La letteratura drammatica francese e la pittura del XVIII secolo dal punto di vista della sociologia(a)

Georgij Valentinovič Plechanov

 


Georgij Valentinovič Plechanov, 1905


 

Lo studio della vita dei popoli primitivi ci offre la migliore conferma possibile di quella fondamentale tesi del materialismo storico che afferma che la coscienza degli uomini è determinata dal loro essere. A sostegno di ciò sarà qui sufficiente richiamarsi alla conclusione a cui giunge Bücher nel suo notevolissimo studio Arbeit und Rhythmus. Dice Bücher: «Sono giunto alla conclusione che il lavoro, la musica e la poesia erano fusi tra di loro in un primo grado di evoluzione, ma che tuttavia l’elemento fondamentale di questa triade era il lavoro, mentre alle altre due componenti spettava soltanto un’importanza secondaria». Secondo Bücher, l’origine della poesia si spiega con il lavoro (der Ursprung der Poesie ist in der Arbeit zu suchen), e chi sia al corrente della letteratura relativa a questo argomento non accuserà certo Bücher di esagerazione(1). Le obiezioni che gli sono state mosse da parte di persone competenti non riguardano l’essenza, bensì solo alcuni aspetti secondari della sua tesi. Non v’è dubbio che Bücher ha sostanzialmente ragione.

Ma la sua conclusione si riferisce appunto soltanto all’origine della poesia. Ma cosa si può dire del suo ulteriore sviluppo? Qual’è la condizione della poesia e in generale dell’arte nei gradi superiori dell’evoluzione sociale? E’ possibile rilevare — e a quali gradi di sviluppo — l’esistenza di un legame causale tra l’essere e la coscienza, tra la tecnica e l’economia della società da una parte e la sua arte dall’altra?

In questo articolo cercheremo una risposta a questa domanda fondandoci sulla storia dell’arte francese nel XVIII secolo.

A questo punto però dobbiamo anzitutto fare la seguente premessa. La società francese del XVIII secolo da un punto di vista sociologico è caratterizzata anzitutto dalla circostanza che si tratta di una società divisa in classi. Una tale circostanza non poté non riflettersi sullo sviluppo dell’arte. E infatti, consideriamo ad esempio il teatro. Sulla scena medievale, in Francia come in tutta l’Europa occidentale, un posto importante è occupato dalle cosiddette farse. Le farse venivano composte per il popolo e venivano recitate davanti al popolo. Esse servivano sempre ad esprimere le opinioni del popolo, le sue aspirazioni e — ciò che è particolarmente importante rilevare qui — le sue rimostranze nei confronti delle classi superiori. Ma a cominciare dal regno di Luigi XIII la farsa incomincia a decadere; essa rientra ormai nel numero di quei divertimenti che convengono soltanto a dei lacchè e che non sono degni di persone dal gusto raffinato: réprouvés des gens sages, come scrive uno scrittore francese nel 1625. Ecco che in sostituzione della farsa appare la tragedia. Ma la tragedia francese non presenta nulla di comune con le opinioni, le aspirazioni e il malcontento delle masse popolari. Essa invece è una creazione dell’aristocrazia ed esprime le vedute, il gusto e le aspirazioni dei ceti superiori. Vedremo subito quale profonda impronta abbia lasciato su tutto il suo carattere questa sua origine sociale; ma prima vogliamo rivolgere l’attenzione del lettore sul fatto che all’epoca del sorgere della tragedia in Francia l’aristocrazia di questo paese non svolgeva nessuna occupazione produttiva, e viveva usando quei prodotti che venivano creati dall’attività economica del terzo stato (tiers état). Non è difficile capire che questo fatto non poté non esercitare un’influenza sulle opere d’arte che sorgevano nell’ambito dell’aristocrazia e ne esprimevano i gusti. E’ noto, ad esempio, che i neozelandesi cantano in alcune loro canzoni la coltivazione delle patate. E’ anche noto che le loro canzoni non di rado sono accompagnate da una danza che costituisce appunto la riproduzione dei movimenti che vengono compiuti dall’agricoltore durante la coltivazione di tali piante. Qui si scorge chiaramente in che modo l’attività produttiva degli uomini eserciti un’influenza sulla loro arte, e se ne deduce non meno chiaramente che, dal momento che le classi superiori della società non svolgono nessuna attività produttiva, l’arte che sorge nell’ambito di tali classi non può presentare nessun diretto rapporto con il processo della produzione. Ma ciò significa forse che in una società divisa in classi s’indebolisca la dipendenza causale della coscienza degli uomini dal loro essere? No, ciò non significa affatto questo, giacché la stessa divisione in classi della società è condizionata dal suo sviluppo economico. E se l’arte creata dalle classi superiori non presenta nessun rapporto diretto con il processo produttivo, anche questo fatto in ultima analisi si spiega mediante cause economiche. Quindi l’interpretazione materialistica della storia è pienamente accettabile anche in questo caso; ma va da sé che in questo caso non è tanto facile scoprire il legame causale — che pure indubbiamente esiste — tra l’essere e la coscienza, tra i rapporti sociali costituitisi sulla base del lavoro e l’arte. In questo caso tra il lavoro da una parte e l’arte dall’altra vengono ad interporsi delle istanze intermedie che spesso attraggono tutta l’attenzione dei ricercatori e con ciò rendono più difficile una giusta comprensione dei fenomeni.

Fatta questa indispensabile premessa, passiamo ora all’argomento che c’interessa e anzitutto rivolgiamo la nostra attenzione alla tragedia.

«La tragedia francese — dice Taine nelle sue Letture sull’arte — appare nell’epoca in cui la nobile e bene organizzata monarchia di Luigi XIV stabilisce il dominio dell’etichetta, la splendida situazione fatta all’aristocrazia, le splendide rappresentazioni e la vita di corte; per scomparire poi nel momento in cui la nobiltà e i costumi cortigiani cadono sotto i colpi della rivoluzione».

Ciò è assolutamente esatto. Ma il processo storico del sorgere e specialmente del decadere della tragedia classica francese fu un po’ più complicato di come lo ha rappresentato questo famoso teorico dell’arte.

Consideriamo questo genere letterario dal punto di vista sia della forma che del contenuto.

Da un punto di vista formale nella tragedia classica devono anzitutto attirare la nostra attenzione le famose tre unità, che in seguito dovevano dar luogo a tante discussioni, nell’epoca eternamente memorabile per la letteratura francese della lotta tra classici e romantici. La teoria delle tre unità era nota in Francia sin dai tempi della Rinascenza, ma essa diventò una legge letteraria e una regola inviolabile del «buon gusto» soltanto nel secolo diciassettesimo. «Quando Corneille scriveva la sua Medea nel 1629 egli non sapeva ancora nulla delle tre unità» dice il Lanson. Il propagandista della teoria delle tre unità all’inizio degli anni trenta del diciassettesimo secolo fu il Mairet. Nel 1634 venne rappresentata la sua tragedia Sofonisba, che fu la prima tragedia scritta secondo le «regole». Questa tragedia dette origine a una polemica nel corso della quale gli avversari delle «regole» si opponevano ad esse citando argomenti che ricordano notevolmente quelli dei romantici. A difesa delle tre unità si levarono i dotti ammiratori della letteratura antica (les érudits), i quali ottennero una definitiva e durevole vittoria. Ma a che cosa essi dovettero la loro vittoria? In ogni caso non alla loro «erudizione», di cui il pubblico s’interessava molto poco, bensì, alle crescenti esigenze delle classi superiori, per le quali si erano fatte insopportabili le ingenue incongruenze sceniche dell’epoca precedente. «Le unità, — dice il Lanson, — avevano dalla loro un’idea che doveva entusiasmare le persone di buon gusto: l’idea di una fedele imitazione della realtà capace di creare un’adeguata illusione. Nel loro autentico significato, le unità rappresentano il minimum di convenzionalità... Quindi il trionfo delle unità fu in sostanza la vittoria del realismo sull’immaginazione».

In tal modo in quell’occasione vinse in realtà la raffinatezza del gusto aristocratico, raffinatezza che si andava accentuando contemporaneamente al consolidarsi della «nobile e graziosa monarchia». Gli ulteriori successi della tecnica teatrale resero pienamente possibile — anche senza il rispetto delle tre unità — una fedele imitazione della realtà; ma nella mente degli spettatori l’idea delle tre unità si presentava associata a tutta una serie di altre idee per essi care e importanti, e quindi tale teoria acquistava quasi un valore indipendente appoggiandosi sulle esigenze cosiddette «indiscutibili» del buon gusto. In seguito il predominio delle tre unità venne assicurato — come vedremo più oltre — anche da altre cause sociali, e pertanto tale teoria venne difesa anche da coloro che odiavano l’aristocrazia. La lotta contro le tre unità si fece molto difficile; per abbatterle i romantici ebbero bisogno di una notevole sottigliezza, di perseveranza e di un’energia quasi rivoluzionaria.

Dal momento che abbiamo parlato di tecnica teatrale, faremo ancora la seguente osservazione.

L’origine aristocratica della tragedia francese ha lasciato la sua impronta — tra l’altro — anche sulla recitazione degli attori. Tutti sanno, ad esempio, che la recitazione degli attori drammatici francesi è caratterizzata ancora oggi da una certa affettazione e perfino dall’enfasi, che esercitano un’impressione piuttosto spiacevole su uno spettatore che non vi sia abituato. Chi ha visto Sarah Bernhardt sarà certamente d’accordo con noi. Un tale tipo di recitazione è stato ereditato dagli attori drammatici francesi sin dal tempo in cui sulle scene francesi regnava la tragedia classica. La società aristocratica del XVII e del XVIII secolo avrebbe manifestato la più viva insoddisfazione se agli attori tragici fosse venuto in mente di recitare le loro parti con quella semplicità e naturalezza con cui ci affascina, ad esempio, Eleonora Duse. Una recitazione semplice e naturale era decisamente in contrasto con tutte le esigenze di un’estetica aristocratica. «I francesi non si limitano ai costumi per conferire agli attori e alla tragedia la dignità e la nobiltà ad essa indispensabile, — dichiara con orgoglio l’abate Dubos — Noi vogliamo che anche gli attori parlino in un tono più alto e più teso di quello che si usa nel discorso comune. Si tratta di un tipo di recitazione più difficile (sic!), ma vi è in esso maggiore dignità. Anche il gestire deve corrispondere al tono, giacché i nostri attori devono esprimere la grandezza e la nobiltà in tutto ciò che fanno».

Ma perché gli attori dovevano esprimere la grandezza e la nobiltà? Perché la tragedia era la creatura dell’aristocrazia cortigiana, e i suoi protagonisti erano re, «eroi» e in generale gente «di alta condizione», i quali erano costretti — per così dire per «obbligo di servizio» — perlomeno ad apparire — se non ad essere — «grandi e nobili». Un drammaturgo nelle cui opere non si riscontrasse la debita e convenuta dose di «elevatezza» cortigiano-aristocratica non avrebbe mai ottenuto gli applausi degli spettatori di quel tempo.

Ciò lo si può constatare meglio di tutto dai giudizi che vennero espressi sul conto di Shakespeare nella Francia di quell’epoca, e anche in Inghilterra sotto l’influenza francese.

Hume pensava che non si dovesse esagerare il genio di Shakespeare: i corpi sproporzionati sembrano spesso più alti di quanto lo siano in realtà; Shakespeare era buono per i suoi tempi, ma non va più per un pubblico raffinato. Pope esprime il suo rincrescimento per il fatto che Shakespeare aveva scritto per il popolo e non per la gente del bel mondo. «Shakespeare avrebbe scritto meglio, — egli dice — se avesse goduto della protezione del sovrano e dell’appoggio dei cortigiani». Lo stesso Voltaire, che pure nella sua attività letteraria si fece araldo di una nuova epoca, avversa all’antico regime, e che conferì a molte delle sue tragedie un contenuto «filosofico», pagò un altissimo pedaggio alle concezioni estetiche della società aristocratica. Shakespeare gli pareva un barbaro geniale ma rozzo. Il suo giudizio sull’Amleto è estremamente interessante: «Questo dramma — egli dice — è pieno di anacronismi e di assurdità; in esso Ofelia viene seppellita sulla scena, e ciò costituisce uno spettacolo così orribile che il famoso Garrick soppresse la scena del cimitero…Questo dramma abbonda di volgarità. Nella prima scena, ad esempio, una sentinella dice: “Non ho sentito neppure correre un topo“. Si possono forse ammettere tali assurdità? Senza dubbio un soldato è capace di esprimersi a questo modo nella sua caserma, ma egli non deve esprimersi così sulla scena, davanti ai più eletti personaggi della nazione, persone che si esprimono con uno scelto linguaggio e alla cui presenza bisogna parlare in modo altrettanto eletto. Vi immaginate, signori miei, Luigi XIV nella sua galleria degli specchi, circondato dalla sua splendida corte, e figuratevi che un buffone coperto di stracci si faccia largo a gomitate tra la folla di eroi, di uomini eminenti e bellissime dame che compongono tale corte; egli propone di abbandonare Corneille, Racine e Molière per un pulcinella che ha qualche battuta felice e fa delle smorfie. Che cosa ne pensate? Che accoglienza verrebbe riservata a un tale buffone?».

In queste parole di Voltaire abbiamo un accenno per comprendere non soltanto l’origine aristocratica della tragedia classica francese, ma anche le cause della sua decadenza(2).

La ricercatezza trapassa facilmente in affettazione, e l’affettazione esclude una seria e ponderata elaborazione dell’argomento. E ciò non riguarda soltanto l’elaborazione. Infatti l’ambito in cui venivano scelti gli argomenti dovette necessariamente restringersi sotto l’influenza dei pregiudizi di casta dell’aristocrazia. La concezione del decoro propria della casta aristocratica tagliava le ali all’arte. Sotto questo aspetto appare estremamente caratteristica ed istruttiva l’esigenza che Marmontel poneva alla tragedia.

«Una nazione pacifica e bene ordinata, — dice Marmontel —, in cui ogni cittadino considera suo dovere adattare le proprie idee e i propri sentimenti ai costumi e alle abitudini della società, una nazione in cui le convenienze hanno valore di legge, può ammettere soltanto dei caratteri che siano stati smussati dal. rispetto verso gli altri, e dei vizi che siano stati addolciti dalle convenienze».

Un concetto classista delle convenienze diventa così il criterio per la valutazione delle opere d’arte. Ciò è già sufficiente di per sé per determinare la decadenza della tragedia classica. Ma ciò non è sufficiente per spiegare l’apparizione sulla scena francese di un nuovo genere di opere drammatiche. Eppure noi vediamo che negli anni trenta del XVIII secolo fa la sua apparizione un nuovo genere letterario, la cosiddetta comédie larmoyante, che per un certo periodo ottiene un notevole successo. Se la coscienza si spiega mediante l’essere, se la cosiddetta evoluzione spirituale dell’uomo si trova in dipendenza causale dal suo sviluppo economico, ciò significa che la realtà economica del XVIII secolo ci dovrà spiegare — tra l’altro — anche l’apparizione della comédie larmoyante. Ci si chiede se essa sia in grado di far ciò.

Non soltanto essa può farlo, ma in parte l’ha già fatto, anche se — in verità — senza un metodo serio. A dimostrazione di ciò possiamo citare, ad esempio, Hettner, il quale nella sua storia della letteratura francese considera la comédie Iarmoyante come una conseguenza dell’ascesa della borghesia francese. Ma l’ascesa della borghesia — come quella di ogni altra classe — può essere spiegata soltanto mediante lo sviluppo economico della società. E così dunque Hettner, senza certo sospettarlo né volerlo egli stesso, essendo nemico giurato del materialismo, di cui — sia detto per inciso — ha peraltro un’idea completamente assurda, giunge alla spiegazione materialistica della storia. E non è il solo Hettner a comportarsi così. Molto meglio di lui, Brunetière nel suo libro Les époques du théatre français riesce a svelare la dipendenza causale che noi andiamo cercando.

In quel libro egli ci dice: «Dall’epoca del fallimento che colpì la banca Law — per non tornare troppo indietro nel tempo — l’aristocrazia si sente mancare ogni giorno di più il terreno sotto i piedi. Si direbbe quasi che essa si affretti a fare tutto quello che una classe può fare per screditarsi... in particolar modo essa si sta rovinando, mentre la borghesia — o terzo stato — si va arricchendo, e acquistando man mano sempre più importanza, acquista anche la coscienza dei propri diritti. La disparità esistente la indigna molto di più di quanto la indignasse in passato. Gli abusi le appaiono più insopportabili che in passato. Come ha detto recentemente un poeta, nei cuori è nato l’odio insieme alla sete di giustizia. Sarebbe forse possibile che, potendo disporre di un tale mezzo di propaganda e influenza qual’è il teatro, la borghesia non se ne servisse? Sarebbe possibile che essa non prendesse sul serio e non considerasse con occhio tragico quelle disparità che erano state capaci soltanto di divertire l’autore del Bourgeois gentilhomme e del Georges Dandin? E ancora di più: sarebbe forse possibile che questa borghesia ormai trionfante si rassegnasse a vedere continuamente sulla scena re e imperatori e che non ricorresse — se così si può dire — ai suoi risparmi per ordinarsi il ritratto?».

E così la comédie Iarmoyante fu il ritratto della borghesia francese del secolo XIII. Questo è perfettamente vero. Non per nulla infatti essa si chiama anche dramma borghese. Ma in Brunetière questa opinione perfettamente giusta ha un carattere troppo generale e quindi astratto. Cerchiamo di svilupparla in maniera più dettagliata.

Brunetière dice che la borghesia non poteva rassegnarsi a vedere eternamente presentati sulla scena solo re e imperatori. Ciò è molto verosimile stando alle spiegazioni da lui forniteci nella citazione da noi riportata, ma per ora è soltanto verosimile; ciò diventerà certo e indubitabile soltanto quando avremo conosciuto la psicologia di perlomeno alcuni dei personaggi che ebbero, una parte attiva nella vita letteraria della Francia di allora. Nel numero di questi personaggi rientra senza dubbio anche il notevole Beaumarchais, autore di alcune comédies larmoyantes. Cosa dunque pensava Beaumarchais del fatto che sulla scena venissero continuamente presentati solo re o imperatori?

Egli si levò decisamente e appassionatamente contro questo fatto. Egli scherniva causticamente quella consuetudine letteraria in forza della quale come eroi della tragedia venivano presentati i re e i potenti di questa terra, mentre i rappresentanti del ceto più umile venivano messi alla gogna. «Présenter des hommes d’une condition moyenne accablés et dans le malheur, fi donc! On ne doit jamais les montrer que bafoués. Les citoyens ridicules et les rois malheureux, voilà tout le théatre existante et possible, et je me le tiens pour dit»(3).

Questa caustica esclamazione di uno degli ideologi più notevoli del terzo stato conferma quindi, evidentemente, le considerazioni psicologiche di Brunetière sopra citate. Ma Beaumarchais non vuole soltanto rappresentare «dans le malheur» delle persone del terzo stato. Egli protesta anche contro l’abitudine di scegliere i personaggi delle opere drammatiche «serie» tra gli eroi del mondo antico. «Cosa importa a me, — egli si domanda — pacifico suddito di un governo monarchico del XVII secolo, di avvenimenti ateniesi o romani? Posso forse provare un grande interesse per la morte di un tiranno del Peloponneso oppure per il sacrificio di una giovane principessa ad Aulide? Tutto ciò non mi riguarda affatto, né posso trarne alcun insegnamento morale»(4).

La scelta di eroi del mondo antico era una delle estremamente numerose manifestazioni di quell’entusiasmo per l’antichità che costituiva già di per sé un riflesso ideologico della lotta del nuovo ordine sociale al suo sorgere contro il feudalismo. Dall’epoca della rinascenza questo entusiasmo per la civiltà antica è passato nel secolo di Luigi XIV, che — com’è noto — veniva spesso paragonato al secolo di Augusto. Ma quando la borghesia cominciò ad essere pervasa da tendenze di opposizione, quando nel suo cuore cominciò a nascere l’odio insieme alla sete di giustizia, allora l’entusiasmo per gli antichi eroi, che prima era pienamente condiviso dai suoi più colti rappresentanti, cominciò ad apparirle fuori luogo, mentre insufficientemente istruttivi le apparivano gli avvenimenti della storia antica. L’eroe del dramma borghese è «l’uomo del ceto medio» contemporaneo, più o meno idealizzato dagli ideologi della borghesia di quell’epoca. Questa circostanza caratteristica naturalmente non poteva nuocere al «ritratto».

Andiamo avanti. Il vero creatore del dramma borghese in Francia fu Nivelle de la Chaussée. Ma cosa vediamo nelle sue numerose opere? La rivolta contro questi o quegli aspetti della psicologia aristocratica, la lotta contro questi o quei pregiudizi, o meglio, se volete, vizi nobiliari. I contemporanei apprezzavano più di ogni altra cosa in questi drammi proprio la predicazione morale che vi era contenuta(5). Anche sotto questo aspetto la comédie larmoyante era fedele alla sua origine.

E’ noto che gli ideologi della borghesia francese che si sono sforzati di darci il suo «ritratto» nelle loro opere drammatiche non hanno dimostrato una grande originalità. Il dramma borghese non venne creato da loro, bensì soltanto trasportato dall’Inghilterra in Francia. In Inghilterra infatti questo genere di opere drammatiche era sorto alla fine del secolo XVII come reazione contro la terribile dissolutezza che regnava allora sulla scena e costituiva il riflesso della decadenza morale della contemporanea aristocrazia inglese. Lottando contro l’aristocrazia, la borghesia volle che la commedia diventasse «degna di cristiani», ed essa cominciò a predicare sulla scena la propria morale. I novatori letterari francesi del XVIII secolo, che in genere presero largamente a prestito dalla letteratura inglese tutto ciò che corrispondeva alla situazione e ai sentimenti della borghesia francese ribelle, trapiantarono pari pari in Francia questo aspetto della comédie larmoyante inglese. Il dramma borghese francese sa far propaganda non peggio di quello inglese alle virtù familiari borghesi. In ciò consisteva uno dei segreti del suo successo e in ciò anche è da ricercare la spiegazione di una circostanza a prima vista assolutamente incomprensibile, e cioè del fatto che il dramma borghese francese, che verso la metà del secolo diciottesimo appare come un genere letterario ormai solidamente affermato, ben presto si ritira in secondo piano cedendo il passo alla tragedia classica, la quale invece — secondo tutte le apparenze — avrebbe dovuto cedere il passo davanti ad esso.

Vedremo ora in qual modo si spieghi questa strana circostanza, ma prima ancora vogliamo fare la seguente osservazione. Diderot, il quale grazie alla sua natura di appassionato novatore non poteva non entusiasmarsi per il dramma borghese e che, com’è noto, fece anche lui le sue prove nel nuovo genere letterario (ricordiamo il suo Le fils naturel del 1757 e Le père de famille del 1758), esigeva che la scena offrisse una rappresentazione non dei caratteri, bensì delle condizioni, e in particolare delle condizioni sociali. Gli veniva replicato che la condizione sociale di per sé non definisce ancora l’uomo. «Che cos’è mai — gli si chiedeva — il giudice in sé? Che cos’è il mercante in sé?» Ma in questo caso si trattava di un grossolano equivoco. Diderot non parlava del giudice «in sé» o del mercante «in sé», bensì del mercante a lui contemporaneo e specialmente del giudice a lui contemporaneo. E il fatto che i giudici di quell’epoca offrissero un materiale abbondante ed istruttivo per rappresentazioni sceniche molto vive è magnificamente dimostrato dalla famosa commedia Le mariage de Figaro. L’esigenza di Diderot era soltanto un riflesso letterario delle aspirazioni rivoluzionarie del «ceto medio» francese dell’epoca.

Ma proprio il carattere rivoluzionario di tali aspirazioni impedì al dramma borghese francese di riportare una definitiva vittoria sulla tragedia classica.

Figlia dell’aristocrazia, la tragedia classica esercitò un’indiscussa e illimitata egemonia sulla scena francese finché indiscusso e totale fu il potere esercitato dall’aristocrazia… nei confini segnati dalla monarchia di casta che era essa stessa il risultato storico di una lunga e aspra lotta di classe in Francia. Quando il dominio dell’aristocrazia cominciò ad essere discusso, quando i rappresentanti del «ceto medio» si fecero portatori di aspirazioni contestatrici, le antiche teorie letterarie cominciarono ad apparire a queste persone insoddisfacenti, ed il vecchio teatro sembrò loro insufficientemente «istruttivo». Ed allora, accanto alla tragedia classica che si avviava rapidamente alla decadenza, fece la sua comparsa il dramma borghese. Nel dramma borghese il francese appartenente al «ceto medio» contrappose le proprie virtù familiari alla profonda corruzione dell’aristocrazia. Ma la contraddizione sociale che la Francia di allora doveva risolvere non poteva essere superata grazie ad una predicazione morale. La questione non stava nell’eliminazione dei vizi aristocratici, bensì nell’eliminazione dell’aristocrazia stessa. E’ chiaro che ciò non poteva verificarsi senza una lotta accanita ed è altrettanto chiaro che Le père de famille, nonostante tutta l’innegabile rispettabilità della sua moralità borghese, non poteva certo servire da modello d’instancabile e intrepido lottatore. Il «ritratto» letterario della borghesia non le infondeva l’eroismo. Eppure gli avversari dell’antico regime avvertivano l’esigenza dell’eroismo e riconoscevano che era indispensabile che nel terzo stato si sviluppasse la virtù civile. Ma dove si potevano trovare i modelli di una tale virtù? Là dove anche prima si erano cercati i modelli del gusto letterario, e cioè nel mondo antico.

Ed ecco nuovamente ricomparso l’entusiasmo per gli antichi eroi. Ora l’avversario dell’aristocrazia non dice più, come diceva invece Beaumarchais: «Che importa a me, pacifico suddito di una monarchia del XVIII secolo, degli avvenimenti di Atene e di Roma?» Ora gli «avvenimenti» di Atene e di Roma hanno ricominciato a destare nel pubblico il più vivo interesse. Ma l’interesse per questi avvenimenti ha assunto adesso un carattere completamente diverso.

Se ora i giovani ideologi della borghesia s’interessavano al fatto che «la giovane figlia di un re veniva sacrificata ad Aulide», tale interesse era dovuto soprattutto al fatto che essi scorgevano in tale avvenimento del materiale adatto a denunciare la «superstizione»; se la loro attenzione veniva attratta dalla «morte di un certo tiranno del Peloponneso», ciò era dovuto non tanto all’aspetto psicologico, quanto all’aspetto politico di tale avvenimento. Ormai non ci si entusiasmava più per il secolo monarchico di Augusto, bensì per gli eroi repubblicani di Plutarco. Plutarco diventò allora il vero livre de chevet dei giovani ideologi della borghesia, come ci è dimostrato, ad esempio, dalle memorie della signora Rolland.

E questo entusiasmo per gli eroi repubblicani ravvivò nuovamente l’interesse per tutto il mondo antico in generale. L’imitazione dell’antichità divenne una moda e impresse profondamente la sua impronta su tutta l’arte francese dell’epoca. Più oltre vedremo quale  notevole traccia ciò abbia lasciato nella storia della pittura francese; per ora osserveremo che ciò indebolì l’interesse per il dramma borghese a causa della borghese banalità del suo contenuto e ritardò ancora per un lungo lasso di tempo la morte della tragedia classica.

Gli storici della letteratura francese si sono chiesti meravigliati più di una volta: come si spiega il fatto che i precursori e gli attori della grande rivoluzione francese restavano conservatori nel campo letterario? E come mai l’egemonia del classicismo venne a cadere solo parecchio tempo dopo la caduta dell’antico regime? In realtà il conservatorismo letterario dei novatori del tempo era meramente esteriore. Se la tragedia non mutò quanto alla forma, essa in compenso subì un mutamento essenziale quanto al contenuto.

Prendiamo, ad esempio, la tragedia Spartacus di Saurin, tragedia apparsa nell’anno 1760. Il suo eroe, Spartaco, è pieno di una generosa aspirazione per la libertà. Per la sua grande idea rinuncia perfino al matrimonio con la fanciulla amata e per tutto il corso della tragedia non smette un istante di parlare di libertà e di umanità. Per scrivere e per applaudire tali tragedie certo non si poteva essere un conservatore letterario. Nelle vecchie botti letterarie era stato in questo caso versato un contenuto rivoluzionario assolutamente nuovo.

Le tragedie del genere di quelle di Saurin e di Lemierre (vedi il suo Guglielmo Tell) attuano una delle esigenze più rivoluzionarie del novatore letterario Diderot: esse rappresentano non dei caratteri, bensì delle condizioni sociali, e in particolare le aspirazioni sociali rivoluzionarie del tempo. E il fatto che questo nuovo vino venisse versato nelle botti vecchie si spiega con il fatto che queste botti costituivano il lascito di quella stessa antichità, l’entusiasmo per la quale costituiva uno dei sintomi più significativi e più caratteristici della nuova temperie sociale. Posta accanto a questa nuova varietà della tragedia classica, il dramma borghese, questa moralité en action come la definisce Beaumarchais, appariva — e non poteva non apparire — troppo pallida, troppo insipida, troppo conservatrice per il suo contenuto.

Il dramma borghese dovette la sua origine alle tendenze contestatarie della borghesia francese e non era gia più adatto ad esprimerne le tendenze rivoluzionarie. Il «ritratto» letterario rendeva bene le caratteristiche temporanee, transitorie dell’originale; pertanto si cessò di interessarsene quando l’originale perse quelle sue caratteristiche e quando tali caratteristiche cessarono di apparire gradevoli. Qui sta tutta la faccenda.

La tragedia classica continuò a vivere anche nel periodo in cui la borghesia francese aveva ormai definitivamente trionfato sui difensori del vecchio regime e quando l’entusiasmo per gli eroi repubblicani dell’antichità aveva già perduto ai suoi occhi qualsiasi significato sociale(6). Quando quest’epoca è cominciata, il dramma borghese è risorto a nuova vita e, dopo aver subito alcuni cambiamenti in accordo con le particolarità della nuova situazione sociale, mutamenti tuttavia che non presentavano affatto un carattere sostanziale, si è definitivamente affermato sulla scena francese.

Perfino chi si rifiuti di riconoscere il legame di sangue che lega il dramma borghese del diciottesimo secolo al dramma romantico, dovrebbe senz’altro essere d’accordo sul fatto che, ad esempio, le opere drammatiche di Alessandro Dumas figlio costituiscono l’autentico dramma borghese del diciannovesimo secolo.

Nelle opere d’arte e nei gusti letterari di un determinato periodo si esprime la psicologia sociale, e nella psicologia di una società divisa in classi molte cose rimarranno per noi assolutamente incomprensibili e paradossali se noi continueremo ad ignorare — come fanno gli attuali storici-idealisti, dimentichi delle migliori tradizioni della scienza storica borghese — il reciproco rapporto di classe e la lotta di classe.

Ora abbandoniamo le tavole del palcoscenico e volgiamoci ad un diverso campo dell’arte francese, ed esattamente alla pittura.

Sotto l’influenza delle cause sociali a noi già note, l’evoluzione in questo campo si svolge in senso parallelo a quanto abbiamo già visto nel campo della letteratura drammatica. Ciò è già stato osservato da Hettner, il quale afferma giustamente, ad esempio, che la comédie larmoyante di Diderot non era nient’altro che la pittura di genere portata sulla scena.

All’epoca di Luigi XIV, e cioè nell’epoca in cui la monarchia illuminata raggiunse il suo apogeo, la pittura francese aveva moltissimo di comune con la tragedia classica. In essa — come anche in quest’ultima — regnavano le sublime e la dignité. Ed esattamente come la tragedia classica, anch’essa sceglieva i propri eroi esclusivamente dal numero dei potenti di questa terra. Charles Le Brun, che fu a quell’epoca il legislatore del gusto artistico nel campo della pittura, conosceva in realtà soltanto un unico eroe: Luigi XIV, che egli del resto drappeggiava in costumi antichi.

Le sue famose Batailles d’Alexandre, che ora si possono ammirare al Louvre e che meritano veramente l’attenzione dei visitatori del museo, vennero dipinte dopo la campagna militare delle Fiandre dell’anno 1667, campagna in cui la monarchia francese si coperse di una gloria sfolgorante(7). Questi quadri furono interamente dedicati all’esaltazione del «re-sole» e corrispondono troppo fedelmente alla disposizione degli spiriti di quell’epoca, tutti volti alla magnificenza, alla gloria, alle vittorie, perché la pubblica opinione del ceto dominante non ne venisse definitivamente colpita. Le Brun cedette — forse senza neppure sospettarlo egli stesso — all’esigenza di levare alta la voce, di colpire lo sguardo, di creare la magnificenza di ampie costruzioni pittoriche in corrispondenza con lo sfarzo che circondava il re, dice A. Genevay. La Francia di allora si riassumeva nella persona del suo re. Pertanto davanti ai quadri di Alessandro gli spettatori applaudivano Luigi XIV(8).

L’enorme impressione che produsse ai suoi tempi la pittura di Le Brun può essere sintetizzata nell’esclamazione di Étienne Carneau: «Que tu brilles, Le Brun, d’une lumière pure!».

Ma tutto scorre, tutto muta. Quando si è raggiunto il culmine comincia la discesa. Per la monarchia di casta francese la decadenza ebbe inizio — come è noto — già durante la vita di Luigi XIV per proseguire poi senza interruzioni fino alla rivoluzione. Il «re-sole», pur affermando: «Lo stato sono io», si preoccupava comunque a suo modo della grandezza della Francia. Invece Luigi XV, pur non rinunciando a nessuna delle pretese dell’assolutismo, pensava soltanto ai suoi piaceri. E non pensava ad altro anche la sterminata moltitudine dell’aristocratico servitorame che lo circondava. La sua fu un’epoca d’insaziabile corsa al piacere, un’epoca di vita allegra e dissipata. Ma per quanto indecenti fossero talora i divertimenti degli aristocratici fannulloni, i gusti della società dell’epoca si distinguevano ugualmente per un’innegabile eleganza e per una stupenda raffinatezza che facevano della Francia la «legislatrice della moda». E questi gusti eleganti e raffinati trovarono la loro espressione nelle concezioni estetiche dell’epoca.

«Quando il secolo di Luigi XIV viene soppiantato dal secolo di Luigi XV l’ideale dell’arte passa dal maestoso al gradevole. Dovunque si diffonde la raffinatezza dell’eleganza e la finezza del piacere sensuale»(9). Un tale ideale artistico si realizzò nel modo più chiaro e più completo nei quadri di Boucher.

«Il piacere sensuale — si legge nell’opera che abbiamo or ora citato —, costituisce l’ideale di Boucher e l’anima della sua pittura. La Venere di cui egli sogna e che rappresenta è una Venere meramente sensuale». Ciò è assolutamente giusto e venne perfettamente compreso dai contemporanei di Boucher. Nel 1740 il suo amico Piron dice in una delle sue poesie, rivolgendosi alla signora di Pompadour a nome del famoso pittore:

Je ne recherche, pour tout dire,
Qu’élégance, grâces, beauté,
Doucer, gentilesse et gaîté;
En un mot, ce qui respire
Ou badinage, ou volupté,
Le tout sans trop de liberté,
Drapé du voile que désire
La scrupuleuse honnêteté.

Questi versi caratterizzano magnificamente Boucher, la cui musa era quella leggiadra sensualità di cui sono pervasi tutti i suoi quadri. Anche di questi quadri non pochi si trovano al Louvre, e a chi volesse farsi un’idea della distanza che separa la Francia monarchico-cortigiana di Luigi XV dalla stessa Francia sotto Luigi XIV raccomandiamo di paragonare i quadri di Boucher con quelli di Le Brun. Un tale confronto sarà più istruttivo della lettura di interi tomi di astratte ricerche storiche.

La pittura di Boucher ebbe lo stesso enorme successo che aveva incontrato ai suoi tempi la pittura di Le Brun. L’influenza esercitata da Boucher fu davvero colossale. E’ stato giustamente osservato che i giovani pittori francesi di allora che si recavano a Roma per completare la propria educazione artistica lasciavano la Francia con le opere di Boucher negli occhi e ritornando in patria portavano con sé non le impressioni ricevute dai grandi maestri dell’epoca della Rinascenza, bensì il ricordo dello stesso Boucher. Ma il predominio e l’influenza esercitata da Boucher non posavano su solide basi; il movimento liberatore della borghesia francese gli mise contro la critica progressista del tempo.

Già nel 1753 Grimm lo condanna severamente nella sua Correspondance littéraire. «Boucher n’est pas fort dans le masculin», afferma Grimm. E infatti il sesso maschile è rappresentato nei quadri di Boucher soprattutto da amorini che — naturalmente — non presentano neppure il più lontano rapporto con le tendenze libertarie dell’epoca. Ancora più duramente di Grimm, Diderot, nei suoi Salons, critica Boucher.

«In lui la degradazione del gusto, del colore, della composizione, dei caratteri, dell’invenzione e del disegno — scrive Diderot nel 1765 — segue passo a passo la depravazione dei costumi». Secondo Diderot, Boucher ha cessato di essere un artista. «E proprio allora lo hanno fatto pittore di corte!». In particolar modo Diderot se la prende con i summentovati amorini di Boucher. L’ardente enciclopedista osserva in maniera un po’ inattesa che tra tutta la turba innumerevole di questi amori non vi è un solo bambino che sia adatto per la vita reale, «ad esempio, a studiare la lezione, a leggere, a scrivere o a battere la canapa». Un tale rimprovero — che ci ricorda un po’ le accuse che il nostro D.I. Pisarev scagliava contro Evgenij Onegin — fa alzare sprezzantemente le spalle a moltissimi dei critici francesi contemporanei. Questi signori dicono che «battere la canapa» non è certo un’occupazione che convenga a degli amorini,ed essi hanno ragione. Ma essi non vedono che nell’ingenua indignazione di Diderot contro questi «piccoli satiri depravati» si esprimeva l’odio di classe della borghesia allora laboriosa contro gli oziosi piaceri degli aristocratici fannulloni.

Non piaceva a Diderot neppure ciò che, incontestabilmente, costituiva la forza di Boucher: il suo féminin. «Non c’era forse un tempo in cui egli era preso dalla mania di fare delle vergini? Ebbene, cos’erano queste vergini? De jolies petites catins». Queste graziose rappresentanti del demi-monde erano molto carine nel loro genere. Ma la loro bellezza non attirava, bensì invece indignava gli ideologi del terzo stato. Tale bellezza piaceva soltanto agli aristocratici e a quei rappresentanti del terzo stato che, trovandosi sotto l’influenza degli aristocratici, avevano adottati i gusti dell’aristocrazia.

«Il mio e vostro pittore — dice Diderot rivolgendosi ai suoi lettori — è Greuze. Greuze è il primo che da noi abbia avuto l’idea di conferire una moralità all’arte». Una tale lode è tanto caratteristica per la mentalità di Diderot — e con lui di tutta la borghesia cosciente di allora — quanto gli sdegnati rimproveri da lui scagliati contro l’odiato Boucher.

Effettivamente Greuze era al più alto grado un pittore moralista. Se i drammi borghesi di Nivelle de la Chaussée, di Beaumarchais, di Sedaine e d’altri erano delle moralités en action, i quadri di Greuze si possono definire delle moralités sur la toile. Il «padre di famiglia» occupa in lui il posto d’onore, compare nelle situazioni più varie, ma sempre commoventi e si distingue per le stesse rispettabili virtù familiari di cui ci appare adornato nel dramma borghese. Ma sebbene questo patriarca sia incontestabilmente degno del più profondo rispetto, tuttavia egli non presenta il minimo interesse politico. Egli si presenta come un «rimprovero incarnato» di fronte all’aristocrazia decadente e corrotta, ma non va più in là del «rimprovero». E ciò non può affatto meravigliarci perché anche il pittore che l’ha creato si limitava al «rimprovero». Greuze non è affatto un rivoluzionario. Egli aspira non all’eliminazione del vecchio regime, bensì solo alla sua correzione nello spirito della morale. Per lui il clero francese è il tutore della religione e dei buoni costumi; i preti francesi sono i padri spirituali di tutti cittadini(10). Ma intanto lo spirito della protesta rivoluzionaria penetra già nell’ambiente dei pittori francesi. Negli anni cinquanta viene escluso dall’accademia francese di belle arti in Roma un allievo che si era rifiutato di digiunare.

Nel 1767 un altro allievo della stessa accademia, Adrien Mouton, incorre nella stessa punizione per lo stesso delitto. Lo scultore Claude Monet si dichiara solidale con Mouton e viene anche lui escluso dall’istituto. A Parigi l’opinione pubblica prende risoluta mente le parti di Mouton, il quale sporge querela presso il tribunale contro il direttore dell’accademia di Roma, e il tribunale — lo Châtelet — riconosce quest’ultimo colpevole e lo condanna a pagare 20.000 lire di risarcimento a Mouton. L’atmosfera sociale si riscalda sempre più, e a mano a mano che lo spirito rivoluzionario s’impadronisce del terzo stato, vediamo raffreddarsi l’entusiasmo per la pittura di genere, che non è altro che la comédie larmoyante rappresentata con dei colori ad olio. Il mutamento intervenuto nello stato d’animo dei progressisti di quel tempo determina il mutamento anche dei loro interessi estetici, così come aveva determinato il mutamento delle loro concezioni letterarie, e così la pittura di genere alla maniera di Greuze, che ancora poco tempo prima aveva destato il generale entusiasmo(11), viene eclissata dalla pittura rivoluzionaria di David e della sua scuola.

In seguito, quando era ormai membro della Convenzione, David così diceva in una sua relazione alla Convenzione stessa: «Tutti i generi artistici non facevano altro che mettersi al servizio dei gusti e dei capricci di una cricca di sibariti dalle tasche piene d’oro; le corporazioni — così David chiama le accademie — perseguitavano gli uomini di genio e in generale tutti coloro che si accostavano a loro con puri ideali morali e filosofici». Secondo David, l’arte deve servire il popolo, la repubblica. Ma quello stesso David era un risoluto partigiano del classicismo. Non solo: la sua operosità artistica ravvivò il classicismo che si avviava ormai alla decadenza e ne prolungò il predominio per decine d’anni. L’esempio di David ci suggerisce meglio di ogni altro che il classicismo francese della fine del diciottesimo secolo era conservatore — o anche, se vi piace, addirittura reazionario, giacché aspirava a tornare indietro, verso i modelli dell’antichità — ma solo per la sua forma. Al contrario il suo contenuto era completamente imbevuto di spirito rivoluzionario.

Uno dei quadri più notevoli e più caratteristici di David sotto questo aspetto fu il suo «Bruto». I littori portano i corpi dei suoi figli, giustiziati per aver partecipato a un complotto monarchico; la moglie e la figlia di Bruto piangono, ma lui se ne sta seduto, severo e incrollabile, e voi vedete che per quest’uomo il bene della repubblica è veramente la legge suprema. Anche Bruto è un «padre di famiglia». Ma è un padre di famiglia che è diventato cittadino. La sua virtù è la virtù politica del rivoluzionario. Egli ci dimostra quanta strada ha fatto la Francia borghese dall’epoca in cui Diderot esaltava Greuze per il carattere morale della sua pittura(12).

Esposto nel 1789, l’anno stesso in cui ebbe inizio il grande sconvolgimento della rivoluzione, il «Bruto» ebbe uno straordinario successo. Esso portò alla luce della coscienza ciò che era diventata la più profonda e la più urgente esigenza vitale, e cioè della vita sociale della Francia di quell’epoca. Ernest Chesneau, nel suo libro sulle scuole della pittura francese, dice in modo assolutamente giusto: «David seppe riflettere esattamente il sentimento della nazione che, applaudendo i suoi quadri, applaudiva la propria immagine. Egli dipingeva quegli stessi eroi che il pubblico prendeva a modello; entusiasmandosi per i suoi quadri, il pubblico rafforzava il suo stesso entusiasmo per quegli eroi. Da qui ebbe origine la facilità con cui si determinò nell’arte un capovolgimento analogo al capovolgimento che si produsse allora nei costumi e nell’assetto sociale».

Il lettore commetterebbe un grosso errore se pensasse che il capovolgimento determinatosi nell’arte grazie a David si limitasse soltanto alla scelta dei soggetti. Se le cose stessero così, non avremmo ancora il diritto di parlare di un capovolgimento. No; il soffio potente della rivoluzione che si avvicina mutò radicalmente tutto il rapporto dell’artista con la sua opera. Al manierismo e alle sdolcinatezze della vecchia scuola (vedi, per esempio, i quadri di Van Loo) i pittori della nuova tendenza contrapponevano una severa semplicità. Perfino i difetti dei pittori della nuova scuola si spiegano partendo dallo spirito che predominava nel loro ambiente. Così, per esempio, David è stato rimproverato per il fatto che i personaggi rappresentati nei suoi quadri sono simili a delle statue. Ma David cercava i suoi modelli tra gli antichi, e per l’epoca moderna l’arte che predominava nell’antichità è la scultura. Inoltre David venne accusato di debolezza d’immaginazione. Anche questo rimprovero era giusto: David stesso confessava che in lui era il raziocinio a predominare. Ma il raziocinio era la caratteristica più evidente di tutti i rappresentanti del movimento di emancipazione di quell’epoca. E non solo di quell’epoca; infatti il ragionamento trova un vasto campo di sviluppo — ed effettivamente si sviluppa — presso tutti i popoli civili che attraversano un’epoca di crisi, quando il vecchio assetto sociale si avvia alla decadenza e i rappresentanti delle nuove tendenze sociali lo sottopongono alla critica. Presso i greci dell’epoca di Socrate il raziocinio era non meno sviluppato che presso i francesi del diciottesimo secolo. Non per nulla i romantici tedeschi attaccarono il raziocinio di Euripide. Il raziocinio è un frutto della lotta del nuovo contro il vecchio, e serve da arma in questa lotta. Esso è stato anche proprio di tutti i grandi giacobini. In generale è assolutamente falso considerarlo un monopolio degli Amleti(13).

Avendo chiarito le cause sociali che hanno dato origine alla scuola di David, non è difficile spiegarne la decadenza. Qui noi riscontriamo nuovamente ciò che abbiamo già visto in letteratura.

Dopo la rivoluzione, avendo ormai raggiunto il suo scopo, la borghesia francese cessò di entusiasmarsi per gli antichi eroi repubblicani, e pertanto il classicismo le apparve sotto una luce completamente diversa. Cominciò ad apparirle freddo e pieno di convenzionalismi. Ed esso era effettivamente diventato tale. Esso era stato ormai abbandonato dalla sua grande anima rivoluzionaria che gli aveva conferito un così grande fascino, e gli era rimasto soltanto il corpo, che era costituito da una combinazione di esteriori procedimenti di creazione artistica, combinazione che non serviva ormai più a nulla e appariva strana, scomoda, non corrispondente ai nuovi gusti e aspirazioni creati dai nuovi rapporti sociali. La rappresentazione di antichi dèi ed eroi era diventata ormai un’occupazione degna soltanto di vecchi pedanti, ed è molto naturale che la giovane generazione di pittori non scorgesse in essa nulla di allettante. L’insoddisfazione del classicismo, l’aspirazione a seguire nuove strade si scorge già negli stessi allievi di David, per esempio in Gros. Inutilmente il maestro ricorda loro l’antico ideale, invano essi stessi condannano i propri nuovi impulsi: la marcia delle idee si trasforma irresistibilmente in marcia delle cose. Ma i Borboni, rientrando a Parigi «nella carrozza regale», rimandano ancora una volta per qualche tempo la definitiva scomparsa del classicismo. La restaurazione rallenta e minaccia perfino di arrestare la marcia vittoriosa della borghesia. Pertanto la borghesia non sa decidersi a dire addio all’«ombra di Licurgo». Quell’ombra, rianimando al quanto le vecchie concezioni politiche, le aiuta a resistere anche in pittura. Ma già Géricault dipinge i suoi quadri. Il romanticismo batte alla porta.

Ma qui ormai siamo andati troppo avanti. Parleremo un’altra volta di come cadde il classicismo, ma ora vogliamo dire in poche parole come si rifletté la stessa catastrofe rivoluzionaria nelle concezioni estetiche dei contemporanei.

La lotta contro l’aristocrazia, che raggiunse allora la sua massima tensione, eccita l’odio contro tutti i gusti e le tradizioni aristocratiche. Nel gennaio 1790 la rivista  «La chronique de Paris» scrive: «Tutta la nostra etichetta, tutta la nostra cortesia e galanteria, tutte le nostre espressioni di scambievole rispetto, dedizione e umiltà devono essere espulse dalla nostra lingua. Tutto ciò ricorda troppo l’antico regime». Due anni dopo la rivista «Les annales patriotiques» dice: «Le formule e le regole della cortesia furono inventate ai tempi della schiavitù; non sono che superstizioni che devono essere spazzate via dal vento della libertà e dell’eguaglianza». Questa stessa rivista ci dimostra che dobbiamo toglierci il cappello di testa soltanto quando abbiamo caldo oppure quando ci rivolgiamo a tutta un’assemblea; allo stesso modo bisogna abbandonare l’abitudine d’inchinarsi, giacché anche quest’abitudine risale ai tempi della schiavitù. Per giunta bisogna dimenticare ed espellere dal nostro vocabolario le frasi o le espressioni del genere: «ho l’onore di», «mi farete un onore se», e così via. A conclusione di una lettera non bisogna scrivere: «il vostro umilissimo, il vostro obbedientissimo servitore». Tutte queste espressioni costituiscono un’eredità dell’antico regime e non sono degne di un uomo libero. Bisogna invece scrivere: «resto vostro concittadino», oppure «vostro fratello», oppure «vostro compagno», oppure infine «vostro pari».

Il cittadino Chalier dedicò e presentò alla Convenzione un intero trattato di etichetta in cui, condannando severamente l’antica etichetta aristocratica, si afferma che perfino l’eccessiva cura per la pulizia dell’abito è ridicola perché è aristocratica. Un abito elegante poi è addirittura un delitto, un vero vol fait à l’état. Chalier pensa che tutti debbano darsi del tu: «Dandoci del tu, portiamo a termine la rovina del vecchio sistema dell’arroganza e della tirannia». Il trattato di Chalier produsse a quanto pare un certo effetto: l’otto novembre 1793 la Convenzione prescrisse a tutti gli impiegati di adoperare il pronome tu nei loro reciproci rapporti. Un certo Lebon, convinto democratico e ardente rivoluzionario, ricevette in dono dalla propria madre un ricco abito. Non volendo offendere la vecchia, egli accettò il dono, ma cadde in preda a gravi rimorsi di coscienza. Ecco come egli scriveva al fratello a questo proposito:

«Sono già dieci notti che io non dormo affatto a causa di quel maledetto vestito. Io, filosofo e amico dell’umanità, mi vesto così riccamente mentre migliaia di miei simili muoiono di fame e si vestono di miseri stracci! Come potrò entrare nelle loro modeste abitazioni coperto di un abito così sfarzoso? Come potrò difendere il povero dallo sfruttamento a cui lo sottopone il ricco? Come potrò insorgere contro i ricchi se io stesso li imito nel lusso e nello sfarzo? Questi pensieri mi perseguitano continuamente e non mi danno pace».

E non si tratta affatto di un fenomeno isolato. Il problema dell’abito era diventato allora una questione di coscienza, così come successe da noi all’epoca del cosiddetto nihilismo. E per i medesimi motivi. Nel gennaio 1793 la rivista «Le courrier de l’égalité» scrive che è una vergogna avere due abiti mentre i soldati che difendono al fronte l’indipendenza della Francia repubblicana sono laceri e nudi. Nella stessa epoca il famoso «Père Duchêne» esige che i negozi di abbigliamento siano trasformati in officine, che i mastri carradori fabbrichino soltanto carri per i vetturali, che gli orefici diventino fabbri, e che i caffè dove s’incontrano i fannulloni vengano dati ai lavoratori per le loro riunioni.

Data una tale evoluzione della «morale pubblica» è perfettamente comprensibile che l’arte arrivasse agli estremi limiti nella negazione di tutte le vecchie tradizioni estetiche dell’epoca aristocratica.

Il teatro che, come abbiamo visto, già nell’epoca precedente la rivoluzione era servito al terzo stato da arma nella sua lotta contro il vecchio regime, ora mette senza pietà alla berlina il clero e la nobiltà. Nel 1790 il dramma La liberté conquise ou le despotisme renversé ottiene un grande successo. Il pubblico che assiste allo spettacolo canta in coro: «Aristocratici, siete vinti!». A loro volta gli aristocratici sconfitti accorrono ad assistere alle rappresentazioni delle tragedie che ricordano loro il buon tempo andato: Cinna, Atalia, e simili. Nel 1793 sulla scena si balla la carmagnola e si scherniscono i re e gli emigrati. Secondo Goncourt, da cui prendiamo i dati che si riferiscono a questo periodo, il teatro si è sans culottisé. Gli attori si fanno beffe dell’ampollosa recitazione degli attori del tempo andato e si comportano in modo estremamente disinvolto: passano dalla finestra invece di servirsi della porta, e così via. Goncourt ci dice che una volta, nel corso della rappresentazione della commedia Le faux savant, un attore, invece di entrare per la porta, si calò sulla scena attraverso la cappa del camino. Se non è vero è ben trovato!(14)

Il fatto che il teatro fosse stato sans-culottisé dalla rivoluzione non è affatto sorprendente, giacché per un certo periodo la rivoluzione aveva dato il potere ai sanculotti. Ma per noi è importante constatare il fatto che durante la rivoluzione — come anche durante tutte le epoche precedenti — il teatro aveva fornito un fedele riflesso della vita sociale con tutte le sue contraddizioni, ivi compresa la lotta di classe determinata da tali contraddizioni. Se nel buon tempo antico, quando, secondo la già citata espressione di Marmontel, le convenienze servivano da legge, il teatro aveva espresso le opinioni degli aristocratici sugli scambievoli rapporti tra gli uomini, ora invece, sotto il predominio dei sanculotti, si realizzava l’ideale di Marie Joseph Chénier, il quale sosteneva che il teatro doveva ispirare ai cittadini l’avversione alla superstizione, l’odio contro gli oppressori e l’amore per la libertà.

Gli ideali di quel tempo pretendevano dal cittadino un così assiduo e intenso lavoro per l’utile comune che le esigenze meramente estetiche non potevano occupare molto posto nell’insieme dei suoi bisogni spirituali. Il cittadino di quella grande epoca si esaltava soprattutto della poesia dell’azione, della bellezza dell’impresa civile. E una tale circostanza conferiva talora un carattere piuttosto originale ai giudizi estetici espressi dai «patrioti» francesi. Goncourt racconta che un certo Fleuriot, membro della commissione nominata per esprimere un giudizio sulle opere artistiche esposte al Salon del 1793, deplorava il fatto che i bassorilievi presentati per l’assegnazione dei premi esprimessero in modo non abbastanza chiaro i grandi principi della rivoluzione. «E del resto, — si chiede Fleuriot —, che razza di gente sono questi signori che si dedicano alla scultura mentre i loro fratelli versano il sangue per la patria? Secondo me non c’è bisogno di premi!». Un altro membro della commissione, Hassenfratz, diceva: «Parlerò apertamente: secondo me il talento dell’artista sta nel suo cuore, e non nella sua mano; ciò che si può acquisire con la mano è relativamente poco importante». All’osservazione di un certo Neveu, che sosteneva che bisognava tenere conto anche dell’abilità della mano (non dimenticate che si parla di scultura), Hassenfratz replicò focosamente: «Cittadino Neveu, l’abilità della mano non è nulla; non si possono fondare i giudizi sull’abilità della mano». Venne deciso di non attribuire nessun premio per la scultura. Durante il dibattito sui quadri lo stesso Hassenfratz dimostrò focosamente che i migliori pittori sono i cittadini che si battono per la libertà al fronte. Trascinato dall’entusiasmo, egli espresse addirittura il pensiero che il pittore dovesse servirsi semplicemente della riga e del compasso. Durante la seduta per il dibattito sull’architettura, un certo Dufourny sostenne che tutti gli edifici dovevano essere semplici come la virtù del cittadino. Bisognava eliminare gli ornamenti inutili. La geometria doveva rigenerare l’arte.

E’ inutile dire che qui ci troviamo di fronte a un’enorme esagerazione e che si è giunti a un limite che la ragione non poteva oltrepassare neppure in quell’epoca di deduzioni estreme tratte da premesse accettate una volta per tutte, e che non è difficile volgere in ridicolo — come appunto fa Goncourt — tutti i giudizi di questo genere. Ma avrebbe completamente torto chi — sul fondamento di tali fatti ne concludesse che il periodo rivoluzionario fosse del tutto infausto per lo sviluppo dell’arte. Ripetiamo che la feroce lotta che si svolgeva non soltanto al fronte ma su tutto il territorio di Francia da un capo all’altro, lasciava ai cittadini ben poco tempo per pacifiche occupazioni artistiche. Ma tale lotta non soffocò affatto le esigenze del popolo, anzi: tutt’al contrario. Il grande rivolgimento sociale, conferendo al popolo la chiara coscienza della sua dignità, impresse un impulso straordinariamente forte allo sviluppo di tali esigenze. Per convincersene basta visitare il parigino Musée Carnavalet. Le raccolte di questo interessante museo dedicato all’epoca rivoluzionaria offrono una dimostrazione incontrovertibile del fatto che l’arte, diventando sanculotta, non morì affatto né cessò di essere arte, bensì soltanto s’imbevve di uno spirito completamente nuovo. Come la vertu del patriota francese di quel tempo era una virtù essenzialmente politica, così anche l’arte era allora essenzialmente un’arte politica. Non si spaventi il lettore. Ciò significa che il cittadino di quel tempo — e cioè naturalmente un cittadino degno di questo nome — era indifferente o quasi a tutte quelle opere d’arte alla cui base egli non scorgesse un’idea politica a lui cara(15). E che non si dica che una tale arte doveva essere necessariamente sterile. Questo è un errore. L’arte incomparabile degli antichi greci era, in notevole misura, appunto un’arte politica. E non era certo la sola arte ad esser tale. Anche l’arte francese del secolo di Luigi XIV era al servizio di determinate idee politiche, il che tuttavia non le impedì di avere una splendida fioritura. Per quanto riguarda l’arte francese dell’epoca della rivoluzione, i sanculotti la misero su una strada che l’arte delle classi superiori non avrebbe mai saputo battere: essa divenne l’affare di tutto il popolo.

Le numerose festività civili, le processioni e le solennità di quel tempo forniscono la migliore e più convincente testimonianza a favore dell’estetica sanculotta. Solo che questa testimonianza non è considerata da tutti.

Ma a causa delle circostanze storiche del tempo l’arte di tutto il popolo non disponeva di basi sociali abbastanza solide. La feroce reazione termidoriana doveva ben presto segnare la fine del dominio dei sanculotti, e aprendo una nuova era in politica l’apriva al tempo stesso anche nell’arte; un’epoca che esprimeva le aspirazioni e i gusti della nuova classe dominante giunta a sua volta al potere: la borghesia. Qui noi non parleremo di questa nuova epoca; essa si merita uno studio particolareggiato, e noi dobbiamo concludere il nostro.

Che cosa si deduce da quanto abbiamo detto?

Se ne deducono delle conclusioni che confermano le tesi seguenti. In primo luogo, dire che l’arte — così come la letteratura — è un riflesso della vita, significa esprimere un pensiero esatto, ma ancora molto indeterminato. Per capire in che modo l’arte riflette la vita bisogna capire il meccanismo di quest’ultima. Presso i popoli civili la lotta di classe costituisce una delle molle più importanti di questo meccanismo. Soltanto a condizione di analizzare questa molla, solo prendendo in considerazione la lotta di classe e studiandone le varie peripezie, noi saremo in grado di spiegarci in maniera abbastanza soddisfacente la storia spirituale della società civile: la marcia delle idee riflette la storia delle classi e della lotta tra di esse.

In secondo luogo, Kant afferma che il piacere che determina il giudizio è libero da qualsiasi interesse e che un giudizio sul bello a cui si mescoli anche il più piccolo interesse è molto parziale e non può assolutamente essere un puro giudizio di gusto(16). Ciò è assolutamente giusto se riferito a una singola persona. Se mi piace un certo quadro solo perché posso venderlo vantaggiosamente, naturalmente il mio giudizio non sarà affatto un puro giudizio di gusto. Ma le cose cambiano quando consideriamo le cose dal punto di vista della società. Lo studio dell’arte delle tribù primitive ha dimostrato che l’uomo sociale dapprima considera gli oggetti e i fenomeni da un punto di vista utilitaristico e soltanto in seguito adotta un punto di vista estetico nella considerazione di alcuni di essi. Ciò getta una nuova luce sulla storia dell’arte. Naturalmente non tutti gli oggetti utili appaiono belli all’uomo sociale; ma è indubbio che gli può apparire bello soltanto ciò che gli è utile, e cioè ciò che ha per lui un significato nella sua lotta per la vita con la natura o con un altro uomo sociale. Ciò non significa che per l’uomo sociale il punto di vista utilitaristico coincida con quello estetico! Affatto! L’utilità si riconosce mediante la ragione; la bellezza mediante la capacità contemplativa. Il campo della prima è il calcolo, quello della seconda è l’istinto. Tuttavia — e questo è indispensabile tenerlo presente — il campo che appartiene alla capacità contemplativa è incomparabilmente più vasto del campo della ragione: godendo di ciò che gli appare bello, l’uomo sociale non si rende quasi mai conto dell’utilità con la cui idea egli ricollega l’idea di quell’oggetto(17). Nella grandissima maggioranza dei casi una tale utilità potrebbe venir scoperta solo attraverso un’analisi scientifica. Il principale tratto distintivo del piacere estetico è l’immediatezza. Ma l’utilità comunque esiste; essa si trova ugualmente alla base del piacere estetico (ricordiamo che stiamo parlando non di un individuo isolato, bensì dell’uomo sociale); se tale utilità mancasse, l’oggetto non sembrerebbe bello.

A ciò mi si obietterà forse che il colore di un oggetto piace all’uomo indipendentemente dal significato che quell’oggetto ha potuto o può avere per lui nella sua lotta per l’esistenza. Senza starmi a perdere in prolisse considerazioni su questo argomento, mi limiterò a ricordare un’osservazione di Fechner. Il colore rosso ci piace, ad esempio, quando lo vediamo sulle guance di una donna giovane e bella. Ma quale impressione produrrebbe su di noi un tale colore se lo vedessimo non sulle guance, bensì sul naso della stessa donna?

Qui si può osservare un perfetto parallelismo con la morale. Non tutto ciò che è utile a un uomo sociale è anche morale, anzi! Ma per l’uomo soltanto ciò che è utile per la sua vita e per il suo sviluppo può acquistare un significato morale; non l’uomo è fatto per la moralità, bensì la moralità per l’uomo. Proprio allo stesso modo si può dire che non l’uomo è fatto per la bellezza, bensì la bellezza è fatta per l’uomo. E questo è già utilitarismo compreso nel suo senso autentico e più ampio, e cioè nel senso dell’utile non per una singola persona, bensì per la società: tribù, stirpe o classe.

Ma proprio in quanto noi ci riferiamo non all’individuo isolato, bensì a tutta la società (tribù, stirpe, classe), possiamo far posto anche all’opinione di Kant su questo problema: il giudizio di gusto presuppone indubbiamente l’assenza di ogni considerazione utilitaria nell’individuo che lo esprime. Anche qui si riscontra un perfetto parallelismo con i giudizi espressi in base a una considerazione morale: se io dichiaro che una determinata azione è morale soltanto perché mi è utile ciò significa che io sono completamente privo di qualsiasi istinto morale.


NOTE:


a)Si tratta del rifacimento di una lezione sull’arte che Plechanov tenne a Liegi e a Parigi nell’anno 1904. Pubblicato per la prima volta nel fascicolo di settembre-ottobre 1905 della «Pravda».


1)A proposito dell’ornamentazione primitiva, M. Hörnes dice che «essa poteva svilupparsi soltanto fondandosi sull’attività manifatturiera, e che i popoli che ancora non conoscono nessuna attività manifatturiera — come i Vedda dell’isola di Ceylon — non hanno nemmeno nessuna forma di ornamentazione (Urgeschichte der bildenden Kunst in Europa, Wien 1898). Questa conclusione è perfettamente analoga a quella da noi sopra riportata di Bücher.

2)Osserverò di passaggio che furono proprio le opinioni di questo genere che dovevano allontanare Lessing da Voltaire; il primo infatti fu il conseguente ideologo della borghesia tedesca, e ciò è chiarito benissimo da F. Mehring nel suo libro: Die Lessing-Legende.


3)Lettre sur la critique du Barbier de Séville.

4)Essai sur le genre dramatique sérieux.

5)D’Alembert dice di Nivelle de la Chaussée: «Tanto nella sua attività letteraria quanto nella sua vita privata egli si attenne alla regola che e saggio quell’uomo i cui desideri e aspirazioni sono commisurati ai suoi mezzi». E’ un’apologia dell’equilibrio, della moderazione e della correttezza.

6)«L’ombre de Lycurgue qui n’y pensait guère — dice Petit de Julleville — protegea les trois unités». Da Théatre en France. Sarebbe impossibile dirlo meglio di così. Ma alla vigilia della grande rivoluzione gli ideologi della borghesia non vedevano in quell’ombra nulla di conservatore. Al contrario, essi vedevano in essa soltanto la vertù civile rivoluzionaria. Bisogna assolutamente tenerlo presente.

7)L’assedio di Tournai fu coronato da successo dopo due giorni di combattimenti; gli assedi di Furnes, Courtrai, Douai, Armantière furono anch’essi di brevissima durata. Lilla fu conquistata il nono giorno, e così via.

8)A. Genevay, Charles Le Brun..

9)Goncourt, L’Art du dix-huitième siècle.

10)Vedi la sua Lettre a Messieurs les curés nel «Journal de Paris» del 5 dicembre 1786.

11)Enorme entusiasmo aveva destato ad esempio il quadro di Greuze Le Père de famille esposto al Salon nel 1755, e l’Accordée de village, esposto nel 1761.

12)ll Bruto si trova oggi al Louvre. Un russo che si trovi a Parigi è tenuto ad andare ad inchinarsi di fronte ad esso.

13)E per questo motivo si potrebbero muovere molte fondate obiezioni contro la tesi esposta da I.S. Turgenev nel suo famoso articolo Amleto e Don Chisciotte.

14)In italiano nel testo.


15)Ci serviamo della parola «politico» nello stesso ampio senso in cui è stato detto che ogni lotta di classe è una lotta politica.

16)Kant, Critica del giudizio.

17)Per oggetto qui bisogna intendere non soltanto gli oggetti materiali, ma anche i fenomeni naturali, i sentimenti umani e i rapporti tra gli uomini.

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Ultima modifica 01.02.2010