.
Vi fu un tempo in cui egli non difendeva la teoria dell’arte per l’arte. Vi fu un tempo in cui egli non evitava la lotta, bensì vi aspirava. Ciò avvenne all’epoca di Alessandro I. A quell’epoca egli non pensava che il «popolo» dovesse accontentarsi della sferza, del carcere e della scure. Al contrario allora egli usciva in questa esclamazione piena di sdegno nella sua ode Libertà:


Ahimé, ovunque getti lo sguardo
ovunque la sferza, ovunque il ferro,
delle leggi la fine vergognosa,
le lacrime impotenti del servaggio;
ovunque un potere mendace
nella nebbia fitta del pregiudizio,
…e così via.


Ma in seguito le sue concezioni mutarono in maniera radicale. Al tempo di Nicola I egli fece propria la teoria dell’arte per l’arte. Da cosa è stato determinato questo totale mutamento nel suo spirito?


L’inizio del regno di Nicola I venne contrassegnato dalla catastrofe del quattordici dicembre, che esercitò un’enorme influenza tanto sull’ulteriore sviluppo della nostra «società» quanto sulla sorte personale di Puškin. Nella persona dei «decabristi» che avevano subito la disfatta uscirono dalla scena gli esponenti più colti e progressisti della «società» di allora. Ciò non poté allo stesso tempo non determinare anche un grave abbassamento del suo livello morale e intellettuale. «Per quanto fossi giovane — dice Herzen — mi ricordo di come l’alta società decadde in maniera evidente, si fece più sporca e più servile dal momento dell’avvento al trono di Nicola I. L’autonomia dei nobili e l’ardire della guardia dei tempi di Alessandro, tutto ciò scomparve con l’anno 1826»(4).


Per una persona sensibile e intelligente era difficile vivere in una tale società. «Tutt’intorno non v’era che deserto e silenzio, — dice Herzen in un altro articolo — tutto era umile, disumano, disperato e allo stesso tempo straordinariamente piatto, sciocco e meschino. Lo sguardo di chi cercava comprensione incontrava invece la minaccia servile o la paura; tutti gli voltavano le spalle, o lo offendevano».

Nelle lettere di Puškin che risalgono al periodo in cui vennero scritte le poesie Plebaglia e Al poeta s’incontrano di continuo delle lagnanze per il quadro noioso e volgare presentato da entrambe le nostre capitali. Ma Puškin non soffriva soltanto per la volgarità della società che lo circondava. Anche le sue relazioni con i «circoli dominanti» contribuivano notevolmente a rovinargli il fegato.

Da noi è abbastanza diffusa quella commovente leggenda secondo la quale nel 1826 Nicola I avrebbe generosamente «perdonato» a Puškin i suoi «errori politici di gioventù» e sarebbe anzi diventato il suo magnanimo protettore. Ma le cose non stavano affatto in questo modo. Nicola e il suo braccio destro nelle faccende di questo genere — il capo della polizia A. Ch. Benkendorf — non «perdonarono» nulla a Puškin e la loro «protezione» nei suoi riguardi si espresse in una lunga serie d’insopportabili umiliazioni. Nel 1827 Benkendorf riferì a Nicola: «Puškin dopo il suo incontro con me ha parlato con entusiasmo al club inglese di Vostra Maestà e ha costretto coloro che pranzavano in sua compagnia a bere alla salute di Vostra Maestà. Comunque è sempre un gran discolo; tuttavia, se si riuscisse a indirizzare la sua penna e la sua lingua, sarebbe senz’altro vantaggioso». Le ultime parole di questo passo ci svelano il segreto dell’alta «protezione» elargita a Puškin. Si voleva fare di lui il cantore dell’ordine di cose vigente. Nicola I e Benkendorf si erano proposti il compito d’indirizzare la sua musa — prima così turbolenta — sulla via della moralità ufficiale. Quando, dopo la morte di Puškin il fedelmaresciallo Paskevič scrisse a Nicola: «mi dispiace per Puškin quale letterato», Nicola gli rispose: «Condivido pienamente la tua opinione; sul suo conto si può dire con giustizia che in lui bisogna piangere il futuro, e non il passato»(5). Ciò significa che l’ineffabile imperatore apprezzava lo scomparso poeta non per le grandi cose che egli aveva scritto nel corso della sua breve vita, bensì per ciò che egli avrebbe potuto scrivere sotto un’adeguata guida e sorveglianza poliziesca. Nicola dunque si aspettava da Puškin delle opere «patriottiche» del genere del dramma di Kukol’nik La mano dell’Onnipotente ha salvato la patria. Persino l’etereo poeta V. A. Žukovskij, essendo anche un ottimo cortigiano, si sforzò di ricondurlo alla ragione e d’ispirargli il rispetto per la moralità. In una lettera del 12 aprile 1826 egli gli diceva: «I nostri adolescenti (e cioè tutta la generazione che sta maturando), data la cattiva educazione che ricevono, che non offre loro nessun punto d’appoggio per la vita, sono entrati in contatto con le tue idee turbolente, rivestite dallo splendore della poesia; tu hai già causato a molti un male irrimediabile, e ciò ti deve far tremare. Il talento non è nulla. L’essenziale è la grandezza morale...»(6). Convenire che trovandosi in una tale situazione, portandosi addosso la pesante catena di una tale tutela e dovendo ascoltare tali prediche, era pienamente giustificabile che Puškin prendesse a odiare la «grandezza morale», che fosse pervaso dal disgusto per tutti quei «vantaggi» che l’arte poteva apportare e che esclamasse, rivolto a tutti i suoi consiglieri e protettori:


Lungi da me! Che ha mai a che fare
con voialtri l’amabile poeta?


In altre parole: trovandosi in una tale situazione, per Puškin era assolutamente naturale diventare partigiano della teoria dell’arte per l’arte e rivolgersi in tal modo al poeta, e cioè a se stesso:

Tu sei sovrano: vivi pur solo, la libera via seguendo
per dove la libera tua mente ti conduce,
perfezionando i frutti dei tuoi liberi pensieri
e senza esigere premio per le nobili azioni.


D.I. Pisarev obietterebbe a questo punto che il poeta Puškin rivolge queste dure parole non ai suoi protettori, bensì al «popolo». Ma l’autentico popolo era completamente uscito dal raggio visivo della letteratura di quell’epoca. La parola «popolo» in Puškin ha lo stesso significato del termine «folla» che pure s’incontra così spesso nelle sue opere. E quest’ultimo termine, naturalmente, non si riferisce alla massa lavoratrice. Nel suo poemetto Gli Zingari ecco come Puškin definisce gli abitatori delle soffocanti città:

essi
Si vergognano dell’amore,
perseguitano il pensiero.
vendono a prezzo la propria libertà,
davanti agl’idoli il capo inchinano
chiedono denaro e catene.


Sarebbe difficile supporre che una tale definizione si riferisca, ad esempio, agli artigiani di città.
Se tutto ciò è esatto, ecco che davanti a noi si profila la seguente conclusione:


La tendenza verso l’arte per l’arte si riscontra là dove esiste un dissenso tra gli artisti e l’ambiente sociale che li circonda.


Si potrebbe obiettare, naturalmente, che l’esempio di Puškin è insufficiente per trarre una tale conclusione. Non starò a discutere o a negare. Porterò invece altri esempi derivandoli dalla storia della letteratura francese, e cioè dalla letteratura di quel paese le cui correnti di pensiero — perlomeno fino alla metà del secolo scorso — hanno incontrato i più larghi consensi in tutto il continente europeo.

I romantici francesi contemporanei di Puškin erano anch’essi — con poche eccezioni — ardenti fautori dell’arte per l’arte. Forse il più conseguente tra tutti loro, Théophile Gautier, così apostrofava i partigiani della concezione utilitaristica dell’arte:

«No, imbecilli, no gozzuti cretini, con un libro non si può fare una minestra di gelatina, e con un romanzo non si può fare un paio di stivali senza cuciture... Lo giuro per le budella di tutti i papi del futuro, del passato e del presente, no, duecentomila volte no... Io appartengo al numero di coloro che considerano indispensabile il superfluo; il mio amore per le cose e gli uomini è inversamente proporzionale ai servigi che essi possono rendermi»(7).


Lo stesso Gautier, in una sua nota biografica su Baudelaire, loda altamente l’autore del Fleurs du mal per il fatto di aver difeso «l’autonomie absolue de l’art et qu’il n’admettait pas que la poésie eut d’autre but qu’elle méme et d’autre mission á remplir que d’exciter dans l’âme du lecteur la sensation du beau, dans le sens absolu du terme»(a).

Come male si accordasse, nella mente di Gautier, l’«idea del bello» con le idee sociali e politiche, lo si può constatare da questa sua dichiarazione:


«Con gran gioia (très joyeusement) rinuncerei a tutti i miei diritti di francese e di cittadino per vedere un quadro autentico di Raffaello o una bella donna nuda».


Non è possibile andare più oltre su questa strada. E tra l’altro si sarebbero probabilmente trovati d’accordo con Gautier tutti i parnassiani, anche se qualcuno di loro avrebbe forse fatto qualche riserva sulla forma troppo paradossale in cui egli — specialmente in gioventù — espresse l’esigenza dell’«assoluta autonomia dell’arte».

Da dove ebbe origine una simile tendenza nei romantici e nei parnassiani francesi? Forse anch’essi si trovavano in dissenso con l’ambiente sociale che li circondava?

Nel 1857 Gautier, in un suo articolo sulla ripresa al Théâtre Français del dramma Chatterton di De Vigny, ricorda la prima rappresentazione del dramma che aveva avuto luogo il 12 febbraio 1835. A questo proposito egli racconta quanto segue:

«La platea davanti alla quale si presentava Chatterton era piena zeppa di giovanotti pallidi, dai capelli lunghi, tutti fermamente convinti che l’unica occupazione veramente degna consistesse nello scrivere versi o dipingere quadri… essi consideravano i “bourgeois” con un disprezzo tale che può appena trovare un termine di confronto nel disprezzo con cui gli studenti di primo anno di Heidelberg o di Jena gratificano i filistei»(8).


Ma chi erano questi disprezzati «bourgeois»?


«Nel numero dei “bourgeois” rientravano quasi tutti, — risponde Gautier, — banchieri, sensali, notai, mercanti, bottegai ecc., in una parola tutti coloro che non appartenevano al misterioso cénacle (e cioè al circolo dei romantici) e che si procuravano i mezzi per vivere in maniera prosaica».


Ed ecco un’altra testimonianza. Nel commento ad una delle sue Odes funambulesques Teodor De Banville confessa di essere anche lui passato attraverso la fase dell’odio contro i «bourgeois». In questa occasione anch’egli ci chiarisce chi erano quelli che così venivano definiti dai romantici: nel gergo dei romantici la parola bourgeois «stava ad indicare un uomo che s’inchinasse soltanto alla moneta da cinque franchi, che non aveva altro ideale che la conservazione della propria pelle, e che in letteratura apprezzava il romanzo sentimentale, nelle arti plastiche la litografia».


Ricordando tutto ciò, De Banville prega i suoi lettori di non meravigliarsi del fatto che nelle sue Odes funambulesques — le quali, notate bene, comparvero nella fase più tarda del periodo romantico — vengono svillaneggiati come gli ultimi dei mascalzoni uomini colpevoli solo di aver condotto un tipo di vita borghese e di non essersi inchinati di fronte ai geni romantici.


Queste testimonianze dimostrano in maniera abbastanza convincente che i romantici in realtà si trovavano in contrasto con la società borghese che li circondava. E’ vero che in questo dissenso non vi era nulla di pericoloso per i rapporti sociali borghesi. A questi circoli romantici appartenevano giovani borghesi che non avevano proprio nulla contro i suddetti rapporti, ma allo stesso tempo erano sconvolti dal sudiciume, dal tedio e dalla volgarità dell’esistenza borghese. La nuova arte, per la quale essi nutrivano tanto entusiasmo, costituiva per loro un’evasione appunto dal sudiciume, dalla noia e dalla volgarità. Negli ultimi anni della restaurazione e nella prima metà del regno di Luigi Filippo — e cioè nel periodo migliore del romanticismo — per la gioventù francese era tanto più difficile adattarsi al sudiciume, alla prosa e alla noia borghese, in quanto poco prima la Francia aveva attraversato le terribili tempeste della grande rivoluzione e dell’epoca napoleonica che avevano profondamente agitato tutte le passioni umane(9). Quando la borghesia occupò la posizione dominante nella società e quando la sua vita non venne più riscaldata dal fuoco della lotta liberatrice, allora alla nuova arte rimase aperta una sola strada: l’idealizzazione della negazione del tipo di vita borghese. L’arte romantica fu appunto una tale idealizzazione. I romantici si sforzarono di esprimere il loro atteggiamento di negazione nei confronti della moderazione e della precisione borghese non soltanto nelle loro opere d’arte, ma anche nel loro aspetto esteriore. Abbiamo già sentito da Gautier che i giovani che riempivano la platea alla prima rappresentazione del Chatterton portavano i capelli lunghi. Chi non ha sentito parlare del panciotto rosso di Gautier che destava l’orrore della «gente perbene»? Questi abiti fantastici, come anche i capelli lunghi, servivano ai giovani romantici come mezzo per contrapporsi agli odiati borghesi. Anche il pallore del volto era uno di questi mezzi: tale pallore costituiva una protesta contro la sazietà borghese. Gautier scrive: «A quell’epoca nella scuola romantica regnava la moda di avere — per quanto era possibile — un colorito pallido, o anche verdastro, se non addirittura cadaverico del volto. Ciò conferiva al giovane un aspetto fatale, byroniano, testimoniava del fatto che egli era tormentato dalle passioni e straziato dai rimorsi della coscienza, rendendolo interessante agli occhi delle donne». Nello stesso Gautier noi leggiamo che i romantici facevano fatica a perdonare a Victor Hugo il suo decoroso aspetto esteriore, e più d’una volta, in conversazioni intime, espressero il loro dispiacere per questa debolezza del geniale poeta, debolezza che «lo avvicinava all’umanità e addirittura alla borghesia». Bisogna in generale tener presente che negli sforzi esplicati dagli uomini per assumere questo o quell’altro aspetto esteriore si riflettono sempre i rapporti sociali di quell’epoca determinata. Su questo tema si potrebbe scrivere un’interessante ricerca sociologica.


Dati i rapporti esistenti tra i giovani romantici e la borghesia, è chiaro che i primi non potevano non essere indignati dalla concezione dell’«arte utile». Rendere utile l’arte significava ai loro occhi obbligarla a servire quegli stessi borghesi che essi disprezzavano così profondamente. In tal modo si spiegano le impertinenti apostrofi di Gautier contro i predicatori dell’utilità dell’arte da me qui sopra riportate, predicatori che egli degna degli epiteti di «imbecilli, gozzuti cretini» e così via. In tal modo si spiega anche quella sua frase paradossale secondo la quale il valore degli uomini e delle cose sarebbe ai suoi occhi inversamente proporzionale all’utilità che essi apportano. Tutte queste apostrofi e paradossi per il loro contenuto sono assolutamente equivalenti al puškiniano:


Lungi da me! Che ha mai a che fare
con voialtri l’amabile poeta?


I parnassiani e i primi realisti francesi (Goncourt, Flaubert e altri) nutrivano anch’essi un infinito disprezzo per la società borghese in cui vivevano. Anch’essi ingiuriavano continuamente i borghesi da loro così odiati. Se anche pubblicavano le loro opere, essi lo facevano — per loro stessa ammissione — niente affatto per un vasto pubblico di lettori, bensì solo per pochi eletti, «per degli ignoti amici», come dice Flaubert in una delle sue lettere. Essi erano dell’opinione che soltanto uno scrittore di talento modesto poteva piacere a un pubblico abbastanza vasto di lettori. Secondo Leconte de Lisle, un grande successo è un segno del fatto che lo scrittore si trova a un basso livello intellettuale (signe d’infériorité intellectuelle). E’ appena necessario aggiungere che — come i romantici — anche i parnassiani erano incondizionati sostenitori della teoria dell’arte per l’arte.


Si potrebbero portare molti altri esempi analoghi, ma ciò non è affatto necessario. Noi possiamo vedere ormai con sufficiente chiarezza che l’inclinazione degli artisti alla teoria dell’arte per l’arte insorge naturalmente là dove essi si trovano in contrasto con l’ambiente che li circonda. Ma non sarà inutile cercare di definire più esattamente un tale dissenso.


Alla fine del diciottesimo secolo, e cioè nell’epoca immediatamente precedente la grande rivoluzione, gli artisti progressisti francesi si trovavano anch’essi in contrasto con l’ordine sociale allora dominante. David e i suoi amici erano avversari dell’«ancien regime». Anche il loro dissenso era, naturalmente, disperato nel senso che tra l’antico regime e loro era assolutamente impossibile una conciliazione. Anzi il dissenso di David e dei suoi amici nei confronti dell’antico regime era incomparabilmente più profondo del dissenso tra i romantici e la società borghese: David e i suoi amici aspiravano all’eliminazione dell’antico regime, mentre Théophile Gautier e coloro che la pensavano come lui non avevano nulla — come ho già detto più di una volta — contro i rapporti sociali borghesi, e volevano soltanto che la macchina borghese la smettesse di dare origine alla volgare moralità borghese(10). Ma, ribellandosi all’antico regime, David e i suoi amici sapevano bene che dietro di loro avrebbe marciato, in fitta schiera, quel terzo stato che, secondo il noto detto dell’abate Sieyès, ben presto sarebbe diventato tutto. Quindi il sentimento di dissenso nei confronti dell’ordine di cose esistente si fondeva in essi con l’interesse per la nuova società che si veniva formando nelle viscere della vecchia e si preparava a sostituirla. Ma nei romantici e nei parnassiani noi non vediamo affatto questo: essi non aspettano e non desiderano dei mutamenti nell’assetto sociale della Francia di quel tempo. Pertanto il loro dissenso con la società in cui vivono è assolutamente privo di speranza(11). Neppure il nostro Puškin si attendeva un qualche cambiamento nella Russia di allora. Poi, al tempo di Nicola I, anche lui forse aveva smesso di desiderarli. Per questa ragione la sua considerazione della vita sociale si tingeva di pessimismo.


Adesso — a quanto mi sembra — sono in grado di completare la mia precedente conclusione e dire così:


La tendenza di artisti e di persone vivamente interessate all’attività artistica ad accogliere la teoria dell’arte per l’arte si manifesta sul fondamento di un loro dissenso privo di prospettive con l’ambiente sociale che li circonda.


Questo non è ancora tutto. L’esempio dei nostri «uomini degli anni sessanta», che credevano fermamente in un non lontano trionfo della ragione e anche l’esempio di David e dei suoi amici che con non minore fermezza nutrivano la stessa fede, ci dimostra che la cosiddetta considerazione utilitaristica dell’arte, e cioè la tendenza ad attribuire alle opere d’arte il significato di una condanna sui fenomeni della vita, e la gioiosa disposizione — che alla prima sempre si accompagna — a prender parte alle lotte sociali, si manifesta e si rafforza là dove si riscontra una reciproca simpatia tra una notevole parte della società e la gente che più o meno attivamente s’interessa alla creazione artistica.


Fino a qual punto ciò sia vero, ci viene definitivamente dimostrato dal seguente fatto.
’arte per l’arte la rinnegarono decisamente. Perfino Baudelaire, che in seguito Gautier avrebbe citato quale modello di artista incrollabilmente convinto della necessità di un’incondizionata autonomia dell’arte, si accinse immediatamente a pubblicare la rivista rivoluzionaria «Le salut public». E’ vero che la pubblicazione di quella rivista s’interruppe ben presto, eppure ancora nel 1852, nella prefazione alle Chansons di Pierre Dupont, Baudelaire definiva puerile la teoria dell’arte per l’arte e proclamava che l’arte doveva servire a fini sociali. Soltanto la vittoria della controrivoluzione fece definitivamente tornare Baudelaire ed altri artisti a lui vicini per il modo di sentire, alla «puerile» teoria dell’arte per l’arte. Uno dei futuri astri del Parnaso, Leconte de Lisle, rivelò in maniera straordinariamente chiara il senso psicologico di un tale ritorno nella prefazione ai suoi Poèmes antiques, la cui prima edizione uscì nel 1852. In questo suo scritto noi leggiamo che la poesia ormai non susciterà più azioni eroiche né ispirerà più la virtù civile, giacché adesso — come in tutte le epoche di decadenza letteraria — la sua sacra lingua può esprimere soltanto le mesquines impressions personnelies... e n’est plus apte à enseigner l’homme (b). Rivolgendosi ai poeti, Leconte de Lisle dice che il genere umano — di cui un tempo essi erano stati i maestri — li aveva ormai superati. Ora, secondo le parole del futuro parnassiano, il compito della poesia consiste nel donner la vie idéale à celui qui n’a pas la vie réelle (c). In queste profonde parole ci viene rivelato tutto l’enigma psicologico della tendenza all’arte per l’arte. In seguito avremo più di una volta occasione di tornare alla prefazione di Leconte de Lisle qui citata.


Per concludere con questo aspetto del problema, aggiungerò che qualsiasi autorità politica determinata presuppone sempre una considerazione utilitaristica dell’arte, almeno per quanto — si intende — essa rivolga la sua attenzione a tale argomento. E ciò è anche comprensibile: è infatti nel suo interesse indirizzare tutte le ideologie al servizio di quella causa che essa stessa serve. E siccome ogni potere politico, anche se un tempo sia stato rivoluzionario, perlopiù è conservatore, se non addirittura reazionario, già da questo si può vedere che non è il caso di pensare che la considerazione utilitaristica dell’arte sia condivisa soprattutto dai rivoluzionari o in genere da persone di vedute progressiste. La storia della letteratura russa ci dimostra in maniera molto evidente che una tale teoria non era affatto estranea neppure ai nostri reazionari.

Ecco alcuni esempi. Nel 1814 comparvero le prime tre parti del romanzo di V.T. Narežnyj: Un Gil Blas russo, o le avventure del principe Gavrila Simonovič Čistjakov. Questo romanzo venne allora proibito per ordine del ministro dell’educazione nazionale conte Razumovskij, il quale in quell’occasione espresse la seguente concezione dei rapporti esistenti tra le belle lettere e la vita:

«Avviene spesso che gli autori di romanzi — sebbene, a quanto pare, si armino contro i vizi — li rappresentino tuttavia con tali colori e li descrivano in maniera così particolareggiata che perciò stesso destano l’entusiasmo dei giovani per vizi di cui sarebbe stato molto più utile non parlare affatto. Qualunque possa essere il pregio letterario dei romanzi, essi possono venir pubblicati solo nel caso che presentino finalità autenticamente morali».


Come vedete, Razumovskij pensava che l’arte non potesse essere fine a se stessa.
Proprio allo stesso modo consideravano l’arte anche quei servi di Nicola I i quali — per la carica ufficiale che occupavano — non potevano fare a meno di avere una concezione dell’arte. Ricorderete che Benkendorf si preoccupava d’indirizzare Puškin sulla retta via. Neppure Ostrovskij andò immune dallo zelo delle autorità. Quando, nel marzo 1850, venne pubblicata la sua commedia Con quelli di casa ci si arrangia, e quando alcuni illuminati amatori della letteratura e... del commercio manifestarono il timore che quella commedia potesse offendere i mercanti, l’allora ministro dell’educazione nazionale, principe P. A. Širinskij-Šichmatov, impose al provveditore del distretto scolastico di Mosca di convocare il drammaturgo debuttante e «fargli capire che il nobile e utile scopo del talento non deve consistere soltanto nella viva rappresentazione di ciò che é ridicolo e sciocco bensì anche nella sua giusta riprovazione; non soltanto nella caricatura, bensì anche nella divulgazione di un alto sentimento morale: di conseguenza nell’opporre al vizio la virtù, e ai quadri di ciò che è ridicolo e sciocco, pensieri e azioni tali che innalzino l’animo; in sostanza, nella conferma di quella credenza così importante per la vita sociale e privata che il delitto trova la sua degna punizione già su questa terra».


Lo stesso imperatore Nikolaj Pavlovič concepiva il compito dell’arte essenzialmente da un punto di vista «morale». Come sappiamo, egli condivideva l’opinione di Benkendorf sui vantaggi presentati dall’addomesticamento di Puškin. Della commedia Non sederti nella slitta altrui, scritta in un’epoca in cui Ostrovskij, caduto sotto l’influenza degli slavofili, era solito dire, durante allegri festini, che egli, con l’aiuto di certi suoi amici, avrebbe «fatto tornare indietro tutta l’opera di Pietro», di questa commedia in un certo senso pur sempre abbastanza edificante, Nicola I ebbe a dire elogiandola: «Ce n’est pas une pièce, c’est une leçon»(d). Per non stare a moltiplicare inutilmente gli esempi mi limiterò ad esporre ancora due fatti. Il Telegrafo di Mosca di N. Polevoj precipitò definitivamente nell’opinione del governo di Nicola e venne proibito quando in esso venne pubblicato un giudizio sfavorevole del dramma «patriottico» di Kukol’nik La mano dell’Onnipossente ha salvato la patria. Quando invece lo stesso N. Polevoj scrisse dei drammi patriottici, come Il nonno della flotta russa e Il mercante Igolkin, allora — come ci racconta il fratello di Polevoj — il sovrano fu entusiasta del suo talento drammatico: «L’autore ha un talento straordinario, — dichiarò — egli deve scrivere, scrivere e scrivere! Ecco cosa deve fare (il sovrano sorrise) e non pubblicare riviste»(12).


E non crediate che le autorità russe costituiscano un’eccezione in questo caso. No; un tipico rappresentante dell’assolutismo quale fu in Francia Luigi XIV era non meno fermamente convinto del fatto che l’arte non può essere un fine in sé, e che deve invece contribuire all’educazione morale degli uomini. E tutta la letteratura, tutta l’arte del famoso secolo di Luigi XIV sono profondamente pervase da una tale convinzione. Allo stesso modo, anche Napoleone I avrebbe considerato la teoria dell’arte per l’arte una nociva invenzione di sgraditi «ideologi». Anch’egli voleva che la letteratura e l’arte si ponessero al servizio di scopi morali. E ciò egli riuscì anche a ottenere in misura notevole, dal momento che, ad esempio, gran parte dei quadri che venivano esposti alle esposizioni periodiche del tempo (i Salones) erano dedicati alla rappresentazione delle imprese militari del consolato e dell’impero. Il suo piccolo nipote Napoleone III seguì in questo le sue orme, anche se con molto minore successo. Anche lui avrebbe voluto costringere l’arte e la letteratura a mettersi al servizio di ciò che egli chiamava moralità. Nel novembre 1852 un professore di Lione, Laprade, derise causticamente questa pretesa bonapartista di un’arte edificante in una sua satira intitolata Les Muses d’Etat. Nella sua satira egli prevedeva che sarebbe arrivato ben presto un tempo in cui le muse di stato avrebbero sottoposto la ragione umana a una disciplina soldatesca, e allora avrebbe regnato l’ordine, allora nessun scrittore avrebbe più osato esprimere neanche il più piccolo scontento.

Il faut être content, s’il pleut, s’il fait soleil,
s’il fait chaud, s’il fait froid: «Ayez le teint vermeil,
je déteste les gens maigres, à face pâle;
celui qui ne rit pas mérite qu’on l’empale,
(e)


Ricordo di passaggio che per la sua arguta satira Laprade perdette il suo posto di professore. Il governo di Napoleone III non tollerava ironie sul conto delle «muse di stato».

Ma lasciamo da parte le «sfere» governative. Tra gli scrittori francesi del secondo impero s’incontrano persone che rifiutavano la teoria dell’arte per l’arte non certo per delle considerazioni progressiste. Così, ad esempio, Alessandro Dumas figlio dichiarò categoricamente che le parole «l’arte per l’arte» non hanno nessun senso. Con le sue commedie Le Fil naturel e Le Père prodigue egli perseguiva certi fini sociali. Egli considerava necessario sostenere con le sue opere la «vecchia società» che — secondo le sue parole — faceva acqua da tutte le parti.


Nel 1857 Lamartine, facendo il bilancio dell’attività letteraria di Alfred De Musset, allora appena scomparso, rimpianse il fatto che tale attività non fosse stata impiegata ad esprimere delle fois religiose, sociali, politiche o patriottiche, e rimproverava i poeti a lui contemporanei di trascurare il significato delle loro opere per preoccupazioni di ritmo o di metro. Infine — per citare anche una personalità letteraria molto meno significativa — Maxime Du Camp condannava l’esclusiva predilezione per la forma esclamando:


La forme est belle, soit! quand l’idée est au fond!
Qu’est ce donc qu’un beau front, qui n’a pas de cervelle?


Egli attacca il capo della scuola romantica in pittura per il fatto che «così come certi letterati hanno creato l’arte per l’arte, allo stesso modo il signor Delacroix ha inventato il colore per il colore. La storia e l’umanità a lui servono soltanto da pretesto per combinare delle sfumature coloristiche ben scelte». Secondo l’opinione di questo scrittore la scuola dell’arte per l’arte avrebbe fatto definitivamente il suo tempo(13). Sarebbe difficile sospettare Lamartine e Maxime Du Camp così come Alessandro Dumas figlio — di nutrire aspirazioni sovversive. Essi respingono la teoria dell’arte per l’arte non perché vogliano sostituire l’ordine sociale borghese con qualche altra nuova organizzazione sociale, ma perché al contrario vorrebbero rafforzare i rapporti borghesi notevolmente scossi dal movimento di liberazione del proletariato. Sotto questo aspetto essi si distinguevano dai romantici, e in particolare dai parnassiani e dai primi realisti, soltanto per il fatto che incomparabilmente meglio di loro si adattavano al modo di vita borghese. Essi erano dei conservatori ottimisti, mentre gli altri erano dei pessimisti altrettanto conservatori.

Da tutto ciò consegue in maniera assolutamente convincente che la concezione utilitaristica dell’arte va d’accordo altrettanto bene con le tendenze conservatrici quanto con le rivoluzionarie. L’inclinazione a condividere una tale concezione presuppone come necessaria un’unica condizione: un vivo e attivo interesse per un certo — qualunque poi esso sia concretamente — ordine o ideale sociale; viceversa tale inclinazione alla concezione utilitaristica dell‘arte scompare dovunque un tale interesse per un certo ordine sociale viene a mancare per una qualsiasi ragione.

Ora andiamo avanti e consideriamo quale delle due opposte concezioni dell’arte sia più favorevole al successo dell’arte stessa.
Come tutte le questioni relative alla vita sociale e al pensiero sociale, anche questa non ammette una soluzione incondizionata. Qui tutto dipende dalle particolari condizioni di tempo e luogo. Ricordiamoci di Nicola I e dei suoi servi; essi avrebbero voluto fare di Puškin, di Ostrovskij e di altri artisti a loro contemporanei dei servitori della moralità come l’intendeva il corpo dei gendarmi. Supponiamo per un attimo che essi fossero riusciti a realizzare questa loro ferma intenzione. Che cosa ne sarebbe risultato? La risposta non è difficile. Le muse di quegli artisti, sottoposte a una tale influenza, divenute cioè «muse di stato», avrebbero ben presto manifestato i più evidenti segni di decadenza e avrebbero perso quasi tutta la loro veridicità, forza e attrattiva.

La poesia di Puškin Ai calunniatori della Russia non può certo essere inserita nel numero delle sue migliori creazioni poetiche. La commedia di Ostroyskij Non sederti nella slitta altrui, riconosciuta benevolmente come «un’utile lezione», non si saprebbe davvero dire quanto possa considerarsi riuscita. Eppure in quella commedia Ostrovskij aveva fatto appena qualche passo in direzione dell’ideale che i Benkendorf, gli Širinskij-Šichmatov e gli altri della loro risma, fautori dell’arte utile, aspiravano a realizzare.

Supponiamo inoltre che Théophile Gautier, Théodor de Banville, Leconte de Lisle, Baudelaire, i fratelli Goncourt, Flaubert, e insomma tutti i romantici, i parnassiani e i primi realisti francesi si fossero conciliati con l’ambiente borghese in mezzo a cui vivevano e avessero messo le loro muse al servizio di quei signori che — secondo l’espressione di Banville — apprezzavano prima e al di sopra di ogni cosa la moneta da cinque franchi. Quale sarebbe stato il risultato?

Anche in questo caso non è difficile rispondere. I romantici, i parnassiani e i primi realisti francesi sarebbero caduti molto in basso. Le loro opere sarebbero diventate molto meno forti, molto meno veritiere e molto meno attraenti. Che cosa è superiore dal punto di vista del pregio artistico: Madame Bovary di Flaubert oppure Le gendre de monsieur Poirier di Augier? Sembrerebbe che non ci sia nemmeno da domandarselo. La differenza in questo caso non sta soltanto nel talento. La volgarità del talento drammatico di Augier, che costituisce un’autentica apoteosi della meschinità e della precisione borghese, presupponeva inevitabilmente procedimenti creativi completamente diversi da quelli di cui si sono serviti Flaubert, Goncourt e gli altri realisti che hanno voltato sprezzantemente le spalle appunto alla meschinità e precisione borghese. Infine anche la circostanza che l’una tendenza letteraria attirava molti più ingegni dell’altra doveva bene avere una sua causa.


Ma cosa dimostra tutto ciò?


Dimostra una cosa che mai avrebbero ammesso i romantici del genere di Théophile Gautier, e cioè che il pregio di un’opera d’arte è determinato in ultima analisi dal peso specifico del suo contenuto. T. Gautier diceva che la poesia, non soltanto non dimostra nulla, ma non racconta neanche nulla, e che la bellezza di una poesia è condizionata dalla sua musica, dal suo ritmo. Ma ciò è un gravissimo errore. E’ vero precisamente il contrario: le opere poetiche, e in generale le opere artistiche, raccontano sempre qualcosa perché esprimono sempre qualcosa. Naturalmente esse «raccontano» in un modo a loro tutto particolare. L’artista esprime la propria idea in immagini, mentre il pubblicista dimostra il proprio pensiero ricorrendo a conclusioni logiche. E se lo scrittore, invece che con immagini, operasse con deduzioni logiche, oppure se le immagini venissero da lui inventate per dimostrare una certa tesi, in tal caso egli non sarebbe più un artista, bensì un pubblicista, anche se non scrivesse saggi o articoli, bensì romanzi, racconti e opere drammatiche. Questo è senz’altro vero. Ma da tutto ciò non consegue affatto che l’idea non abbia importanza nell’opera d’arte. Anzi dirò di più: non può esistere un’opera d’arte che sia priva di un contenuto ideale. Perfino quelle opere i cui autori si preoccupano soltanto della forma e trascurano il contenuto, anche queste, in un modo o nell’altro, esprimono comunque una certa idea. Gautier, che non si preoccupava del contenuto ideale delle sue opere poetiche, asseriva — come abbiamo visto — che egli era pronto a sacrificare tutti i suoi diritti politici di cittadino francese per il piacere di vedere un Raffaello autentico o una bella donna nuda. L’una cosa era strettamente collegata con l’altra: la cura esclusiva della forma era condizionata dall’indifferentismo politico-sociale. Le opere i cui autori apprezzano soltanto la forma esprimono sempre — come ho chiarito già prima — il noto atteggiamento disperatamente negativo dei loro autori nei confronti dell’ambiente sociale che li circonda.

E proprio in ciò consiste l’idea comune a tutti questi artisti, idea che è espressa in modi diversi e specifici da ognuno di essi. Ma se è vero che non esiste nessuna opera d’arte completamente priva di un contenuto ideale, è anche vero che non ogni idea può venire espressa in un’opera d’arte. Ruskin dice benissimo: una fanciulla può cantare il suo amore perduto, ma un avaro non può cantare i suoi soldi perduti. E osserva molto giustamente che il pregio delle opere d’arte viene definito dalla elevatezza dello stato d’animo da esse espresso. «Interrogate voi stessi sul conto di un qualsiasi sentimento che occupi fortemente la vostra anima, — dice Ruskin, — chiedetevi se esso potrebbe essere cantato da un poeta, se esso potrebbe ispirare un poeta in un senso autentico e positivo. Se la risposta è sì, questo sentimento è buono. Se invece esso non può venir cantato, oppure se può ispirare un poeta soltanto sotto un aspetto comico, ciò significa che si tratta di un sentimento meschino. E non potrebbe essere altrimenti. L’arte è uno dei mezzi di comunione spirituale tra gli uomini. E quanto è più alto il sentimento espresso da una data opera d’arte, con tanta maggiore efficacia — restando costanti le altre condizioni — tale opera può svolgere il suo compito di mezzo per il fine indicato. Perché un avaro non può cantare i suoi denari perduti? E’ molto semplice: perché se egli si mettesse a cantare una tale perdita, il suo canto certo non commuoverebbe nessuno e quindi non potrebbe servire da mezzo di comunione tra lui e gli altri uomini».


Mi si potrebbe portare l’esempio dei canti militari e chiedermi: forse la guerra può servire da mezzo d’unione tra gli uomini? A ciò rispondo che le poesie di guerra, che esprimono l’odio contro il nemico, cantano allo stesso tempo lo spirito di sacrificio dei combattenti, il fatto che essi sono pronti a morire per la loro patria, il loro governo, e così via. Appunto nella misura in cui tali canti esprimono una tale disposizione, essi possono servire da mezzo di comunione tra gli uomini entro confini (tribù, comunità, stato) la cui ampiezza viene definita dal livello di sviluppo culturale raggiunto dall’umanità o — per essere più precisi — da una sua parte.


I.S. Turgenev, che non nutriva nessuna simpatia per i predicatori dell’arte utilitaristica, ebbe a dire una volta: la Venere di Milo è più certa dei principi dell’89. Egli aveva perfettamente ragione. Ma che cosa consegue da ciò? Una cosa completamente diversa da ciò che avrebbe voluto dimostrare I.S. Turgenev.


Al mondo c’è moltissima gente la quale non soltanto «dubita» dei principi dell’89, ma che anzi non ne ha assolutamente nessuna cognizione. Chiedete a un’ottentotto, che non abbia frequentato una scuola europea, che cosa pensi di questi principi. Vi convincerete che non ne ha nemmeno sentito parlare. Ma l’ottentotto non sa nulla non soltanto dei principi dell’89, ma nemmeno della Venere di Milo. Ma se gli capiterà di vedere la Venere di Milo, certo «avrà dei dubbi» su di essa. Egli infatti ha un proprio ideale della bellezza le cui raffigurazioni s’incontrano spesso nelle opere di sociologia sotto il nome di Venere ottentotta. La Venere di Milo è «indubitabilmente» attraente soltanto per una certa parte degli uomini di razza bianca. Per questa parte della razza bianca essa è effettivamente più certa dei principi dell’89. Ma per quel motivo? Solo perché questi principi esprimono dei rapporti che corrispondono soltanto a una determinata fase di sviluppo della razza bianca, cioè il periodo dell’affermazione dell’ordine borghese nella sua lotta contro quello feudale(14), mentre la Venere di Milo costituisce un ideale di bellezza femminile che corrisponde a più fasi di sviluppo della razza bianca. A più fasi, ma non a tutte. I cristiani avevano un loro ideale di bellezza femminile, ideale che si può trovare nelle icone bizantine. Tutti sanno che gli adoratori di queste icone nutrivano fortissimi «dubbi» sulle Veneri di ogni tipo, compresa quella di Milo. Essi le gratificavano dell’appellativo di diavolesse e le distruggevano dovunque avessero la possibilità di farlo. In seguito è subentrata un’epoca in cui le antiche diavolesse sono tornate a piacere agli uomini di razza bianca. Quest’epoca è stata preparata da un movimento di liberazione nell’ambito degli abitanti delle città dell’Europa occidentale, e cioè proprio da quel movimento che si è manifestato nel modo più evidente proprio nei principi dell’89. Pertanto contro Turgenev noi possiamo affermare che la Venere di Milo è diventata tanto più «certa» nella nuova Europa quanto più maturi diventavano i popoli europei per la proclamazione dei principi dell’89. Questo non è un paradosso, ma una semplice considerazione storica. Tutto il senso della storia dell’arte nell’epoca rinascimentale — considerato dal punto di vista del concetto della bellezza — consiste nel fatto che l’ideale cristiano-monastico viene respinto gradualmente in secondo piano da quell’ideale terreno il cui insorgere era condizionato dal movimento liberatore delle città, mentre la sua elaborazione veniva resa più agevole dal ricordo delle antiche diavolesse. Perfino Belinskij, il quale nell’ultimo periodo della sua attività letteraria affermava con piena giustizia che «l’arte pura, distaccata, incondizionata, o, come dicono i filosofi, assoluta, non esiste e non è mai esistita in nessun luogo», ammetteva tuttavia che le opere pittoriche della scuola italiana del XVI secolo si avvicinavano fino a un certo punto all’ideale dell’arte assoluta, giacché esse apparivano come il prodotto di un’epoca durante la quale «l’arte costituiva l’interesse principale, che occupava in maniera esclusiva la parte coltivata della società». Egli portava come esempio la «Madonna di Raffaello, questo chef-d’oeuvre della pittura italiana del XVI secolo», e cioè la cosiddetta «Madonna Sistina», che si trova alla galleria di Dresda. Ma le scuole pittoriche italiane del XVI secolo portano a compimento un lungo processo di lotta dell’ideale terreno contro l’ideale cristiano-monastico. E per quanto esclusivo potesse essere l’interesse della parte più colta della popolazione del XVI secolo per l’arte(15), è innegabile il fatto che le madonne di Raffaello costituiscono una delle più caratteristiche espressioni artistiche della vittoria dell’ideale terreno su quello cristiano-monastico. Ciò si può affermare senza alcuna esagerazione perfino di quelle madonne che furono dipinte all’epoca in cui Raffaello si trovava ancora sotto l’influenza del suo maestro Perugino, sui volti delle quali si riflette in maniera evidente uno stato d’animo meramente religioso. Attraverso la loro apparenza religiosa si scorge una tale forza e una così sana gioia di vivere schiettamente terrena che in esse non si trova più nulla di comune con le pie Vergini dei maestri bizantini(16).


Le opere dei maestri italiani del XVI secolo erano così poco creazioni di «arte assoluta», quanto le opere di tutti i maestri precedenti, a cominciare da Cimabue e da Duccio di Boninsegna. L’arte assoluta effettivamente non è mai esistita in nessun luogo. E se I.S. Turgenev si è richiamato alla Venere di Milo come prodotto di una tale arte «assoluta», ciò è accaduto unicamente perché anch’egli — come tutti gli idealisti — aveva un’errata concezione del reale cammino seguito dall’evoluzione estetica dell’umanità.


L’ideale di bellezza che domina in una certa epoca, in una certa società, o in una certa classe della società, ha le sue radici in parte nelle condizioni biologiche di sviluppo del genere umano — che determinano, tra l’altro, anche le particolarità di razza — e in parte nelle condizioni storiche in cui questa società o questa classe si è formata ed esiste. E appunto per questo tale ideale è sempre molto ricco di un contenuto assolutamente determinato e per nulla assoluto, cioè non incondizionato. Chi s’inchina alla «bellezza pura», non si rende per questo affatto indipendente da quei condizionamenti biologici e storico-sociali da cui viene determinato il suo gusto estetico, mentre chiude più o meno consapevolmente gli occhi su tali condizionamenti. Questo è accaduto — tra l’altro — anche ai romantici del tipo di Théophile Gautier. Ho già detto che il suo esclusivo interesse per la forma delle opere poetiche si trovava in stretto legame causale con il suo indifferentismo politico-sociale.


Un tale indifferentismo intanto elevò il pregio delle sue creazioni poetiche in quanto lo preservò dal farsi sedurre dalla volgarità, dalla meschinità e dalla precisione borghese. Ma esso allo stesso tempo sminuì tale pregio in quanto limitò l’orizzonte mentale di Gautier e gli impedì di appropriarsi delle idee progressiste del suo tempo. Prendiamo la già citata prefazione a Mademoiselle de Maupin, che contiene delle apostrofi addirittura infantilmente impertinenti contro i difensori della concezione utilitaristica dell’arte. Gautier in questa prefazione esclama:


«Mio Dio! Quant’è sciocca questa immaginaria facoltà umana di autoperfezionamento di cui ci hanno tanto riempito gli orecchi! Si potrebbe pensare che la macchina umana sia capace di migliorarsi, e che, aggiustando qualche sua rotella o migliorando la disposizione delle sue parti, potremmo portarla a svolgere più agevolmente le sue funzioni».


Per dimostrare che le cose non stanno così, Gautier cita il maresciallo Bassompierre, che vuotava alla salute dei suoi cannoni un intero stivale di vino. Gautier osserva che sarebbe stato altrettanto difficile migliorare il record del maresciallo nella questione del bere, quanto per un uomo d’oggi superare nel mangiare il famoso Milone di Crotone, che era capace di mangiarsi in una volta sola un bove intero. Queste osservazioni — di per sé assolutamente giuste — sono quanto mai caratteristiche della teoria dell’arte per l’arte nell’aspetto che essa ha assunto nei romantici conseguenti.


Si domanda: chi ha riempito le orecchie di Gautier con le chiacchiere sull’autoperfezionamento del genere umano? I socialisti, e in particolar modo i sansimoniani, i quali avevano avuto gran successo in Francia poco tempo prima che venisse pubblicato il romanzo Mademoiselle de Maupin. Proprio contro i sansimoniani vengono indirizzate le considerazioni — in sé perfettamente giuste di Gautier sulla difficoltà di superare il maresciallo Bassompierre nell’ubriachezza e Milone di Crotone nell’ingordigia. Ma queste considerazioni di per sé perfettamente giuste sono completamente fuori luogo se indirizzate contro i sansimoniani. L’auto-perfezionamento della razza umana di cui parlavano i sansimoniani non ha nulla di comune con l’ampliamento della capacità dello stomaco. I sansimoniani tendevano a un miglioramento dell’organizzazione sociale nell’interesse della maggior parte della popolazione, e cioè nell’interesse della sua parte lavoratrice e produttrice. Definire una sciocchezza un tale compito e chiedersi se ciò avrebbe portato ad un aumento della capacità umana di riempirsi di vino o di carne, ebbene ciò significa manifestare quella stessa limitatezza borghese che aveva già fatto inghiottire tanta bile ai giovani romantici. Ma com’era successo tutto ciò? In che modo la limitatezza borghese era penetrata furtivamente nel modo di pensare di quello stesso scrittore che pure aveva visto tutto il senso della propria esistenza nella lotta per la vita e per la morte contro di essa?


Già più di una volta, sebbene soltanto di passaggio e in un contesto diverso, ho avuto occasione di rispondere a questa domanda paragonando lo stato d’animo dei romantici con quello di David e dei suoi amici. Ho detto allora che, pur ribellandosi ai gusti e alle abitudini borghesi, i romantici tuttavia non avevano nulla contro l’assetto sociale borghese. Ora dobbiamo analizzare la cosa con maggiore attenzione.


Alcuni romantici — ad esempio George Sand all’epoca della sua amicizia con Pierre Leroux — si accostarono al socialismo. Ma queste furono eccezioni. La regola generale consisté nel fatto che i romantici, pur insorgendo contro la volgarità borghese, allo stesso tempo avevano un atteggiamento molto poco benevolo nei confronti dei sistemi socialisti che dimostravano la necessità di una riforma sociale. I romantici avrebbero voluto cambiare i costumi sociali senza però mutare minimamente l’assetto sociale. Si capisce da sé che ciò era assolutamente impossibile. Pertanto la rivolta dei romantici contro il «bourgeois» portava con sé tanto scarse conseguenze pratiche quanto il disprezzo delle matricole di Gottinga o di Jena contro i filistei. La ribellione romantica contro il «bourgeois» era completamente sterile sotto l’aspetto pratico. Ma questa sterilità pratica presentava delle conseguenze letterarie di non scarso rilievo. Essa conferiva agli eroi romantici quel carattere enfatico e sforzato che alla fin fine determinò il crollo della scuola. Il carattere enfatico e sforzato degli eroi non può in nessun caso venir considerato come un pregio dell’opera d’arte, giacché accanto al vantaggio che abbiamo indicato sopra, ora dobbiamo indicare anche un certo svantaggio: se le opere d’arte romantiche hanno guadagnato molto grazie alla rivolta dei loro autori contro il «borghese», d’altra parte esse hanno anche perduto non poco in conseguenza della mancanza di contenuto pratico di tale rivolta.


Già i primi realisti francesi tesero tutti i loro sforzi allo scopo di eliminare il difetto principale delle opere d’arte romantiche, e cioè il carattere enfatico e sforzato dei loro eroi. Nei romanzi di Flaubert non vi è nessuna traccia dell’enfasi e della gratuità romantica (fatta eccezione, forse, per Salammbò e per i Contes). I primi realisti continuano a ribellarsi contro il «bourgeois», ma essi si ribellano ormai su un altro tono. Essi non oppongono più ai volgari borghesi degli eroi fantastici, mai esistiti, bensì si sforzano di fare di questa gente volgare gli oggetti di una rappresentazione artisticamente fedele. Flaubert considerava suo dovere comportarsi con l’ambiente sociale da lui rappresentato con la stessa obiettività con cui un naturalista si comporta con la natura. «Bisogna trattare gli uomini come dei mastodonti o dei coccodrilli, — egli afferma. E’ forse possibile infervorarsi per le corna degli uni o le mascelle degli altri? Mostrateceli, fatene degli animali impagliati, riponeteli in provette piene d’alcool, ecco tutto. Ma non pronunciate dei giudizi morali sul loro conto; e del resto voi stessi cos’altro siete se non piccoli rospi?» E nella misura in cui Flaubert è riuscito a mantenersi obiettivo, i personaggi descritti nelle sue opere hanno assunto il valore di «documenti» tali che il loro studio è assolutamente indispensabile per chiunque intenda svolgere un’analisi scientifica di fenomeni socio-psicologici. L’oggettività costituiva l’aspetto più valido del suo metodo, ma — pur rimanendo obiettivo nel processo della creazione artistica Flaubert non cessò per questo di essere molto soggettivo nella valutazione dei fenomeni sociali a lui contemporanei.


In lui, come in Théophile Gautier, il feroce disprezzo per il «bourgeois» si accompagna ad una forte malevolenza verso tutti coloro che — in un modo o nell’altro — hanno attentato ai rapporti sociali borghesi. Presso di lui una tale malevolenza era anche più forte che in Gautier. Egli era un deciso avversario del suffragio universale, che definiva «vergogna dell’intelligenza umana». Con il suffragio universale, — egli scriveva a George Sand, — il numero trionfa sull’intelligenza, sulla cultura, sulla razza e perfino sul denaro che vaut mieux que le nombre». In un’altra lettera egli dice che il suffragio universale è più sciocco del vecchio «diritto per grazia di Dio». La società socialista gli appariva come un «enorme mostro che avrebbe inghiottito ogni azione individuale, ogni personalità, ogni pensiero, avrebbe diretto e fatto ogni cosa». Da ciò possiamo vedere che nella sua valutazione negativa della democrazia e del socialismo questo odiatore del «bourgeois» si trovava pienamente d’accordo con i più limitati ideologi della borghesia stessa. Questa medesima caratteristica si riscontra presso tutti i partigiani dell’arte per l’arte suoi contemporanei. In uno studio sulla vita di Edgar Poe, Baudelaire — dimentico ormai da tempo del suo rivoluzionario Salut public — dice: «In un popolo che sia stato privato dell’aristocrazia il culto del bello può soltanto guastarsi, decadere e scomparire». In un altro luogo egli afferma che esistono soltanto tre esseri rispettabili: «il prete, il soldato, il poeta». Questo non è più soltanto conservatorismo, bensì un modo di pensare decisamente reazionario. Anche Barbey d’Aurevilly si rivela altrettanto reazionario quanto Flaubert. Nel suo libro Les Poètes, parlando delle opere poetiche di Laurent Pichat, egli afferma che questi avrebbe potuto essere un grande poeta «se avesse voluto mettersi sotto i piedi l’ateismo e la democrazia, ces deux déshonneurs del suo pensiero».


Dall’epoca in cui Théophile Gautier scrisse la prefazione al suo romanzo Mademoiselle de Maupin (maggio 1835) è ormai trascorso molto tempo. I sansimoniani — che secondo lui gli riempivano le orecchie di chiacchiere sulla capacità di autoperfezionamento del genere umano — proclamavano ad alta voce la necessità di una riforma sociale. Ma, come la maggioranza dei socialisti utopisti, essi erano decisi partigiani di una pacifica evoluzione sociale, e pertanto erano anche avversari non meno decisi della lotta di classe. Per giunta i socialisti-utopisti si rivolgevano soprattutto alle classi possidenti. Essi non credevano alla capacità di azione autonoma del proletariato. Ma gli avvenimenti del 1848 dimostrarono che la capacità d’azione del proletariato poteva diventare molto pericolosa. Dopo il 1848 la questione non stava ormai più nel sapere se gli abbienti si sarebbero accinti al miglioramento del destino dei diseredati, bensì nel sapere chi avrebbe avuto il sopravvento nella lotta: gli abbienti o i diseredati. I rapporti tra le classi della nuova società si erano semplificati in maniera molto significativa; tutti gl’ideologi della borghesia avevano ormai capito che la questione essenziale stava nel sapere se la borghesia sarebbe o no riuscita a mantenere la massa lavoratrice nella sua condizione di asservimento economico. La coscienza di ciò era ormai penetrata anche nelle menti dei partigiani dell’arte per le classi abbienti. Uno dei più notevoli tra questi ultimi per la grande importanza della sua opera scientifica, Ernest Rénan, nella sua opera La Réforme intellectuelle et morale, chiedeva un governo forte «qui force de bons rustiques à faire notre part de travail pendant que nous spéculons»(17).


Questa comprensione incomparabilmente più chiara di prima — da parte degl’ideologi borghesi — del vero senso della lotta tra borghesia e proletariato non poteva non esercitare una più forte influenza sulla natura delle «riflessioni» a cui essi si dedicavano. L’Ecclesiaste dice benissimo: «Opprimendo gli altri, il saggio diventa sciocco». La scoperta da parte degl’ideologi borghesi del significato fin’allora occulto della lotta tra la loro classe e il proletariato fece sì che essi a poco a poco perdessero la capacità di svolgere una disinteressata analisi scientifica dei fenomeni sociali. E ciò sminuì in misura molto notevole l’intrinseco valore dei loro lavori più o meno dotti. Se prima l’economia politica borghese aveva potuto vantarsi di un tale gigante del pensiero scientifico quale fu David Ricardo, ora invece tra le file dei suoi rappresentanti erano dei nanetti chiacchieroni come Fréderic Bastiat a dare il tono. In filosofia si veniva sempre più rafforzando la reazione idealistica, la cui essenza consiste nella tendenza conservatrice ad accordare i successi delle nuove scienze naturali con la vecchia tradizione religiosa, o — per esprimersi più esattamente — nell’accordare l’oratorio con il laboratorio(18). Neppure l’arte sfuggì alla sorte comune. Vedremo in seguito a quali ridicole assurdità furono condotti alcuni pittori moderni dall’influenza esercitata dall’attuale reazione idealistica. Per ora dirò quanto segue.


Il modo di pensare conservatore e in parte addirittura reazionario dei primi realisti non impedì loro di studiare bene l’ambiente che li circondava e di creare delle cose molto notevoli sotto l’aspetto artistico. Ma è fuor di dubbio il fatto che un tale modo di pensare restrinse notevolmente il loro campo visivo. Voltando ostilmente le spalle al grande movimento di liberazione della loro epoca, per ciò stesso essi esclusero dal numero dei «mastodonti» e dei «coccodrilli» che venivano osservando proprio gli esemplari più interessanti e dotati di una vita interiore più ricca. Il loro rapporto oggettivo con l’ambiente da essi studiato era contrassegnato da una sostanziale mancanza di simpatia verso di esso. E naturalmente essi non potevano simpatizzare con ciò che — dato il loro conservatorismo — restava l’unica cosa accessibile alla loro osservazione: i «meschini pensieri» e le «meschine passioni» che avevano origine dal «lurido fango» della comune esistenza borghese.


Ma questa assenza di simpatia verso gli oggetti da essi osservati o inventati ben presto determinò — e doveva necessariamente determinare — anche una diminuzione del loro interesse verso di essi. Il naturalismo, di cui essi erano stati gli iniziatori con le loro stupende opere, decadde ben presto — secondo l’espressione di Huysmans — fino a diventare «un vicolo cieco, un tunnel la cui bocca d’uscita era sbarrata». Tale naturalismo — come disse Huysmans — poteva scegliere come argomento qualsiasi cosa, compresa la sifilide(19). Ma per esso restava inattingibile il movimento operaio contemporaneo. Naturalmente so bene che Zola scrisse Germinal. Ma, anche a prescindere dai lati deboli di questo romanzo, non bisogna dimenticare che se Zola — com’egli stesso ebbe a dire — cominciò allora a inclinare verso il socialismo, tuttavia quel suo cosiddetto metodo sperimentale rimase fino alla fine poco utile per lo studio e la rappresentazione dei grandi movimenti sociali. Questo metodo era collegato nel modo più stretto con il punto di vista di quel materialismo che Marx aveva definito «materialismo delle scienze naturali» e che non comprendeva che le azioni, le inclinazioni, i gusti e le abitudini mentali dell’uomo sociale non possono trovare una sufficiente spiegazione nella fisiologia o nella patologia, giacché sono condizionati da rapporti sociali. Restando fedeli a questo metodo gli artisti potevano studiare e rappresentare i loro «mastodonti» e «coccodrilli» come individui, e non come membri di un grande intero. Questo appunto sentiva Huysmans quando diceva che il naturalismo era caduto in un vicolo cieco e che ormai non gli restava altro da fare che raccontare una volta di più la relazione amorosa del primo mercante di vino che gli capitasse sotto gli occhi con una qualsiasi piccola bottegaia(20). Il racconto di relazioni di tal genere poteva presentare un interesse soltanto nel caso che gettasse della luce su un certo aspetto dei rapporti sociali come era successo nel realismo russo. Ma invece l’interesse sociale era assente nei realisti francesi. Pertanto la rappresentazione della «relazione amorosa tra il primo mercante di vino che capitasse sotto gli occhi con una qualsiasi piccola bottegaia» diventò alla fine priva d’interesse, noiosa e addirittura disgustosa. Nelle sue prime opere — ad esempio nel romanzo Les Soeurs Vatard — lo stesso Huysmans era un mero naturalista. Ma in seguito gli venne a noia la rappresentazione dei «sette peccati capitali» (sono di nuovo sue parole) ed egli respinse in blocco il naturalismo, gettando via così — secondo la nota espressione tedesca — non solo l’acqua, ma anche il bambino dalla bagnarola. In quel suo strano romanzo, in certi punti noiosissimo, ma comunque estremamente istruttivo proprio per i suoi difetti, che s’intitola A rebours, egli nel personaggio di Des Esseintes rappresentò — anzi in questo caso sarà meglio usare l’antica espressione: creò — un originale super uomo (discendente da degli aristocratici completamente degenerati) il cui tipo di vita doveva rappresentare la completa negazione del modo di vita di un «mercante di vino» e di una «piccola bottegaia». La creazione di simili tipi ha confermato una volta di più la giustezza dell’idea di Leconte de Lisle che là dove non c’è vita reale, il compito dell’arte consiste nella creazione di una vita ideale. Ma la vita ideale di Des Esseintes è fino a tal punto priva di qualsiasi contenuto umano che la sua creazione non ha aperto neppure la più piccola via d’uscita dal vicolo cieco. E così Huysmans è andato a sbattere contro il misticismo che gli è servito da via d’uscita «ideale» da una posizione da cui era impossibile uscire per la via «reale». Nelle circostanze sopra indicate ciò costituiva la soluzione più naturale possibile. Però state a vedere che cosa ne vien fuori.


L’artista che è diventato un mistico non disprezza il contenuto ideale, bensì si limita a conferirgli un carattere particolare. Anche il misticismo è un’idea, solo che si tratta di un’idea oscura, priva di forma come nebbia, e che si trova in completo contrasto con la ragione. Il mistico non solo non è contrario a raccontare, ma neppure a dimostrare.


Il fatto è che egli racconta qualcosa che «non è avvenuto», e nelle sue dimostrazioni prende come punto di partenza la negazione del buon senso. L’esempio di Huysmans ci mostra una volta di più che l’opera d’arte non può fare a meno di un contenuto ideale. Ma quando gli artisti diventano ciechi nei riguardi delle più importanti tendenze sociali del loro tempo, ecco che viene ad abbassarsi in notevolissima misura il valore intrinseco delle idee espresse nelle loro opere. E in conseguenza di ciò anche le opere stesse vengono inevitabilmente a soffrirne.


Questa circostanza è talmente importante per la storia dell’arte e della letteratura che noi dovremo considerarla attentamente da vari punti di vista. Ma prima di accingerci a questo compito faremo un bilancio delle conclusioni a cui ci ha condotto la ricerca precedente.
La tendenza all’arte per l’arte sorge e si rafforza là dove si ha un’irreparabile contrasto tra coloro che si occupano d’arte e l’ambiente sociale che li circonda. Un tale contrasto si riflette in modo vantaggioso sull’opera d’arte esattamente nella misura in cui esso aiuta gli artisti a sollevarsi al disopra dell’ambiente che li circonda. Ciò avvenne per Puškin all’epoca di Nicola I. La stessa cosa avvenne per i romantici, i parnassiani e i primi realisti in Francia. Aumentando il numero degli esempi si potrebbe dimostrare che ciò avvenne sempre là dove si determinò il su accennato contrasto. Ma pur insorgendo contro le volgari abitudini dell’ambiente sociale che li circondava, i romantici, i parnassiani e i realisti non facevano poi nulla contro i rapporti sociali in cui avevano le loro radici quelle volgari abitudini. Al contrario, pur maledicendo il «bourgeois», essi apprezzavano l’assetto borghese, dapprima solo istintivamente, ma in seguito con piena coscienza. E quanto più si rafforzava nella nuova Europa il movimento diretto contro l’assetto sociale borghese, tanto più cosciente si faceva l’attaccamento dei partigiani francesi dell’arte per l’arte proprio per l’assetto borghese. E quanto più cosciente si faceva un tale attaccamento, tanto meno essi potevano restare indifferenti al contenuto ideale delle loro opere. Ma la loro cecità nei confronti della nuova tendenza che mirava al rinnovamento di tutta la vita sociale rendeva fallace, angusto e unilaterale il loro modo di vedere e abbassava il livello delle idee che si esprimevano nelle loro opere. Il naturale risultato di ciò fu la situazione senza uscita in cui venne a trovarsi il realismo francese, situazione che determinò l’insorgere di entusiasmi decadenti e della tendenza al misticismo in scrittori che un tempo erano passati essi stessi per la scuola realistica (naturalistica).


Questa conclusione verrà dettagliatamente verificata nel capitolo seguente. Ormai è ora di concludere. Per chiudere dirò ancora appena due parole su Puškin.


Quando il suo poeta tuona contro la «plebaglia» noi sentiamo nelle sue parole un grande sdegno, ma non vi avvertiamo la volgarità, qualsiasi cosa possa dirne D.I. Pisarev. Il poeta rimbrotta la folla mondana — proprio la folla mondana e non l’autentico popolo, che si trovava completamente fuori del campo visuale della letteratura russa di quell’epoca — e la rimprovera di apprezzare una pentola più dell’Apollo del Belvedere. Ciò significa che per il poeta è odioso un così angusto spirito pratico. E soltanto questo. La sua decisa avversione ad insegnare checchessia alla folla sta a testimoniare soltanto della considerazione priva d’ogni illusione in cui egli la tiene. Ma in ciò non vi è nessuna tendenza reazionaria. E proprio in questo consiste l’immensa superiorità di Puškin su certi difensori dell’arte per l’arte quale fu per esempio Goethe. Una tale superiorità ha un carattere condizionato. Puškin non si faceva beffe dei sansimoniani. E’ molto se aveva sentito parlare di loro. Puškin era un uomo onesto e generoso. Ma quest’uomo onesto e generoso aveva fatti propri fin dall’infanzia certi pregiudizi di classe. L’eliminazione dello sfruttamento di una classe da parte di un’altra doveva apparirgli un’utopia inattuabile e perfino ridicola. Se avesse sentito parlare di qualche piano concreto di una tale eliminazione, e se in particolare questi piani avessero fatto tanto rumore in Russia quanto ne fecero quelli dei sansimoniani in Francia, è verosimile che Puškin si sarebbe scagliato contro di essi con duri articoli polemici ed epigrammi satirici. Alcune sue osservazioni svolte nell’articolo Pensieri di viaggio sui vantaggi della posizione del contadino servo della gleba russo nei confronti della posizione dell’operaio dell’Europa Occidentale ci costringono a pensare che in questo caso particolare l’intelligente Puškin avrebbe potuto esprimere dei giudizi quasi altrettanto infondati quanto l’incomparabilmente meno intelligente Goethe. Da una tale eventuale debolezza lo salvò l’arretratezza economica della Russia.
E’ questa una storia vecchia, ma sempre nuova. Quando una certa classe vive dello sfruttamento di un’altra che si trova più in basso di essa relativamente al livello economico e quando la prima ha raggiunto il completo dominio della società, ebbene per questa andare avanti significa abbassarsi. In ciò va cercata la spiegazione di quel fenomeno a prima vista incomprensibile e perfino, forse, inverosimile per cui nei paesi economicamente arretrati l’ideologia delle classi dominanti si trova spesso ad un livello molto superiore di quella delle classi progressiste.


Ormai anche la Russia ha raggiunto quel grado di sviluppo economico in corrispondenza del quale i partigiani dell’arte per l’arte diventano coscienti difensori dell’ordine sociale fondato sullo sfruttamento di una classe da parte di un’altra. Pertanto adesso anche da noi si dicono non poche sciocchezze socialmente reazionarie in nome dell’«assoluta autonomia dell’arte». Ma al tempo di Puškin le cose non stavano così. E questa fu una grande fortuna per lui.

Ho detto che non esiste nessun’opera d’arte che sia completamente priva di un contenuto ideale. Ho anche aggiunto che non tutte le idee sono in grado di costituire la base di un’opera d’arte. Soltanto ciò che può contribuire alla comunione tra gli uomini può offrire all’artista un’autentica ispirazione. I possibili confini di una tale comunione non vengono definiti dall’artista, bensì dal livello di cultura raggiunto dal complesso sociale a cui esso appartiene. Ma in una società divisa in classi la faccenda dipende inoltre anche dagli scambievoli rapporti intercorrenti fra le classi e dalla fase di sviluppo in cui si trova ognuna di esse considerata in un determinato momento. Quando la borghesia stava ancora conquistandosi la sua liberazione dal giogo dell’aristocrazia civile ed ecclesiastica, cioè era una classe rivoluzionaria, essa si tirava dietro tutta la classe lavoratrice che insieme con la borghesia stessa costituiva il cosiddetto «terzo stato». Allora gli ideologi progressisti della borghesia erano anche gli ideologi avanzati di «tutta la nazione, fatta eccezione per i ceti privilegiati». In altre parole allora erano relativamente molto ampi i confini di quella comunione (unificazione) tra gli uomini, un mezzo della quale era costituito dalle opere di quegli artisti che condividevano le posizioni ideali borghesi. Ma quando gli interessi della borghesia cessarono di essere gli interessi di tutta la massa lavoratrice e in particolare quando essi vennero in conflitto con gli interessi del proletariato, allora i confini di una tale unificazione vennero a restringersi notevolmente. Se Ruskin ha detto che un avaro non può cantare i denari da lui perduti, ecco che ora è arrivata un’epoca in cui lo stato d’animo della borghesia ha cominciato ad avvicinarsi a quello di un avaro che pianga i tesori perduti. La differenza sta soltanto nel fatto che l’avaro piange una perdita già avvenuta, mentre la borghesia sta perdendo la propria tranquillità di spirito in vista della perdita che la minaccia nel futuro. «Opprimendo gli altri, — ho detto, citando l’Ecclesiaste, — il saggio diventa sciocco».


Lo stesso effetto negativo deve avere sul saggio (perfino su un saggio!) il timore di perdere la possibilità di opprimere gli altri. Gli ideologi della classe dominante perdono il loro intrinseco valore man mano che la rovina della loro classe viene maturando. L'arte creata dalle sopravvivenze borghesi cade. Il compito del presente articolo consiste nel completare quanto si è detto a questo proposito nell’articolo precedente(21), analizzando inoltre alcuni dei più chiari segni di decadenza dell’attuale arte borghese.
Abbiamo visto per quale via il misticismo è penetrato nella letteratura francese attuale. Ad esso si è giunti attraverso la coscienza dell’impossibilità di limitarsi alla forma senza contenuto e cioè senza idea, coscienza accompagnata dall’incapacità di sollevarsi fino alla comprensione delle grandi idee liberatrici del nostro tempo. Appunto una tale coscienza e una tale incapacità determinarono anche tutta una serie di conseguenze d’altro genere, le quali abbassarono non meno del misticismo il valore intrinseco delle opere d’arte.
Il misticismo è nemico inconciliabile della ragione. Ma non è nemico della ragione soltanto colui che è andato ad incappare nel misticismo. Infatti si trova a lottare contro la ragione anche colui che per una ragione o per l’altra, in un modo o nell’altro, difende un’idea falsa. E quando un’idea falsa viene posta a fondamento di un’opera d’arte essa vi introduce tali intrinseche contraddizioni che la sua dignità estetica ne viene inevitabilmente a soffrire.


Come esempio di un’opera d’arte la cui dignità artistica è compromessa dalla falsità dell’idea che ne sta a fondamento ho già avuto occasione di citare il dramma di Knut Hamsun Alle porte del regno(22).


Il lettore mi scuserà se torno a parlare di quest’opera.


Quale eroe di questo dramma ci viene presentato il giovane e seppure — forse — non dotato, comunque incredibilmente presuntuoso scrittore Ivar Kareno. Egli si autodefinisce un uomo «dai pensieri liberi come quelli di un uccello». E di che scrive questo scrittore libero come un uccello? Dell’«opposizione». Dell’«odio». Ma a chi consiglia di opporsi? Chi insegna a odiare? Egli consiglia di opporsi al proletariato e insegna a odiare il proletariato. Non è forse vero che si tratta di un eroe di tipo nuovissimo? Di eroi come questi noi finora ne abbiamo visti pochissimi, o per meglio dire non ne abbiamo mai incontrati nelle belle lettere. Ma l’uomo che predica l’opposizione al proletariato è il più garantito ideologo della borghesia. Quell’ideologo della borghesia che si chiama Ivar Kareno appare a se stesso e al suo autore, Knut Hamsun, il più grande dei rivoluzionari. Prendendo ad esempio i primi romantici francesi abbiamo già visto che esistono in natura certi stati d’animo «rivoluzionari» il cui principale tratto distintivo consiste appunto nel conservatorismo. Théophile Gautier odiava il «bourgeois» e allo stesso tempo tuonava contro coloro che affermavano che era ormai tempo di distruggere i rapporti sociali borghesi. lvar Kareno, evidentemente, è appunto uno dei discendenti spirituali del famoso romantico francese. Tuttavia in questo caso il discendente è andato molto oltre il suo predecessore; egli infatti lotta coscientemente contro ciò verso cui il suo predecessore avvertiva soltanto una istintiva ostilità(23).


Se i romantici erano dei conservatori, allora Ivar Kareno è un reazionario della più bell’acqua. E per giunta un utopista del tipo del barbaro proprietario di Ščedrin(24). Egli vorrebbe sterminare il proletariato così come il proprietario avrebbe voluto sterminare i contadini. Una tale utopia tocca gli ultimi confini della comicità. Ma in generale tutti i «pensieri liberi come quelli di un uccello» di Ivar Kareno raggiungono il limite estremo dell’assurdità. Il proletariato gli appare come una classe che sfrutta le altre classi della società. Questo è il più fallace tra tutti i liberi pensieri di Kareno. E il guaio è che questa fallace idea del suo eroe viene condivisa — come si vede — dallo stesso Knut Hamsun. Ivar Kareno va in contro nel dramma a ogni sorta di disavventure proprio perché odia il proletariato e gli si «oppone». Proprio per questo egli viene privato della possibilità di ricevere una cattedra di professore e perfino di pubblicare il proprio libro.


Insomma egli si attira tutta una serie di persecuzioni da parte di quei «bourgeois» in mezzo ai quali vive e agisce. Ma in quale mai parte del mondo, in quale utopia vive una borghesia che si vendica così spietatamente dell’«opposizione» al proletariato? Una simile borghesia non è mai esistita in nessun luogo e non può nemmeno esistere. Knut Hamsun ha posto a fondamento del suo dramma un’idea che si trova in inconciliabile contrasto con la realtà. E ciò ha così gravemente nuociuto al dramma che esso muove al riso proprio in quei punti dove — nei piani dell’autore — l’azione dovrebbe assumere una, piega tragica.


Knut Hamsun possiede un grande talento. Ma nessun talento è in grado di trasformare in verità ciò che della verità costituisce la diretta contraddizione. Gli immensi difetti del dramma Alle porte del regno sono la naturale conseguenza dell’assoluta inconsistenza dell’idea che ne sta a fondamento. E l’inconsistenza di tale idea è determinata dall’incapacità dell’autore di comprendere il senso della lotta tra le classi nella società attuale, lotta di cui il suo stesso dramma costituisce un’eco.


Knut Hamsun non è francese, ma questo non cambia niente alla sostanza delle cose. Già il Manifesto del Partito comunista ha dimostrato molto giustamente che nei paesi civili, grazie allo sviluppo del capitalismo, «la limitatezza e l’unilateralità nazionale diventano ora sempre più inattuabili, e dalle molte letterature nazionali e locali si viene ormai formando una letteratura mondiale». E’ vero che Hamsun è nato e cresciuto in un paese dell’Europa Occidentale che non rientra neppure lontanamente nel numero dei paesi più sviluppati economicamente. In tal modo anche si spiega, naturalmente, l’ingenuità davvero infantile delle sue idee sulla posizione del proletariato in lotta nella società contemporanea. Ma l’arretratezza economica della sua patria non gli ha impedito di lasciarsi compenetrare da quell’ostilità verso la classe lavoratrice e da quella simpatia per la lotta contro di essa che effettivamente oggi riscontriamo tra gli intellettuali borghesi dei paesi più evoluti. Ivar Kareno è soltanto una delle tante varietà del tipo nietzschiano. Ma cos’è il nietzschianesimo? E’ la nuova edizione — riveduta e completata secondo le esigenze del nuovo periodo di sviluppo del capitalismo — di quella lotta contro il «bourgeois» a noi ben nota, lotta che va perfettamente d’accordo con l’incrollabile simpatia per l’ordine sociale borghese. D’altra parte l’esempio di Hamsun può essere facilmente sostituito con un altro esempio preso dalla letteratura francese contemporanea.


Come uno dei più dotati e — cosa che in questo caso è ancora più importante — come uno dei più profondi pensatori tra i drammaturghi della Francia attuale dev’essere senza dubbio riconosciuto François de Curel. E tra le sue opere bisogna riconoscere senz’alcuna esitazione come la più degna di attenzione il dramma in cinque atti Le repas du lion, che per quanto ne so è stato poco notato dalla critica russa. Il protagonista di questo dramma, Jean de Sancy, per un certo periodo, sotto l’influenza di alcune circostanze eccezionali della sua infanzia, si entusiasma per il socialismo cristiano, ma poi taglia decisamente con esso e si presenta quale eloquente partigiano della grande industria capitalistica. Nella terza scena del quarto atto, in un lungo discorso, egli dimostra ai lavoratori che «l’egoisme qui produit, per la massa lavoratrice è la stessa cosa che l’elemosina per il mendicante». E siccome i suoi ascoltatori esprimono il loro dissenso, allora egli, man mano sempre più riscaldandosi, in un chiaro ed efficace paragone spiega loro la parte svolta dal capitalista e dai suoi operai nell’attuale produzione.


«Si dice — egli tuona — che tutta un’orda di sciacalli segue il leone nel deserto per godersi gli avanzi della sua preda. Gli sciacalli sono troppo deboli per assalire un bufalo; non sono neppure abbastanza agili per raggiungere le gazzelle, e così tutte le loro speranze si fondano sugli artigli del re del deserto. Avete capito bene: sui suoi artigli! Al crepuscolo egli abbandona la sua tana e si mette a correre, ruggendo per la fame, in cerca di preda. Eccola! Egli spicca un possente balzo, comincia una lotta crudele, si ha una mischia mortale e la terra si copre di sangue che non è sempre quello della vittima. Quindi segue il banchetto regale a cui gli sciacalli assistono con rispettosa attenzione. Quando il leone ha mangiato a sazietà, comincia il pranzo degli sciacalli. Credete forse che gli sciacalli sarebbero più sazi se il leone dividesse in parti eguali la sua preda con ciascuno di essi, riservando per sé solo un piccolo pezzo? Affatto! Un tale leone bonaccione cesserebbe di essere un vero leone e per lui andrebbe appena bene la parte di un cagnolino che guida un cieco! Smetterebbe di strangolare la vittima al suo primo lamento, e anzi si metterebbe a leccarle le ferite. Il leone è buono soltanto come animale da preda, assetato di vittime, che pensa soltanto alla strage e allo spargimento di sangue. Quando un leone come questo ruggisce agli sciacalli viene l’acquolina in bocca».


Il senso — già chiaro di per sé — di questa allegoria viene spiegato dall’eloquente oratore con parole molto più brevi ma altrettanto espressive: «L’imprenditore scopre quelle risorse nutritive che bagnano gli operai solo con i loro schizzi».


Naturalmente so benissimo che l’artista non risponde per il senso dei discorsi pronunciati dai suoi eroi. Ma molto spesso, in un modo o nell’altro, egli ci lascia capire la sua opinione su questi discorsi, e di conseguenza noi abbiamo la possibilità di giudicare delle sue proprie idee. Tutto il susseguente svolgimento del dramma Le repas du lion ci mostra che lo stesso de Curel considera assolutamente giusto il paragone istituito da Jean de Sancy tra l’imprenditore e il leone da una parte e i lavoratori e gli sciacalli dall’altra. Da ogni dettaglio appare evidente che egli avrebbe potuto ripetere con piena convinzione le parole del suo stesso eroe: «Io credo nel leone. Io m’inchino di fronte agli argomenti che gli conferiscono i suoi artigli». L’autore stesso è disposto a riconoscere i lavoratori in quegli sciacalli che si nutrono con le briciole di ciò che è stato conquistato col lavoro del capitalista. La lotta dei lavoratori con l’imprenditore appare all’autore — come allo stesso Jean de Sancy — come una lotta di invidiosi sciacalli contro il possente leone. Questo paragone è anche l’idea fondamentale del suo dramma, che viene fatto coincidere con la sorte del protagonista. Ma in quest’idea non vi è neppure un atomo di verità. Essa infatti travisa il reale carattere dei rapporti sociali nella società attuale molto di più di quanto lo travisino i sofismi in economia del Bastiat e di tutti i suoi numerosi seguaci, compreso il Böhm-Bawerk. Gli sciacalli infatti non fanno proprio nulla per conquistare ciò di cui si nutre il leone e di cui si sazia in parte la loro stessa fame. Ma chi potrebbe risolversi ad affermare che gli operai occupati in una determinata impresa non facciano nulla per la creazione del prodotto? Infatti, a dispetto di tutti i sofismi, è chiaro che il prodotto viene ottenuto proprio grazie al loro lavoro. Naturalmente anche l’imprenditore prende parte al processo produttivo come suo organizzatore, e in qualità di organizzatore rientra egli stesso nel numero dei lavoratori. Ma naturalmente tutti sanno benissimo che c’è una bella differenza tra lo stipendio di un direttore dì fabbrica e il profitto imprenditoriale dell’industriale. Sottraendo lo stipendio dal profitto otteniamo un resto che costituisce la parte di guadagno del capitale di per sé. Tutta la questione sta appunto qui: perché il capitale deve intascare questo resto? Ma alla soluzione di questo problema non troviamo neppure un’allusione negli eloquenti sproloqui di Jean de Sancy, il quale — sia detto a proposito — non sospetta che la sua stessa rendita, come quella di un qualsiasi grosso azionista di un’impresa, non sarebbe giustificata neppure nel caso che fosse esatto l’assolutamente errato paragone dell’imprenditore con un leone e dei lavoratori con gli sciacalli: egli stesso infatti non ha fatto proprio nulla per l’impresa, limitandosi a riceverne una ricca rendita annuale. E se c’è qualcuno simile a uno sciacallo, che si nutre di ciò che viene conquistato grazie agli altrui sforzi, questi è appunto l’azionista il cui unico lavoro consiste nel tenere in casa propria le azioni; nonché l’ideologo dell’ordine borghese, il quale non prende parte al processo produttivo, ma raccoglie ciò che rimane del fastoso banchetto del capitale. Lo stesso dotato de Curel appartiene — purtroppo — alla schiera degli ideologi di questo tipo. Nella lotta dei lavoratori salariati contro i capitalisti egli prende completamente le parti di questi ultimi, rappresentando in maniera assolutamente falsa i rapporti tra loro e coloro che sono da essi sfruttati.


E cos’altro è il dramma di Bourget, La barricade, se non l’invito rivolto da un artista famoso e certamente dotato alla borghesia affinché tutti i membri di questa classe serrino i ranghi per la lotta contro il proletariato? L’arte borghese diventa battagliera. I suoi rappresentanti hanno ormai perduto il diritto di dire di se stessi di non esser nati «per gli affanni della vita e le battaglie». No, essi invece anelano alle battaglie e non temono minimamente gli affanni necessariamente con esse collegati. Ma in nome di che cosa vengono condotte queste battaglie a cui essi vogliono prender parte? Ahimé, in nome del «lucro».


E’ vero tuttavia che non si tratta qui di lucro individuale: sarebbe strano affermare che degli uomini come de Cure! o Bourget prendano le parti del capitale nella speranza di un arricchimento personale. Il «lucro» in nome de! quale essi resistono agli «affanni» e anelano alle «battaglie» è il lucro di un’intera classe. Ma questa circostanza non gli impedisce affatto di restare pur sempre un semplice lucro. E se le cose stanno così, guardate un po’ cosa ne vien fuori.


Per che cosa i romantici disprezzavano i «bourgeois» loro contemporanei? Già lo sappiamo: essi li disprezzavano per il fatto che i «bourgeois» — secondo l’espressione di Théodor de Banville — mettevano al disopra di tutto la moneta da cinque franchi. Ma che cosa difendono nelle loro opere gli scrittori del genere di de Curel, Bourget e Hamsun? Appunto quei rapporti sociali che servono alla borghesia quale fonte di un gran numero di monete da cinque franchi. Come sono lontani questi artisti dal romanticismo dei buoni, vecchi tempi! Che cosa li ha tanto allontanati da quei tempi? Nient’altro che la marcia inarrestabile della evoluzione sociale. Quanto più si aggravavano le intime contraddizioni proprie del sistema capitalista di produzione, tanto più difficile diventava per gli artisti rimasti fedeli al modo di pensare borghese attenersi alla teoria dell’arte per l’arte e vivere rinchiusi.— secondo la nota espressione francese — nella propria torre d’avorio.


Nel mondo civile odierno sembra che non vi sia un solo paese in cui i giovani della borghesia non provino simpatia per le idee di Friedrich Nietzsche. Friedrich Nietzsche disprezzava i suoi «sonnolenti» (schlafrigen) contemporanei forse ancora più di quanto Théophile Gautier disprezzasse i «bourgeois» del suo tempo. Ma di che cosa — secondo Nietzsche — si sono resi colpevoli i suoi «sonnolenti» contemporanei? In che consiste il loro principale difetto, origine di tutti gli altri? Nel fatto che essi non sanno pensare, sentire e soprattutto agire come sarebbe degno di uomini che occupano una posizione di predominio nella società. Nelle attuali condizioni storiche ciò ha il valore di un rimprovero per il fatto che essi non dimostrano sufficiente energia né costanza nella difesa dell’ordine borghese dagli attentati rivoluzionari messi in atto dal proletariato. Non per nulla Nietzsche parla con tanta rabbia dei socialisti. Ma osserviamo ancora qual’è la conseguenza di tutto ciò.


Se Puškin e i romantici a lui contemporanei avevano rimproverato alla «folla» il suo eccessivo attaccamento alla pentola, invece gli ispiratori dei neoromantici attuali rimproverano alla folla di difendere troppo fiaccamente la sua pentola, e cioè di esserle poco attaccata. Eppure anche i neoromantici — come i romantici del buon tempo andato — proclamano l’assoluta autonomia dell’arte. Ma è forse possibile parlare seriamente dell’autonomia di un’arte che si pone come fine cosciente la difesa di determinati rapporti sociali? Naturalmente no! Una tale arte è senza dubbio utilitaristica. Se dunque i suoi rappresentanti disprezzano una creazione che sia guidata da considerazioni utilitaristiche, ciò dipende semplicemente da un malinteso. In realtà per loro — prescindendo dalle considerazioni di utilità personale che non hanno mai potuto avere un’importanza determinante agli occhi di un uomo sinceramente dedito all’arte — sono inammissibili soltanto quelle considerazioni che hanno per scopo l’utilità della maggioranza sfruttata. Invece l’utile della minoranza sfruttatrice costituisce per loro la legge suprema. In tal modo l’atteggiamento — per esempio — di Knut Hamsun o di François de Curel nei confronti del principio dell’utilitarismo nell’arte è in realtà esattamente opposto a quello di Théophile Gautier o di Flaubert, sebbene anche questi ultimi — come sappiamo — non fossero affatto immuni da simpatie conservatrici. Ma dall'epoca di Gautier e di Flaubert queste simpatie — grazie all’aggravarsi delle contraddizioni sociali — si sono talmente sviluppate negli artisti che condividono il modo di vedere borghese che adesso per loro è incomparabilmente più difficile attenersi in maniera conseguente alla teoria dell’arte per l’arte. Naturalmente si sbaglierebbe di grosso chi s’immaginasse che adesso ormai nessuno di loro si attenga più in maniera conseguente a tale teoria. Ma — come vedremo subito — attualmente una coerenza di tal genere viene a costare straordinariamente cara.


I neoromantici, anche in questo caso sotto l’influenza di Nietzsche, amano raffigurarsi come gente che si trova «al di là del bene e del male». Ma cosa significa stare al di là del bene e del male? Significa compiere un’opera storica di tale importanza che il giudizio su di essa non può venir compreso nel quadro di una determinata concezione del bene e del male che sia sorta sul terreno di un determinato assetto sociale. I rivoluzionari francesi dell’anno 1793, nella loro lotta contro la reazione, si trovavano indubitabilmente al di là del bene e del male, e cioè con la loro attività contraddicevano quelle concezioni del bene e del male che erano sorte sul terreno dell’ordine antico, che aveva ormai fatto il suo tempo. Una tale contraddizione — nella quale è sempre contenuta una buona dose di tragicità — può venire giustificata soltanto dal fatto che l’attività dei rivoluzionari — costretti a porsi temporaneamente al di là del bene e del male — porta alla conseguenza che il male arretra davanti al bene nella vita sociale. Per prender la Bastiglia bisognava scendere in lotta contro i suoi difensori. E chi conduce una lotta di questo genere si pone inevitabilmente per un certo tempo al di là del bene e del male. Ma in quanto la presa della Bastiglia reprimeva quell’arbitrio in forza del quale si potevano incarcerare gli uomini «parce que tel est notre bon plaisir» (secondo la nota espressione dei sovrani assoluti francesi), in tanto quel fatto storico costringeva il male ad arretrare di fronte al bene nella vita sociale di Francia e con ciò stesso giustificava quel temporaneo porsi al di là del bene e del male da parte degli uomini che combattevano l’arbitrio.


Ma non per tutti coloro che si pongono al di là del bene e del male si può trovare una tale giustificazione. Ecco, per esempio, Ivar Kareno, il quale probabilmente non avrebbe esitato a porsi al di là del bene e del male per la realizzazione dei suoi «pensieri liberi come quelli di un uccello». Ma, come sappiamo, la somma di tutti questi pensieri si può riassumere nelle parole: lotta inconciliabile contro il movimento di liberazione del proletariato. Pertanto porsi al di là del bene e del male per lui avrebbe significato soltanto smetterla di far complimenti in tale lotta mettendosi sotto i piedi anche quei pochi diritti che la classe lavoratrice è riuscita a conquistarsi nella società borghese. E se la sua lotta avesse avuto successo, essa avrebbe condotto non a una diminuzione, bensì ad un aumento del male nella vita sociale. Dunque il suo temporaneo porsi al di là del bene e del male sarebbe privo di qualunque giustificazione, come del resto esso perde in genere ogni giustificazione quando sia operato in vista di fini reazionari. Mi si potrebbe replicare che, non trovando giustificazioni dal punto di vista del proletariato, Ivar Kareno può trovarle dal punto di vista della borghesia. Su questo io sono perfettamente d’accordo.

Ma il punto di vista della borghesia — in questo caso — è il punto di vista di una minoranza privilegiata la quale cerca di eternizzare i suoi privilegi. Mentre il punto di vista del proletariato è quello della maggioranza che esige l’abolizione di tutti i privilegi. Ecco perché dire che l’attività di una certa persona viene giustificata dal punto di vista della borghesia equivale a riconoscere che tale attività viene condannata dal punto di vista di tutti coloro che non sono disposti a difendere gli interessi degli sfruttatori. E ciò è per me assolutamente sufficiente, giacché la marcia irreversibile dell’evoluzione economica mi garantisce che il numero di questi uomini è destinato necessariamente ad aumentare sempre di più.


Odiando con tutta l’anima i «sonnolenti», i neoromantici vogliono del movimento. Ma il movimento a cui essi aspirano è un movimento conservatore in opposizione con il movimento liberatore del nostro tempo. In ciò sta tutto il mistero delle loro psicologie. E in ciò è anche da ricercare la misteriosa causa per cui neppure i più dotati tra di essi sono in grado di creare delle opere così significative quali invece potrebbero creare se fosse diversa la direzione delle loro simpatie sociali e diverso il loro modo di pensare. Abbiamo già visto fino a che punto sia falsa l’idea che de Curel ha posto a fondamento della sua opera Le repas du lion. Ma un’idea falsa non può non nuocere a un’opera d’arte, giacché essa introduce la menzogna nella psicologia dei personaggi. Non sarebbe difficile dimostrare quanto vi sia di falso nella psicologia di Jean de Sancy, protagonista dell’opera ora citata. Ma ciò mi costringerebbe a una digressione più lunga di quanto sia compatibile con il piano del mio articolo. Prenderò un altro esempio, che mi consentirà di essere più breve.


L’idea fondamentale del dramma La barricade è che nell’attuale lotta di classe ognuno deve combattere nelle file della propria classe. Ma chi è che Bourget considera la «figura più simpatica» del suo dramma? Il vecchio operaio Gaucherond(25), il quale non sta con gli altri operai, bensì con l’imprenditore. Il comportamento di quest’operaio si trova in radicale contraddizione con l’idea fondamentale del dramma, e l’operaio stesso può apparire simpatico so lo a chi sia completamente accecato dalla propria personale simpatia per la borghesia. Il sentimento da cui è guidato Gaucherond è il sentimento dello schiavo che guarda con rispetto le proprie catene. E noi sappiamo — già dai tempi del conte Aleksej Tolstoj — quanto sia difficile destare della simpatia per lo spirito di abnegazione di uno schiavo in tutti coloro che non siano stati educati nello spirito della schiavitù. Ricordatevi di Vasilij Šibanov, che osservava in maniera così straordinaria la «fedeltà servile». Morì da eroe, nonostante le terribili torture:


Zar, tale è la sua unica parola:
egli esalta il proprio signore(26).


Eppure questo eroismo da schiavo lascia freddo il lettore odierno, il quale in generale stenta a capire come sia possibile in uno «strumento parlante» la dedizione spinta fino al sacrificio di se stesso verso il suo proprietario. Ma il vecchio Gaucherond del dramma di Bourget è qualcosa di analogo a Šibanov, che però si è trasformato da schiavo in un proletario dei nostri tempi. Bisogna essere davvero ciechi per vedere in lui la «più simpatica figura» del dramma. Comunque una cosa è indubitabile: se Gaucherond è simpatico, ciò dimostra contro la tesi di Bourget che ciascuno di noi non deve andare con la classe a cui appartiene, bensì con quella la cui causa gli appare giusta.


Con la sua opera Bourget contraddice il suo stesso pensiero. E ciò anche in questo caso accade per quella stessa causa per cui,opprimendo gli altri, il savio diventa sciocco. Quando un artista di talento si ispira a un’idea fallace, egli rovina la sua stessa opera. E non è possibile che un artista moderno sia ispirato da un’idea giusta se egli intende difendere la borghesia nella sua lotta con il proletariato.


E' incomparabilmente più difficile di prima attenersi in maniera conseguente alla teoria dell’arte per l’arte. Ciò è ammesso, tra l’altro, anche da Bourget. Anzi, egli si esprime in maniera molto più recisa. «La parte dell’annalista indifferente — egli dice — è assurda per un intelletto capace di pensare e per un cuore capace di sentire quando si tratta di queste terribili guerre intestine dalle quali dipende — come sembra a momenti — tutto I'avvenire della patria e della civiltà» (27) . Ma a questo punto bisogna fare una riserva. Un uomo che sia dotato di un intelletto che pensa e di un cuore sensibile non può effettivamente restare indifferente spettatore della guerra civile che si svolge nella società contemporanea. Se il suo campo visivo è limitato da pregiudizi borghesi egli si troverà da un lato della «barricata», se invece non è contaminato da tali pregiudizi si troverà dall’altro. E’ così. Ma non tutti i membri della borghesia — come naturalmente anche di tutte le altre classi — sono dotati di un cervello che pensa. Quelli di loro che pensano non hanno sempre un cuore sensibile. A quelli di tal genere è facile anche adesso rimanere conseguenti partigiani della teoria dell’arte per l’arte. Tale teoria si accorda nel modo migliore con l’indifferenza per gli interessi sociali, anche se angustamente classisti. E l’assetto sociale borghese è in grado forse meglio di qualsiasi altro di sviluppare una tale indifferenza.


Là dove intere generazioni vengono educate nello spirito della famigerata massima: «ognun per sé e Dio per tutti», costituisce un fatto molto naturale l’apparizione di egoisti che pensano e s’interessano soltanto a se stessi. E noi effettivamente possiamo vedere che nell’ambito della borghesia attuale di egoisti di questo tipo se ne incontrano forse più di quanto non se ne siano mai trovati in passato. A questo proposito disponiamo della testimonianza altamente apprezzabile di uno degli ideologi della borghesia, e cioè di Maurice Barrès.
«La nostra moralità, la nostra religione, il nostro sentimento nazionale, tutto ciò è andato a rotoli, — dice Barrès. — Non possiamo prendere a prestito da questi valori delle regole di vita. E in attesa del momento in cui i nostri maestri fisseranno per noi delle verità degne di fede, a noi tocca tenerci stretti all’unica realtà, al nostro io»(28).


Quando per un uomo tutto «è andato a rotoli», eccettuato il suo proprio «io», allora non c’è più nulla che gli impedisca di fare la parte dell’indifferente annalista della grande guerra che si combatte nelle viscere della società attuale. Del resto non è così. Anche allora c’è qualcosa che gli impedisce di svolgere questa parte. Questo qualcosa sarà appunto l’assenza di ogni interesse sociale, assenza che viene così chiaramente caratterizzata nelle righe di Barrès da me citate.


Perché dovrebbe assumersi il ruolo di annalista di una lotta sociale un uomo che non s’interessi minimamente né della lotta né della società? Tutto ciò che si riferisce a una tale lotta gli ispirerà una noia invincibile. E se egli è un artista, nelle sue opere non vi farà neppure un’allusione. Nelle sue opere egli si occuperà dell’«unica realtà», e cioè del proprio «io». E siccome il suo «io» potrebbe pure annoiarsi non disponendo di altra compagnia che di se stesso, allora l’artista si metterà a inventare per lui un fantastico mondo dell’«al di là», posto ben alto al di sopra della terra e di tutti i «problemi» terrestri. E così fanno molti degli artisti contemporanei. Io non li sto calunniando. Sono essi stessi a confessarlo. Ecco; per esempio, che cosa scrive la signora Z. Hippius, nostra compatriota.


«Io considero la preghiera la più naturale e la più imperiosa esigenza della natura umana. Ogni uomo necessariamente prega o aspira alla preghiera, ne sia o no cosciente, in qualsiasi forma si esprima la sua preghiera e a qualunque dio sia rivolta. La forma particolare dipende dalle capacità e dalle inclinazioni di ognuno. La poesia in generale e la versificazione — o musica delle parole — in particolare è soltanto una delle forme che la preghiera assume nel nostro spirito»(29).


Naturalmente questa identificazione della «musica della parola» con la preghiera è assolutamente infondata. Nella storia della poesia vi sono stati dei lunghi periodi nel corso dei quali essa non ha avuto alcun rapporto con la preghiera. Ma non è il caso di discutere di questo. In questo caso m’interessava soltanto far conoscere al lettore la terminologia della signora Hippius, giacché l’ignoranza di una tale terminologia avrebbe potuto generare in lui qualche perplessità leggendo i seguenti brani che c’interessano per il loro contenuto.
La signora Hippius prosegue così: «E’ forse colpa nostra se ogni “io“ è diventato ora particolare, solitario, distaccato dal l’altro “io“, e pertanto per lui incomprensibile e inutile? Per ognuno di noi è appassionatamente necessaria, comprensibile e cara la nostra preghiera, è necessaria la nostra poesia, riflesso della momentanea pienezza del nostro cuore. Ma per un altro, il quale abbia una diversa sua intima essenza, la mia preghiera è incomprensibile ed estranea. La coscienza della solitudine strappa ancor più gli uomini l’uno all’altro, li segrega, obbliga l’anima a chiudersi. Noi ci vergogniamo delle nostre preghiere, e ben sapendo che in ogni caso non ci fonderemo in esse con nessuno, le diciamo e le componiamo ormai a mezza voce, tra di noi, servendoci dl allusioni chiare soltanto a noi stessi».


Quando l’individualismo raggiunge un grado così estremo, allora effettivamente scompare — come dice molto giustamente la signora Hippius — «la possibilità dell’unificazione appunto nella preghiera (e cioè nella poesia, nota di Pl.), nonché la generalità dell’impeto della preghiera (cioè della poesia, nota di Pl.)». Ma non è possibile che di ciò non venga a soffrirne la poesia e l’arte in generale, che serve appunto come mezzo di unificazione tra gli uomini. Già il biblico Jehova ha molto fondatamente osservato che non è bene per l’uomo essere solo. E ciò viene magnificamente confermato dall’esempio offertoci dalla stessa signora Hippius. In una delle sue poesie noi leggiamo:


lmplacabile è il mio cammino,
alla morte mi conduce,
ma io mi amo come un dio
e la mia anima l’amore salverà.


Di ciò è lecito dubitare. Infatti chi è che ama se stesso come un dio? Uno sfrenato egoista. Ed è difficile che uno sfrenato egoista sia capace di salvare l’anima di qualcuno.


Ma la questione non sta nel fatto se si salveranno o no le anime della signora Hippius e di tutti coloro che — come lei — amano se stessi come un dio. La questione sta nel fatto che i poeti che si amano come dèi non possono evidentemente nutrire alcun interesse per ciò che succede nella società che li circonda. Le loro aspirazioni saranno necessariamente indeterminate all’estremo. Nella poesia Canzone la signora Hippius così «canta»:


Ahimé, nel dolore folle io muoio,
io muoio,
Aspiro a ciò che non conosco,
non conosco...
E quest’aspirazione non so di dov’è giunta,
m’è giunta,
Ma il cuore esige e chiede miracoli,
miracoli!
Oh, che sia una volta ciò che non è mai,
giammai!
Il cielo pallido miracoli promette,
promette.
Ma senza lacrime piango la falsa promessa,
la promessa...
Mi occorre ciò che non esiste al mondo,
al mondo.


Questo, forse, non è neppure mal detto. A un uomo che «ama se stesso come un dio» e ha perso ogni capacità di comunione con gli altri uomini non rimane altro da fare che «chiedere miracoli» e aspirare a ciò «che non esiste al mondo»; infatti ciò che al mondo esiste non può interessarlo. In un racconto di Sergeev-Censkij il tenente Babev dice: «la clorosi ha inventato l’arte». Questo filosofeggiante figlio di Marte è completamente fuori strada se suppone che tutte le arti siano state inventate dalla «clorosi». Ma è certo innegabile che l’arte che aspira a ciò «che non esiste al mondo» è creazione della «clorosi». Quest’arte caratterizza la decadenza di un intero sistema di rapporti sociali, e pertanto è stata molto felicemente definita decadente.


E’ vero che il sistema di rapporti sociali la cui decadenza viene caratterizzata da quest’arte, e cioè il sistema dei rapporti di produzione capitalistici, è ancora lontano dalla decadenza nella nostra patria. Da noi, in Russia, il capitalismo non è ancora venuto definitivamente a capo del vecchio regime. Ma la letteratura russa, fin dai tempi di Pietro I, si trova sotto la forte influenza di quella dell’Europa Occidentale. Pertanto non di rado in essa penetrano correnti tali che, pur corrispondendo pienamente ai rapporti sociali esistenti nell’Europa Occidentale, si accordano molto meno ai rapporti arretrati esistenti in Russia. Vi fu un tempo in cui certi nostri aristocratici si entusiasmavano per l’insegnamento degli enciclopedisti (30) che corrispondeva ad una delle ultime fasi della lotta del terzo stato contro l’aristocrazia in Francia. Ora è iniziata un’epoca in cui molti nostri «intellettuali» si entusiasmano per dottrine sociali, filosofiche ed estetiche corrispondenti all’epoca di decadenza della borghesia dei paesi dell’Europa Occidentale. Questo entusiasmo anticipa la marcia della nostra evoluzione sociale nella stessa misura in cui l’anticipava l’entusiasmo dei nostri uomini del XVIII secolo per la teoria degli enciclopedisti (31).


Ma se il sorgere del decadentismo russo non può venire spiegato in sufficiente misura in base alle nostre — per così dire — cause interne, ciò non muta affatto la sua natura. Importato in Russia dall’Occidente, esso non cessa di essere ciò che era nella sua patria d’origine: un frutto della «clorosi» che accompagna la decadenza della classe che è adesso dominante nell’Europa Occidentale.


La signora Hippius dirà forse che le ho attribuito in modo assolutamente arbitrario una completa indifferenza per le questioni sociali. Ma in primo luogo io non le ho attribuito nulla, bensì mi sono semplicemente richiamato alle sue stesse effusioni liriche, limitandomi a definirne il senso. Lascio al lettore il compito di giudicare se io ho compreso rettamente tali effusioni. In secondo luogo io so, naturalmente, che la signora Hippius ora non è aliena dal discutere del movimento socialista. Per esempio il libro da lei scritto in collaborazione con i signori D. Merežkovskij e D. Filosofov e pubblicato in Germania nel 1908 può fornire una convincente testimonianza del suo interesse per il movimento sociale russo. Ma è sufficiente leggere l’introduzione di quel libro per vedere che gli autori aspirano esclusivamente a ciò «che non conoscono». Là si dice che in Europa si conoscono i fatti della rivoluzione russa, mentre la sua anima rimane sconosciuta. Evidentemente allo scopo di far conoscere all’Europa lo spirito della rivoluzione russa, gli autori raccontano agli europei quanto segue:


«Noi siamo simili a voi come la mano sinistra è simile alla destra...Noi siamo eguali a voi, solo però in senso inverso... Kant direbbe che il nostro spirito vive nel trascendentale, mentre il vostro nel fenomenico. Nietzsche direbbe: da voi regna Apollo, da noi Dioniso; il vostro genio sta nella misura, il nostro nell’impeto. Voi sapete fermarvi a tempo; se andate a sbattere contro un muro voi vi fermate, oppure l’aggirate; noi invece prendiamo la rincorsa per sbatterci contro la testa (wir rennen uns aber die Kopfe ein). Per noi non è facile metterci in movimento, ma una volta in movimento non possiamo più fermarci. Noi non camminiamo: corriamo. Noi non corriamo: voliamo. Noi non voliamo: precipitiamo. Voi amate l’aurea via di mezzo, mentre invece noi amiamo gli estremismi. Voi siete giusti, mentre per noi non esiste nessuna legge; voi sapete conservare il vostro equilibrio spirituale, mentre noi aspiriamo sempre a perderlo. Voi possedete il regno del presente, noi invece cerchiamo il regno dell’avvenire. In fin dei conti voi ponete comunque il potere statale al disopra di tutte le libertà che potete conquistare. Noi invece restiamo sempre ribelli e anarchici anche se avvinti dalle catene dello schiavo. La ragione e il sentimento ci portano fino all’ultimo limite della negazione, eppure, nonostante ciò, noi restiamo sempre dei mistici nell’essenza più profonda del nostro essere»(32).


Andando oltre nella lettura gli europei verranno a sapere che la rivoluzione russa è altrettanto assoluta quanto la forma statale contro cui essa è diretta, e che se il fine empirico e cosciente di questa rivoluzione è il socialismo, invece il suo fine mistico e inconscio è l’anarchia. Concludendo, i nostri autori dichiarano che essi non si rivolgono alla borghesia europea, bensì... tu penserai, lettore, al proletariato? Ebbene, sei in errore! «Soltanto a singoli intelletti della cultura universale, agli uomini che condividono l’idea di Nietzsche secondo cui lo stato è il più freddo tra tutti i freddi mostri» e così via.


Se ho citato questi passi non l’ho fatto certo per uno scopo polemico. In generale io qui non sto conducendo una polemica, ma soltanto mi sforzo di caratterizzare e chiarire un certo modo di sentire di certi strati sociali. Le citazioni che ho appena sopra riportato dimostrano a sufficienza — o almeno lo spero! — che pur interessandosi (finalmente!) alle questioni sociali, la signora Hippius è rimasta tale, quale ci era apparsa nei versi citati sopra: un’individualista estrema di tipo decadente, la quale è assetata di miracolo proprio perché non ha alcun serio rapporto con la viva vita sociale. Il lettore non avrà dimenticato quel pensiero di Leconte de Lisle secondo il quale la poesia donerebbe ora una vita ideale a colui che non ha più quella reale. Ma quando l’uomo perde ogni possibilità di comunione spirituale con gli uomini che lo circondano, ecco che anche la sua vita ideale perde ogni legame con la terra. Allora la fantasia se lo porta in cielo ed egli diventa un mistico. L’interesse per le questioni sociali della signora Hippius, imbevuto com’è di misticismo, non ha in sé proprio nulla di fruttifero(33) . E’ solo per errore che essa, insieme con i suoi compagni, pensa che la sua sete di «miracolo» e la sua «mistica» negazione della «politica come scienza» costituiscano il tratto distintivo dei decadenti russi(34). Il «sobrio» Occidente, già prima della «ebbra» Russia, ci ha presentato degli uomini che insorgono contro la ragione in nome di una passione irrazionale. In Przybyszewski Erich Falf rimprovera i socialdemocratici e gli «anarchisti da salotto deI genere di G.H. Mackey» proprio per la loro eccessiva secondo lui — fede nella ragione.


«Tutti loro — proclama questo decadente non russo — predicano una rivoluzione pacifica e la sostituzione della ruota spezzata con la nuova mentre il carro si trova in movimento. Tutta questa loro costruzione dogmatica è cretinamente sciocca proprio perché è così logica, fondata com’è sull’onnipossente ragione. Ma fino ad oggi ogni cosa è accaduta non in forza della ragione, bensì della sciocchezza e della casualità più assurde».


Il richiamo di Falk alla «sciocchezza e alla casualità più assurda» è perfettamente analogo per la sua sostanza a quell’aspirazione al «miracolo» di cui è tutto pervaso il libro tedesco della signora Hippius e dei signori Merežkovskij e Filosofov. E’ lo stesso identico pensiero sotto altro nome. La sua origine si spiega con l’estremo soggettivismo di una buona parte degli intellettuali borghesi di oggi. Quando l’uomo considera il proprio «io» come, «l’unica realtà», è chiaro che non può ammettere che esista un oggettivo, «ragionevole», e cioè regolare collegamento tra questo «io» da una parte e il mondo esteriore che lo circonda dall’altra. Il mondo esteriore gli deve apparire o completamente irreale, oppure reale soltanto in parte, e cioè nella misura in cui la sua esistenza si appoggia sull’unica autentica realtà, e cioè sul nostro «io». Se una persona di questo genere ama la speculazione filosofica, essa ci dirà che, creando il mondo, il nostro «io» vi inserisce una qualche parte della propria ragionevolézza; un filosofo infatti non può ribellarsi del tutto alla ragione neppure quando ne limita i diritti in relazione all’uno o all’altro impulso, per esempio relativamente agli interessi religiosi(35). Se invece un uomo che considera il proprio «io» come l’unica realtà non è incline alla speculazione filosofica, certo non si porrà neppure il problema di come il mondo esteriore venga creato da questo «io». In tal caso egli non sarà affatto disposto ad ammettere l’esistenza nel mondo esteriore di una dose anche piccola di ragionevolezza e cioè di regolarità. Al contrario, in tal caso il mondo gli appare come il regno dell’«assurda casualità». E se gli salterà in mente di provare simpatia per un qualche grande movimento sociale, egli sosterrà certamente — come Falk — che il suo successo non può essere affatto assicurato dalla regolare marcia dell’evoluzione sociale, bensì soltanto dalla «sciocchezza» umana, oppure — che è la stessa cosa — dall’«assurda casualità» storica. Ma — come ho già detto — il mistico giudizio espresso dalla signora Hippius e dai suoi due adepti sul movimento di liberazione russo non si distingue sostanzialmente in nulla dall’opinione espressa da Falk relativamente alle «assurde» cause dei grandi avvenimenti storici. Cercando di sbalordire l’Europa con l’inaudita e smisurata ampiezza delle aspirazioni libertarie dell’uomo russo, gli autori del libro tedesco da me citato qui sopra rimangono decadenti della più bell’acqua, capaci di provare simpatia soltanto per ciò «che non è mai, giammai», e cioè, in altre parole, restano incapaci di provare interesse per ciò che accade in realtà. Quindi il loro anarchismo mistico non inficia affatto le conclusioni a cui sono giunto in base all’analisi delle effusioni liriche della signora Hippius.


Dal momento che ho preso a parlarne, voglio dire fino in fondo il mio pensiero. Gli avvenimenti degli anni 1905-06 hanno prodotto sui decadenti russi un’impressione altrettanto forte di quella prodotta dagli avvenimenti del 1848-49 sui romantici francesi. Questi avvenimenti hanno destato in essi l’interesse per la vita sociale. Ma questo interesse si accorda ancora meno con l’indole spirituale dei decadenti di quanto si accordasse con quella dei romantici. Per questo esso si rivelò ancor meno stabile. Non disponiamo di nessuna base per poterlo considerare qualcosa di serio.


Torniamo all’arte contemporanea. Quando un uomo è già incline a considerare il proprio «io» come l’unica realtà, allora egli — come la signora Hippius — «ama se stesso come un dio». Ciò è perfettamente comprensibile e assolutamente inevitabile. Ma quando un uomo «ama se stesso come un dio», naturalmente nelle sue opere si occuperà soltanto di se stesso. Il mondo esterno lo interesserà soltanto nella misura in cui — in un modo o nell’altro — tocca quella stessa «unica realtà» e cioè quello stesso prezioso «io». Nella interessantissima commedia di Sudermann, Das Blumenboot, la baronessa Erfflingen dice a sua figlia Théa nella prima scena del secondo atto: «La gente del nostro rango esiste soltanto per creare — con le cose di questo mondo — una specie di gaio panorama che passa davanti ai nostri occhi, o meglio sembra passare. Giacché in realtà siamo noi che ci muoviamo. Ciò è indubitabile. E nel far questo non abbiamo bisogno di nessuna zavorra». Con queste parole viene definito come meglio non si potrebbe lo scopo vitale della gente della classe a cui appartiene la baronessa Erfflingen, gente che con piena convinzione può ripetere le parole di Barrès: «L’unica realtà è il nostro “io”». Ma la gente che persegue un tale scopo vitale considererà l’arte soltanto come un mezzo per abbellire in un modo o nell’altro il panorama che sembra passare davanti ai loro occhi. Ciò facendo anche in questo caso essi si sforzeranno di non appesantirsi con zavorra di nessun genere. Quindi essi o trascureranno completamente il contenuto ideale delle opere d’arte, oppure lo sottometteranno alle capricciose e mutevoli esigenze del loro estremo soggettivismo.


Consideriamo ora la pittura.
Già gli impressionisti avevano dimostrato una completa indifferenza per il contenuto ideale delle loro opere. Uno di loro, esprimendo molto felicemente la convinzione propria di loro tutti, ebbe a dire: la luce è il protagonista del quadro. Ma la sensazione della luce è appunto soltanto una sensazione, e cioè non è ancora sentimento, non è ancora pensiero. L’artista che limita il proprio interesse al campo delle sensazioni resta indifferente al sentimento e ai pensieri. Egli è in grado di dipingere un bel paesaggio; e infatti gli impressionisti hanno dipinto molti ottimi paesaggi. Ma il paesaggio non è ancora tutta la pittura(36). Ricordiamo L’ultima cena di Leonardo da Vinci e domandiamoci: la luce è forse il protagonista di questo famoso affresco? E’ noto che il suo soggetto è costituito da quel momento — così pieno di sconvolgente drammaticità — della storia dei rapporti tra Cristo e i suoi discepoli in cui egli dice loro: «Uno di voi mi tradirà». Il compito di Leonardo da Vinci consisteva nel raffigurare sia lo stato d’animo di Cristo, profondamente addolorato dalla sua orribile scoperta, sia quello dei suoi discepoli, che non possono credere che nella loro poco numerosa famiglia si sia insinuato il tradimento. Se il pittore avesse pensato che il protagonista del quadro dovesse essere la luce, non gli sarebbe neanche venuto in mente di raffigurare questo dramma. E se avesse ugualmente dipinto un tale affresco, certo il suo principale interesse artistico non si sarebbe concentrato su ciò che succedeva nell’animo di Cristo e dei suoi allievi, bensì su ciò che avveniva sulle pareti della stanza dove essi erano raccolti, sul tavolo al quale essi sedevano, e anche sulla loro stessa pelle, cioè sui più vari effetti di luce. Ci troveremmo così davanti non uno sconvolgente dramma spirituale, bensì una serie di macchie di luce ben dipinte: una — ad esempio — sulla parete della stanza, un’altra sulla tovaglia, una terza sul naso adunco di Giuda, una quarta sulla guancia di Gesù, e così via. Ma in conseguenza di ciò l’impressione prodotta dall’affresco sarebbe incomparabilmente più debole, e cioè verrebbe a diminuire notevolmente il peso specifico dell’opera di Leonardo da Vinci. Certi critici francesi hanno paragonato l’impressionismo con il realismo in letteratura. Un tale paragone non è privo di fondamento. Ma se gli impressionisti erano dei realisti, bisogna riconoscere che il loro realismo era assolutamente superficiale, e non oltrepassava la «scorza dei fenomeni». Quando questo realismo si è conquistato un ampio spazio nell’arte contemporanea — ed è incontestabile che se l’è conquistato — ai pittori educati sotto la sua influenza restava da scegliere tra queste due alternative: o sofisticare astutamente sulla «scorza dei fenomeni», inventando sempre nuovi e sempre più sorprendenti e artificiosi giochi di luce, oppure sforzarsi di penetrare oltre la «scorza dei fenomeni» avendo compreso l’errore degli impressionisti e riconoscere che il protagonista del quadro non è la luce, bensì l’uomo con le sue esperienze infinitamente varie. E noi, effettivamente, vediamo l’una e l’altra cosa nella pittura attuale. La concentrazione dell’interesse sulla «scorza dei fenomeni» dà origine a quelle tele paradossali davanti alle quali spalancano dubbiosi le braccia anche i critici più benevoli, confessando che la pittura contemporanea sta attraversando una «crisi di bruttezza»(37). Ma la coscienza dell’impossibilità di limitarsi alla «scorza dei fenomeni» costringe d’altra parte alla ricerca di un contenuto ideale, e cioè a inchinarsi di fronte a ciò che ancora poco tempo fa veniva condannato al rogo. Tuttavia comunicare un contenuto ideale per mezzo delle proprie opere non è così facile come potrebbe sembrare. L’idea non è qualcosa che esista indipendentemente dal mondo reale. Il patrimonio ideale di ogni singolo uomo viene definito e arricchito dai suoi rapporti con il mondo reale. Dunque colui i cui rapporti col mondo reale sono configurati in modo tale che egli considera il proprio «io» come «l’unica realtà» diventa inevitabilmente un completo indigente nel campo delle idee. Non soltanto infatti egli non ne ha, ma — e questo è il più grave è privo della possibilità di acquistarne. E come, in mancanza di grano, gli uomini mangiano il loglio, così, in mancanza di idee chiare, essi si accontentano di confusi simulacri di idee, di surrogati attinti al misticismo, al simbolismo e ad altri simili «ismi» che caratterizzano un’epoca di decadenza. In parole povere, nella pittura si ripete ciò che abbiamo già trovato in letteratura: il realismo decade in conseguenza della sua intima mancanza di contenuto, mentre trionfa la reazione idealistica.


L’idealismo soggettivo si è sempre appoggiato sull’idea che non esiste nessun’altra realtà al di fuori del nostro «io». Ma ci è voluto tutto lo smisurato individualismo dell’epoca di decadenza della borghesia per costruire su questa idea non soltanto una regola di vita egoistica che definiva i rapporti reciproci tra gli uomini, ognuno dei quali «ama se stesso come un dio» (e la borghesia infatti non si è mai distinta per un eccessivo altruismo), bensì anche il fondamento teorico di una nuova estetica.


Il lettore avrà certo sentito parlare dei cosiddetti cubisti. Ma se gli è anche capitato di vedere le loro opere, certo non corro molti rischi di sbagliarmi se suppongo che esse non avranno affatto entusiasmato. Almeno a me queste opere non procurano nulla di simile al piacere estetico «Sciocchezze al cubo!» ecco le parole che ci vengono spontaneamente alle labbra alla vista di queste esercitazioni che dovrebbero essere artistiche. Ma il «cubismo» ha pur una sua ragion d’essere. Definirla una sciocchezza elevata alla terza potenza non significa spiegare la sua origine. Non è certo questo il luogo adatto per occuparsi di una tale spiegazione. Ma qui è possibile indicare la direzione in cui tale spiegazione va cercata. Ho davanti a me un interessante libretto: Du Cubisme, di Albert Gleizes et Jean Metzinger. Entrambi gli autori sono pittori ed entrambi appartengono alla scuola «cubista». Rivolgiamo anche a loro la nostra attenzione seguendo il principio: audiatur et altera pars. Come giustificano essi i loro stupefacenti procedimenti artistici?


«Non c’è nulla di reale fuori di noi, — dicono gli autori. — Noi non pensiamo di mettere in dubbio l’esistenza di oggetti che agiscono su nostri sensi; ma una ragionevole attendibilità può essere concessa solo all’immagine che viene da tali oggetti evocata nella nostra mente».


Da ciò gli autori traggono la deduzione che noi non sappiamo quali forme abbiano gli oggetti di per se stessi. E fondandosi sul fatto che queste forme ci sono ignote, essi si considerano in diritto di raffigurarle secondo il proprio arbitrio. Essi fanno la riserva — peraltro degna d’attenzione — che, al contrario degli impressionisti essi non intendono limitarsi al campo della sensazione «Noi cerchiamo l’essenziale, — ci assicurano — ma lo cerchiamo nella nostra personalità, e non in qualcosa di eterno, faticosamente elaborato da matematici e da filosofi».


In queste considerazioni noi per prima cosa incontriamo — come ben vede il lettore — quel pensiero che già conosciamo, secondo il quale il nostro «io» è l’unica realtà. E’ vero che qui l’incontriamo in una forma attenuata. Gleizes e Metzinger dichiarano infatti che è loro completamente estranea l’idea di dubitare dell’esistenza degli oggetti esterni. Ma, pur ammettendo l’esistenza del mondo esterno, al tempo stesso ne dichiarano l’inconoscibilità. Ma questo significa che anche per loro non c’è nulla di reale al di fuori del loro «io».


Se le immagini degli oggetti insorgono in noi in conseguenza dell’azione degli oggetti stessi sui nostri sensi, è chiaro che non si può parlare d’inconoscibilità del mondo esterno: noi infatti lo conosciamo proprio grazie a una tale azione. Gleizes e Metzinger sono in errore. Anche le loro considerazioni sulle forme degli oggetti in sé zoppicano alquanto. Non si può seriamente incolparli di tali errori: errori simili sono stati commessi anche da uomini molto più forti di loro in filosofia. Ma ecco il punto che non si può trascurare: dalla pretesa inconoscibilità del mondo esterno i nostri autori concludono che bisogna cercare l’essenziale nella «nostra personalità». Una tale conclusione può essere intesa in due modi. Sotto la parola «personalità» si può intendere tutto il genere umano oppure ogni singola individualità. Nel primo caso noi arriviamo all’idealismo trascendentale di Kant, mentre nel secondo caso torniamo al principio sofistico per cui ogni singolo uomo è misura di tutte le cose. I nostri autori inclinano proprio verso la versione sofista della conclusione sopra riportata.


Ma una volta accettata l’interpretazione sofista, ecco che ci si può permettere in pittura — come in qualsiasi altro campo — assolutamente tutto ciò che vogliamo. Se io invece di una donna in bleu («la femme en bleu» si chiama appunto un quadro di F. Léger esposto all’ultimo Salon di autunno) disegno alcune figure stereometriche, ebbene chi ha il diritto di affermare che ho dipinto un quadro mal riuscito? Le donne costituiscono una parte del mondo che mi circonda. Ma il mondo esterno è inconoscibile. Per rappresentare una donna non mi resta che appellarmi alla mia «personalità», e la mia «personalità» conferisce alla donna la forma di alcuni cubi — o meglio, parallelepipedi — gettati alla meglio qua e là. Questi cubi fanno ridere tutti i visitatori del Salon. Ma questo non fa nulla. La «folla» ride solo perché non comprende il linguaggio dell’artista, e l’artista non deve in nessun caso farle delle concessioni. «L’artista che si astiene da qualsiasi concessione, che non spiega e non racconta nulla, accumula una notevole forza interiore che illumina ogni cosa intorno a lui»(38). In attesa di accumulare questa forza non resta che disegnare figure stereometriche. In tal modo abbiamo una specie di divertente parodia della poesia di Puškin Al poeta:


Sei forse d’essa contento, artista esigente?
Ne sei soddisfatto? E allora lascia che la folla la denigri
e che sputi sull’altare ov’arde la tua fiamma,
o nell’infantile turbolenza faccia ondeggiare il tuo tripode.


La comicità di una tale parodia sta nel fatto che «l’esigente artista» in questo caso si accontenta della sciocchezza più evidente. L’apparizione di simili parodie dimostra fra l’altro che la dialettica intrinseca della vita sociale ha condotto attualmente la teoria dell’arte per l’arte all’assurdo più completo.


Non è bene che l’uomo sia solo. Gli attuali «innovatori» in arte non si accontentano di ciò che è stato creato dai loro predecessori. In ciò non vi è nulla di male. Al contrario, l’aspirazione al nuovo è molto spesso la sorgente del progresso. Ma non tutti coloro che cercano qualcosa di nuovo lo trovano effettivamente. Bisogna saper cercare il nuovo. Colui che è cieco ai nuovi insegnamenti che ci provengono dalla vita sociale, colui che non ammette altra realtà al di fuori del suo «io», certo nelle sue ricerche del nuovo non troverà altro che nuove sciocchezze. Non è bene che l’uomo sia solo.


E’ chiaro che nell’attuale situazione sociale l’arte per l’arte produce frutti poco saporiti. L’estremo individualismo dell’epoca di decadenza della borghesia nasconde agli artisti tutte le fonti dell’autentica ispirazione. Esso li rende completamente ciechi a ciò che succede nella vita sociale e li condanna a un’inutile confusione condita da esperienze personali prive di qualsiasi contenuto e da invenzioni di una fantasia morbosa. Come risultato definitivo di una tale confusione abbiamo qualcosa che non solo non si trova in nessun rapporto con qualsiasi genere di bellezza, ma che per giunta costituisce un’evidente assurdità che si può difendere solo ricorrendo ad un sofistico travisamento della teoria idealistica della conoscenza.


Per Puškin il «popolo freddo e arrogante» ascolta «senza capire» il canto del poeta. Ho già detto che sotto la penna di Puškin questa contrapposizione aveva un suo senso storico. Per comprendere tale senso, basta considerare che gli epiteti «freddo e arrogante» non convenivano affatto ai servi della gleba russi dell’epoca di Puškin. Ma in compenso convenivano perfettamente — a qualsiasi rappresentante di quella «plebe» mondana che in fin dei conti con la sua ottusità doveva causare la morte del nostro grande poeta. Gli uomini che facevano parte di quella «plebe» potevano dire di se stessi, senza nessuna esagerazione, ciò che dice la «plebe» nella poesia di Puškin.


Noi siamo meschini e perfidi,
impudenti, malvagi e ingrati,
freddi eunuchi del cuore,
calunniatori, stupidi e schiavi,
i vizi fan ressa dentro di noi.


Puškin vide che sarebbe stato ridicolo impartire «coraggiose» lezioni a questa folla mondana e senz’anima; essa infatti non ne avrebbe capito nulla. Egli aveva ragione di volgerle orgogliosamente le spalle. Anzi egli ebbe il torto — per gran disgrazia della letteratura russa — di non avergliele voltate completamente. Ma oggi nei paesi capitalistici più evoluti l’atteggiamento verso il popolo del poeta — e dell’artista in genere — che non abbia saputo spogliarsi dell’uomo vecchio borghese, è direttamente contrario a quello che vediamo in Puškin: ora si può rimproverare di ottusità non più il «popolo», non più l’autentico popolo la cui parte più avanzata sta diventando sempre più cosciente, bensì gli artisti che ascoltano «senza capire» i nobili appelli che provengono dal popolo. Questi artisti, nel migliore dei casi, sono responsabili del fatto che i loro orologi ritardano di un’ottantina d’anni. Respingendo le migliori aspirazioni della loro epoca, essi s’immaginano ingenuamente di essere i continuatori di quella lotta contro la borghesia in cui erano impegnati i romantici. Sul tema dello spirito piccolo-borghese dell’attuale movimento proletario si diffondono volentieri tanto gli esteti dell’Europa Occidentale, quanto — al rimorchio di questi — anche quelli russi di casa nostra.


Ciò è ridicolo. Richard Wagner ha dimostrato già da tempo come sia infondato il rimprovero di spirito piccolo-borghese rivolto da questi signori al movimento di liberazione della classe lavoratrice. Secondo l’opinione molto giusta di Wagner, se si considera attentamente la faccenda (genau betrachtet), il movimento di liberazione della classe lavoratrice ci appare come una aspirazione non all’imborghesimento, bensì all’emancipazione dalla borghesia verso una vita libera e una «umanità artistica» (zumkünstlerischen Menschentum). E’ un’aspirazione a un «degno godimento della vita, in cui l’uomo non dovrà più spendere tutta la sua forza vitale per conquistarsi i mezzi materiali di esistenza». Questa conquista dei mezzi materiali di esistenza mediante la perdita di tutta la propria forza vitale si trova oggi all’origine dei sentimenti «borghesi». La continua preoccupazione rivolta alla conquista dei mezzi di esistenza «ha reso l’uomo debole, servile, ottuso e miserevole lo ha trasformato in un essere incapace sia di amare che di odiare, in un cittadino disposto in ogni momento a sacrificare l’ultimo resto della propria libera volontà purché venga sollevato da una tale preoccupazione». Il movimento di liberazione del proletariato conduce appunto all’eliminazione di questa preoccupazIone che umilia e corrompe l’uomo, Wagner pensava che soltanto la sua elimInazione, soltanto la realizzazione delle aspirazioni liberatrici del proletariato può rendere vere le parole di Cristo; non preoccupatevi di ciò che mangerete, e così via(39). Egli aggiungeva a buon diritto che soltanto la realizzazione di quanto si è detto priverà di ogni serio fondamento quella contrapposizione di estetica e moralità che noi riscontriamo presso i partigiani dell’arte per l’arte, per esempio in Flaubert(40). Secondo Flaubert «les livres verteux sont ennuyeux et faux». Flaubert aveva ragione. Ma solo perché la virtù della società attuale — e cioè la virtù borghese — è noiosa e bugiarda. La «virtù» antica non era né bugiarda né noiosa agli occhi di quello stesso Flaubert. Eppure tutta la sua differenza da quella borghese consiste nel fatto che le era estraneo l’individualismo borghese. Lo Širinskij-Šichmatov, nella sua qualità di ministro dell’educazione nazionale sotto Nicola I, vedeva il compito dell’arte «nella credenza così importante per la vita sociale e privata che il delitto trova la sua degna punizione già su questa terra», e cioè nella società su cui attentamente vigilava lo stesso Širinskij-Šichmatov. Si trattava naturalmente di una grossa menzogna e di una noiosa volgarità. Gli artisti fanno benissimo a voltare le spalle a una tale menzogna e volgarità. E così quando noi leggiamo in Flaubert che in un certo senso «non vi è nulla di più poetico del vizio»(41), noi comprendiamo che il particolare senso di un tale paradosso sta appunto nella contrapposizione del vizio alla volgare, noiosa e bugiarda virtù dei moralisti borghesi e degli Širinskij-Šichmatov.


Ma con l’eliminazione di quell’assetto sociale da cui viene generata appunto quella volgare, noiosa e bugiarda virtù, viene eliminata anche l’esigenza morale dell’idealizzazione del vizio. Ripeto che la virtù antica non appariva a Flaubert né volgare, né noiosa, né bugiarda, sebbene — in conseguenza del bassissimo livello di sviluppo delle sue concezioni politico-sociali — egli, pur rispettando tale virtù, potesse anche entusiasmarsi per le gesta di Nerone che in realtà ne costituivano la mostruosa negazione. Nella società socialista l’entusiasmo per l’arte diventerà logicamente impossibile nella stessa misura in cui verrà eliminato l’involgarimento della morale sociale, che attualmente rappresenta l’inevitabile conseguenza del tentativo della classe dominante di conservare i propri privilegi. Flaubert dice: «L’art est la recherche de l’inutile». In queste parole non è difficile riconoscere il pensiero che sta a fondamento della poesia di Puškin La plebaglia. Ma l’entusiasmo per un simile pensiero sta a indicare soltanto la rivolta dell’artista contro l’angusto utilitarismo di una certa classe o ceto dominante... Con l’eliminazione delle classi verrà eliminato anche quell’angusto utilitarismo che è stretto parente della cupidigia. La cupidigia non ha nulla di comune con l’estetica: il giudizio di gusto presuppone sempre l’assenza di considerazioni d’interesse personale in colui che lo pronuncia. Ma una cosa è l’interesse personale e una cosa ben diversa è l’interesse sociale. L’aspirazione ad essere utile alla società, che si trova alla base della virtù antica, costituisce una sorgente di abnegazione, e un atto ispirato dall’abnegazione può diventare facilmente — ed effettivamente molto spesso lo è diventato, com’è dimostrato dalla storia dell’arte — un oggetto di rappresentazione artistica. Basterà ricordare le canzoni dei popoli primitivi, oppure, per non tornare tanto indietro nel tempo, il monumento ad Armodio ed Aristogitone ad Atene.


Già gli antichi pensatori, per esempio Platone e Aristotele, comprendevano benissimo come l’uomo venisse umiliato dal fatto che tutte le sue forze vitali erano inghiottite dalle preoccupazioni per la propria esistenza individuale. E lo capiscono anche gli attuali ideologi della borghesia. Anch’essi considerano indispensabile alleggerire l’uomo dal peso avvilente delle continue difficoltà economiche. Ma l’uomo di cui essi si occupano è quello che appartiene alla classe più ricca della società e che vive dello sfruttamento dei lavoratori. Essi vedono la soluzione del problema nello stesso modo in cui già la vedevano gli antichi pensatori: nell’asservimento dei produttori da parte di un piccolo gruppo di felici eletti che si avvicinino più o meno all’ideale del «superuomo». Ma se una tale soluzione era conservatrice già all’epoca di Platone e Aristotele, all’epoca attuale è diventata ormai ultrareazionaria. E se i padroni di schiavi conservatori, contemporanei di Aristotele, potevano pensare di riuscire a conservare, la loro posizione dominante fondandosi sul proprio «valore» personale, oggi invece gli attuali predicatori dell’asservimento della grande massa del popolo sono molto scettici sul valore degli sfruttatori usciti dall’ambiente borghese. Per questo essi indulgono molto volentieri al sogno che si ponga a capo dello stato un geniale superuomo che con la forza della sua volontà d’acciaio sappia rinsaldare il vacillante edificio del dominio di classe. I decadenti a cui non sono estranei gli interessi politici sono spesso ardenti fautori di Napoleone I…


Se a Renan occorreva un governo forte che obbligasse i buoni contadini a lavorare per lui, mentre egli si dedicava alle sue riflessioni, oggi invece agli attuali esteti è necessario un assetto sociale che costringa il proletariato a lavorare mentre essi si dedicano ai loro elevati piaceri… come disegnare o dipingere dei cubi è altre figure stereometriche. Organicamente incapaci di qualsiasi lavoro serio, essi provano la più sincera indignazione all’idea di un assetto sociale tale che al suo interno non esistano più fannulloni.
Chi va con lo zoppo... Pur combattendo a parole contro i piccoli borghesi, gli attuali esteti borghesi s’inchinano anche loro davanti al vitello d’oro proprio come il più mediocre dei borghesucci. «Si pensa che vi sia un certo movimento nel campo artistico, — dice Mauclair — ma in realtà vi è del movimento soltanto alla borsa dei quadri, dove si specula anche sui geni inediti». Aggiungerò che questa speculazione sui geni inediti spiega, tra l’altro, quella febbrile ricerca del «nuovo» a cui si dà la maggior parte degli artisti attuali. Gli uomini aspirano sempre al «nuovo» perché non sono soddisfatti del vecchio. Ma il punto sta nel perché il vecchio non li soddisfa. Molti e molti artisti contemporanei non sono soddisfatti del vecchio per la sola ragione che, finché il pubblico apprezza il vecchio, il loro proprio genio resta «inedito». A ribellarsi contro il vecchio essi sono spinti non dall’amore per qualche nuova idea, bensì per quella solita «unica realtà», e cioè per il loro beneamato «io». Ma un tale amore non può ispirare l’artista, bensì semplicemente lo predispone a vedere ogni cosa, persino «l’idolo del Belvedere», da un punto di vista utilitaristico. «La questione del denaro s’intreccia così strettamente con la questione dell’arte, — dice Mauclair — che la critica d’arte si trova con le spalle al muro. I critici migliori non possono dire ciò che pensano e gli altri dicono soltanto ciò che giudicano conveniente nei singoli casi, dal momento che devono vivere dei loro scritti. Non dico che bisogna per forza scandalizzarsene, ma semplicemente che bisogna rendersi conto della complessità del problema».
Vediamo così che l’arte per l’arte si è trasformata nell’arte per il denaro. E tutto il problema che interessa Mauclair consiste nel determinare la causa per cui ciò è successo. Ma non è così difficile determinarla. «Ci fu un tempo — come, per esempio, il medioevo — in cui si scambiava soltanto il superfluo, l’eccesso dei prodotti rispetto alle esigenze.


Vi fu poi un altro tempo in cui non soltanto l’eccesso, bensì tutti i prodotti nel loro complesso, tutti i manufatti dell’industria passarono nel campo del commercio, epoca in cui la produzione venne a trovarsi alla completa dipendenza dello scambio...
Finalmente arrivò un tempo in cui tutto ciò che gli uomini erano avvezzi a considerare inalienabile, diventò invece oggetto dì scambio e di traffico, diventò cioè alienabile. In quell’epoca perfino quelle cose che prima venivano trasmesse agli altri, ma mai scambiate, che venivano donate, ma mai vendute, venivano acquisite, ma mai comprate, e cioè la virtù; l’amore, le convinzioni, le conoscenze, la coscienza, tutto insomma diventò in definitiva oggetto di commercio. Questa è l’epoca della corruzione generale, della venalità universale, o meglio — per esprimersi con il linguaggio dell’economia politica — il tempo in cui ogni cosa, materiale o morale, essendo diventata un valore venale, viene portata al mercato perché là ne venga determinato il vero valore»(42).


Ci si può forse meravigliare che nell’epoca dell’universale venalità anche l’arte sia diventata venale?
Mauclair non intende dire che bisogna indignarsi di ciò. Neanch’io intendo valutare questo fenomeno da un punto di vista morale. Io mi sforzo — secondo la nota espressione — non  di piangere né di ridere, bensì di capire. Io non dico: gli artisti attuali «debbono» ispirarsi alle aspirazioni alla libertà del proletariato. No; se un melo deve produrre mele e se su un albero di pero devono crescere delle pere, allo stesso modo gli artisti che condividono il punto di vista della borghesia debbono insorgere contro le aspirazioni del proletariato. L’arte di un’epoca di decadenza dev’essere decadente. Questo è inevitabile. E sarebbe perfettamente inutile «indignarsi» per questo. Ma, come dice giustamente il Manifesto del Partito comunista, «nei periodi in cui la lotta di classe si avvicina al momento decisivo, il processo di dissoluzione all’interno della classe dominante, all’interno di tutta la vecchia società, raggiunge un grado così alto, che una parte del ceto dominante si divide da esso per schierarsi a fianco della classe rivoluzionaria che sventola la bandiera dell’avvenire. Così come in passato una parte della nobiltà si unì alla borghesia, anche oggi una parte della borghesia, e specialmente gli ideologi borghesi che si sono sollevati alla comprensione teorica di tutto il corso del movimento storico, passa al proletariato».


Tra gli ideologi borghesi passati dalla parte del proletariato noi vediamo pochissimi artisti. Questo si spiega probabilmente con il fatto che di «sollevarsi alla comprensione teorica di tutto il corso del movimento storico» sono capaci soltanto quelli che pensano, mentre invece gli artisti di oggi, a differenza per esempio — dei grandi maestri della Rinascenza, pensano straordinariamente poco(43). Ma comunque stiano le cose, si può affermare con assoluta convinzione che qualsiasi artista di un certo talento vedrà notevolmente aumentata la propria forza creativa se saprà compenetrarsi delle grandi idee liberatrici del nostro tempo. E’ necessario tuttavia che queste idee entrino a far parte della sua carne e del suo sangue, e che egli le esprima proprio come artista(44). E’ anche necessario che egli sappia dare una giusta valutazione del modernismo artistico degli attuali ideologi della borghesia. La classe dominante si trova attualmente in una situazione tale che andare avanti per essa significa scendere più in basso. E un tale triste destino è condiviso da tutti i suoi ideologi. I più avanzati tra loro sono appunto quelli che sono scesi più in basso di tutti i loro predecessori.
Quando io ebbi ad esprimere le opinioni qui sopra esposte, il signor Lunačarskij sollevò delle obiezioni di cui ora intendo considerare le più importanti.
In primo luogo egli si è stupito del fatto che io avrei ammesso l’esistenza di un criterio assoluto di bellezza. Ma in realtà un tale criterio non esiste. Tutto scorre, tutto muta. E tra l’altro cambiano anche le concezioni degli uomini intorno alla bellezza. Per questo non ci è nemmeno possibile dimostrare che l’arte contemporanea stia attraversando una crisi di bruttezza.
A questo io ho replicato e replico che secondo me un criterio assoluto del bello non esiste e non può esistere(45). E’ certo che le concezioni degli uomini intorno alla bellezza mutano nel corso del processo storico. Ma se non esiste un criterio assoluto di bellezza, se tutti i criteri sono relativi, ciò non significa ancora che noi siamo privi di qualsiasi possibilità oggettiva di giudicare del fatto se una certa intenzione artistica è stata ben realizzata. Mettiamo che un pittore voglia dipingere una «donna in bleu». Se ciò che egli ha raffigurato nel suo quadro sarà effettivamente simile a una donna in bleu, allora noi diremo che egli ha saputo dipingere un buon quadro. Se invece al posto di una donna vestita di bleu noi vedremo sulla tela solo delle figure stereometriche, qua e là più o meno fittamente o rozzamente dipinte di azzurro, allora diremo che avrà dipinto qualsiasi cosa, ma certo non un buon quadro. Quanto più l’esecuzione si avvicina all’intenzione — o per servirsi di un’espressione più corrente — quanto più la forma di un’opera d’arte corrisponde alla sua idea, tanto più essa è riuscita. Ecco dunque un criterio oggettivo. E soltanto in quanto esiste un tale criterio noi abbiamo il diritto di affermare che i disegni — per esempio — di Leonardo da Vinci sono migliori di quelli di un qualsiasi piccolo Temistocle (46) che imbratta la carta per divertirsi. Quando Leonardo da Vinci disegnava, per esempio, un vecchio con la barba, ne risultava veramente un vecchio con la barba. E anzi risultava così bene che, vedendolo, noi diciamo: com’è vivo! Ma se invece il piccolo Temistocle disegna un vecchio, noi faremo bene, a scanso di equivoci, a scriverci sotto: questo è un vecchio con la barba, e non qualcos’altro. Affermando che non può esistere un criterio oggettivo di bellezza il signor Lunačarskij ha commesso lo stesso peccato di tanti ideologi borghesi, compresi i cubisti: il peccato dell’estremo soggettivismo. Non riesco assolutamente a capire come possa cadere in un tale peccato un uomo che si autodefinisce marxista.


Bisogna tuttavia aggiungere che il termine di «bellezza» viene qui da me impiegato in un senso molto largo, o se volete anche troppo largo: disegnare stupendamente un vecchio con la barba non significa dipingere un vecchio stupendo, cioè bello. Il campo dell’arte è notevolmente più vasto del campo del «bello». Ma in tutto questo vasto campo è possibile applicare allo stesso modo il criterio da me indicato: la corrispondenza della forma al l’idea. Il signor Lunačarskij ha affermato (se l’ho capito bene) che la forma può corrispondere perfettamente anche a un’idea falsa. Ma con questo non posso essere d’accordo. Ricordiamoci del dramma di de Curel Le repas du lion. Alla base di questo dramma sta — come sappiamo — la falsa idea che l’imprenditore si comporta con i lavoratori allo stesso modo in cui il leone si comporta con gli sciacalli che si nutrono delle briciole che cadono dalla sua regale mensa. La domanda è questa: de Curel avrebbe potuto rappresentare correttamente nel suo dramma questa idea fallace? No! Questa idea è sbagliata in quanto contraddice ai reali rapporti tra l’imprenditore e i suoi operai. Darle forma in un’opera d’arte significa alterare la realtà. E quando un’opera d’arte altera la realtà, essa non è riuscita. Ecco perché Le repàs du lion, si trova molto al di sotto del talento di de Curel, così come per lo stesso motivo il dramma Alle porte del regno è molto al di sotto del talento di Hamsun.


In secondo luogo il signor Lunačarskij mi ha rimproverato per un eccessivo oggettivismo della mia esposizione. Evidentemente egli era d’accordo sul fatto che un melo deve generare mele e un pero pere. Ma egli ha osservato che tra gli artisti che condividono il punto di vista borghese ve ne sono di quelli che oscillano, e che questi appunto vanno convinti e non abbandonati alla forza spontanea delle influenze borghesi.


Confesso che un tale rimprovero mi è ancora meno comprensibile del primo. Nel mio esposto ho detto — e spererei di poter dire che l’ho dimostrato — che l’arte contemporanea è in decadenza(47) . Come causa di un tale fenomeno — a cui non può restare indifferente nessuno che ami sinceramente l’arte — ho indicato il fatto che la maggioranza degli artisti attuali condivide la posizione borghese e resta completamente chiusa alle grandi idee liberatrici del nostro tempo. La domanda è questa: come può agire una tale denuncia sugli oscillanti? Se essa è convincente, dovrà incitare gli indecisi a passare sulle posizioni del proletariato. E questo è tutto ciò che si può pretendere da un esposto dedicato all’esame del problema dell’arte, e non alla esposizione e alla difesa dei principi del socialismo.
Last, not least, il signor Lunačarskij, considerando impossibile dimostrare la decadenza dell’arte borghese, pensa che io mi sarei comportato in modo più razionale se avessi contrapposto agli ideali borghesi un armonioso sistema — così, a quanto mi ricordo, egli si è espresso — di concezioni ad essi contrarie. Ed ha anche dichiarato al pubblico che un tale sistema verrà col tempo elaborato.
Ma una tale obiezione supera definitivamente le mie capacità di comprensione. Se questo sistema deve ancora venire elaborato, è chiaro che per ora non esiste. E se non esiste, come posso contrapporlo alle idee borghesi? E cos’é poi quest’armonioso sistema di idee? L’attuale socialismo scientifico costituisce senza dubbio una teoria pienamente armoniosa. Ed ha per giunta il vantaggio che esiste già. Ma, come ho già detto, sarebbe stato molto strano che io, accingendomi a leggere una relazione sul tema «l’arte e la vita sociale», mi mettessi a esporre le dottrine dell’attuale socialismo scientifico, come per esempio quella del plusvalore. E’ bene soltanto ciò che si trova a suo tempo e a suo luogo.


Tuttavia è possibile che, parlando di un armonioso sistema d idee il signor Lunačarskij pensasse a quelle considerazioni sulla cultura proletaria pubblicate recentemente dal suo adepto signor Bogdanov. In tal caso questa sua ultima obiezione avrebbe voluto significare che io avrei reso più acute le mie proprie idee se avessi imparato qualcosa dal signor Bogdanov. Ringrazio molto per il consiglio, ma non ho intenzione di seguirlo. Se poi qualcuno si interessasse per inesperienza, del libretto del signor Bogdanov che si intitola Della cultura proletaria, ricorderò che questo libro è stato abbastanza felicemente messo in ridicolo nel Mondo contemporaneo da un altra persona vicina al modo di pensare del signor Lunačarskij e cioé dal signor Aleksinskij.


NOTE:


1) Il lavoro che presento all’attenzione del lettore costituisce la rielaborazione di una «relazione» da me letta in russo a Liegi e a Parigi nel novembre del corrente anno. Per questa ragione esso ha conservato in certa misura la forma di una lettura. Alla fine della seconda parte verranno considerate le obiezioni pubblicamente mossemi a Parigi dal signor Lunačarskij relativamente alla categoria della bellezza. Dopo aver replicato a suo tempo oralmente, considero utile soffermarmi su tali obiezioni anche pubblicando il lavoro.


2)Questa opinione era in parte una ripetizione, in parte un ulteriore sviluppo dell’idea elaborata da Belinskij negli ultimi anni della sua vita Nell’articolo Rassegna della letteratura russa dell’anno 1847 Belinskij scriveva: «L’interesse più sacro e più elevato della società consiste nel proprio benessere, egualmente ripartito tra tutti i suoi membri. La via che conduce a un tale benessere è la coscienza, e allo sviluppo della coscienza l’arte può contribuire non meno della scienza. Qui l’arte e la scienza sono parimenti indispensabili: né la prima può sostituire la seconda, né la seconda la prima

3)La lettera di Kramskoj, del 30 aprile 1884 da Mentone indirizzata a V.V. Stasov, testimonia della forte influenza esercitata su di lui dalle idee di Belinskjj, Gogol’, Fedotov, lvanov, Černyševskij , Dobroljubov, Perov (Ivan Nikolaevič Kramskoj, la sua vita, l’epistolario e i suoi articoli di critica d’arte, Pietroburgo 1888). Bisogna d’altronde rilevare che i giudizi sui fenomeni della vita che incontriamo negli articoli critici di I.N. Kramskoj restano di gran lunga indietro per chiarezza ai giudizi che incontriamo — per esempio — in G.I. Uspenskij, per non parlare di Černyševskij o di Dobroljubov.


4)Citato dal XXX capitolo di Passato e Pensieri. 4

5)Sčegolev, Puškin in Saggi, Pietroburgo 1912.

6)Ščegolev, op. cit.

7)Dalla prefazione al romanzo Mlle de Maupin.

8)Sta in Histoire du romantisme.

9)Alfred De Musset caratterizza questo disaccordo nel modo seguente: «Des lors se formèrent comme deux camps: d’une part les esprits exaltés, souffrants; toutes les âmes expansives, qui ont besoin de l’infini, plièrent la tête en pleurant, il s’enveloppèrent de rêves maladifs, et l’on ne vit plus que de frèles roseaux sur un océan d’amertume. D’une autre part, les hommes de chair restèrent debout, inflexibles, au milieu des jouissance positives, et il ne leur prit d’autre souci que de compter l’argent qu’ils avaient. Ce ne fut qu’un sanglot et un éclat de rire, l’un venant de l’ âme, l’autre du corps». Da La confession d’un enfant du siècle.

10)Théodore de Banville dice apertamente che gli attacchi romantici contro il borghese non prendevano affatto di mira la borghesia come classe sociale (Les Odes funambulesques, Paris 1858). Questa ribellione conservatrice contro il «bourgeois» tipica dei romantici, e che non si estendeva affatto ai fondamenti del regime borghese, è stata interpretata da alcuni… teoretici russi (ad es. da Ivanov-Razumnik) come una lotta contro la piccola borghesia che oltrepasserebbe notevolmente per la sua portata la lotta politico-sociale del proletariato contro la borghesia. Lascio giudicare al lettore della profondità di un tale concetto. In realtà ciò dimostra che coloro che si occupano della storia del pensiero sociale russo purtroppo non si danno preventivamente la pena di studiare la storia del pensiero in Europa Occidentale.

11)Lo stesso dissenso senza speranza con l’ambiente circostante contraddistingue lo stato d’animo dei romantici così com’è ottimamente chiarito da Brandès nel suo libro Die romantische Schule in Deutschland, che costituisce il secondo volume della sua opera Die Hauptströmungen der Liferatur des 19-ten Jahrhunderts.

12)Appunti di Ksenofont Polevoj, Ed. Siberiana di Suvorin, 1888.

13)Su questo argomento vedi l’eccellente volume di A. Cassagne, La Theorie de l’art pour l’art en France chez les derniers romantiques et les Premiers realistes, Paris 1906.

14)Il secondo articolo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, approvato dalla Costituente nelle sedute dal 20 al 26 agosto 1789, dice: «Le but de toute association politique est la conservation des droits naturels et imprescriptibles de l’homme. Ces droits sont: la liberté, la proprieté, la sûreté et la résistance à l’oppression». La preoccupazione della proprietà sta a testimoniare del carattere borghese della rivoluzione che si andava compiendo, e il riconoscimento del diritto di «resistenza all’oppressione» dimostra che la rivoluzione era in fase di compimento ma non si era ancora conclusa, incontrando forti contrasti da parte delI’aristocrazia mondana ed ecclesiastica. Nel giugno 1848 la borghesia francese non avrebbe più riconosciuto il diritto di resistenza all’oppressione da parte del cittadino.

15)L’esclusività di tale interesse — che è impossibile negare — sta soltanto a dimostrare che nel XVI secolo esisteva un disaccordo senza speranza di soluzione tra coloro che apprezzavano l’arte da una parte e l’ambiente sociale che li circondava dall’altra. Tale disaccordo — anche in quel caso — determinò l’insorgere di un’inclinazione verso l’arte pura, e cioè verso l’arte per l’arte. Nell’epoca precedente — diciamo ai tempi di Giotto — non esisteva né il disaccordo né l’inclinazione all’arte pura.


16)E’ interessante il fatto che lo stesso Perugino venne sospettato di ateismo dai suoi contemporanei.

17)Citato da Cassagne nel volume citato.

18)«On peut, sans contradiction, aller successivemente à son laboratoire et à son oratoire», diceva, dieci anni or sono, il professor Grasset, insegnante di medicina clinica all’università di Montpellier. Una tale affermazione incontra un’eco entusiasta presso i teorici del tipo di Jules Soury, autore del Bréviaire de l’histoire du matérialisme, libro scritto nello spirito della celebre opera di Lange sul medesimo argomento. (Vedi l’articolo Oratoire et laboratoire, nella raccolta del Soury Campagnes nationalistes, Paris 1902). Nella stessa raccolta v. l’articolo Science et Religion, il cui concetto principale trova la sua espressione nelle note parole di Du Bois Reymond: ignoramus et ignorabimus.

19)Huysmans qui fa allusione al romanzo del belga Tabarant, intitolato Les virus d’amour.

20)Vedi Jules Huret. Enquête sur l’évolution littéraire, conversazione con Huysmans.

21)La suddivisione in articoli del presente saggio era stata voluta per ragioni editoriali dalla direzione della rivista «Sovremennik».

22)Vedi il mio articolo Un figlio del Dr. Stockmann, nella raccolta Dalla difesa all’attacco.

23)Parlo del tempo in cui Gautier non aveva ancora fatto a tempo a consumare il suo famoso panciotto rosso. In seguito, per esempio all’epoca della Commune parigina, egli era ormai un cosciente nemico — e quanto accanito! — delle aspirazioni libertarie della classe lavoratrice. Bisogna d’altronde osservare che anche Flaubert può essere chiamato predecessore spirituale di Knut Hamsun, e forse addirittura a maggior ragione. In uno dei suoi carnets si trovano le seguenti notevoli righe: «Ce n’est pas contre Dieu que Prométhée, aujourd’hui, devrait se révolter, mais contre le PeupIe, dieu nouveau. Aux vieilles tyrannies sacerdotales, féodales et monarchiques en a succédé une autre, plus subtile, inextricable, impérieuse et qui, dans quelque temps, ne laissera pas un seul coin de la terre qui soit libre», (Vedi il capitolo intitolato Les carnets de Gustave Flaubert nel libro di Louis Bertrand: Gustave Flaubert, Paris 1923). Questo è appunto quel pensiero libero come un uccello che ispira Ivar Kareno. Nella sua lettera a George Sand dell’8 settembre 1871 Flaubert diceva: «Je crois que la foule, le troupeau sera toujours haissable. Il n’y a d’important qu’un petit groupe d’esprits toujours les mémes et qui se repassent le flambeau». In questa stessa lettera si trovano le righe da me citate più sopra sul suffragio universale che costituirebbe una vergogna dell’intelligenza umana perché grazie ad esso il numero trionferebbe «perfino sui soldi»! (V. Flaubert, Correspondance, quatrième série 1869-1880, huitième mille, Paris 1910). In queste opinioni probabilmente Ivar Kareno avrebbe riconosciuto i suoi pensieri liberi come quelli di un uccello. Tuttavia tali idee non hanno trovato diretta espressione nelle opere di Flaubert. La lotta di classe nella nuova società doveva spingersi molto più avanti prima che gli ideologi della classe dominante avvertissero la necessità di esprimere direttamente in letteratura il loro odio contro le tendenze emancipatrici del «popolo». Ma quelli tra loro che col tempo avvertirono l’insorgere di una tale esigenza non potevano più difendere «l’assoluta autonomia» dell’ideologia. Al contrario, essi attribuirono alle ideologie il cosciente compito di servire da arma spirituale nella lotta contro il proletariato. Ma di ciò più oltre.

24)Personaggio della favola omonima di Saltykov- Ščedrin.

25)Sono le parole stesse di Bourget; vedi La barricade, Paris 1910 prefazione.

26)Dalla ballata di A. Tolstoj Vasilij Šibanov.

27)Dalla prefazione a La barricade.

28)Sous l’oeil des barbares, 1901.

29)Z. Hippius, Poesie, prefazione.

30)E’ noto, ad esempio, che l’opera di Helvétius De l’Homme venne pubblicata nel 1772 all’Aja da uno dei principi Golizyn.

31)L’entusiasmo degli aristocratici russi per gli enciclopedisti francesi non ebbe affatto delle serie conseguenze pratiche. Tuttavia esso fu utile nel senso che liberò certe teste aristocratiche di certi pregiudizi aristocratici. Al contrario, l’attuale entusiasmo di una certa parte dei nostri intellettuali per le opinioni filosofiche e i gusti estetici della borghesia decadente è nocivo nel senso che esso riempie le teste dei nostri «intellettuali» di certi pregiudizi borghesi per il cui autonomo insorgere il suolo russo non é stato ancora sufficientemente preparato dal corso dell’evoluzione sociale. Tali pregiudizi penetrano perfino nelle menti di molti russi che simpatizzano con il movimento proletario. Pertanto in essi assistiamo alla formazione di una stranissima mescolanza di socialismo e modernismo, originata dalla decadenza della borghesia. Una tale confusione porta non poco danno perfino nella pratica.

32)Dmitri Merežkovskij, Zinaida Hippius, Dmitri Filosofov, Der Zar und die Revolution, München, K. Piper und C. Verlag, 1908.

33)I signori Merežkovskij, Hippius e Filosofov nel loro libro tedesco non rifiutano affatto il nome di «decadenti». Essi si limitano a comunicare modestamente all’Europa che i decadenti russi «hanno attinto i più alti culmini della cultura mondiale».

34)Naturalmente il suo anarchismo mistico non mette paura proprio a nessuno. In generale l’anarchismo rappresenta soltanto un’estrema conseguenza tratta dalle fondamentali premesse dell’individualismo borghese. Ecco pérché noi incontriamo spesso delle simpatie per l’anarchismo negli ideologi borghesi del periodo della decadenza. Anche Maurice Barrès aveva delle simpatie anarchiche in quel periodo della sua evoluzione in cui affermava che non esiste altra realtà al di fuori del nostro «io». Attualmente egli probabilmente non nutre più alcuna simpatia cosciente per I’anarchismo, dal momento che già da un pezzo si sono smorzati tutti i pretesi tumultuosi entusiasmanti dell’individualismo barresiano. Ormai per lui sono già «restaurate» quelle «verità degne di fede» che un tempo egli aveva dichiarato «distrutte». Il processo di tale restaurazione si è compiuto con il passaggio di Barrès al punto di vista reazionario del più lolgare nazionalismo. E in questo passaggio non v’è nulla di sorprendente: dall'estremistico individualismo borghese non c’è che un passo per giungere alle «verità» più reazionarie. Avis per la signora Hippius, e anche per i signori Merežkoskij e Filosofov.

35)Come esempio di un pensatore che limita i diritti della ragione nell’interesse della religione si può citare Kant: «Ho dovuto limitare la scienza per lasciare il posto alla fede», Critica della ragion pura, prefazione alla seconda edizione, Lipsia.

36)Tra i primi impressionisti c’erano molti artisti di gran talento. Ma è notevole il fatto che tra questi artisti di gran talento non vi è nessun ritrattista di primo piano. E ciò è comprensibile: nel ritratto la luce non può essere il protagonista. Inoltre, i paesaggi dei più notevoli maestri dell’impressionismo sono buoni perché rendono felicemente il gioco vario e capriccioso della luce, mentre di «stato d’animo» ce n’è poco. Feuerbach ha detto benissimo: «Pensare significa leggere in maniera coerente il vangelo dei sensi». Se teniamo presente che per «sensi» e sensibilità Feuerbach itendeva tutto ciò che si riferisce al dominio delle sensazioni, noi possiamo dire che gli impressionisti non sapevano e non volevano leggere «il vangelo dei sensi». In ciò consisteva il principale difetto della loro scuola. E ciò la condusse ben presto alla decadenza. Se sono buoni i paesaggi dei primi (cronologicamente) e principali maestri dell'impressionismo, d’altra parte molti paesaggi dei loro innumerevoli discepoli sembrano caricature.

37)Vedi l’articolo di Camille Mauclair, La crise de la laideur en peinture, nella sua interessante raccolta Trojs crises de l’art actuel, Paris 1906.

38)Vedi l’opera citata qui sopra.

39)Die Kunst und die Revolution, (R. Wagner, Gesammelte Schriften, Leipzig, 1872.

40)Les carnets de Gustave Flaubert, nell’op. cit. di L. Bertrand.

41)Ivi, stessa pagina.

42)Karl Marx, La miseria della filosofia.

43)«Nous touchons ici au défaut de culture générale qui caractérise la plupart des artistes jeunes. Une fréquentation assidue vous démontrera vite qu’il sont en général très ignorants... incapables ou indifférents dévant les antagonismes d’idées et les situations dramatiques actuelles, ils oeuvrent péniblement à l’écart de toute agitation intellectuelle et sociale, confinés dans les conflits de technique, absorbés par l’apparence matérielle de la peinture plus que par sa signification genérale et son influence intellectuelle». Holl, La jeune peinture contemporanie, Paris 1912.

44)Qui cito volentieri Flaubert. Questi scriveva a George Sand: «Je crois la forme et le fond... deux entités qui n’existent jamais l’une sans l’autre». Correspondance, quatrième série. Chi crede possibile sacrificare la forma «alle idee» cessa di essere un artista, anche se lo sia stato precedentemente.

45)«Non è un capriccio irresponsabile di un gusto troppo difficile e schifiltoso quello che ci suggerisce il desiderio di scoprire dei valori estetici autonomi, indipendenti dalle vanità della moda e dall’imitazione servile. Il sogno creativo di un’unica bellezza imperitura, la cui vitale immagine “salverà il mondo “, illumina e fa risorgere gli smarriti e i caduti, e si nutre dell’inestirpabile esigenza dello spirito umano di penetrare gli essenziali segreti dell’assoluto». (V.N. Speranskij, Il ruolo sociale della filosofia, introduzione). La logica costringe coloro che pensano in tal modo a riconoscere l’esistenza di un criterio assoluto della bellezza. Ma coloro che così pensano sono idealisti della più bell’acqua, mentre io mi considero un non meno perfetto materialista. Non solo io non ammetto l’esistenza di «un’unica imperitura bellezza», ma non comprendo nemmeno quale senso possa esser collegato a quelle parole. Per giunta sono convinto che non lo comprendono neppure i signori idealisti. Tutti i discorsi su una tale bellezza sono solo «letteratura».

46)Si tratta del piccolo figlio di otto anni del proprietario Manilov, un personaggio delle Anime morte, di Gogol’.

47)Temo che anche qui possa sorgere un equivoco. L’espressione «è in decadenza» sta a significare per me, comme de raison, un intero processo, e non un singolo fenomeno. Questo processo non è ancora giunto a compimento, così come non è giunto a compimento il processo di decadenza del regime borghese. Sarebbe pertanto strano pensare che gli attuali ideologi borghesi siano definitivamente incapaci di darci delle opere notevoli. Tali opere sono naturalmente possibili anche oggi. Ma le probabilità che tali opere appaiano vanno fatalmente diminuendo. Per giunta, anche le opere notevoli portano oggi impresso su di sé il marchio di un’epoca di decadenza. Prendiamo ad esempio i tre autori russi citati poco sopra: se il signor Filosofov è privo del minimo talento artistico, invece la signora Hippius ha un certo talento artistico e il signor Merežkovskij è un artista di grande talento. Ma è facile vedere che il suo ultimo romanzo (Alessandro I) è irreparabilmente guastato dalla sua mania religiosa, la quale a sua volta costituisce un fenomeno peculiare delle epoche di decadenza. In tali epoche anche i massimi talenti non danno tutto ciò che essi sarebbero in grado di dare in situazioni sociali più favorevoli.

a) "L'autonomia assoluta dell'arte non ammette che essa abbia altri scopi che essa stessa e altra missione da compiere che non sia eccitare nel lettore la sensazione del bello, nel significato assoluto del termine"(NDT)

b) "..Le meschine impressioni personali...e non è più adatta a insegnare all'uomo..."(NDT)

c) "..dare una vita ideale a chi non ha una vita reale" (NDT)

d) "...questa non è un'opera, questa è una lezione" (NDT)

e) "è necessario essere contenti, se piove, se c'è il sole, se fa caldo, se fa freddo: Abbiate una tinta vermiglia, io destesto la gente magra, il volto pallido, chi non ride merita di essere impalato"

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Ultima modifica 30.01.2010